Tra numeri gonfiati, aspettative impossibili e una svalutazione della cultura ormai istituzionalizzata, il nostro mercato editoriale (il sesto al mondo) si sta scontrando con la realtà di un Paese che non legge più.
Quasi vent’anni fa, Paolo Mauri (che spesso e bene rifletteva sul mondo
editoriale), citò in un articolo il romanzo Una manciata di polvere di
Evelyn Waugh: “in una manciata di polvere vi mostrerò la paura”, è il verso
di Terra desolata di Eliot a cui Waugh si ispira, e un po’ di
paura potrebbe venire anche da questo articolo. Ma restiamo a Waugh, dove più
che paura c’è prigionia: perché il protagonista, Tony Last, decide di
effettuare un viaggio in Brasile per dimenticare il disastro del suo
matrimonio. Durante la spedizione nella giungla, però, si ammala, il suo
compagno muore e Tony, nel delirio della febbre, viene salvato da un colono,
Todd, che vive in un villaggio isolato. Todd, sia pure analfabeta, ama Dickens,
e prima invita e poi costringe Tony a leggergli i suoi romanzi. “L’uomo ha un
fucile e lui, che si è perso, non ha più nulla. Si salva con la lettura come
Sheherazade”, scriveva Mauri. E aggiungeva “Chi legge ha sempre una sorta di
fucile puntato contro: se smette qualcosa finisce per sempre. Non muore solo il
lettore, muore tutto un mondo. Impossibile? E già accaduto un’infinità di
volte”.
Questa volta, però, non è tanto il libro in sé, non sono i romanzi a essere
a rischio, quanto il mondo che li scrive, li pubblica, li fa circolare. E il
problema è che quel fucile è puntato da parecchi anni, e lo hanno puntato
almeno alcuni dei protagonisti della storia.
Facciamo un piccolo passo indietro. È dicembre del 2024, la Fiera della
piccola e media editoria, Più Libri Più Liberi, si apre e si chiude fra le
polemiche: una, quella che ha ottenuto più attenzione mediatica e sui social,
si abbatte sull’invito al filosofo Leonardo Caffo, prima inquisito e poi, a
fiera finita, condannato per maltrattamenti e lesioni nei confronti della ex
compagna. La seconda, che appare meno appetibile perché è riservata in apparenza
gli addetti ai lavori, riguarda la scarsa vendita di libri degli editori
presenti, che, a fronte di un comunicato conclusivo dai toni trionfalistici su
presenze e venduto, lo hanno clamorosamente contestato, come ha fatto Luca
Briasco, editor e traduttore: “Sul venduto i dati sono semplicemente falsi, e
non ho visto nessuno dell’organizzazione girare per gli stand chiedendo a noi
editori le informazioni necessarie a farsi un quadro veritiero della
situazione”.
Ora, se non si vende neanche in una fiera che da anni viene contestata da
molti librai romani (e diversi piccoli editori) perché sottrae loro gli incassi
più importanti dell’anno, quelli natalizi, forse bisogna riproporre qualche
domanda, peraltro niente affatto nuova, e che prescinde dalla buona o cattiva
organizzazione della fiera medesima.
È vero, i libri non si vendono. O meglio, si vendono meno. O meglio ancora,
moltissimi dei libri pubblicati ogni anno non vendono affatto. Secondo lo
studio presentato a Più Libri Più Liberi dall’Associazione Italiana Editori
(sulla base di rilevazioni NielsenIQ-GfK), tra gennaio e ottobre 2024 si sono
vendute un milione e 700mila copie in meno rispetto allo stesso periodo del
2023: a perdere sono soprattutto gli editori più piccoli, ovvero meno 4,9% per
chi vende annualmente fino a un milione di euro, meno 3,6% per chi ha vendite
comprese tra uno e cinque milioni di euro. I grandi marchi, più o meno, tirano
avanti. Dunque? Ancora un passo indietro. A giugno 2023 uno studio Nomisma
raggelava gli scrittori con queste cifre: il 30 per cento dei libri pubblicati
non vende una copia, o al massimo ne vende una. Fra i libri usciti nell’anno
immediatamente precedente nemmeno 35mila hanno raggiunto le 10 copie vendute.
Ancora indietro: ad aprile 2024, l’editore Riccardo Cavallero traumatizzò la
platea letteraria di Facebook pubblicando il venduto dei romanzi nella dozzina
finalista dello Strega (ovviamente prima che entrassero nella dozzina
medesima): spaziava dalle 400 copie alle oltre 50.000 di Donatella Di
Pietrantonio che ne sarebbe stata vincitrice.
“È vero, i libri non si vendono. O meglio, si vendono meno. O meglio
ancora, moltissimi dei libri pubblicati ogni anno non vendono affatto”.
