mercoledì 6 agosto 2025

Mauro Armanino lascia il Niger

 

Lascio il Niger, non il silenzioso grido dei poveri - Mauro Armanino

Ogni volta mi dico che è l’ultima. L’ultima missione, l’ultimo Paese e l’ultimo popolo da lasciare. La storia si ripete e, senza saperlo o volerlo, cado nella stessa trappola. Si parte per un tempo, si vorrebbe e dovrebbe rimanere per sempre e poi, al solito, si torna. C’è una partenza in senso inverso. Dall’italico occidente al Sahel, dal Porto Antico di Genova alla porzione di Sahel riservata al Niger. Dalla sponda del Mediterraneo alla sponda del Sahara per un viaggio durato quattordici anni e qualche mese. Si passa, nel frattempo, dal Paese stampato sulla cartina geografica e dai confini ben definiti al Paese reale. Le strade, i volti, le storie di sabbia e i nomi di vento si mescolano come solo la polvere sa fare con consumata maestria. Ogni volta mi dico che è l’ultima e, senza capirlo, si recidiva.

Fuggitivo, disertore, traditore, mercante, mercenario e allo stesso tempo creatura di sabbia attraversato dall’unica fragilità che accomuna gli umani che si chiama vita. I ricordi delle persone seppellite nel cimitero cristiano di Niamey. Ogni volta lo stesso pensiero che si affaccia alla mente perché una parte di me rimane in quella terra benedetta dalle lacrime di coloro che rimangono. Migranti con un nome imprestato dal destino, bambini che partono ancora prima di aver cominciato il viaggio e alcuni rifugiati che scoprono nella sabbia del camposanto la penultima dimora che, senza saperlo, cercavano. Nelle valigie di ritorno c’è tutto e non c’è nulla di quanto vissuto, amato, tradito e, in questo caso, abbandonato. Si affacciano alla memoria le parole che si avventurano nel deserto.

Quanto è cambiato degli occhi e dello sguardo nel frattempo degli avvenimenti che accadono, passano, permangono e sono pronti a riapparire alla prima occasione propizia. Il passato non si accumula ma si seleziona e si organizza nella memoria del vissuto che si scava nei volti che indicano il cammino da seguire. “Se hace camino al andar“, camminando si scopre la via, scriveva Antonio Machado nell’altro millennio di un altro continente. Ci sono infatti ferite che non dovrebbero mai essere guarite perché solo aperte tengono desta l’attenzione ai protagonisti del transito in questo Paese e cioè i poveri. Inventano la storia che nessuno legge e raccontano storie che pochi ascoltano. Eppure proprio e solo in loro scorre l’unica e decisiva trasformazione del mondo.

Le centinaia di migranti dalle avventure inverosimili, le comunità cristiane perseguitate, le chiese bruciate, il rapimento e la lunga prigionia dell’amico Pierluigi Maccalli, l’insicurezza per i contadini dei villaggi, il golpe dei militari e la retorica di una sovranità nazionale ad uso e consumo del potere. Le decine di dibattiti pubblici e l’amicizia con alcuni militanti della società civile che non si è fatta espropriare. Il cammino imprevedibile con una comunità di periferia e infine la nostalgia del tempo che, sostengono in molti, è il secondo nome di Dio. Soprattutto però il privilegio di guardare la realtà dal sud, dalla Grande Periferia del mondo. Sono luoghi di verità che non permettono alle ferite di rimarginarsi col rischio di dimenticare il silenzioso grido dei poveri.

Si parte dal sud, senza sapere se il net funziona, quando ci sarà prossimo black out, l’appuntamento mancato senza dire nulla, lo stupore della pioggia, gli asini re della strada e i semafori a stagioni coi bambini da ogni parte si cammini e l’eleganza dei poveri nei giorni di festa. Ogni volta mi dico che è l’ultima e allora parto e poi cado nella trappola che la sabbia sapientemente nasconde. Torno soprattutto col NO che l’amico e compagno di viaggio Moussa Tchangari, attore storico della società civile di Niamey, ha ripetuto a chi voleva accaparrarne l’adesione al sistema. Si trova in galera dal 3 dicembre dell’anno scorso con la mani nude e libere di scrivere l’unica parola per la quale si può dare anche la vita. Si tratta della dignità che nessuno potrà rubargli e che, con riconoscenza, ho deposto nel mio bagaglio di ritorno.

da qui 

 

 

Lascio il Niger e riabituo gli occhi ai ‘bianchi’. In aeroporto confesso qual è il mio esplosivo - Mauro Armanino

Lo stacco dal ritorno in patria definitivo, dopo 14 anni di permanenza, si sente giusto all’ingresso dell’aeroporto internazionale Diori Hamani, primo presidente della Repubblica del Niger. Gli addetti al controllo doganale osservano con qualche commento i regali ricevuti prima di partire e ordinati nella valigia. Si impilano i quadretti con la forma e la bandiera del Paese con le croci di assai note di Agadez, inframezzate da magliette, stoffe locali, portamonete e cinture in cuoio per chiudere con monili per la famiglia e amici.

