A
parlare del ponte argomenti se ne trovano, da una parte, dall'altra. Quanto
legittimi gli uni, tanto gli altri, con taluni che paiono di buon senso ed
altri che invece s'inabissano con la ragione nelle profondità del mare di
Scilla e Cariddi. Ma a parlare degli uni per stoltezza manifesta, o degli altri
come cosa di buon senso, senza dire quali siano e per quali propendo, francamente
mi venne a noia. Che a me preme assai, invece, puntare indice d'attenzione su
altro aspetto assai meno frequentato e che riguarda un dato preciso: se l'isola
è attaccata con tale legaccio cementante al continente, essa non è più tale, al
massimo si fece isola al guinzaglio, meglio, escrescenza ectoplasmica di
continente, derubricata a promontorio, non ci si riconosce più in quella come
fu da che l'uomo vi abitò. Certo, “là dove domina l’elemento insulare è
impossibile salvarsi. Ogni isola attende impaziente di inabissarsi. Una teoria
dell’isola è segnata da questa certezza. Un’isola può sempre sparire. Entità
talattica, essa si sorregge sui flutti, sull’instabile. Per ogni isola vale la
metafora della nave: vi incombe il naufragio”. (Manlio Sgalambro) E se questo è
vero, quell'incombenza immanente del naufragio appartiene all'isola, pure a chi
vi nacque. Ne rappresenta sempre l'archetipo illustrativo, incontrovertibile,
esattamente come dato anagrafico con tanto di firma del sindaco. Negarsi detto
dato, ancorché a tratti ed a taluno poco avvezzo ad i-solitudini possa apparire
luttuoso, è come piombarsi in dimensione da smemorato, privarsi d'un io
irripetibile, divenire altra cosa che pare piuttosto io indistinto. Questo mi
dice l'argomentazione sghemba e desueta sul legaccio continentale. Me lo dice
pure che quando vado via io stesso dall'isola, a valigie non ancora pronte, già
mi struggo, prima ancora, anzi, a pensiero solo di farle.
Aveva
voglia Nisticò di classificare i siciliani in siciliani di scoglio e di mare,
gli uni abbarbicati al substrato come cozza, dattero, riccio spinoso, incuranti
della natura claustrofobica dell’appartenenza. Gli altri, con la valigia in
mano, fermi non ci stanno, e appena la prima brezza lo consente, prendono il
largo a vele gonfie. Ma tutti si portano dentro la stessa insularità, che è
condanna di viaggio e nostalgia struggente per il porto di partenza. Solo che
ai primi arriva subito, ci soffrono di più, basta che si mettano poco fuori
l’uscio di casa, si vadano a sbrigare un documento nel capoluogo. I secondi, al
più, con la lacerazione del distacco si sono abituati a convivere. Ma tanto
tornano, prima o poi vedi se tornano e non passa minuto che con la testa non si
organizzano per farlo. Mi pare che questo desiderio di ritorno sia proprio il
risultato della paura atavica che l’isola non la ritrovi più, che qualcuno,
mentre ti allontani giusto un attimo, se la possa portare via. Forse lo tsunami
o li turchi, anche se – ed è evento inconfutabile -, qualunque cosa arriva, dopo
un primo attimo di sgomento, gli si apre la porta di casa e, passati al più
cinque minuti, ti scordi che è arrivata allora allora, ti pare che sia lì da
sempre, ci fai l’abitudine, la lasci accanto a te. Tuttavia, per consapevolezza
di tale innata abiezione d'accoglienza, poiché non si sa mai ed a scanso di
equivoci, metti in giro strane voci, che lì ci sono i Lestrigoni, i Lotofagi,
forse Circe, che giù per lì Scilla e Cariddi hanno un brutto carattere, quei
sassi, isole essi stessi, li lanciano Ciclopi a basso tasso di socievolezza, le
figlie di Kokalos avvelenano gli ospiti. È come mentire a se stessi,
innanzitutto, che si finisce per crederci più noi che gli altri. Gli altri se
ne accorgono della natura mendace della difesa e, consapevoli e avversi alle
i-solitudini con quel vezzo di farsi porto sicuro, ibride per oscure
provenienze, preferiscono tendere guinzagli, meglio se a robusta campata.
L'isolano, invece, se per ragioni di modernità se ne deve andare solo per
qualche giorno, che ne so, a Poggibonsi, San Giovanni in Persiceto o a Cormano,
saluta parenti e amici, fazzoletto in mano, si sente mancare il terreno sotto i
piedi, s'avvede d'allontanamento da porto sicuro come stesse andando a sfidare
cannibali nel Borneo. Posto che nel Borneo di cannibali ce ne siano, che quella
pure è isola con tanto di isolani che potrebbero averlo fatto credere, sempre a
scanso d'equivoco, per timore di visita di continentale.
Ad
ogni buon conto, uno che nasce su un’isola sta già viaggiando. Perché il mare,
tutto intorno, fermo non ci sta, e si muove di correnti e flutti, in definitiva
viaggia conto terzi. Non merita citare chissà chi per comprendere che il
viaggio è una precisa connotazione antropologica, e pure se ha talune accezioni
di ingegneria nautica, non è solo uno spostamento da e per. Alla fine “basta
aprire la finestra e si ha tutto il mare per sé. Gratis. Quando non si ha
niente, avere il mare – il mediterraneo – è molto. Come un tozzo di pane per
chi ha fame”. (Jean Claude Izzo)
Pure
per questo nell’insularità è connaturata la pigrizia più atavica, quella
persino trascendente che si fa connotazione definitiva ed archetipo
illustrativo di genti. E del resto che ti agiti a fare se sei proprio dentro il
gorgo più gorgo, il tutto che si muove permanentemente? Fatica sprecata. Per
altri quella è ignavia, pigrizia, in realtà è saggia contemplazione del mondo
che non sta fermo, dunque perché inseguirlo nell’apoteosi dell’operatività? Il
mare vortica così tanto che ti fa dono ora del primato di paradiso terrestre,
ora d’inferno in terra, né fu creato per compiacere chi vi si trova in mezzo,
circondato senza scampo; inutile cercare di opporvisi. Se serve qualcosa,
servissero tre secoli e più, prima o poi un’onda bislacca te la schiaffa
davanti, spiaggiata a pancia rivolta al sole. Né si tratta d’un fiume che
scorre in quell'unico verso, cosicché sai già cosa t’arriva a valle se conosci
il monte. Il turbinio è pluridirezionale, dipende dalle stagioni, talora
dall’umore nero della burrasca e talaltra dall'accondiscendenza d’un venticello
virato a bonaccia. Sfidare quel tutto che si muove per provare a spostarsi in
altra direzione è atto temerario. In tutto quel bailamme agitato meglio star
fermi giacché, prima o poi, da qualche parte arrivi, e se non arrivi – quella data
parte, intendo – presto o tardi, t’arriva lei. Ma l’isola, quella, da dentro
non te la togli nemmeno se ti metti a pizzo di montagna. Non c’è niente da
fare, t’entra in valigia, col sale e tutto il resto. Salvo che qualcuno, da
qualche altra parte, non voglia mettergli il guinzaglio, per guidarla come gli
pare, a dispetto del mare. Se non bastasse c'è all'orizzonte progetto di
museruola.
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