Le ultime provocazioni di Donald Trump non manifestano solo l’arroganza del personaggio, ma sono ispirate alla stessa storia degli Stati Uniti, costituitisi con occupazioni illegali, acquisizioni imposte, annessioni non accettate dalle popolazioni, basate esclusivamente sul principio della forza.
In questi
ultimi giorni si è parlato molto delle ultime dichiarazioni o provocazioni di
Donald Trump, che assumerà la presidenza degli Usa il prossimo 20 gennaio,
benché qualcuno non scarti la possibilità dell’insorgere di un qualche
impedimento al suo insediamento. Come è noto, ha prospettato la trasformazione
del Canada nel 51° Stato dell’Unione, promettendo ai suoi abitanti una
straordinaria riduzione delle tasse e una protezione militare ineguagliabile,
ha dichiarato che il Canale di Panama dovrebbe tornare nelle mani
degli Usa, se il governo di quel Paese non garantirà il suo funzionamento
sicuro, efficiente e affidabile. Inoltre, ha accusato quest’ultimo di applicare
tariffe esorbitanti al suo Paese, al suo esercito e alle corporazioni con cui
questi ultimi fanno affari, prefigurando un’ipotetica influenza della Cina che,
effettivamente, sta rafforzando i legami economici e commerciali con quei
territori evidentemente ancora intoccabili per l’antica dottrina Monroe (1823).
Naturalmente,
Paesi come Messico, anch’esso da incorporare, Cuba, Colombia, Nicaragua,
Venezuela e lo stesso governo panamegno hanno reagito con forza, sottolineando
la sfrontatezza e la mancanza di fondamento della pretesa di quel bizzarro
personaggio con cui dovremo fare i conti nei prossimi quattro anni. Anche la
Cina si è espressa negativamente.
Come se
queste provocazioni non bastassero, Trump ha affermato che gli Usa potrebbero acquistare la
Groenlandia, territorio
autonomo della Danimarca dal valore inestimabile, il cui governo ha risposto,
dicendo “non siamo in vendita”, e poi ha deciso uno stanziamento di un miliardo
e mezzo di dollari per comprare due navi addette al controllo delle coste
dell’isola ghiacciata, droni, e per ristrutturare l’aeroporto più importante.
Dobbiamo anche ricordare che nell’isola ci sono la solita base statunitense
rilevante sia per il sistema di difesa missilistico e per il monitoraggio delle
missioni spaziali, e depositi di risorse, oggi vitali, come il petrolio, il
neodimio e il disprosio indispensabili per la costruzione di magneti; minerali
che non mancano a Cina e a Russia. A parere del neopresidente, spalleggiato
dall’immancabile Elon Musk, l’acquisizione della Groenlandia garantirebbe la
sicurezza nazionale degli Usa, da cui discende ovviamente – come tutti abbiamo
potuto già sperimentare – un vantaggio per la libertà del pianeta. D’altra
parte, è cosa nota che gli Usa hanno sempre pensato alla Groenlandia, tanto che
nel 1941, dopo che la Danimarca era caduta nelle mani dei nazisti, la
trasformarono in un loro protettorato, dopo aver pattuito con l’ambasciatore
danese senza il consenso del suo governo. Meno nota è la loro presenza in
Islanda, Paese neutrale occupato dai britannici nel 1940, cui vennero in aiuto
i militari Usa, che non ancora erano entrati guerra e che lasciarono l’isola
solo nel 1946. Fatti storici che è meglio non ricordare.
Anche se
rozze nella forma, le uscite di Trump sono facilmente comprensibili: nella
competizione sempre più spasmodica per mantenere la supremazia imperialistica,
gli Usa debbono espandersi per conquistare sempre nuove risorse e per controllare
territori strategici (per esempio, la rotta dell’Artico).
Ma questo
comportamento costituisce una novità o è una costante della storia
statunitense, che svela la natura recondita di questo Stato che, sin dalla sua
formazione, ha collezionato territori strappati con la forza o il denaro ad
altri occupanti?
