Lascio il Niger, non il silenzioso grido dei poveri - Mauro Armanino
Ogni volta
mi dico che è l’ultima. L’ultima missione, l’ultimo Paese e l’ultimo popolo da
lasciare. La storia si ripete e, senza saperlo o volerlo, cado nella stessa
trappola. Si parte per un tempo, si vorrebbe e dovrebbe rimanere per sempre e
poi, al solito, si torna. C’è una partenza in senso inverso. Dall’italico
occidente al Sahel, dal Porto Antico di Genova alla porzione di Sahel riservata
al Niger. Dalla sponda del Mediterraneo alla sponda del Sahara per un
viaggio durato quattordici anni e qualche mese. Si passa, nel frattempo,
dal Paese stampato sulla cartina geografica e dai confini ben definiti al Paese
reale. Le strade, i volti, le storie di sabbia e i nomi di vento si mescolano
come solo la polvere sa fare con consumata maestria. Ogni volta mi dico che è
l’ultima e, senza capirlo, si recidiva.
Fuggitivo,
disertore, traditore, mercante, mercenario e allo stesso tempo creatura di
sabbia attraversato dall’unica fragilità che accomuna gli umani che si chiama
vita. I ricordi delle persone seppellite nel cimitero cristiano di Niamey. Ogni
volta lo stesso pensiero che si affaccia alla mente perché una parte di me
rimane in quella terra benedetta dalle lacrime di coloro che rimangono.
Migranti con un nome imprestato dal destino, bambini che partono ancora prima
di aver cominciato il viaggio e alcuni rifugiati che scoprono nella sabbia del
camposanto la penultima dimora che, senza saperlo, cercavano. Nelle valigie di
ritorno c’è tutto e non c’è nulla di quanto vissuto, amato, tradito e, in
questo caso, abbandonato. Si affacciano alla memoria le parole che si
avventurano nel deserto.
Quanto è
cambiato degli occhi e dello sguardo nel frattempo degli avvenimenti che
accadono, passano, permangono e sono pronti a riapparire alla prima occasione
propizia. Il passato non si accumula ma si seleziona e si organizza nella
memoria del vissuto che si scava nei volti che indicano il cammino da seguire.
“Se hace camino al andar“, camminando si scopre la via, scriveva Antonio
Machado nell’altro millennio di un altro continente. Ci sono infatti ferite
che non dovrebbero mai essere guarite perché solo aperte tengono desta
l’attenzione ai protagonisti del transito in questo Paese e cioè i poveri.
Inventano la storia che nessuno legge e raccontano storie che pochi ascoltano.
Eppure proprio e solo in loro scorre l’unica e decisiva trasformazione del
mondo.
Le centinaia
di migranti dalle avventure inverosimili, le comunità cristiane perseguitate,
le chiese bruciate, il rapimento e la lunga prigionia dell’amico Pierluigi
Maccalli, l’insicurezza per i contadini dei villaggi, il golpe dei militari e
la retorica di una sovranità nazionale ad uso e consumo del potere. Le decine
di dibattiti pubblici e l’amicizia con alcuni militanti della società civile
che non si è fatta espropriare. Il cammino imprevedibile con una comunità di
periferia e infine la nostalgia del tempo che, sostengono in molti, è il
secondo nome di Dio. Soprattutto però il privilegio di guardare la
realtà dal sud, dalla Grande Periferia del mondo. Sono luoghi di verità che non
permettono alle ferite di rimarginarsi col rischio di dimenticare il silenzioso
grido dei poveri.
Si parte dal
sud, senza sapere se il net funziona, quando ci sarà prossimo black out,
l’appuntamento mancato senza dire nulla, lo stupore della pioggia, gli asini re
della strada e i semafori a stagioni coi bambini da ogni parte si cammini e
l’eleganza dei poveri nei giorni di festa. Ogni volta mi dico che è l’ultima e
allora parto e poi cado nella trappola che la sabbia sapientemente nasconde.
Torno soprattutto col NO che l’amico e compagno di viaggio Moussa Tchangari,
attore storico della società civile di Niamey, ha ripetuto a chi voleva
accaparrarne l’adesione al sistema. Si trova in galera dal 3 dicembre dell’anno
scorso con la mani nude e libere di scrivere l’unica parola per la quale si può
dare anche la vita. Si tratta della dignità che nessuno potrà
rubargli e che, con riconoscenza, ho deposto nel mio bagaglio di ritorno.
Lascio il Niger e riabituo gli occhi ai ‘bianchi’.
