La letteratura, il marxismo, l’impegno. L’Egitto di Sonallah Ibrahim
(intervista, del 2006, di Giuliano Battiston, ripresa da gliasinirivista.org)
È scomparso il 13 agosto, all’età di 88 anni, lo scrittore egiziano
Sonallah Ibrahim, tra i più autorevoli rappresentanti della letteratura araba
contemporanea, rappresentante della cosiddetta “generazione degli anni
Sessanta”. Lo ricordiamo con un’intervista raccolta nel giugno 2006 al Cairo,
quando Sonallah Ibrahim ha accolto con generosità e calore Giuliano Battiston
nella sua casa nel quartiere di Heliopolis, tra cataste di libri e quotidiani
impilati l’uno sull’altro, in un’atmosfera rilassata e rallegrata dalla
presenza della moglie e di una nipotina.
L’intervista, parzialmente pubblicata sul manifesto il 3 agosto 2006, è stata
poi pubblicata integralmente sul numero 109, aprile 2009, della rivista Lo
Straniero, insieme alle interviste agli scrittori Gamal al-Ghitani e ‘Ala
al-Aswani e la ripubblichiamo insieme agli amici di Lettera 22 perché la
conoscenza di questo importante intellettuale possa circolare.
Nato nel 1937, scrittore egiziano tra i più celebrati del mondo arabo e
rappresentante della cosiddetta “generazione degli anni Sessanta”, Sonallah
Ibrahim si è dedicato presto alla militanza politica, e nel 1959, durante la
repressione dei movimenti di sinistra ordinata da Nasser, è finito in carcere.
Nel 1966, due anni dopo il suo rilascio, ha scritto il suo primo romanzo, Tilka
al-ra’ihah (Quell’odore, De Martinis, 1994), in cui racconta
con linguaggio crudo l’alienazione di un uomo appena uscito dal carcere.
Censurato dalle autorità, il libro è stato pubblicato integralmente in Egitto solo
nel 1986.
Dopo alcuni anni passati al Cairo, Beirut e Berlino come giornalista per la
Middle East News Agency, dal 1971 al 1974 Ibrahim ha studiato cinema a Mosca.
Tornato al Cairo, si è dedicato a tempo pieno alla scrittura, facendo
dell’ibridazione tra finzione ed elementi autobiografici, tra la dimensione
personale e quella collettiva la cifra della sua scrittura. Nei suoi testi
la verve ironica si accompagna, radicalizzandola, a una
disposizione spietatamente critica, che trasforma i suoi romanzi in accuse
corrosive al corrotto sistema politico egiziano, mentre le azioni individuali e
le dinamiche esistenziali vengono restituite alla loro irragionevole evidenza.
Oltre a Quell’odore, tra i suoi numerosi romanzi sono stati
tradotti in italiano solo al-Lagnah (La Commissione, I ed.
De Martinis, 1993, II ed. Jouvence, 2003) e Wardah (Warda,
ed. Ilisso, 2005). Lo abbiamo incontrato a casa sua, nel quartiere cairota di
Heliopolis.
Chi volesse capire le trasformazioni che hanno interessato la vita politica
e sociale dell’Egitto negli ultimi cinquant’anni potrebbe affidarsi ai suoi
romanzi. Se lei è d’accordo vorrei cominciare proprio chiedendole di
ripercorrere brevemente la storia recente del suo Paese, a partire dall’eredità
lasciata dal presidente Gamal Abdel Nasser…
Allora tutte le nazioni avevano un “padre” della patria, un uomo-simbolo
pieno di saggezza, o che perlomeno si riteneva tale: la Francia De Gaulle, gli
Stati Uniti Kennedy, l’Unione sovietica Stalin, l’Indonesia Sukarno, l’India
Nehru e Gandhi, il Ghana Kwame Nkrumah. Nasser, che era un militare e come tale
viveva, prendendo le decisioni come leader unico del Paese, era il simbolo
degli egiziani, un simbolo della resistenza e della battaglia contro
l’occupazione straniera e per la giustizia sociale, e la sua eredità risiede
nella spinta ad andare avanti per difendere e riconquistare l’indipendenza
nazionale (che oggi abbiamo completamente perso) e per risolvere i problemi
sociali che affliggono l’Egitto, un Paese che soffre di una disparità intollerabile
tra la classe sociale più bassa e quella più alta. Il retaggio principale del
suo operato può essere individuato in una certa idea di “democrazia
partecipata”, che si traduce nella sollecitazione a non vivere come individui
isolati dal resto della comunità, prendendo piuttosto parte ai processi che
riguardano il futuro del Paese.
