Ci risiamo. Di fronte a un drammatico fatto di cronaca (la morte, a Milano, di una donna investita da un’auto guidata da un bambino rom) non c’è solo Salvini che invoca ruspe e carcere. Anche la sinistra moderata e moderna si accoda. Comincia l’immancabile Veltroni che, in un articolo sul Corriere della sera del 13 agosto, dopo essersi lanciato in un estemporaneo elogio del sistema maggioritario, sentenzia che «è sbagliato ignorare la sicurezza». L’ex sindaco di Roma ed ex segretario del Pd non ha dubbi: «Mai la percezione di insicurezza su tutti i fronti [è] stata così alta […]. La vita degli italiani è attraversata da una crescente sensazione di ansia e di disagio per l’incolumità delle persone e dei loro beni». La ragione è presto detta: «i furti negli appartamenti e nei negozi, le aggressioni a donne, le truffe agli anziani, la violenza efferata di tanti fatti di cronaca, il ritorno delle armi da fuoco nelle grandi città, i delitti compiuti da giovanissimi». La conclusione è perentoria: «Quello della sicurezza è un tema complesso, che – la sinistra dovrebbe finalmente capirlo – riguarda gli strati più deboli della popolazione: gli anziani, chi vive nelle periferie, chi prende i mezzi pubblici. […] Per la sinistra la parola sicurezza dovrebbe smettere di essere un tabù». A Veltroni – superfluo dirlo – si accodano subito vecchi e nuovi notabili del Pd.
Se ne
potrebbe discutere, se non ci fosse un conto (anzi il conto
fondamentale) che non torna. Cosa deve riscoprire la
sinistra, almeno quella a cui fa riferimento Veltroni, se la sicurezza e
le politiche sicuritarie sono state – e restano – la sua stella
polare da almeno 30 anni, da quando, in particolare, Luciano
Violante scrisse per MicroMega l’articolo-manifesto “Apologia
dell’ordine pubblico” e gli antenati del Pd sposarono il verbo di Tony Blair
(secondo cui «le riforme [della sinistra] comprenderanno la pubblicizzazione di
precedenti condanne, il ricorso più esteso al valore probatorio del sentito
dire, il cambiamento alla legge sui recidivi, l’introduzione di nuove procedure
di detenzione»), dopo avere flirtato non poco addirittura con la “tolleranza
zero” di Rudolph Giuliani
e della destra americana? Cose deve riscoprire, sul punto, la sinistra, se, a
partire dalle elezioni politiche del 2001, ha regolarmente rincorso la destra
(in quella tornata elettorale con enormi manifesti contenenti slogan,
perfettamente sovrapponibili a quelli di Berlusconi, come “Città più sicure” e
“La sicurezza è un diritto di tutti”)? Quali virate in chiave sicuritaria deve
ancora effettuare dopo aver dato i natali alla detenzione amministrativa (con
la legge Turco-Napolitano), dopo avere varato le ordinanze sindacali contro
senza tetto e mariginali (con assessori “simbolo”, come quel Graziano Cioni,
impegnato, a Firenze, in una battaglia campale contro i lavavetri), dopo avere
prodotto “pacchetti sicurezza” contenenti nuove fattispecie di reati e aumenti
di pena, zone rosse e militarizzazione del territorio e dopo avere regalato al
Paese un ministro dell’Interno come Marco Minniti? Quali inasprimenti di pena
deve sollecitare se, negli ultimi 35 anni, le presenze in carcere sono
raddoppiate (e non certo per la presenza di “colletti bianchi”…)? Se
questa è stata, nel nuovo millennio, la politica della sinistra a
trazione Pd – e non si vede come lo si possa negare – è a dir poco curioso
chiederle di riscoprire la sicurezza.
