mercoledì 27 agosto 2025

ricordo di Sonallah Ibrahim


La letteratura, il marxismo, l’impegno. L’Egitto di Sonallah Ibrahim

(intervista, del 2006, di Giuliano Battiston, ripresa da gliasinirivista.org) 

È scomparso il 13 agosto, all’età di 88 anni, lo scrittore egiziano Sonallah Ibrahim, tra i più autorevoli rappresentanti della letteratura araba contemporanea, rappresentante della cosiddetta “generazione degli anni Sessanta”. Lo ricordiamo con un’intervista raccolta nel giugno 2006 al Cairo, quando Sonallah Ibrahim ha accolto con generosità e calore Giuliano Battiston nella sua casa nel quartiere di Heliopolis, tra cataste di libri e quotidiani impilati l’uno sull’altro, in un’atmosfera rilassata e rallegrata dalla presenza della moglie e di una nipotina.
L’intervista, parzialmente pubblicata sul manifesto il 3 agosto 2006, è stata poi pubblicata integralmente sul numero 109, aprile 2009, della rivista Lo Straniero, insieme alle interviste agli scrittori Gamal al-Ghitani e ‘Ala al-Aswani e la ripubblichiamo insieme agli amici di 
Lettera 22 perché la conoscenza di questo importante intellettuale possa circolare.

Nato nel 1937, scrittore egiziano tra i più celebrati del mondo arabo e rappresentante della cosiddetta “generazione degli anni Sessanta”, Sonallah Ibrahim si è dedicato presto alla militanza politica, e nel 1959, durante la repressione dei movimenti di sinistra ordinata da Nasser, è finito in carcere.
Nel 1966, due anni dopo il suo rilascio, ha scritto il suo primo romanzo, Tilka al-ra’ihah (Quell’odore, De Martinis, 1994), in cui racconta con linguaggio crudo l’alienazione di un uomo appena uscito dal carcere. Censurato dalle autorità, il libro è stato pubblicato integralmente in Egitto solo nel 1986.
Dopo alcuni anni passati al Cairo, Beirut e Berlino come giornalista per la Middle East News Agency, dal 1971 al 1974 Ibrahim ha studiato cinema a Mosca. Tornato al Cairo, si è dedicato a tempo pieno alla scrittura, facendo dell’ibridazione tra finzione ed elementi autobiografici, tra la dimensione personale e quella collettiva la cifra della sua scrittura. Nei suoi testi la verve ironica si accompagna, radicalizzandola, a una disposizione spietatamente critica, che trasforma i suoi romanzi in accuse corrosive al corrotto sistema politico egiziano, mentre le azioni individuali e le dinamiche esistenziali vengono restituite alla loro irragionevole evidenza. Oltre a Quell’odore, tra i suoi numerosi romanzi sono stati tradotti in italiano solo al-Lagnah (La Commissione, I ed. De Martinis, 1993, II ed. Jouvence, 2003) e Wardah (Warda, ed. Ilisso, 2005). Lo abbiamo incontrato a casa sua, nel quartiere cairota di Heliopolis.

Chi volesse capire le trasformazioni che hanno interessato la vita politica e sociale dell’Egitto negli ultimi cinquant’anni potrebbe affidarsi ai suoi romanzi. Se lei è d’accordo vorrei cominciare proprio chiedendole di ripercorrere brevemente la storia recente del suo Paese, a partire dall’eredità lasciata dal presidente Gamal Abdel Nasser…

Allora tutte le nazioni avevano un “padre” della patria, un uomo-simbolo pieno di saggezza, o che perlomeno si riteneva tale: la Francia De Gaulle, gli Stati Uniti Kennedy, l’Unione sovietica Stalin, l’Indonesia Sukarno, l’India Nehru e Gandhi, il Ghana Kwame Nkrumah. Nasser, che era un militare e come tale viveva, prendendo le decisioni come leader unico del Paese, era il simbolo degli egiziani, un simbolo della resistenza e della battaglia contro l’occupazione straniera e per la giustizia sociale, e la sua eredità risiede nella spinta ad andare avanti per difendere e riconquistare l’indipendenza nazionale (che oggi abbiamo completamente perso) e per risolvere i problemi sociali che affliggono l’Egitto, un Paese che soffre di una disparità intollerabile tra la classe sociale più bassa e quella più alta. Il retaggio principale del suo operato può essere individuato in una certa idea di “democrazia partecipata”, che si traduce nella sollecitazione a non vivere come individui isolati dal resto della comunità, prendendo piuttosto parte ai processi che riguardano il futuro del Paese.