Secondo le sue parole, sotto il mandato presidenziale di Anwar Al Sadat
l’Egitto avrebbe consegnato la propria libertà economica alle multinazionali,
ipotecando il futuro e passando da una forma di «imperialismo coloniale a uno
di tipo economico». Può spiegare meglio cosa intende?
La cosiddetta politica economica delle porte aperte (Infitàh, ndr)
voluta dal presidente Sadat ha accelerato quel processo di progressiva perdita
d’indipendenza economica i cui risultati sono visibili ancora oggi. Non è un
caso che proprio in quegli anni sia nata una nuova classe di
imprenditori-importatori, i cosiddetti compradores, il cui lavoro
consisteva nell’importare una nuova serie di prodotti fabbricati altrove. Il
“Dottore” di cui parlo nel mio romanzo La Commissione è,
appunto, un rappresentante esemplare di questa nuova categoria di persone:
uomini che appartengono alle alte gerarchie dello Stato e che mentre guadagnano
lautamente con questi traffici uccidono l’industria nazionale. Il risultato
delle loro azioni salta agli occhi se consideriamo che oggi tutto ciò che
usiamo ogni giorno, come il sapone, l’olio o lo zucchero, viene importato
dall’estero.
Dopo Sadat, c’è stata l’“investitura” dell’attuale presidente, Hosni
Mubarak, il cui governo lei non esita a definire una dittatura…
Dopo l’assassinio di Sadat, gli egiziani si sono illusi che Mubarak avrebbe
mantenuto le promesse fatte per legittimare la sua “investitura”. L’illusione è
stata talmente forte che ci è voluto del tempo prima che la gente si rendesse
conto che si era instaurata una dittatura, in cui era negata ogni libertà di
espressione. La situazione è divenuta ancora più grave perché le limitazioni
delle libertà civili e politiche si sono radicate contestualmente alla
diffusione della corruzione, che ha investito ogni aspetto della vita egiziana.
Lo scenario politico egiziano è attraversato da spinte contrapposte: quelle
centrifughe dei movimenti di opposizione che cercano di modificare
l’immobilismo del paese, e quelle centripete del governo Mubarak, che tende a
conservare lo status quo. L’esito dello scontro non è ancora chiaro. Qual è la
sua impressione?
Alcuni avvenimenti recenti testimoniano tuttavia un’atmosfera nuova nel
Paese, di cui alcuni non hanno preso piena coscienza: viviamo ancora sotto una
dittatura, ma la sua debolezza permette a quanti ne hanno il coraggio di
parlare apertamente. Abbiamo ritrovato la possibilità di discutere, e coloro
che criticano le politiche del governo e ne contestano la legittimità sono
incoraggiati dal peso che hanno raggiunto i movimenti che scendono in piazza e
si battono per la libertà. Il governo ha cercato di fermare questa nuova ondata
di proteste a suo modo: i manifestanti sono stati picchiati e arrestati, alcuni
hanno subito aggressioni sessuali. C’è stato perfino chi è stato sodomizzato
nei commissariati. Rimane il fatto, però, che anche l’opposizione è debole.
Nessuna delle fazioni politiche egiziane – gli islamisti, la cosiddetta
sinistra, il governo – è forte abbastanza per risolvere i problemi del Paese.
Quella che si sta consumando è una battaglia tra deboli, mentre la principale
preoccupazione di Mubarak rimane quella di assicurarsi che suo figlio Gamal
possa succedergli come presidente. Ogni sua azione è finalizzata a questo.
Anche quando lecca il culo a Israele e agli Stati Uniti pensa alla successione.
Ma gli egiziani non accetteranno mai suo figlio come presidente.
A giudicare dalle ultime elezioni, i Fratelli musulmani non sembrerebbero
così deboli…
I Fratelli musulmani sono forse l’organizzazione politica più forte del paese.
Esiste però una sorta di tradizione in Egitto che ne limita il peso effettivo:
gli egiziani sono sostanzialmente moderati e non accettano nessuna tendenza
fanatica, neanche in ambito religioso. È indubitabile che la nostra società sia
attraversata, in maniera peraltro preoccupante, da tendenze fanatiche, ma si
tratta di aspetti parziali, che non riescono a radicarsi nel tessuto sociale.