Il punto è,
dunque, un altro e si sostanzia in una domanda ineludibile: perché,
nonostante la pratica ininterrotta di politiche sicuritarie e
repressive da parte di tutti gli ultimi governi (di
destra e di sinistra), l’insicurezza – come scrive Veltroni – è incombente come
non mai? Perché la continua introduzione di nuove ipotesi di reato,
l’incremento abnorme delle pene, la dilatazione del carcere, le zone rosse, la
militarizzazione del territorio, le mille ordinanze di prefetti e sindaci e via
elencando, lungi dall’attenuarle, hanno accresciuto, nella società, paura e
insicurezza? Se la sinistra si facesse questa domanda, le scelte
sarebbero opposte a quelle sollecitate da Veltroni… Conviene
andare con ordine.
Primo. La paura collettiva
è in gran parte un sentimento indotto, non giustificato dalla situazione reale. I
delitti, soprattutto quelli più efferati, sono da tempo in diminuzione nel
nostro Paese, seguendo un trend regolare negli anni legato ai
grandi cambiamenti sociali della fine del Novecento. In alcuni settori c’è
addirittura un crollo: basti pensare agli omicidi volontari, passato dai 1.938
del 1991 ai 314 del 2024 (per di più con una incidenza rilevante di fatti
avvenuti tra le mura domestiche: particolarmente odiosi ma, di per sé, non
direttamente collegati con l’insicurezza collettiva). Ancora nel dossier di
Ferragosto del ministero dell’Interno di pochi giorni fa si precisa che nei
primi sette mesi del 2025 ci sono state meno violenze sessuali, meno rapine,
meno furti e meno denunce. Le statistiche non bastano a rassicurare chi
ha paura (a cui non serve dire che “non deve averla”), ma aiutano a
comprendere che le ragioni dell’insicurezza non stanno in un inesistente
aumento dei reati ma altrove, non ultimo in una rappresentazione
mediatica scandalistica e falsata (evidenziata da una ricerca dell’Osservatorio
di Pavia, che dimostra come il principale TG nazionale italiano dedichi oltre
il 58% dello spazio a fatti legati alla criminalità e a notizie che hanno a che
fare con tematiche “ansiogene” e soltanto il 4,4% a informazione su crisi,
impoverimento e perdita di lavoro, mentre il dato è, rispettivamente, del 5% e
del 58% nel principale telegiornale pubblico del Regno Unito, del 16% e del 33%
in quello tedesco, del 13% e del 19% in quello francese e del 51% e del 19% in
quello spagnolo.
Secondo. Le ragioni
della paura sono molte e crescenti: la crisi economica, la povertà
crescente, l’incertezza sul futuro proprio e dei propri figli, la guerra, il
clima che si fa irrespirabile (come tocchiamo con mano in questi giorni), le
malattie, l’insicurezza del e sul lavoro… Ma, soprattutto quando
non le si sanno/vogliono affrontare, la criminalità e l’immigrazione
diventano il capro espiatorio ideale: in particolare se c’è chi soffia sul
fuoco. A fronte di ciò è bene ricordare che, nella storia, il circuito
paura/repressione ha spesso creato i mostri. È da quel continuum che
sono nati carcere, manicomio, inferiorizzazione dei diversi, persecuzioni e
orrori. La paura e l’insicurezza sono sentimenti e concetti ambigui che
vanno “maneggiati con cura”. Come tutti i dati di realtà vanno affrontate,
evitando sottovalutazioni e rimozioni che – ingiuste in sé – hanno effetti
distorcenti sulla convivenza sociale. Ma ancor più grave è cavalcarle amplificandole
e teorizzare l’inimicizia con alcune categorie “pericolose”. L’Europa liberale,
avvelenata dalle paure, è stata il laboratorio e l’incubatrice delle violenze
del Novecento.