Secondo le sue parole, sotto il mandato presidenziale di Anwar Al Sadat l’Egitto avrebbe consegnato la propria libertà economica alle multinazionali, ipotecando il futuro e passando da una forma di «imperialismo coloniale a uno di tipo economico». Può spiegare meglio cosa intende?

La cosiddetta politica economica delle porte aperte (Infitàhndr) voluta dal presidente Sadat ha accelerato quel processo di progressiva perdita d’indipendenza economica i cui risultati sono visibili ancora oggi. Non è un caso che proprio in quegli anni sia nata una nuova classe di imprenditori-importatori, i cosiddetti compradores, il cui lavoro consisteva nell’importare una nuova serie di prodotti fabbricati altrove. Il “Dottore” di cui parlo nel mio romanzo La Commissione è, appunto, un rappresentante esemplare di questa nuova categoria di persone: uomini che appartengono alle alte gerarchie dello Stato e che mentre guadagnano lautamente con questi traffici uccidono l’industria nazionale. Il risultato delle loro azioni salta agli occhi se consideriamo che oggi tutto ciò che usiamo ogni giorno, come il sapone, l’olio o lo zucchero, viene importato dall’estero.

Dopo Sadat, c’è stata l’“investitura” dell’attuale presidente, Hosni Mubarak, il cui governo lei non esita a definire una dittatura…

Dopo l’assassinio di Sadat, gli egiziani si sono illusi che Mubarak avrebbe mantenuto le promesse fatte per legittimare la sua “investitura”. L’illusione è stata talmente forte che ci è voluto del tempo prima che la gente si rendesse conto che si era instaurata una dittatura, in cui era negata ogni libertà di espressione. La situazione è divenuta ancora più grave perché le limitazioni delle libertà civili e politiche si sono radicate contestualmente alla diffusione della corruzione, che ha investito ogni aspetto della vita egiziana.

Lo scenario politico egiziano è attraversato da spinte contrapposte: quelle centrifughe dei movimenti di opposizione che cercano di modificare l’immobilismo del paese, e quelle centripete del governo Mubarak, che tende a conservare lo status quo. L’esito dello scontro non è ancora chiaro. Qual è la sua impressione?

Alcuni avvenimenti recenti testimoniano tuttavia un’atmosfera nuova nel Paese, di cui alcuni non hanno preso piena coscienza: viviamo ancora sotto una dittatura, ma la sua debolezza permette a quanti ne hanno il coraggio di parlare apertamente. Abbiamo ritrovato la possibilità di discutere, e coloro che criticano le politiche del governo e ne contestano la legittimità sono incoraggiati dal peso che hanno raggiunto i movimenti che scendono in piazza e si battono per la libertà. Il governo ha cercato di fermare questa nuova ondata di proteste a suo modo: i manifestanti sono stati picchiati e arrestati, alcuni hanno subito aggressioni sessuali. C’è stato perfino chi è stato sodomizzato nei commissariati. Rimane il fatto, però, che anche l’opposizione è debole. Nessuna delle fazioni politiche egiziane – gli islamisti, la cosiddetta sinistra, il governo – è forte abbastanza per risolvere i problemi del Paese. Quella che si sta consumando è una battaglia tra deboli, mentre la principale preoccupazione di Mubarak rimane quella di assicurarsi che suo figlio Gamal possa succedergli come presidente. Ogni sua azione è finalizzata a questo. Anche quando lecca il culo a Israele e agli Stati Uniti pensa alla successione. Ma gli egiziani non accetteranno mai suo figlio come presidente.

