La nostra bomba è il fiore, ossia la espressione naturale della nostra
società contemporanea, così come i dialoghi di Platone lo sono della città
greca; il Colosseo, dei Romani imperiali; le Madonne di Raffaello,
dell’Umanesimo italiano; le gondole, della nobiltà veneziana; la tarantella, di
certe popolazioni rustiche meridionali; e i campi di sterminio, della cultura
piccolo-borghese burocratica già infetta da una rabbia di suicidio atomico. Non
occorre, ovviamente, spiegare, che per cultura piccolo-borghese s’intende
la cultura delle attuali classi predominanti, rappresentate dalla borghesia (o
spirito borghese) in tutti i suoi gradi. Concludendo, in poche, e oramai, del
resto, abusate parole: si direbbe che l’umanità contemporanea prova la occulta
tentazione di disintegrarsi.
Si insinuerà che il primo germe di questa tentazione è spuntato fatalmente
nel nascere della specie umana, e si è sviluppato con lei; e perciò quanto oggi
avviene non sarebbe che la crisi necessaria del suo sviluppo. Ma questo non
farebbe che riproporre l’ipotesi. E nota, e ormai volgarizzata, la presenza
simultanea nella psicologia umana dell’istinto di vita (Eros) e dell’istinto di
morte (Thànatos). Perfino, a proposito di quest’ultimo, si potrebbe in teoria,
cioè senza arbitrio logico, leggere le Sacre Scritture di tutte le religioni
nell’interpretazione presunta che tutte, e non solo quella indiana, insegnino
l’annientamento finale come l’unico punto di beatitudine possibile. E difatti
alcuni psicologi parlano di un istinto del Nirvana nell’uomo.
Però, mentre il Nirvana promesso dalle religioni si guadagna per la via della
contemplazione, della rinuncia a se stessi, della pietà universale, e insomma
attraverso l’unificazione della coscienza, al suo maligno surrogato
piccolo-borghese, inteso per i nostri contemporanei, si arriva appunto
attraverso la disintegrazione della coscienza, per mezzo della ingiustizia e
demenza organizzate, dei miti degradanti, della noia convulsa e feroce, e così
di seguito. Infine, le famose bombe, queste orchesse balene che se ne stanno a
dormire nei quartieri meglio riparati dell’America, dell’Asia e dell’Europa:
riguardato, custodite e mantenute nell’ozio come fossero un harem: dai
totalitari, dai democratici e da tutti quanti; esse, il nostro tesoro atomico
mondiale, non sono la causa potenziale della disintegrazione, ma la
manifestazione necessaria di questo disastro, già attivo nella coscienza.
Adesso non voglio certo opprimervi con una milionesima descrizione delle
evidenze del disastro, nel loro spettacolo sociale quotidiano; il quale viene
accusato e registrato continuamente in saggi, conferenze, trattati. E del resto
è così vistoso e persecutorio che perfino i nostri poveri prossimi animali
(cani, gatti, per non dire gli infelicissimi polli) ne avvertono sensibilmente
lo strazio. No, vi risparmio questo quadro famigerato: tanto più che ho già il
rimorso di essere venuta qui a intrattenervi con un argomento così tetro invece
che con una bella fiaba (dato che certi affezionati si adoperano a smerciare i
miei libri facendoli passare sotto una specie di fiabe!!!).
E tanto meno mi incarico di fare adesso una predica propagandistica contro
la bomba (fra l’altro, con certi propagandisti di questo tipo ho delle
questioni polemiche). No, povera me, chi mi darebbe tanto valore, e tanto
fiato? E io stessa, poi, sono cittadina del mondo contemporaneo, anch’io forse,
sono soggetta alla universale estrema tentazione. E dunque, finché non me ne
sento proprio immune, farò meglio a non vantarmi tanto.
Però, nello stesso tempo, per merito della fortuna, io mi onoro di
appartenere alla specie degli scrittori. Da quando, si può dire, ho
incominciato a parlare, mi sono appassionata disperatamente a quest’arte, o
meglio, in generale, all’arte. E spero di non essere troppo presuntuosa se
credo di avere imparato, attraverso la mia lunga esperienza e il mio lungo
lavoro, almeno una cosa: una ovvia, elementare definizione dell’arte (o poesia,
che per me vanno intese come sinonimi).