Terzo. Sembra paradossale ma, quando
i livelli di repressione e di controllo superano gli standard ordinari, la
paura e l’insicurezza, anziché diminuire, aumentano. È quanto emerge da
numerosi studi condotti negli Stati Uniti sulle politiche urbane che hanno
introdotto, in alcune grandi città, quartieri blindati e separati per le classi
medio alte. Questa scelta non solo ha determinato il permanere, negli abitanti
dei quartieri residenziali, di una paura diffusa di aggressioni esterne ma ne
ha prodotto la crescita con aumento della blindatura degli spazi di vita. Il
rilievo trova numerose ed eterogenee conferme. Sempre negli Stati Uniti i
vissuti di insicurezza aumentano parallelamente all’aumento dei tassi di
carcerazione, cresciuti di cinque volte negli ultimi 50 anni (con attuale
sottoposizione a qualche forma di controllo da parte delle agenzie correzionali
del 3 per cento della popolazione), e il boom della vendita di armi per difesa
personale produce effetti boomerang, rendendo il cittadino armato sempre
più insicuro.
Quarto. La violenza, anche
quella legale, genera violenza. Soprattutto se sproporzionata.
Lo dimostrano, tra l’altro, le sempre più frequenti rivolte di città e banlieues,
in America come in Europa, di fronte a episodi (anche limitati) di violenze
poliziesche. È un circolo vizioso esplosivo: le forze di polizia (le
istituzioni) considerano criminali tout court i marginali, i
migranti, i ribelli che, a loro volta, individuano nella polizia il nemico in
una spirale senza uscita. Non per caso, ché i comportamenti delle persone e dei
gruppi non nascono in vitro ma sono frutto di relazioni,
di azioni e reazioni che si influenzano e determinano a vicenda. E – come è
stato scritto con riferimento al diritto ma con una valenza estesa alla
politica e a ogni attività di governo – «un diritto penale che vede nemici ogni
dove rischia di accreditare l’immagine di una società percorsa da una
generalizzata guerra civile, contribuendo così a fomentare una conflittualità,
anzi uno spirito sociale d’inimicizia, che è del tutto contrario alla sua vera
missione di stabilizzazione e pacificazione della società».
L’insicurezza
e la paura collettiva sono, dunque, in buona parte conseguenza proprio delle
politiche sicuritarie, approntate per contenerle. Incrementare queste politiche, come
fa la destra e come propone Veltroni, non può che peggiorare la situazione. Né
si dica – come fa l’ex sindaco di Roma – che bisogna incrementare, insieme alla
repressione, anche il welfare, ché la storia insegna che si
tratta di politiche alternative (per una ragione ideale oltre che per mancanza
di risorse). Ma se è così – ed è davvero difficile contestarlo – la ricetta di
Veltroni (e dei suoi compagni di strada, dentro e fuori il Pd) è non solo
sbagliata ma anche controproducente.
Ciò
introduce l’ultima, decisiva, domanda: c’è un’altra via per
affrontare insicurezza e paura? La risposta è: sì, esiste e ci
sono importanti esperienze che lo dimostrano, come più volte
documentato anche su queste pagine (si veda, per esempio, https://volerelaluna.it/controcanto/2023/09/14/per-contenere-il-disagio-educare-la-citta-unesperienza/). Ma
la definizione di quest’altra via non appartiene alla criminologia o
al diritto bensì alla politica. Lo snodo fondamentale è quello dell’inclusione.
Le attuali politiche criminali e penali sono lo specchio di una società
ingiusta, disuguale e, per questo, insicura. Anziché avallarla, occorre
ribaltarla immaginando e realizzando un diverso modello di società. Nel
nostro Paese, almeno a sinistra – come sottolineava Massimo Pavarini –
«per lungo tempo i sentimenti collettivi di insicurezza hanno avuto
modo di esprimersi come domanda politica di cambiamento e di più intensa
partecipazione democratica». Occorre riprendere quella strada e abbandonare
il mito sicuritario comune a destra e sinistra (produttivo esso stesso di ansia
e di paura). Il senso di insicurezza non è una variabile indipendente, ma il
frutto di politiche economiche, sociali, culturali. Il suo ruolo e la sua
stessa esistenza sono destinati a cambiare con il mutare di queste politiche. La
società inclusiva non è il paradiso terrestre ma è cosa
diversa dalla società della paura. Sta nella capacità di
investire su questi temi lo specifico di una politica di
sinistra (intesa come arte di organizzazione della società e della
convivenza).
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