A giudicare dalle ultime elezioni, i Fratelli musulmani non sembrerebbero così deboli…
I Fratelli musulmani sono forse l’organizzazione politica più forte del paese. Esiste però una sorta di tradizione in Egitto che ne limita il peso effettivo: gli egiziani sono sostanzialmente moderati e non accettano nessuna tendenza fanatica, neanche in ambito religioso. È indubitabile che la nostra società sia attraversata, in maniera peraltro preoccupante, da tendenze fanatiche, ma si tratta di aspetti parziali, che non riescono a radicarsi nel tessuto sociale. D’altra parte, le stesse persone che per le vie del Cairo seguono comportamenti ispirati a regole religiose fanatiche, in casa si comportano in maniera diversa. La dominazione americana in Iraq e l’aggressione israeliana in Palestina, però, possono cambiare questa situazione, favorendo il consolidamento dei movimenti più radicali.

Anche l’aspra battaglia che si è consumata qualche tempo fa tra il potere politico e quello giudiziario sembrerebbe rientrare in questa nuova atmosfera di cui parla…

Quella battaglia, che non si riduceva a una questione di “forma” o di “etichette”, rappresenta una delle cose più interessanti accadute nella storia recente del nostro Paese. Di solito infatti i giudici sono parte integrante delle istituzioni, ne rappresentano anzi una componente molto conservatrice. Qui in Egitto, invece, all’improvviso alcuni di loro hanno formato un gruppo – il Judges Club, i cui membri sono eletti da altri giudici -, e hanno cominciato a protestare contro la falsificazione dei risultati delle ultime elezioni presidenziali, rivendicando allo stesso tempo una reale autonomia e indipendenza. Negli anni Ottanta, quando scrissi La Commissione, pochi avrebbero immaginato che sarebbe potuta emergere un’opposizione simile a quella con cui il governo deve fare i conti oggi. È per questa ragione che quel romanzo è pervaso da una sorta di disperazione, da un clima di mestizia, e che il narratore – che alla fine del libro, frustrato, mangia se stesso – sia stato visto come il tipico intellettuale: colui che vede e capisce chiaramente ciò che accade intorno a lui, ma che non è in grado di agire e nemmeno gli è permesso. Ci tengo comunque a sottolineare che il narratore si fa portavoce anche di una convinzione di segno opposto: l’idea che prima o poi debba arrivare il “grande giorno”, quello che porta con sé il cambiamento, la fine delle attese e il collasso del sistema capitalistico. Il giorno in cui sarà possibile vivere in un sistema basato sull’uguaglianza delle opportunità e sulla giustizia.


Anche quanti avrebbero la forza di rivendicare uno spazio laico nella società sembrano dimenticarsene: come giudica il fatto che Nagib Mahfuz continui a non avallare la pubblicazione in Egitto del romanzo Awlad Haratina (Il rione dei ragazzi) senza l’autorizzazione dell’istituzione religiosa Al-Ahzar?
Mafhuz è un grande scrittore, forse il più grande del nostro Paese e il padre della generazione di romanzieri a cui appartengo. Quando interviene su argomenti di carattere politico, però, finisce sempre col diventare un tipico «impiegato statale». D’altronde è stato un impiegato statale per tutta la vita, rispettando in maniera debita le autorità, il governo e il presidente. Mafhuz ha capito molto bene ciò che è successo in Egitto in passato, e capisce altrettanto bene quel che accade adesso, ma non è certo il tipo che vada a spiegarne le ragioni in pubblico.

Quasi tutti i suoi romanzi hanno a che fare, in maniera più o meno esplicita, con quelle forme di egemonia – sociale, economica, politica o culturale – che impediscono che arrivi il “grande giorno” al quale allude il protagonista de La Commissione. Ritiene che la letteratura possa – e debba – contribuire a rimuovere questi ostacoli?

In termini generali ritengo che la lettura di romanzi sia molto importante per ogni individuo. Me ne dà la conferma la vicenda di un mio amico, che non ha mai letto romanzi e di cui conosco i problemi personali. Mi capita di rimanere ancora stupito accorgendomi di quanto sia “cieco”, incapace di capire che la moglie non lo ama più. Sono arrivato a pensare che la ragione della sua “cecità” risieda proprio nel fatto che non possiede alcun tipo di immaginazione psicologica e sentimentale. Intendo dire che è privo della capacità di individuare gli elementi che contribuiscono alla costruzione psicologica di una persona proprio perché non ha mai letto romanzi. Esaminando la stessa situazione da differenti punti di vista e riproducendone la complessità, i romanzi infatti ampliano le prospettive e aiutano a comprendere meglio il comportamento umano. Insieme all’aspetto psicologico, poi, contribuiscono a capire meglio anche la società in cui si vive, sollevando interrogativi sugli aspetti sociali ed economici della convivenza umana. Basti pensare a quella lunga tradizione di scrittori – potrei citare Zola e Balzac, ma si tratta di una tradizione assai più radicata – che hanno guardato alla dimensione personale e parallelamente a quella sociale, cercando di analizzarle entrambe per spiegare cosa accade nelle parti inaccessibili dell’uomo e, a differenti livelli, nella società.

