martedì 19 agosto 2025

Sicurezza: gli ultimi danni di Veltroni - Livio Pepino

Ci risiamo. Di fronte a un drammatico fatto di cronaca (la morte, a Milano, di una donna investita da un’auto guidata da un bambino rom) non c’è solo Salvini che invoca ruspe e carcere. Anche la sinistra moderata e moderna si accoda. Comincia l’immancabile Veltroni che, in un articolo sul Corriere della sera del 13 agosto, dopo essersi lanciato in un estemporaneo elogio del sistema maggioritario, sentenzia che «è sbagliato ignorare la sicurezza». L’ex sindaco di Roma ed ex segretario del Pd non ha dubbi: «Mai la percezione di insicurezza su tutti i fronti [è] stata così alta […]. La vita degli italiani è attraversata da una crescente sensazione di ansia e di disagio per l’incolumità delle persone e dei loro beni». La ragione è presto detta: «i furti negli appartamenti e nei negozi, le aggressioni a donne, le truffe agli anziani, la violenza efferata di tanti fatti di cronaca, il ritorno delle armi da fuoco nelle grandi città, i delitti compiuti da giovanissimi». La conclusione è perentoria: «Quello della sicurezza è un tema complesso, che – la sinistra dovrebbe finalmente capirlo – riguarda gli strati più deboli della popolazione: gli anziani, chi vive nelle periferie, chi prende i mezzi pubblici. […] Per la sinistra la parola sicurezza dovrebbe smettere di essere un tabù». A Veltroni – superfluo dirlo – si accodano subito vecchi e nuovi notabili del Pd.

Se ne potrebbe discutere, se non ci fosse un conto (anzi il conto fondamentale) che non torna. Cosa deve riscoprire la sinistra, almeno quella a cui fa riferimento Veltroni, se la sicurezza e le politiche sicuritarie sono state – e restano – la sua stella polare da almeno 30 anni, da quando, in particolare, Luciano Violante scrisse per MicroMega l’articolo-manifesto “Apologia dell’ordine pubblico” e gli antenati del Pd sposarono il verbo di Tony Blair (secondo cui «le riforme [della sinistra] comprenderanno la pubblicizzazione di precedenti condanne, il ricorso più esteso al valore probatorio del sentito dire, il cambiamento alla legge sui recidivi, l’introduzione di nuove procedure di detenzione»), dopo avere flirtato non poco addirittura con la “tolleranza zero” di Rudolph Giuliani e della destra americana? Cose deve riscoprire, sul punto, la sinistra, se, a partire dalle elezioni politiche del 2001, ha regolarmente rincorso la destra (in quella tornata elettorale con enormi manifesti contenenti slogan, perfettamente sovrapponibili a quelli di Berlusconi, come “Città più sicure” e “La sicurezza è un diritto di tutti”)? Quali virate in chiave sicuritaria deve ancora effettuare dopo aver dato i natali alla detenzione amministrativa (con la legge Turco-Napolitano), dopo avere varato le ordinanze sindacali contro senza tetto e mariginali (con assessori “simbolo”, come quel Graziano Cioni, impegnato, a Firenze, in una battaglia campale contro i lavavetri), dopo avere prodotto “pacchetti sicurezza” contenenti nuove fattispecie di reati e aumenti di pena, zone rosse e militarizzazione del territorio e dopo avere regalato al Paese un ministro dell’Interno come Marco Minniti? Quali inasprimenti di pena deve sollecitare se, negli ultimi 35 anni, le presenze in carcere sono raddoppiate (e non certo per la presenza di “colletti bianchi”…)? Se questa è stata, nel nuovo millennio, la politica della sinistra a trazione Pd – e non si vede come lo si possa negare – è a dir poco curioso chiederle di riscoprire la sicurezza.