Per
rispondere a questa domanda occorre ripercorrere la storia dell’ex colonia
britannica, formata dopo la Guerra di indipendenza da tredici Stati, situati
sulla costa atlantica, la cui popolazione di origine europea aveva già avviato
la politica di pulizia etnica e di sterminio dei cosiddetti pellirossa. La
tanto celebrata guerra, di fatto, si trasformò rapidamente in uno scontro
internazionale, in cui intervennero la Francia, la Spagna e le Province Unite,
e si estese anche ai territori britannici del Canada, che non poterono essere
annessi. Le cosiddette guerre indiane terminarono nel 1886 con la cattura del
capo degli apache, Geronimo, fautore di una strenua quanto purtroppo inutile
resistenza; dobbiamo ricordare, tuttavia, il successivo massacro di 300 sioux
nella celebre battaglia di Wounded Knee combattuta nel 1890.
Nel corso
dell’Ottocento i pellirossa furono sostituiti dagli immigrati europei,
originari in maggioranza della Gran Bretagna, dell’Irlanda e della Germania,
che poi divennero i famosi wasp. Grazie all’alto tasso di natalità si ebbe una
straordinaria crescita demografica: nel 1790 gli Usa avevano solo 4 milioni di
abitanti, nel 1870 avevano già raggiunto i 40 milioni.
La crescita
demografica fu favorita e accompagnata da una significativa espansione
economica dovuta agli sviluppi tecnologici nei vari settori industriali
(industria tessile, siderurgica, costruzione delle ferrovie, etc.) e alla
presenza di una consistente manodopera. Un contributo rilevante venne anche
dalle politiche di organizzazione del lavoro, basate sulla produzione a catena
e sulla razionalizzazione delle attività produttive, da cui scaturì il famoso
taylorismo. In definitiva, si costituì un forte e arrogante sistema economico
capitalistico e successivamente imperialistico.
Lo sviluppo
economico e sociale del Paese avvenne di pari passo con l’espansione
territoriale che, secondo Trump, non sembra ancora essersi conclusa, e che fu
presentata tramite la nota dottrina Monroe come il mezzo per impedire alle
potenze europee di occupare i territori americani, che paradossalmente dovevano
restare in mano dei discendenti di queste ultime e non dei nativi.
Le nuove
acquisizioni territoriali avvennero nel corso dell’Ottocento mediante guerre o
acquisti negoziati con le potenze europee ancora presenti nel continente
americano, ma non più nelle condizioni di difendere quei possedimenti di fronte
all’aggressività del nuovo Stato.
Il primo
acquisto fu realizzato nel 1803 e riguardò la Louisiana, in passato occupata da
importanti e numerose tribù indiane, regione che comprendeva quelli che poi
diventeranno Stati diversi, e nella quale si erano combattuti aspramente
francesi e spagnoli. Essa fu ceduta dalla Francia, fortemente indebitata con
gli Usa, che la controllava e che, dominando New Orleans, aveva in suo potere
tutto il commercio lungo il Mississippi. Nel 1819, invece, venne annessa la
Florida, strappata agli indiani Seminole, ceduta dalla Spagna, che l’aveva
conquistata nel XVI secolo e attualmente abitata in gran parte dalla cosiddetta
comunità cubana dell’esilio. In seguito alla guerra con il Messico (1846-1848)
e all’annessione del Texas, avvenuta nel 1845, in cambio di 15 milioni di
dollari un’importante parte della ex colonia spagnola entrò a far parte
dell’Unione, in particolare gli attuali Stati della California, Nevada e Utah,
Wyoming, Arizona e New Mexico e una porzione del Colorado.
A
giustificazione dell’espansionismo statunitense, che si era già nutrito dello
sterminio degli indiani, cominciò a essere diffusa la dottrina del “destino
manifesto”, ispirata alla nozione biblica del “popolo eletto”, a cui ancora
oggi si afferra Israele, secondo cui Dio aveva attribuito a quel popolo il
dominio dell’America settentrionale per diffondervi la democrazia; parola che
non viene nemmeno nominata nei documenti fondativi di quello Stato e a cui
ormai, del resto, sembrano credere in pochi. Inoltre, è bene aggiungere che in
Gringolandia – come dicono i latino-americani – l’abolizione agli ultimi
impedimenti al suffragio veramente universale è avvenuta solo negli anni ’70
del Novecento, per non parlare della discriminazione razziale verso i non wasp
che è ancora profondamente radicata.