Dunque, non si vende. Ma questo si sapeva. E non si vende soprattutto
perché si pubblicano troppi libri (probabilmente nel 2025 sfioreremo i
centomila titoli) e nessuno al mondo riuscirebbe a stare dietro a una
produzione simile, dove è evidente che la gran parte di quelli pubblicati in un
mese è sacrificabile perché non si riesce (e forse non si può) liberarsi dal
meccanismo delle rese. Meccanismo noto da almeno quindici anni: il ciclo vitale
di un libro, denunciarono nel 2011 i piccoli editori del Festival di
Belgioioso, è fra quindici e trenta giorni, a meno, certo, di successo inaspettato
o di particolari investimenti dell’editore o di vittoria di un premio
letterario prestigioso. Nei fatti, un tempo enormemente minore, ma enormemente
davvero, di quanto ci è voluto per pensarli, scriverli, editarli, scegliere una
copertina, stamparli, distribuirli.
Il presidente dell’Associazione Librai Italiani, che all’epoca era Paolo
Pisanti, disse con chiarezza che la causa era la troppa offerta, e poco curata:
“sessantamila novità l’anno (nel 2011, ndr) sono una cifra incredibile rispetto
a qualsiasi categoria merceologica, e senza soluzione di continuità. Un
pasticcere sa che ci sono i momenti più impegnativi, come il panettone a Natale
e la colomba a Pasqua. Noi non abbiamo pause. Non possiamo far altro che
sostituire le quasi-novità con altre novità. Perché per fare spazio ai nuovi
arrivi abbiamo bisogno di liberare i magazzini, e prima ancora di passare dalla
vetrina al banco e dal banco allo scaffale: ci sono tempi tecnici, e tempi
finanziari. I pagamenti all’editore avvengono mediamente a novanta giorni. Se voglio
fare un’operazione economicamente valida, devo vendere i libri prima di
pagarli, ma in tempi così brevi è difficilissimo. Dunque, diventa antieconomico
tenere un libro che stenta a decollare più di venti-trenta giorni”.
A costo di essere didascalici, funziona così: un editore incassa il 50% sul
prezzo di copertina una volta ricevute le prenotazioni di un libro (il restante
si divide fra libreria e la vera vincitrice di tutto, la distribuzione), ma
quando le copie non vendute vengono rese al distributore, quest’ultimo chiede
all’editore il rimborso, e dunque per ripianare il debito l’editore dovrà
stampare un nuovo libro per incassare di nuovo. Il risultato è che di quei
milioni di copie stampate nel 2024 ne torna indietro la metà. Che verrà con
ogni probabilità mandate al macero, perché chi ha magazzini abbastanza grandi
per conservarla?
Se tutto questo vi ricorda la grande bolla finanziaria esplosa nel 2008 con
le conseguenze che sappiamo, avete ragione. Se vi interrogate sul perché gli
editori continuano a reiterare il meccanismo, ho paura che la risposta sia:
perché non possono più fare diversamente. Sempre nel 2011, Marco Zapparoli,
direttore di Marcos y Marcos, ricordava: “Gli editori pubblicano sempre più
titoli perché pensano erroneamente di poter compensare le rese che riceveranno
e di far quadrare il budget: in poche parole, se in un anno non è stata
raggiunta la fatturazione prefissata, in quello successivo si ‘picchiano
fuori’, per usare il termine aggressivo oggi di moda, più titoli a una tiratura
alta. I librai stanno al gioco per un po’, ma infine si stancano e rendono. Un
abbaglio molto simile a quello degli swap finanziari: che alla fine si sono
rivelati carta straccia senza alcun valore”. E Sandro Ferri di E/O aggiungeva:
“Noi editori, tutti, facciamo titoli che perdono soldi nell’ottanta per cento
dei casi, e lo sappiamo in partenza. Ma intanto li facciamo uscire, perché
librai e distributori li pagano: quando ci sarà la resa, gli ridarai i soldi,
ma intanto hai tra le mani un flusso di denaro. Perché lo facciamo? Per avere
visibilità, in parte. I grossi editori prendono sempre più spazio in libreria:
e se usciamo con trenta titoli abbiamo più possibilità di farci vedere. E
perché ci facciamo ingannare da un’illusione”.
Questo non è che il primo punto: il secondo è il più duro, perché nessuno,
fra coloro che scrivono, è disposto a credere che nel novero dei libri che
torneranno a morire dopo quindici giorni ci sarà il suo. E qui entrano in ballo
i social, che distolgono la percezione, e ci fanno credere che le reazioni dei
propri follower corrispondano alla realtà. Non è vero. Non è con la conta dei
like e dei commenti che si vendono i libri: quelli che vendono arrivano nel
momento tanto giusto quanto imprevedibile e non calcolabile, quelli che
vendicchiano seguono un filone di successo che prima o poi si esaurirà. Poi ci
sono quelli che vendono molto ma appartengono a un altro campionato: quello del
pop, che è comunque altra faccenda dalla pretesa letterarietà (e un giorno
qualcuno mi spiegherà come si assegna la patente di letterarietà). Inoltre,
anche il pop fallisce: dovrebbe ancora bruciare il bagno di sangue per Amiœ.