Il punto è, dunque, un altro e si sostanzia in una domanda ineludibile: perché, nonostante la pratica ininterrotta di politiche sicuritarie e repressive da parte di tutti gli ultimi governi (di destra e di sinistra), l’insicurezza – come scrive Veltroni – è incombente come non mai? Perché la continua introduzione di nuove ipotesi di reato, l’incremento abnorme delle pene, la dilatazione del carcere, le zone rosse, la militarizzazione del territorio, le mille ordinanze di prefetti e sindaci e via elencando, lungi dall’attenuarle, hanno accresciuto, nella società, paura e insicurezza? Se la sinistra si facesse questa domanda, le scelte sarebbero opposte a quelle sollecitate da Veltroni… Conviene andare con ordine.

PrimoLa paura collettiva è in gran parte un sentimento indotto, non giustificato dalla situazione reale. I delitti, soprattutto quelli più efferati, sono da tempo in diminuzione nel nostro Paese, seguendo un trend regolare negli anni legato ai grandi cambiamenti sociali della fine del Novecento. In alcuni settori c’è addirittura un crollo: basti pensare agli omicidi volontari, passato dai 1.938 del 1991 ai 314 del 2024 (per di più con una incidenza rilevante di fatti avvenuti tra le mura domestiche: particolarmente odiosi ma, di per sé, non direttamente collegati con l’insicurezza collettiva). Ancora nel dossier di Ferragosto del ministero dell’Interno di pochi giorni fa si precisa che nei primi sette mesi del 2025 ci sono state meno violenze sessuali, meno rapine, meno furti e meno denunce. Le statistiche non bastano a rassicurare chi ha paura (a cui non serve dire che “non deve averla”), ma aiutano a comprendere che le ragioni dell’insicurezza non stanno in un inesistente aumento dei reati ma altrove, non ultimo in una rappresentazione mediatica scandalistica e falsata (evidenziata da una ricerca dell’Osservatorio di Pavia, che dimostra come il principale TG nazionale italiano dedichi oltre il 58% dello spazio a fatti legati alla criminalità e a notizie che hanno a che fare con tematiche “ansiogene” e soltanto il 4,4% a informazione su crisi, impoverimento e perdita di lavoro, mentre il dato è, rispettivamente, del 5% e del 58% nel principale telegiornale pubblico del Regno Unito, del 16% e del 33% in quello tedesco, del 13% e del 19% in quello francese e del 51% e del 19% in quello spagnolo.

SecondoLe ragioni della paura sono molte e crescenti: la crisi economica, la povertà crescente, l’incertezza sul futuro proprio e dei propri figli, la guerra, il clima che si fa irrespirabile (come tocchiamo con mano in questi giorni), le malattie, l’insicurezza del e sul lavoro… Ma, soprattutto quando non le si sanno/vogliono affrontare, la criminalità e l’immigrazione diventano il capro espiatorio ideale: in particolare se c’è chi soffia sul fuoco. A fronte di ciò è bene ricordare che, nella storia, il circuito paura/repressione ha spesso creato i mostri. È da quel continuum che sono nati carcere, manicomio, inferiorizzazione dei diversi, persecuzioni e orrori. La paura e l’insicurezza sono sentimenti e concetti ambigui che vanno “maneggiati con cura”. Come tutti i dati di realtà vanno affrontate, evitando sottovalutazioni e rimozioni che – ingiuste in sé – hanno effetti distorcenti sulla convivenza sociale. Ma ancor più grave è cavalcarle amplificandole e teorizzare l’inimicizia con alcune categorie “pericolose”. L’Europa liberale, avvelenata dalle paure, è stata il laboratorio e l’incubatrice delle violenze del Novecento.