Eccola: l’arte è il contrario della disintegrazione. E perché?
Ma semplicemente perché la ragione propria dell’arte, la sua giustificazione,
il solo suo motivo di presenza e sopravvivenza, o, se si preferisce, la
sua funzione, è appunto questa: di impedire la disintegrazione
della coscienza umana, nel suo quotidiano, e logorante, e alienante uso
col mondo; di restituirle di continuo, nella confusione irreale, e
frammentaria, e usata, dei rapporti esterni, l’integrità del reale,
o in una parola, la realtà (ma attenzione ai truffatori, che
presentano, sotto questa marca di realtà, delle falsificazioni artificiali e
deperibili). La realtà è perennemente viva, accesa, attuale. Non si può
avariare, né distruggere, e non decade. Nella realtà, la morte non è che un
altro movimento della vita. Integra, la realtà è l’integrità stessa: nel suo
movimento multiforme e cangiante, inesauribile – che non si potrà mai finire di
esplorarla – la realtà è una, sempre una.
Dunque, se l’arte è un ritratto della realtà, chiamare col titolo di arte,
una qualche specie, o prodotto, di disintegrazione (disintegrante o
disintegrato), sarebbe per lo meno una contraddizione nei termini. Si capisce,
quel titolo non è brevettato dalla legge, e nemmeno sacro e inviolabile. Ognuno
è padrone di mettere quel titolo di arte dove gli pare; ma anch’io sarò
padrona, quando mi pare, di denominare costui per lo meno un pazzariello. Come
sarei padrona di chiamare pazzariello – diciamo in via di esempio ipotetico –
un signore che insistesse per forza a offrirmi nel nome di sedia un rampino
appeso al soffitto.
Ma allora, bisognerà porsi una domanda: poi che l’arte non ha ragione se
non per l’integrità, quale ufficio potrebbe assumersi dentro il
sistema della disintegrazione? Nessuno. E se il mondo, nella
enormità della sua massa, corresse alla disintegrazione come al proprio bene
supremo, che cosa resterebbe da fare a un artista (ma da questo momento in poi,
se permettete, come riferimento particolare che vale per ogni artista in
generale, considererò lo scrittore) – il quale, se è tale veramente, tende
all’integrità (alla realtà) come all’unica condizione liberatoria, festosa,
della sua coscienza? Non gli resterebbe che scegliere. O si convince di essere
lui nell’errore, e nel torto. E che quella figura assoluta della realtà,
l’integrità segreta e unica delle cose (l’arte), non era che un fantasma
prodotto dalla sua propria natura – un trucco di Eros, diciamo, per far durare
l’imbroglio. In questo caso, sentirà scadere irrimediabilmente la sua funzione,
la quale anzi gli risulterà peggio che vana, disgustosa, come il delirio di un
drogato. E, in conseguenza, cesserà dallo scrivere.
Oppure, lo scrittore si convince che l’errore non è dalla sua parte, Che
non lui stesso, ma i suoi contemporanei, nella loro enorme massa, sono nell’equivoco.
Che insomma non è, diciamo, Eros, ma Thànatos, invece, l’illusionista, che
fabbrica le sue visioni mostruose per atterrire le coscienze e imbrogliarle,
snaturandole dalla loro sola contentezza e deviandole dalla spiegazione reale.
Così che, ridotti alla elementare paura dell’esistenza, nella evasione da se
stessi e quindi dalla realtà, loro, come chi ricorre alla droga, si assuefanno
all’irrealtà, che è la degradazione più squallida, tale che in tutta la loro
storia gli uomini non hanno conosciuto mai l’uguale. Alienati, poi,
anche nel senso della negazione definitiva; poiché per la via della irrealtà
non si arriva al Nirvana dei sapienti, ma proprio al suo contrario, il Caos,
che è la regressione infima e la più angosciosa.
(Elsa Morante, Pro o contro la bomba atomica e altri
scritti, Adelphi 1987 pp. 99-104)
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