D’altra parte, le stesse persone che per le vie del Cairo seguono comportamenti
ispirati a regole religiose fanatiche, in casa si comportano in maniera
diversa. La dominazione americana in Iraq e l’aggressione israeliana in
Palestina, però, possono cambiare questa situazione, favorendo il
consolidamento dei movimenti più radicali.
Anche l’aspra battaglia che si è consumata qualche tempo fa tra il potere
politico e quello giudiziario sembrerebbe rientrare in questa nuova atmosfera
di cui parla…
Quella battaglia, che non si riduceva a una questione di “forma” o di
“etichette”, rappresenta una delle cose più interessanti accadute nella storia
recente del nostro Paese. Di solito infatti i giudici sono parte integrante
delle istituzioni, ne rappresentano anzi una componente molto conservatrice.
Qui in Egitto, invece, all’improvviso alcuni di loro hanno formato un gruppo –
il Judges Club, i cui membri sono eletti da altri giudici -, e
hanno cominciato a protestare contro la falsificazione dei risultati delle
ultime elezioni presidenziali, rivendicando allo stesso tempo una reale
autonomia e indipendenza. Negli anni Ottanta, quando scrissi La
Commissione, pochi avrebbero immaginato che sarebbe potuta emergere
un’opposizione simile a quella con cui il governo deve fare i conti oggi. È per
questa ragione che quel romanzo è pervaso da una sorta di disperazione, da un
clima di mestizia, e che il narratore – che alla fine del libro, frustrato,
mangia se stesso – sia stato visto come il tipico intellettuale: colui che vede
e capisce chiaramente ciò che accade intorno a lui, ma che non è in grado di
agire e nemmeno gli è permesso. Ci tengo comunque a sottolineare che il
narratore si fa portavoce anche di una convinzione di segno opposto: l’idea che
prima o poi debba arrivare il “grande giorno”, quello che porta con sé il
cambiamento, la fine delle attese e il collasso del sistema capitalistico. Il
giorno in cui sarà possibile vivere in un sistema basato sull’uguaglianza delle
opportunità e sulla giustizia.
Anche quanti avrebbero la forza di rivendicare uno spazio laico nella
società sembrano dimenticarsene: come giudica il fatto che Nagib Mahfuz
continui a non avallare la pubblicazione in Egitto del romanzo Awlad
Haratina (Il rione dei ragazzi) senza l’autorizzazione
dell’istituzione religiosa Al-Ahzar?
Mafhuz è un grande scrittore, forse il più grande del nostro Paese e il padre
della generazione di romanzieri a cui appartengo. Quando interviene su
argomenti di carattere politico, però, finisce sempre col diventare un tipico
«impiegato statale». D’altronde è stato un impiegato statale per tutta la vita,
rispettando in maniera debita le autorità, il governo e il presidente. Mafhuz
ha capito molto bene ciò che è successo in Egitto in passato, e capisce
altrettanto bene quel che accade adesso, ma non è certo il tipo che vada a
spiegarne le ragioni in pubblico.
Quasi tutti i suoi romanzi hanno a che fare, in maniera più o meno
esplicita, con quelle forme di egemonia – sociale, economica, politica o
culturale – che impediscono che arrivi il “grande giorno” al quale allude il
protagonista de La Commissione. Ritiene che la letteratura possa –
e debba – contribuire a rimuovere questi ostacoli?
In termini generali ritengo che la lettura di romanzi sia molto importante
per ogni individuo. Me ne dà la conferma la vicenda di un mio amico, che non ha
mai letto romanzi e di cui conosco i problemi personali. Mi capita di rimanere
ancora stupito accorgendomi di quanto sia “cieco”, incapace di capire che la
moglie non lo ama più. Sono arrivato a pensare che la ragione della sua
“cecità” risieda proprio nel fatto che non possiede alcun tipo di immaginazione
psicologica e sentimentale. Intendo dire che è privo della capacità di
individuare gli elementi che contribuiscono alla costruzione psicologica di una
persona proprio perché non ha mai letto romanzi. Esaminando la stessa
situazione da differenti punti di vista e riproducendone la complessità, i
romanzi infatti ampliano le prospettive e aiutano a comprendere meglio il
comportamento umano. Insieme all’aspetto psicologico, poi, contribuiscono a
capire meglio anche la società in cui si vive, sollevando interrogativi sugli
aspetti sociali ed economici della convivenza umana. Basti pensare a quella
lunga tradizione di scrittori – potrei citare Zola e Balzac, ma si tratta di
una tradizione assai più radicata – che hanno guardato alla dimensione
personale e parallelamente a quella sociale, cercando di analizzarle entrambe
per spiegare cosa accade nelle parti inaccessibili dell’uomo e, a differenti
livelli, nella società.