Lei è conosciuto per le sue critiche sferzanti al sistema politico egiziano, e nel 2003 nel corso di una cerimonia pubblicata ha criticato aspramente il governo Mubarak e i leader arabi, rifiutando il premio per il miglior scrittore arabo promosso dal ministero della Cultura egiziano. Quali sono state le ragioni di quel rifiuto?

Con il mio rifiuto ho voluto protestare apertamente contro la situazione politica ed economica del mio Paese, ricordando la corruzione che vi regna e la pratica di torturare i dissidenti politici. Il periodo inoltre era particolarmente “incandescente”: i palestinesi venivano uccisi e sottoposti a vessazioni continue, come d’altronde succede anche oggi; l’Iraq era sotto occupazione americana e il governo egiziano contribuiva all’aggressione del popolo iracheno: oggi sappiamo con certezza che centinaia di aerei americani impegnati nelle operazioni di guerra in Iraq hanno usato le basi egiziane. La reazione del pubblico al mio discorso è stata sorprendente: molti applaudivano, alcuni piangevano, qualcuno cercava di baciarmi la mano. Si è trattato di una protesta e di una forma di resistenza al regime realmente aperta, improvvisa e spontanea.

Rushdi, il protagonista maschile del romanzo Warda, osserva in silenzio l’amica Shafiqa, «paragonando la sua immagine attuale, bardata nell’abbigliamento islamico, e quella di qualche anno fa, o dell’inizio degli anni Settanta, quando insieme alle altre ragazze sfoggiava la minigonna…». Il cambiamento è «epidermico» o rivela qualcosa di più sostanziale?
Spesso i cambiamenti esteriori rappresentano trasformazioni che investono la dimensione interiore dell’individuo e, contestualmente, quella sociale. Molti degli intellettuali egiziani che si sono trasferiti in Arabia Saudita per lavorare, dopo aver trascorso qualche anno in un Paese così lontano dalle consuetudini laiche, ne sono stati influenzati. Alcuni hanno erroneamente creduto che, se avessero adottato il rigido comportamento dei sauditi, avrebbero potuto risvegliare un’antica tradizione assopita. Altri, invece, non hanno avuto bisogno di questi “esempi” per continuare a sottomettere la donna, impedendole di conquistare quell’autonomia di cui temevano le conseguenze.

Torniamo ai libri: lei incorpora nei suo romanzi materiali eterogenei, mostrando una tendenza che potremmo definire “fagocitante”, “onnivora”. Come nasce questa tendenza e come riesce a comporre organicamente elementi così diversi?

Nasce da uno dei miei hobby preferiti, che è quello di ritagliare e collezionare pezzi di giornali, seguire avvenimenti di natura diversa e cercare di capirne le ragioni. Da quando ho cominciato a scrivere ho deciso di includere ogni aspetto della mia vita nei romanzi, cercando di “comporre” i miei problemi personali, i sogni più intimi, così come la situazione generale dell’Egitto in un “insieme”. Questa tendenza “compositiva” non deriva da una concezione di tipo teorico: semplicemente, mi piace mettere insieme materiali in apparenza eterogenei, trasformandoli in una unità. Penso che ogni elemento possa essere preso e “composto” insieme agli altri, diventando una parte del tutto, perché esiste un sorta di unità nascosta, che è legata al tentativo di comprendere un determinato problema. Quando comincio a scrivere un libro, infatti, cerco di capire un determinato aspetto della vita, che può essere di natura personale o collettiva, ed è proprio questo tentativo di comprensione a “sollevare” i materiali dalla loro eterogeneità. È una disposizione, un piacere personale, come quello che provo nell’usare la prima persona, che mi fa sentire rilassato, mentre altre volte preferisco assumere la personalità di un’altra persona, come succede nel teatro.