Il manuale del cörsivœ di Elisa Esposito.
Altra reazione, prevedibile, quella secondo la quale e il proprio libro non
vende non perché esiste la casta-il cerchio-il cerchietto e quello che
noiosamente viene ripetuto non da ora ma da decenni e anzi di più, perché una
certa tendenza al lamento fa parte della storia della letteratura. Ma anche
qui, si è molto poco disposti a credere che il fallimento, che poi tale non è,
si possa attribuire alla serie di fattori già elencati. Poi ci sarebbe anche
l’ipotesi che il libro sia brutto: guarda caso, ci sono autrici che si
autoflagellano (sì, quasi sempre autrici) e autori che invece no (sì, quasi
sempre autori).
In questa schiera di illusioni e delusioni entrano gli e le esordienti. Che
aumentano anno dopo anno. Gli esordienti sono molto corteggiati e molto
raccontati nelle cronache, meno nelle critiche, e a volte invisi ai colleghi più
anziani. La diffidenza preventiva, in effetti, aleggia spesso sugli esordienti:
come se sui loro libri gravasse la scarsa voglia di innovare. In altre parole,
è vero che le case editrici cercano voci nuove: e ci mancherebbe altro, perché
quello è il loro mestiere. È vero che il modello del libro di successo ha
spesso il suo peso su chi esordisce. Ed è vero anche che, in molti casi, quelle
voci nuove vengono rapidamente lasciate da parte se non soddisfano le
aspettative di vendita: con poco danno economico, suppongo, perché gli anticipi
per un esordio non sono altissimi. Ma è altrettanto vero che resta difficile
che ci si accorga del valore di almeno alcune di quelle voci. Soprattutto
perché è difficile vederle. C’è un dato interessante che è stato fornito qualche
tempo fa: le prime edizioni dei libri sono aumentate del 13,5 per cento, le
seconde (e successive) diminuiscono del 18,4. Il che fa dedurre che la vita dei
libri si abbrevia ulteriormente. Appunto.
A questo si aggiunga il peso che grava su tutti, esordienti e no, nella
corsa al libro di successo. Si dirà che tutti desiderano il best-seller, e non
da oggi. Ma non come negli ultimi tempi, che vedono moltiplicarsi gli sforzi
per concepire il romanzo determinante. Sforzi dolorosi, continuativi, fatti non
solo di scrittura ma di relazioni e strategie che, si ritiene, faranno di quel
testo un trionfo. Dovrebbe essere noto da tempo che non funziona così. I
best-seller sono quasi sempre stati casuali: semplicemente, un libro che
arrivava nel momento giusto e su, cui, certo, si concentra l’intuizione e poi
lo sforzo promozionale di un editore.
Anche perché gli italiani leggono poco, e questo è il terzo punto. Dice
Istat che nel 2023 la spesa media mensile per consumi delle famiglie è stata di
2.738 euro. Dove devono entrare le spese per la casa, per il cibo, per i
vestiti e le scarpe, per i medicinali, per il riscaldamento, eccetera. Ai libri
non scolastici si riserva il 3,71 %.
Ora. In tutti i discorsi sulla mancata lettura e sulla crisi dell’editoria
che si intraprendono in questi giorni, come curiosamente avviene ogni anno a
gennaio, manca sempre il discorso sugli stipendi degli italiani. Che sono
fermi.
Perché, in genere, le risposte che vengono date sul motivo della mancata
lettura sono cinque:
La prima riguarda il fattore tempo. Abbiamo meno tempo. Siamo costretti a
cercare metodi supplementari (o primari) per tirare avanti. Siamo stanchi.
La seconda riguarda i soldi: i libri costano troppo, non possiamo
comprarli. Rileggiamo i vecchi libri oppure andiamo in biblioteca.
La terza riguarda Internet: io leggo lo stesso, vien detto, ma leggo
soprattutto post e status e articoli on line. Non è la stessa cosa rispetto
alla lettura di un libro, è vero, ma è pur sempre lettura.
La quarta, fra le più popolari, ci dice che dal momento che l’editoria
sforna schifezze, non si è più invogliati a leggere (anche le non schifezze).
La quinta dice che la lettura viene sminuita, così come la cultura tutta,
in quanto non utile. E il dato sui dirigenti e professionisti non lettori
(tanti) andrebbe a confermare il timore.