Passate le formalità rimane un tempo di attesa prima dell’imbarco che si riempie di ricordi e letture degli scritti di saluto e di addio di amici e conoscenti. C’è poi il decollo dell’aereo e le luci della capitale Niamey, più numerose del solito, si allontanano fino a scomparire come per ricordare che lo stesso è accaduto nel Paese in questi ultimi anni. Luci e tenebre abitano nel Sahel dove il malessere politico, economico e i gruppi armati sembrano essersi dati l’appuntamento.

Nell’aereo con destinazione Istanbul, il sedile alla mia sinistra è occupato da un nigerino che confessa di dirigersi ad Amburgo in Germania dove risiede da anni lavorando e formandosi. Alì conferma il malessere di una parte crescente della popolazione nei confronti della giunta militare che, naturalmente, non può adempiere a quanto promesso al momento del golpe ‘di palazzo’ di due anni or sono. Si trova in disaccordo con le restrizioni che il potere opera nei confronti di chi osa esprimere un pensiero diverso da quello ufficiale e lamenta il tradimento di alcune figure importanti della società civile. Sembra di trovarsi dinnanzi a un orizzonte che si allontana mano a mano che lo si avvicina come un’utopia smarrita nel deserto.

Il nuovo aeroporto di Istanbul è, come l’afferma la pubblicità, uno snodo mondiale e tutte le destinazioni sembrano confluirvi. Dall’area di transito si raggiungono le porte d’imbarco e nei lunghi passaggi si constata la vittoria del mercato globale.

Si è aggirati, accerchiati, osservati e pedinati da luci, vetrine, inservienti eleganti e seducenti, musiche, suoni e soprattutto mercanzie da acquistare in fretta. Lo stesso spettacolo a cui si assiste negli aeroporti di una certa importanza. Ad esempio quello di Roma Fiumicino, raggiunto il pomeriggio del giorno seguente. Erano passati tre anni dall’ultima mia partenza e avevo nel frattempo dimenticato che, lontano dal Sahel, c’erano ancora tante persone del mio stesso colore della pelle.

Riabituare gli occhi ai ‘bianchi’ che saturavano il paesaggio dopo essere stato minoranza ‘etnica’ per tanti anni è stata un’esperienza di riappropriazione del tutto inattesa e sconcertante. Nell’ennesima salone di attesa e transito si risente la lingua che mi abita e che ha almeno in parte, definito il racconto del mio mondo. Chiedere spiegazioni richiede una buona dose di coraggio perché c’è il timore che la lingua conosciuta non corrisponda più a quella parlata in quel momento.

Senza volerlo si ascoltano commenti e scambi tra persone e membri della stessa famiglia. Un bimbo, seduto accanto e, certamente preso da compassione, offre un biscotto. Dice a suo padre seduto accanto che poco prima un signore voleva fare altrettanto e che lui non ha accettato perché il biscotto poteva essere avvelenato. A questo punto ho naturalmente rifiutato il biscotto adducendo la stessa scusa.

Poi, al momento di raggiungere la porta d’imbarco un ultimo ostacolo. Una signora slanciata in abito militare mi ha intimato di mostrare i palmi delle mani. Vi ha apposto un sorta di cerottino bianco e così ha fatto sulle due scarpe. Con mia sorpresa, dopo aver chiesto all’altro militare la ragione di questa inedita verifica, mi è stato detto che si tratta di controlli occasionali per verificare se la persona non porti sostanze esplosive.

Ho ammesso alla signora, prima di congedarmi che in realtà sono esplosivo ma non nel senso del controllo effettuato. In effetti, a mia conoscenza, non c’è nulla più esplosivo del Vangelo preso sul serio. La discesa dell’aereo a Genova, destinazione finale, è stata utile per conoscersi col vicino di viaggio, rivelatosi carabiniere in pensione e fermamente contrario alle manifestazioni di appoggio al popolo palestinese. Nell’area ritiro bagagli dell’aeroporto giganteggia a sinistra la foto del pesto e a destra quella della nota focaccia di Genova.

Casarza Ligure, agosto 2025

da qui

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