La cosa curiosa è che proprio questo interesse per il “collezionismo” mi ha spinto verso l’attività politica. Da giovane infatti avevo l’abitudine di ritagliare le foto di attrici famose come l’americana Betty Grable per raccoglierle in un’apposita cartellina. Più tardi, trovando dietro quelle foto delle notizie o delle immagini relative ai problemi politici dell’epoca, ho cominciato a interessarmi di politica, che è diventata importantissima nella mia vita. Quando avevo più o meno diciassette anni, rileggendo le poche poesie e i racconti scritti fino ad allora, ebbi l’impressione che fossero “porcherie”. Decisi allora che sarei diventato un combattente per la libertà e l’uguaglianza.

Questa militanza “per la libertà e l’uguaglianza” è stata interrotta dalla repressione dei movimenti comunisti voluta da Nasser, in seguito alla quale lei ha passato cinque anni e mezzo in prigione. In che modo quel periodo ha contribuito ad orientare le sue future decisioni personali e professionali?

Il periodo trascorso in prigione mi ha fatto cambiare idea sul mio futuro. In carcere ci sono dei momenti in cui puoi guardarti dentro, stare con te stesso, anche per ventiquattro ore al giorno, senza contatti e senza niente da leggere. In quei momenti la mente comincia a lavorare, si inizia a immaginare. È stato così che ho cominciato a scrivere storie: mentalmente. In prigione inoltre ho conosciuto centinaia di militanti – artisti, scrittori, professori universitari, lavoratori, sindacalisti – la cui capacità di sostenere e spiegare le proprie opinioni agli altri mi ha fatto rendere conto di essere del tutto inadatto ad affrontare le discussioni pubbliche. Ho capito che non ero capace di influenzare le persone. Eppure proprio quello volevo fare! In termini generali, poi, mi sono accorto da un lato che la scrittura poteva concedere maggiori libertà rispetto all’azione politica, e dall’altro che alcuni argomenti reclamavano una sorta di “espressione romanzesca”. La delicata questione del rapporto tra Nasser e i comunisti era uno di quei temi che potevano essere spiegati meglio in un romanzo che in un saggio di carattere sociale o in un articolo politico. A un livello superficiale sembrava infatti che noi comunisti e Nasser dicessimo le stesse cose, eppure rimaneva il fatto che noi eravamo in prigione, e subivamo la tortura. Perché? In prigione decisi di diventare uno scrittore per godere di quella libertà di cui non avrei potuto disporre come militante.

Il complicato impasto che caratterizza i suoi testi tra dimensione biografico-esistenziale e finzione romanzesca mette in crisi i critici. Alcuni, troppo legati all’idea della presunta impermeabilità dei confini tra autobiografia e romanzo, semplicemente disconoscono il problema dei modi e degli effetti di questo impasto. Altri, invece, pretendono di risolverlo riducendo i suoi romanzi a semplici ed immediate manifestazioni delle sue esperienze personali. Lei in quali termini legge il rapporto tra autobiografia e romanzo?

La maggior parte dei romanzi in un certo senso sono delle autobiografie, anche laddove l’autore non racconta niente di vero, né dal punto di vista storico né da quello individuale. Se non potesse usare le proprie esperienze, uno scrittore come potrebbe immaginare situazioni, costruire storie, raccontarle? Ma il rapporto tra finzione e scrittura autobiografica muta profondamente con il tempo: duecento anni fa, gli scrittori erano abituati a cominciare i romanzi più o meno in questo modo: «Ero seduto in un caffè e sorseggiavo un tè quando un uomo si è avvicinato al mio tavolo. Abbiamo cominciato a parlare e quest’uomo mi ha raccontato una storia molto strana accaduta a suo cugino…». Come si vede, l’autore non racconta una storia di cui è stato testimone diretto, ma riporta una storia accaduta a un’altra persona e raccontata da un terzo individuo. In questo caso, dunque, il vero autore introduce degli elementi di mediazione, preoccupato di non concedere al lettore nessun “indizio” che possa far pensare a una connessione tra la sua storia personale e quella raccontata.