Lei è conosciuto per le sue critiche sferzanti al sistema politico
egiziano, e nel 2003 nel corso di una cerimonia pubblicata ha criticato
aspramente il governo Mubarak e i leader arabi, rifiutando il premio per il
miglior scrittore arabo promosso dal ministero della Cultura egiziano. Quali
sono state le ragioni di quel rifiuto?
Con il mio rifiuto ho voluto protestare apertamente contro la situazione
politica ed economica del mio Paese, ricordando la corruzione che vi regna e la
pratica di torturare i dissidenti politici. Il periodo inoltre era
particolarmente “incandescente”: i palestinesi venivano uccisi e sottoposti a
vessazioni continue, come d’altronde succede anche oggi; l’Iraq era sotto
occupazione americana e il governo egiziano contribuiva all’aggressione del
popolo iracheno: oggi sappiamo con certezza che centinaia di aerei americani
impegnati nelle operazioni di guerra in Iraq hanno usato le basi egiziane. La
reazione del pubblico al mio discorso è stata sorprendente: molti applaudivano,
alcuni piangevano, qualcuno cercava di baciarmi la mano. Si è trattato di una
protesta e di una forma di resistenza al regime realmente aperta, improvvisa e
spontanea.
Rushdi, il protagonista maschile del romanzo Warda, osserva in silenzio
l’amica Shafiqa, «paragonando la sua immagine attuale, bardata
nell’abbigliamento islamico, e quella di qualche anno fa, o dell’inizio degli
anni Settanta, quando insieme alle altre ragazze sfoggiava la minigonna…». Il
cambiamento è «epidermico» o rivela qualcosa di più sostanziale?
Spesso i cambiamenti esteriori rappresentano trasformazioni che investono la
dimensione interiore dell’individuo e, contestualmente, quella sociale. Molti
degli intellettuali egiziani che si sono trasferiti in Arabia Saudita per
lavorare, dopo aver trascorso qualche anno in un Paese così lontano dalle
consuetudini laiche, ne sono stati influenzati. Alcuni hanno erroneamente
creduto che, se avessero adottato il rigido comportamento dei sauditi,
avrebbero potuto risvegliare un’antica tradizione assopita. Altri, invece, non
hanno avuto bisogno di questi “esempi” per continuare a sottomettere la donna,
impedendole di conquistare quell’autonomia di cui temevano le conseguenze.
Torniamo ai libri: lei incorpora nei suo romanzi materiali eterogenei,
mostrando una tendenza che potremmo definire “fagocitante”, “onnivora”. Come
nasce questa tendenza e come riesce a comporre organicamente elementi così
diversi?
Nasce da uno dei miei hobby preferiti, che è quello di ritagliare e
collezionare pezzi di giornali, seguire avvenimenti di natura diversa e cercare
di capirne le ragioni. Da quando ho cominciato a scrivere ho deciso di
includere ogni aspetto della mia vita nei romanzi, cercando di “comporre” i
miei problemi personali, i sogni più intimi, così come la situazione generale
dell’Egitto in un “insieme”. Questa tendenza “compositiva” non deriva da una
concezione di tipo teorico: semplicemente, mi piace mettere insieme materiali
in apparenza eterogenei, trasformandoli in una unità. Penso che ogni elemento
possa essere preso e “composto” insieme agli altri, diventando una parte del
tutto, perché esiste un sorta di unità nascosta, che è legata al tentativo di
comprendere un determinato problema. Quando comincio a scrivere un libro,
infatti, cerco di capire un determinato aspetto della vita, che può essere di
natura personale o collettiva, ed è proprio questo tentativo di comprensione a
“sollevare” i materiali dalla loro eterogeneità. È una disposizione,
un piacere personale, come quello che provo nell’usare la prima persona, che mi
fa sentire rilassato, mentre altre volte preferisco assumere la personalità di
un’altra persona, come succede nel teatro.