Parliamo subito di soldi. Ogni volta che si fa questo discorso salta fuori
qualcuno che col ditino alzato dice: “E allora lo spritz? E allora l’iPhone? E
allora le macchinone?”. Non funziona esattamente così. Mi ha scritto un amico,
Simone Romano, che mi ha raccontato questa storia. “Siamo”, dice, “un gruppo di
amici. Disoccupati o part time, stipendi sotto i mille euro mensili. Ma siamo
lettori forti, e spesso non vogliamo aspettare che le biblioteche acquisiscano
quel titolo che stavamo aspettando, e ogni mese ce ne sono diversi. Ma i libri
costano fra i quindici e i venti euro, e la spesa diventa impossibile. Dunque,
li compriamo insieme: ognuno versa una piccola quota, in modo che, dividendo il
costo totale fra cinque persone, l’acquisto diventa accessibile. Come li
leggiamo? Tirando a sorte: estraiamo i biglietti con i nostri nomi da un
cestino, e il primo estratto inizia la lettura, che poi passa agli altri. Alla
fine, qualcuno tiene fisicamente in custodia il libro: c’è un ex libris con i
nostri nomi, su Google Drive c’è un file con i titoli acquistati e il nome di
chi lo tiene in consegna. Ognuno ha dedicato una sezione della libreria al
booksharing, dove si tengono i libri in comune, che possono essere richiesti
per rilettura in qualsiasi momento. È un paradosso. Anche in questo caso legato
alle tante uscite e soprattutto alla scarsità di soldi. Mi rendo conto che il
mercato editoriale non viene aiutato da questo sistema, perché un solo testo
viene letto da cinque persone. Ma come si fa? I libri aumentano, in numero e
costo, e gli stipendi non crescono, e il lavoro nemmeno. Quindi il problema non
è l’editoria, o non solo: è il lavoro”.
“Non ho le soluzioni, evidentemente: se non il suggerimento di continuare a
scrivere se si desidera davvero scrivere, senza pensare però che la scrittura
sia la scorciatoia per la fama, perché non è così”.
Aggiungo qualche altra considerazione. È verissimo che da anni la cultura
viene sminuita: da chi la vede come ostile o inutile, e spesso anche da chi la
fa, e continua a dipingerla come una faccenda per pochi. Di contro, c’è la
mancanza di fiducia nei confronti di chi parla di libri. Un po’ giustificata,
ma solo un po’. Così come è giustificata, e più di un po’, la diffidenza nelle
classifiche di Amazon e nelle recensioni on line, perché in molti casi le prime
sono gonfiate e le seconde interessate. Però di qualcuno occorre pur fidarsi,
fosse anche un lettore o lettrice forte di riferimento: perché a chi sostiene
che si pubblicano solo schifezze rispondo fieramente che non è vero, che
piaccia o meno. Dunque? Dunque c’è un problema di fiducia (enorme), un problema
di editoria, un problema di tempo e un problema culturale. E c’è un problema di
soldi. Che è faccenda che dovrebbe riguardarci tutti, che si faccia un lavoro
culturale o no. Dunque? Dunque stiamo arrivando, alla resa dei conti di una
politica che dura da tanto tempo, e che è stata da molti denunciata quanto
ignorata, perché probabilmente non si può fare diversamente, una volta infilata
la strada della bolla.
Non ho le soluzioni, evidentemente: se non il suggerimento di continuare a
scrivere se si desidera davvero scrivere, senza pensare però che la scrittura
sia la scorciatoia per la fama, perché non è così, e questa idea del pubblicare
come competizione sarà anche antica, ma ha raggiunto lo stesso livello tossico
di ogni altra attività. Vincere è quel che conta, ma non è vero. Forse
bisognerebbe tirare il fiato, ricordare che la vita di un libro è
imprevedibile, come molti sanno, e scrivere con l’anima in pace. Bisognerebbe
anche che la critica avesse più spazi per esprimersi e per fare il suo lavoro,
che non è quello di far vendere, ma quello di analizzare. Bisognerebbe, infine,
placare le aspettative generali. Perché se si continua così, gli scrittori a
inseguire il libro che vende tantissimo, gli editori a dover vendere tantissimo
quel libro, i librai a dover basare le prenotazioni su quel che si è venduto,
mentre noi tutti, lettori e scrittori, continuiamo ad annaspare tra centomila
titoli l’anno, si implode, semplicemente. E anche in tempi brevi.
L’ultima questione: non si riesce a fare un discorso collettivo, ma solo
individuale, e i discorsi individuali finiscono sempre per essere ciechi, e non
riuscire a vedere quello che si ha intorno. Il lavoro culturale non riguarda il
destino di una sola persona, ma di tutti coloro che provano a sopravvivere in
questo ambito.
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