Terzo. Sembra paradossale ma, quando i livelli di repressione e di controllo superano gli standard ordinari, la paura e l’insicurezza, anziché diminuire, aumentano. È quanto emerge da numerosi studi condotti negli Stati Uniti sulle politiche urbane che hanno introdotto, in alcune grandi città, quartieri blindati e separati per le classi medio alte. Questa scelta non solo ha determinato il permanere, negli abitanti dei quartieri residenziali, di una paura diffusa di aggressioni esterne ma ne ha prodotto la crescita con aumento della blindatura degli spazi di vita. Il rilievo trova numerose ed eterogenee conferme. Sempre negli Stati Uniti i vissuti di insicurezza aumentano parallelamente all’aumento dei tassi di carcerazione, cresciuti di cinque volte negli ultimi 50 anni (con attuale sottoposizione a qualche forma di controllo da parte delle agenzie correzionali del 3 per cento della popolazione), e il boom della vendita di armi per difesa personale produce effetti boomerang, rendendo il cittadino armato sempre più insicuro.

Quarto. La violenza, anche quella legale, genera violenza. Soprattutto se sproporzionata. Lo dimostrano, tra l’altro, le sempre più frequenti rivolte di città e banlieues, in America come in Europa, di fronte a episodi (anche limitati) di violenze poliziesche. È un circolo vizioso esplosivo: le forze di polizia (le istituzioni) considerano criminali tout court i marginali, i migranti, i ribelli che, a loro volta, individuano nella polizia il nemico in una spirale senza uscita. Non per caso, ché i comportamenti delle persone e dei gruppi non nascono in vitro ma sono frutto di relazioni, di azioni e reazioni che si influenzano e determinano a vicenda. E – come è stato scritto con riferimento al diritto ma con una valenza estesa alla politica e a ogni attività di governo – «un diritto penale che vede nemici ogni dove rischia di accreditare l’immagine di una società percorsa da una generalizzata guerra civile, contribuendo così a fomentare una conflittualità, anzi uno spirito sociale d’inimicizia, che è del tutto contrario alla sua vera missione di stabilizzazione e pacificazione della società».

L’insicurezza e la paura collettiva sono, dunque, in buona parte conseguenza proprio delle politiche sicuritarie, approntate per contenerle. Incrementare queste politiche, come fa la destra e come propone Veltroni, non può che peggiorare la situazione. Né si dica – come fa l’ex sindaco di Roma – che bisogna incrementare, insieme alla repressione, anche il welfare, ché la storia insegna che si tratta di politiche alternative (per una ragione ideale oltre che per mancanza di risorse). Ma se è così – ed è davvero difficile contestarlo – la ricetta di Veltroni (e dei suoi compagni di strada, dentro e fuori il Pd) è non solo sbagliata ma anche controproducente.

Ciò introduce l’ultima, decisiva, domanda: c’è un’altra via per affrontare insicurezza e paura? La risposta è: sì, esiste e ci sono importanti esperienze che lo dimostrano, come più volte documentato anche su queste pagine (si veda, per esempio, https://volerelaluna.it/controcanto/2023/09/14/per-contenere-il-disagio-educare-la-citta-unesperienza/). Ma la definizione di quest’altra via non appartiene alla criminologia o al diritto bensì alla politica. Lo snodo fondamentale è quello dell’inclusione. Le attuali politiche criminali e penali sono lo specchio di una società ingiusta, disuguale e, per questo, insicura. Anziché avallarla, occorre ribaltarla immaginando e realizzando un diverso modello di società. Nel nostro Paese, almeno a sinistra – come sottolineava Massimo Pavarini – «per lungo tempo i sentimenti collettivi di insicurezza hanno avuto modo di esprimersi come domanda politica di cambiamento e di più intensa partecipazione democratica». Occorre riprendere quella strada e abbandonare il mito sicuritario comune a destra e sinistra (produttivo esso stesso di ansia e di paura). Il senso di insicurezza non è una variabile indipendente, ma il frutto di politiche economiche, sociali, culturali. Il suo ruolo e la sua stessa esistenza sono destinati a cambiare con il mutare di queste politiche. La società inclusiva non è il paradiso terrestre ma è cosa diversa dalla società della paura. Sta nella capacità di investire su questi temi lo specifico di una politica di sinistra (intesa come arte di organizzazione della società e della convivenza).

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