La cosa curiosa è che proprio questo interesse per il “collezionismo” mi ha
spinto verso l’attività politica. Da giovane infatti avevo l’abitudine di
ritagliare le foto di attrici famose come l’americana Betty Grable per
raccoglierle in un’apposita cartellina. Più tardi, trovando dietro quelle foto
delle notizie o delle immagini relative ai problemi politici dell’epoca, ho
cominciato a interessarmi di politica, che è diventata importantissima nella
mia vita. Quando avevo più o meno diciassette anni, rileggendo le poche poesie
e i racconti scritti fino ad allora, ebbi l’impressione che fossero
“porcherie”. Decisi allora che sarei diventato un combattente per la libertà e
l’uguaglianza.
Questa militanza “per la libertà e l’uguaglianza” è stata interrotta dalla
repressione dei movimenti comunisti voluta da Nasser, in seguito alla quale lei
ha passato cinque anni e mezzo in prigione. In che modo quel periodo ha
contribuito ad orientare le sue future decisioni personali e professionali?
Il periodo trascorso in prigione mi ha fatto cambiare idea sul mio futuro.
In carcere ci sono dei momenti in cui puoi guardarti dentro, stare con te
stesso, anche per ventiquattro ore al giorno, senza contatti e senza niente da
leggere. In quei momenti la mente comincia a lavorare, si inizia a
immaginare. È stato così che ho cominciato a scrivere storie:
mentalmente. In prigione inoltre ho conosciuto centinaia di militanti –
artisti, scrittori, professori universitari, lavoratori, sindacalisti – la cui
capacità di sostenere e spiegare le proprie opinioni agli altri mi ha fatto
rendere conto di essere del tutto inadatto ad affrontare le discussioni pubbliche.
Ho capito che non ero capace di influenzare le persone. Eppure proprio quello
volevo fare! In termini generali, poi, mi sono accorto da un lato che la
scrittura poteva concedere maggiori libertà rispetto all’azione politica, e
dall’altro che alcuni argomenti reclamavano una sorta di “espressione
romanzesca”. La delicata questione del rapporto tra Nasser e i comunisti era
uno di quei temi che potevano essere spiegati meglio in un romanzo che in un
saggio di carattere sociale o in un articolo politico. A un livello
superficiale sembrava infatti che noi comunisti e Nasser dicessimo le stesse
cose, eppure rimaneva il fatto che noi eravamo in prigione, e subivamo la
tortura. Perché? In prigione decisi di diventare uno scrittore per godere di
quella libertà di cui non avrei potuto disporre come militante.
Il complicato impasto che caratterizza i suoi testi tra dimensione
biografico-esistenziale e finzione romanzesca mette in crisi i critici. Alcuni,
troppo legati all’idea della presunta impermeabilità dei confini tra
autobiografia e romanzo, semplicemente disconoscono il problema dei modi e
degli effetti di questo impasto. Altri, invece, pretendono di risolverlo
riducendo i suoi romanzi a semplici ed immediate manifestazioni delle sue
esperienze personali. Lei in quali termini legge il rapporto tra autobiografia
e romanzo?
La maggior parte dei romanzi in un certo senso sono delle autobiografie,
anche laddove l’autore non racconta niente di vero, né dal punto di vista
storico né da quello individuale. Se non potesse usare le proprie esperienze,
uno scrittore come potrebbe immaginare situazioni, costruire storie,
raccontarle? Ma il rapporto tra finzione e scrittura autobiografica muta
profondamente con il tempo: duecento anni fa, gli scrittori erano abituati a cominciare
i romanzi più o meno in questo modo: «Ero seduto in un caffè e sorseggiavo un
tè quando un uomo si è avvicinato al mio tavolo. Abbiamo cominciato a parlare e
quest’uomo mi ha raccontato una storia molto strana accaduta a suo cugino…».
Come si vede, l’autore non racconta una storia di cui è stato testimone
diretto, ma riporta una storia accaduta a un’altra persona e raccontata da un
terzo individuo. In questo caso, dunque, il vero autore introduce degli
elementi di mediazione, preoccupato di non concedere al lettore nessun
“indizio” che possa far pensare a una connessione tra la sua storia personale e
quella raccontata.