In questa
breve storia degli Usa e della loro espansione, che li ha collocati sul trono
del mondo durante secoli segnati da conflitti sanguinosi, non può mancare la
menzione della conquista del famoso Far West, che ha alimentato tanta parte
della cultura di quel Paese e che ha costituito un modello ideologico
importantissimo. Infatti, lo schema dello scontro con i selvaggi funziona
ancora oggi a giustificazione delle prepotenze compiute dalla cosiddetta più
grande democrazia del pianeta. Pensiamo al celebre film di John Ford, agente
dei servizi segreti, intitolato “Ombre rosse” (1939), in cui una diligenza,
occupata da gente di diversa estrazione, viene attaccata dagli apache di
Geronimo, i rossi da combattere. Paradossalmente, di fronte al pericolo, gli
individui “moralmente indegni” (l’ex prostituta, un medico alcolizzato, etc.)
si mostrano più coraggiosi e altruisti di quelli “socialmente rispettabili”. In
definitiva, il film vuole rappresentare la parabola del colono sfortunato che,
unendosi ai suoi simili, crea una comunità migliore e tollerante, facendoci
comprendere come gli Stati Uniti si autorappresentano.
Alla base
della colonizzazione di altri territori sta l’arrivo di nuovi lavoratori
europei attirati dalla disponibilità di grandi estensioni di terra coltivabile
e dalla scoperta di miniere di oro in California (1848).
Nelle grandi
praterie, dove erano presenti grosse mandrie di bufali, cacciati dai restanti
pellerossa, si praticò la coltivazione estesa di cereali e si cominciarono a
costruire le ferrovie, che consentirono la distribuzione della popolazione e
favorirono la specializzazione economica delle varie regioni.
Invece,
nella parte meridionale degli Usa, che si estende dall’Atlantico al confine con
il Messico, si svilupparono le piantagioni di cotone, di canna da zucchero e di
tabacco, in cui lavoravano gli schiavi provenienti dall’Africa. In realtà, vi
erano differenze nette tra i proprietari terrieri: alcuni possedevano numerosi
schiavi, altri in numero insignificante e altri ancora erano semplicemente
coltivatori diretti.
Come è noto,
gli africani hanno dato un contributo significativo alla cultura del Paese che
li accolse come schiavi ma, probabilmente, la loro cristianizzazione avvenuta
tramite il protestantesimo è stata più penetrante e distruttiva di quella
cattolica.
Il nord-est
fu caratterizzato da un grande sviluppo industriale ed entrò in attrito con il
sud schiavistico, perché la razionalizzazione della produzione e l’impiego del
lavoro salariato garantivano maggiori profitti e rendevano possibili sempre
nuove innovazioni inimmaginabili nella piantagione tradizionale. Inoltre, i
proprietari terrieri del sud erano a favore del libero scambio, mentre il nord
industriale intendeva difendere le sue fabbriche e, pertanto, sosteneva una
politica protezionistica. Queste importanti discrepanze condussero il sud a
prefigurare prima l’annessione di Cuba, comprandola dagli spagnoli, per avere
una salda maggioranza nel Congresso, dove avrebbero seduto anche i proprietari
dell’isola. Successivamente, optò per la secessione dall’Unione per costituire
un’unica nazione con altri Stati schiavistici. Il conflitto sfociò nella guerra
civile tra nordisti e sudisti (Guerra di secessione 1861-1865), che fu oggetto
di studio da parte di Marx e di Engels, i quali concordavano nel considerare il
sistema schiavistico una diversa forma di capitalismo, in cui il profitto è
prodotto sulla pelle degli schiavi. D’altra parte, l’autore del Capitale sostenne
anche politicamente il movimento abolizionista, attuandolo nell’ambito
dell’Internazionale e mobilitando i lavoratori per impedire che la Gran
Bretagna entrasse in guerra a favore degli schiavisti.
Dopo questo
sintetico percorso storico, torniamo al megalomane Trump, il quale non si rende
conto che proprio le sue pretese annessioniste e la convinzione che “solo con
tasse agli altri Paesi torneremo a essere grandi” mostrano l’incipiente
debolezza del sistema capitalistico Usa. Se “l’America deve tornare grande”
vuol dire che non lo è più, e non solo per la crescente perdita di credibilità
internazionale e l’insorgere di altre agguerrite potenze, ma anche per i
gravissimi problemi interni: disfacimento delle infrastrutture, del sistema
medico ed educativo, disoccupazione, indebitamento, diffusione di droghe, crisi
ecologiche sempre più intense. Purtroppo, per i lavoratori statunitensi le
semplicistiche ricette di Trump non faranno migliorare la situazione del Paese.
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