Oggi invece noi scrittori usiamo il nostro vissuto come materiale romanzesco in maniera più aperta e disinvolta. Tuttavia, continuiamo a scrivere romanzi, non autobiografie. E ogni romanzo è una bugia. Quando scrivo romanzi è come se raccontassi una grande bugia, dicendo cose che non sono mai accadute, ma alle quali si deve credere. In questo senso posso usare elementi autobiografici, ma non devono essere considerati tali, perché posso cambiarli, manipolarli, oppure raccontarne solo una parte, modificando il senso generale di ciò che è realmente accaduto.

In un brano de La Commissione il protagonista sostiene di essere prevenuto verso i poeti, con «i loro vocaboli insignificanti dal significato vago». Una delle caratteristiche della sua scrittura è proprio l’uso di un linguaggio “asciutto”, “terso”, “anti-poetico”. Si tratta di una scelta “politico-generazionale”, volta a rivendicare la distanza rispetto alla tradizione letteraria a lei precedente, o piuttosto di una scelta di carattere esclusivamente “estetico”, sempre che le due cose possa essere tenute distinte?

Il fatto di non usare immagini e frasi poetiche è un orientamento al quale sono fedele ancora oggi. Dov’è infatti l’arte? L’arte è nella costruzione complessiva, nella totalità, non nelle singole espressioni poetiche. In termini generali, molti degli scrittori che appartengono alla mia generazione hanno usato il linguaggio come uno strumento per marcare una forte discontinuità rispetto al passato, ed è significativo che anche Naguib Mahfouz nell’ultimo periodo abbia lavorato in accordo con questa posizione. L’elemento “linguistico” è molto importante nel mio lavoro, tanto che, sebbene mi risulti difficile indicare con precisione gli scrittori che hanno contribuito alla mia formazione, lo hanno fatto senza dubbio tutti coloro che hanno usato un linguaggio “essenziale”, cercando l’“economia” e l’“esattezza” dello stile. Tra gli “occidentali”, potrei citare Ernst Hemingway, di cui mi piace riproporre la metafora dell’iceberg: come della montagna di ghiaccio immersa nell’oceano vediamo solo una piccola parte, quella che sta sulla superficie dell’acqua, così del linguaggio dovremmo lasciar apparire solo una parte, nascondendo ciò che ne è alla base.

La sua scrittura è attraversata da una forte dimensione ironica. Si tratta di una consapevole “strategia” formale-compositiva o, piuttosto, del risultato di una sua personale disposizione verso la vita, che trova espressione anche nella scrittura romanzesca?

A noi egiziani piace molto ridere. È una maniera di far fronte alla nostra incapacità di agire, un po’ come succede ai bambini. L’ironia dunque è un modo per affrontare le debolezze, e nello stesso tempo rappresenta anche una sorta di “visione”, uno sguardo sulla storia e una disposizione verso la vita. Come spesso mi capita, anche nel caso del testo su cui sto lavorando in questo periodo sin dal principio mi sono interrogato sul problema principale attorno al quale costruirlo. E anche in questo caso, pensando ai miei problemi personali e a quelli del mio Paese, mi sono reso conto di una certa ironia complessiva; ho capito che siamo stati nuovamente “bastonati” e “sbeffeggiati” dagli avvenimenti della storia e che esisteranno sempre molte cose che ci faranno ridere, perché la vita stessa è piena di ironia, come la storia, spesso incredibile.

Il marxismo ha costituito una “bussola” per molti intellettuali egiziani della sua generazione. Lei è ancora marxista?

Lo sono soprattutto oggi, quando, tra l’altro, anche i capitalisti hanno cominciato ad accettare alcune delle idee proposte da Marx. Continuo a essere marxista e ritengo che il marxismo vada inteso come una maniera di pensare e di “leggere” il mondo. Non si tratta infatti di una descrizione del presente o di una prescrizione per il futuro, ma di un metodo, di un modo di leggere e comprendere il mondo. Sta al singolo individuo individuarne l’uso migliore, analizzando le situazioni e usandolo come una guida per risolvere i problemi attuali.

da qui



qui le recensioni di tre suoi libri:

https://stanlec.blogspot.com/2021/12/warda-sonallah-ibrahim.html

https://stanlec.blogspot.com/2021/12/la-commissione-sonallah-ibrahim.html

https://stanlec.blogspot.com/2022/11/le-stagioni-di-zhat-sonallah-ibrahim.html


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