Oggi invece noi scrittori usiamo il nostro vissuto come materiale
romanzesco in maniera più aperta e disinvolta. Tuttavia, continuiamo a scrivere
romanzi, non autobiografie. E ogni romanzo è una bugia. Quando scrivo romanzi è
come se raccontassi una grande bugia, dicendo cose che non sono mai accadute,
ma alle quali si deve credere. In questo senso posso usare elementi
autobiografici, ma non devono essere considerati tali, perché posso cambiarli,
manipolarli, oppure raccontarne solo una parte, modificando il senso generale
di ciò che è realmente accaduto.
In un brano de La Commissione il protagonista sostiene di
essere prevenuto verso i poeti, con «i loro vocaboli insignificanti dal
significato vago». Una delle caratteristiche della sua scrittura è proprio
l’uso di un linguaggio “asciutto”, “terso”, “anti-poetico”. Si tratta di una
scelta “politico-generazionale”, volta a rivendicare la distanza rispetto alla
tradizione letteraria a lei precedente, o piuttosto di una scelta di carattere
esclusivamente “estetico”, sempre che le due cose possa essere tenute distinte?
Il fatto di non usare immagini e frasi poetiche è un orientamento al quale
sono fedele ancora oggi. Dov’è infatti l’arte? L’arte è nella costruzione
complessiva, nella totalità, non nelle singole espressioni poetiche. In termini
generali, molti degli scrittori che appartengono alla mia generazione hanno
usato il linguaggio come uno strumento per marcare una forte discontinuità
rispetto al passato, ed è significativo che anche Naguib Mahfouz nell’ultimo
periodo abbia lavorato in accordo con questa posizione. L’elemento
“linguistico” è molto importante nel mio lavoro, tanto che, sebbene mi risulti
difficile indicare con precisione gli scrittori che hanno contribuito alla mia
formazione, lo hanno fatto senza dubbio tutti coloro che hanno usato un
linguaggio “essenziale”, cercando l’“economia” e l’“esattezza” dello stile. Tra
gli “occidentali”, potrei citare Ernst Hemingway, di cui mi piace riproporre la
metafora dell’iceberg: come della montagna di ghiaccio immersa nell’oceano
vediamo solo una piccola parte, quella che sta sulla superficie dell’acqua,
così del linguaggio dovremmo lasciar apparire solo una parte, nascondendo ciò
che ne è alla base.
La sua scrittura è attraversata da una forte dimensione ironica. Si tratta
di una consapevole “strategia” formale-compositiva o, piuttosto, del risultato
di una sua personale disposizione verso la vita, che trova espressione anche
nella scrittura romanzesca?
A noi egiziani piace molto ridere. È una maniera di far fronte
alla nostra incapacità di agire, un po’ come succede ai bambini. L’ironia
dunque è un modo per affrontare le debolezze, e nello stesso tempo rappresenta
anche una sorta di “visione”, uno sguardo sulla storia e una disposizione verso
la vita. Come spesso mi capita, anche nel caso del testo su cui sto lavorando
in questo periodo sin dal principio mi sono interrogato sul problema principale
attorno al quale costruirlo. E anche in questo caso, pensando ai miei problemi
personali e a quelli del mio Paese, mi sono reso conto di una certa ironia
complessiva; ho capito che siamo stati nuovamente “bastonati” e “sbeffeggiati”
dagli avvenimenti della storia e che esisteranno sempre molte cose che ci
faranno ridere, perché la vita stessa è piena di ironia, come la storia, spesso
incredibile.
Il marxismo ha costituito una “bussola” per molti intellettuali egiziani
della sua generazione. Lei è ancora marxista?
Lo sono soprattutto oggi, quando, tra l’altro, anche i capitalisti hanno
cominciato ad accettare alcune delle idee proposte da Marx. Continuo a essere
marxista e ritengo che il marxismo vada inteso come una maniera di pensare e di
“leggere” il mondo. Non si tratta infatti di una descrizione del presente o di
una prescrizione per il futuro, ma di un metodo, di un modo di leggere e
comprendere il mondo. Sta al singolo individuo individuarne l’uso migliore,
analizzando le situazioni e usandolo come una guida per risolvere i problemi
attuali.
qui le recensioni di tre suoi libri:
https://stanlec.blogspot.com/2021/12/warda-sonallah-ibrahim.html
https://stanlec.blogspot.com/2021/12/la-commissione-sonallah-ibrahim.html
https://stanlec.blogspot.com/2022/11/le-stagioni-di-zhat-sonallah-ibrahim.html

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