(da https://strategic-culture.su)
A settembre
si aprirà un nuovo anno scolastico, l’istruzione pubblica italiana ha quasi due
secoli e purtroppo li dimostra tutti.
La legge
Casati del 13 novembre 1859, n. 3725 del Regno di Sardegna, entra in vigore nel
1861 con valore per tutto il territorio italiano allora appena unificato,
organizzando il sistema d’istruzione italiano e rimanendo in vigore fino al
1923, quando verrà superata dalla riforma Gentile.
La legge
Casati stabiliva quattro anni di scuola elementare, i quali diventeranno cinque
con la legge Coppino del 15 luglio 1877 n. 3961, la quale introdurrà
l’educazione civica e l’educazione fisica, di fatto aprendo la strada da un
lato allo stanziamento di fondi statali a supporto dei Comuni per
l’edificazione di nuove scuole e dall’altro alla costituzione di un fondo
pensionistico statale per le maestre e i maestri.
Le
elementari in quei tempi hanno un successivo grado d’istruzione, per i pochi
abbienti e gli ancor meno numerosi fortunati meritevoli, rappresentato da un
doppio triennio tecnico oppure dal percorso quinquennale ginnasiale, il solo ad
ammettere al triennio liceale e infine all’università. Uscendo dal sessennio tecnico,
purché si fosse frequentato l’indirizzo fisico-matematico, si poteva accedere
alla sola facoltà di scienze matematiche, fisiche e naturali.
Delle
elementari i primi due anni avrebbero dovuto essere obbligatori e gratuiti,
organizzati dai Comuni, con personale da loro reperito, selezionato e
remunerato e in spazi ugualmente gratuiti forniti dalle Amministrazioni stesse,
tuttavia la parte preponderante dell’Italia d’allora è rappresentata da zone
povere e rurali che spesso tardavano l’applicazione della legge per decenni, le
classi dominanti preferivano invece l’istruzione parentale, ammessa dalla
legge, per poi destinare i figli direttamente ai ginnasi.
I Comuni più
vergognosamente sfacciati sanzionavano i poveri che mandavano i figli a
lavorare, non per disamore della scuola e della cultura, ma per necessità di
mettere insieme il pane della giornata, poi con quelle multe pagavano i maestri
e le maestre che insegnavano ai figli della borghesia, impiegati, piccoli
artigiani e commercianti, i quali non potevano permettesi l’istruzione privata
parentale dei ricchi. Il nascente movimento proletario, protestando ferocemente
contro questa palese ingiustizia, otterrà che tali sanzioni venissero vincolate
all’acquisto di materiale didattico da mettere a disposizione dei figli dei
poveri, operai e contadini, per permetterne la frequenza che timidamente
incominciava tra la fine dell’Ottocento e gli albori del Novecento, in
particolare nelle grandi città come Torino e Milano, grazie anche a sindaci
marxisti aderenti al socialismo riformista di Turati e di Treves. Edmondo De
Amicis ha raccontato questo primo anelito di giustizia sociale e di libertà
costruito sui banchi di scuola, non è ancora un’uguale ammissione al sapere, ma
l’inizio di un cammino restituito con toccante emozione nelle pagine del libro
“Cuore”. Per altro in isole sperdute e dimenticate, come ad esempio a Ustica,
mai nessuno si porrà il problema dell’istruzione, saranno i comunisti Antonio
Gramsci e Umberto Terracini, colà spediti al confino dal fascismo mussoliniano,
a colmare questa triste lacuna, organizzando la prima rudimentale scuola,
insegnando a leggere, a scrivere e a far di conto a tutti gli isolani di buona
volontà, piccoli e grandi, bambini, ragazzi e adulti, alla fine degli anni ‘20
del XX secolo.
Quanto
all’università, la legge Casati contemplava solo le seguenti facoltà:
giurisprudenza, medicina, lettere e filosofia, scienze fisico – matematiche e
naturali, con una scuola di applicazione per la formazione degli ingegneri,
della durata di tre anni, alla quale si accedeva dopo aver frequentato il primo
biennio della facoltà scientifica.
Nel momento
dell’unità d’Italia, ovvero in un quadro geografico che escludeva Veneto
(aggregato nel 1866), Trentino – Alto Adige (1919) e Friuli Venezia Giulia
(1919) al censimento del 31 dicembre 1861 risultavano ventidue milioni di
italiani, di cui tre milioni in Lombardia e due milioni in Piemonte, ovvero
poco meno di un quarto del totale degli abitanti del neonato stato regnicolo.
Oggi sul
territorio italiano vivono cinquantanove milioni di donne e uomini di cui un
decimo stranieri, ovvero sei milioni, in Piemonte la popolazione è di quattro
milioni e duecentomila persone, in Lombardia di dieci milioni.
Nel 1861
nella penisola l’80% dei cittadini era analfabeta, oggi fortunatamente più
nessuno, ma, a quanto dicono le statistiche, un terzo degli italiani, avendo
difficoltà a comprendere un testo di media difficoltà, è da ritenersi
analfabeta funzionale.
