L’Europa come Colonia: l’accordo USA-UE e il fallimento della nostra classe dirigente
L’accordo,
che al momento non è tale in quanto ancora in attesa dell’approvazione da parte
dei governi europei, tra Stati Uniti e Unione Europea ha avuto almeno un
merito: quello di compattare, per una volta, l’intero arco politico italiano in
un giudizio fortemente negativo. Ursula von der Leyen, ricevuta dopo una
partita di golf come fosse una lobbista qualsiasi, ha mostrato tutti i limiti
di una leadership che da tempo appare più subordinata che sovrana.
Le goffe
precisazioni della Commissione Europea non bastano a cambiare la sostanza:
l’accordo con Washington con ogni probabilità sarà ratificato, infliggendo un
colpo durissimo all’industria e all’autonomia economica del nostro continente.
La sintesi
più efficace di questo patto coloniale l’ha offerta Stefano Fassina su il
Fatto Quotidiano del 29 luglio: dazi generalizzati al 15%, che,
tenendo conto della svalutazione del dollaro, arrivano a un impatto reale del
30% (con punte del 65% su acciaio e alluminio fuori quota); una spesa annuale
aggiuntiva di 250 miliardi per acquistare gas naturale liquefatto statunitense
a prezzi ben più alti di quelli Gazprom; 600 miliardi di nuovi investimenti
europei negli USA; 300 miliardi l’anno in armamenti made in USA come deciso al
recente vertice NATO; obbligo di acquisto di chip per l’intelligenza
artificiale da fornitori statunitensi; disapplicazione di fatto del Digital
Market Act e del Digital Services Act, rinuncia alla digital tax, ed esclusione
delle Big Tech USA dalla minimum global tax del G7.
La
Commissione si è affrettata ad assicurare che, nonostante l’impegno triennale
nell’acquisto del gas (per un totale di 750 miliardi), il Green Deal rimane
“intatto”. Una rassicurazione che suona come un’ammissione di alienazione dalla
realtà.
Un’economia
già sbilanciata verso Washington
Già oggi,
sul piano macroeconomico, l’Unione Europea pur vantando un surplus commerciale
nei beni, importa servizi ad alto valore aggiunto e continua a esportare
capitali verso gli Stati Uniti. Se nel secondo dopoguerra l’Impero fu
abbastanza magnanimo da consentire lo sviluppo di una sua colonia
industrializzata, oggi — di fronte a una crisi sistemica interna — quella
colonia è chiamata a pagare il conto.
In questo
contesto, è grottesco assistere alle dichiarazioni di un’opposizione
parlamentare — a partire dal Partito Democratico — che non ha mai realmente
messo in discussione l’asse atlantico, votando per ben due volte la fiducia a
von der Leyen e opponendosi anche recentemente alla mozione di sfiducia.
I media, che
solo pochi giorni fa bollavano come “putiniana” ogni critica alla Presidente
della Commissione, oggi la attaccano ferocemente. Che stia diventando putiniano
anche chi la critica ora? L’ironia si spreca, ma il danno resta.
Il conto
salato della subalternità strategica
Il vero
problema, però, non è (solo) von der Leyen. Il punto è un’intera
architettura politico-economica che ha reso l’Europa subordinata agli interessi
di Washington. Gli Stati Uniti — e non soltanto l’ala trumpiana — intendono
rilanciare la propria manifattura e sostenere il proprio debito pubblico
scaricando i costi sulla Ue.
Come ha
scritto Stefano Manzocchi su Il Sole 24 Ore (29 luglio):
“La politica
di mera potenza che si sta imponendo come unica bussola delle relazioni
internazionali comporta che le debolezze strutturali dell’Europa siano esposte
a fronte dei piani elaborati dalle leadership degli ‘imperi’ globali”.
Le
alternative ci sono. Serve coraggio politico
Eppure,
un’altra strada è possibile. Ecco alcune scelte concrete:
- Tornare a comprare gas russo:
Riaprire un dialogo di partenariato con Mosca, lavorare per la fine del
conflitto in Ucraina e porre fine all’assurdo auto-sabotaggio energetico.
Slegarsi dalla Russia ci ha solo legati mani e piedi agli USA, con costi
quadruplicati e competitività industriale in picchiata.
- Aprirsi ai mercati asiatici, a
partire dalla Cina: L’Italia è uscita in fretta e furia dalla Via della
Seta, per poi tornare a Pechino col cappello in mano. In Cina esiste una
classe media tra i 400 e i 600 milioni di persone, più dell’intera
popolazione europea. Le nostre imprese hanno ancora voglia di vendere
prodotti o solo di piangere sui mercati perduti?
- Rilanciare i consumi interni:
Questo significa alzare salari e stipendi. Serve un’inversione radicale
rispetto alle politiche degli ultimi 30 anni: basta con privatizzazioni,
tagli al welfare, liberalizzazioni selvagge, compressione dei redditi da
lavoro. Serve un piano per redistribuire ricchezza e ridare dignità al
lavoro.
Un progetto
di lungo periodo. Come quello degli Stati Uniti.
Il rilancio
della manifattura americana non è un episodio estemporaneo: è un progetto
strutturale. Anche l’Europa e l’Italia possono dotarsi di una strategia a lungo
termine, ma serve un cambiamento radicale. Oggi i leader europei sembrano più
simili a funzionari imperiali, pronti a svendere le loro nazioni pur di
conservare potere e posizioni.
Ma proprio
perché il panorama appare così desolante, è più che mai necessario pensare
l’impensabile, dire l’indicibile e costruire ciò che ancora non esiste. L’Europa
ha bisogno di tornare a pensare se stessa come un soggetto politico autonomo,
dall’Atlantico agli Urali, capace di agire non in funzione degli interessi
altrui. Non ci si può limitare ad accusare singoli leader o partiti — per
quanto colpevoli — se non si mette radicalmente in discussione l’impianto
stesso che ha reso l’Europa un’appendice dell’Impero.
Per questo
serve un progetto politico di lungo periodo, una visione che sappia unire
consapevolezza geopolitica, giustizia sociale ed emancipazione economica. Non
bastano i lamenti né le nostalgie: serve organizzare il dissenso, canalizzare
la rabbia, dare voce e struttura a chi oggi si sente tradito, ignorato,
marginalizzato.
Abbiamo
ancora tempo per cambiare rotta. Ma il tempo stringe. E l’illusione che il
sistema possa autoriformarsi sta crollando insieme alle sue contraddizioni. Il
nostro compito, oggi, è duplice: denunciare con lucidità, ma anche immaginare
con coraggio. L’alternativa esiste, anche se oggi è minoritaria e dispersa.
Tocca a noi unirla, darle voce, costruirla.
Perché
l’Europa non è destinata alla subalternità. Lo è solo se sceglie di esserlo.
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