In aeroporto confesso qual è il mio esplosivo - Mauro Armanino
Lo stacco dal ritorno in patria definitivo, dopo 14 anni di permanenza, si sente giusto all’ingresso dell’aeroporto internazionale Diori Hamani, primo presidente della Repubblica del Niger. Gli addetti al controllo doganale osservano con qualche commento i regali ricevuti prima di partire e ordinati nella valigia. Si impilano i quadretti con la forma e la bandiera del Paese con le croci di assai note di Agadez, inframezzate da magliette, stoffe locali, portamonete e cinture in cuoio per chiudere con monili per la famiglia e amici.
Passate le formalità
rimane un tempo di attesa prima dell’imbarco che si riempie di ricordi e
letture degli scritti di saluto e di addio di amici e conoscenti. C’è poi il
decollo dell’aereo e le luci della capitale Niamey, più
numerose del solito, si allontanano fino a scomparire come per ricordare che lo
stesso è accaduto nel Paese in questi ultimi anni. Luci e tenebre abitano nel
Sahel dove il malessere politico, economico e i gruppi armati sembrano essersi
dati l’appuntamento.
Nell’aereo con
destinazione Istanbul, il sedile alla mia sinistra è
occupato da un nigerino che confessa di dirigersi ad Amburgo in
Germania dove risiede da anni lavorando e formandosi. Alì conferma il malessere
di una parte crescente della popolazione nei confronti della giunta militare
che, naturalmente, non può adempiere a quanto promesso al momento del golpe ‘di
palazzo’ di due anni or sono. Si trova in disaccordo con le
restrizioni che il potere opera nei confronti di chi osa esprimere un pensiero
diverso da quello ufficiale e lamenta il tradimento di alcune figure importanti
della società civile. Sembra di trovarsi dinnanzi a un orizzonte che si
allontana mano a mano che lo si avvicina come un’utopia smarrita nel deserto.
Il nuovo aeroporto
di Istanbul è, come l’afferma la pubblicità, uno snodo mondiale e tutte le
destinazioni sembrano confluirvi. Dall’area di transito si raggiungono le porte
d’imbarco e nei lunghi passaggi si constata la vittoria del mercato globale.
Si è aggirati,
accerchiati, osservati e pedinati da luci, vetrine, inservienti eleganti e
seducenti, musiche, suoni e soprattutto mercanzie da acquistare in fretta. Lo
stesso spettacolo a cui si assiste negli aeroporti di una certa importanza. Ad
esempio quello di Roma Fiumicino, raggiunto il pomeriggio
del giorno seguente. Erano passati tre anni dall’ultima mia partenza e avevo
nel frattempo dimenticato che, lontano dal Sahel, c’erano ancora tante persone
del mio stesso colore della pelle.
Riabituare
gli occhi ai ‘bianchi’ che saturavano il paesaggio dopo essere
stato minoranza ‘etnica’ per tanti anni è stata un’esperienza di
riappropriazione del tutto inattesa e sconcertante. Nell’ennesima salone di
attesa e transito si risente la lingua che mi abita e che ha almeno in parte,
definito il racconto del mio mondo. Chiedere spiegazioni richiede una buona
dose di coraggio perché c’è il timore che la lingua conosciuta
non corrisponda più a quella parlata in quel momento.
Senza volerlo si
ascoltano commenti e scambi tra persone e membri della stessa famiglia. Un
bimbo, seduto accanto e, certamente preso da compassione, offre un biscotto.
Dice a suo padre seduto accanto che poco prima un signore voleva fare
altrettanto e che lui non ha accettato perché il biscotto poteva essere avvelenato. A
questo punto ho naturalmente rifiutato il biscotto adducendo la stessa scusa.
Poi, al momento di
raggiungere la porta d’imbarco un ultimo ostacolo. Una
signora slanciata in abito militare mi ha intimato di mostrare i palmi delle
mani. Vi ha apposto un sorta di cerottino bianco e così ha fatto sulle due
scarpe. Con mia sorpresa, dopo aver chiesto all’altro militare la ragione di
questa inedita verifica, mi è stato detto che si tratta di controlli
occasionali per verificare se la persona non porti sostanze
esplosive.
Ho ammesso alla
signora, prima di congedarmi che in realtà sono esplosivo ma
non nel senso del controllo effettuato. In effetti, a mia conoscenza, non c’è
nulla più esplosivo del Vangelo preso sul serio. La
discesa dell’aereo a Genova, destinazione finale, è stata utile per conoscersi
col vicino di viaggio, rivelatosi carabiniere in pensione e fermamente
contrario alle manifestazioni di appoggio al popolo palestinese. Nell’area
ritiro bagagli dell’aeroporto giganteggia a sinistra la foto del pesto e a
destra quella della nota focaccia di Genova.
Casarza
Ligure, agosto 2025
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