Triste
situazione per una scuola che da un ottantennio è figlia della Repubblica nata
dalla Resistenza, la quale avrebbe garantito certo l’istruzione per tutte e
tutti, forse per lunghi anni un po’ troppo democristianamente, ma certo oggi
dimenticando sempre più spesso che proprio gli strumenti culturali di
comprensione e costruzione dei saperi sono fondamentali per la formazione, non
solo del lavoratore, ma prima di tutto del cittadino.
Scuole
primarie e secondarie di primo grado statali, principalmente riunite in
Istituti Comprensivi sono, secondo i dati ufficiali del Ministero
dell’Istruzione e del Merito di via Trastevere in Roma, su tutto il territorio
nazionale isole comprese, in questo 2025 in totale 4890, di cui 351 piemontesi
e 755 lombarde, per un totale di 1106 istituzioni scolastiche, pari al 22% del
totale, le superiori invece su tutto il territorio nazionale sono 2583, per un
numero complessivo di tutto il sistema d’istruzione che vede 7473 istituzioni
scolastiche, alle quali, sommando i 127 CPIA, Centri Provinciali per
l’Istruzione degli Adulti, di fatto le scuole per l’alfabetizzazione e per il
conseguimento del diploma del primo ciclo di studi per gli stranieri, si giunge
a 7600 istituzioni scolastiche per un milione di lavoratori docenti e ATA e sei
milioni e trecentomila discenti, tuttavia distribuiti in ben quarantamila
strutture scolastiche
Ai tempi
della legge Casati le scuole elementari erano 28.500, ma si devono immaginare
scuole con poche decine di studenti, soprattutto nei Comuni più piccoli, per un
totale di un milione di studenti, la media è infatti di 35 bambine e bambini e
ragazze e ragazzi per ogni singola scuola, oggi sono in media ben 830 discenti
per ogni singola istituzione scolastica, ma 158 per ogni singola struttura
scolastica, ovvero in media cinque plessi fanno capo a una unica dirigenza e i
lavoratori formano un unico collegio docenti e un solo collettivo per gli
amministrativi, tecnici e ausiliari. Anche l’attuale situazione delle strutture
scolastiche è deprimente, di quarantamila, almeno la metà hanno necessità di
lavori di manutenzione, sono spesso vecchie d’un secolo e quelle costruite
negli anni ‘60 e ‘70 del Novecento con vetro e cemento non godono di migliore
condizione, tuttavia neppure i fondi del PNRR son stati immaginati utili per
rinnovare tanto le scuole, quanto gli ospedali, così come tali edifici, spesso
freddi d’inverno nonostante il riscaldamento, poi d’estate, ovvero da maggio,
diventano difficilmente vivibili, dimostrando l’assurdità della proposta di
taluni di tenerle aperte a luglio e ad agosto, ma facendo risultare più
ragionevole piuttosto la proposta di tornare ad aprire i battenti delle scuole
il 1° ottobre, come accaduto fino all’anno scolastico 1976 – 77.
Restando nei
termini statistici, ai tempi di Casati in Piemonte vi erano ottomila
cinquecento scuole con ben trecentosessantamila studenti, in Lombardia
settemila scuole con trecentomila studenti. Dunque le due regioni, con
quindicimila cinquecento scuole avevano il 55% di tutte quelle presenti nella
penisola, il dato interessante è constatare come il Piemonte pur avendo un
terzo in meno di abitanti, avesse un numero superiore di scuole, un portato di
come l’obbligo scolastico introdotto in Lombardia nella seconda metà del ‘700
da Maria Teresa d’Austria fosse stato in quel tempo surclassato da quello
piemontese, risalente solo alla concessione dello Statuto Albertino nel 1848 di
pochi anni precedente.
Il docente
Emilio Sabatino, fondatore e per lunghi anni segretario nazionale del SISA,
Sindacato Indipendente Scuola e Ambiente, oggi direttore di ScuolaNews24, una
serie di canali social tra i più seguiti dal personale scolastico italiano,
riconosce che il vero problema della scuola non siano le riforme, giuste o
sbagliate, degli ultimi trent’anni, sebbene queste in molti casi abbiano
prodotto tagli di personale e di fondi, ma la feroce aggressione all’età
pensionabile, cinquant’anni fa il sistema scolastico italiano era tra i
migliori del mondo semplicemente perché in cattedra sedevano solo le maestre e
i professori che veramente volevano restare a contatto con i ragazzi, oggi una
pletora di insegnanti con anche oltre trent’anni di lavoro alle spalle, sono
costretti o ad arrivare a 67 anni oppure, ancora peggio, a raggiungere i 42
anni di servizio perché secondo Bruxelles è colpa loro se hanno iniziato a fare
i docenti da giovani, non è un caso che le statistiche europee affermino con
tutta evidenza che il primo problema della scuola italiana sia l’età degli
insegnanti, i quali sono a tutti gli effetti e a onore di ogni statistica i più
vecchi, i meno pagati, i più stanchi e i più disillusi di tutta l’Unione
Europea.
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