martedì 31 dicembre 2013

Con Tsipras e il sud per cambiare (da un'intervista a Barbara Spinelli)

In Italia vede la prospettiva di una convergenza di forze per la ricostruzione dell’Europa, a cui si riferiva prima?
E ‘ molto difficile perché mi sembra che la tendenza ad immobilizzarsi sulle “grandi coalizioni” sia molto forte e la situazione in Italia è molto fluida. Mi piacerebbe vedere un’alleanza tra i paesi che soffrono maggiormente per la crisi e l’austerità. Vorrei vedere l’alleanza dei paesi dell’Europa del sud all’interno dell’Unione Europea per affrontare gli stati che impongono austerità. Si potrebbe mettere in minoranza la linea di Merkel. Una volta è stata messa in minoranza la linea Thatcher, quando è stato fatto l’euro. Ora può essere messa in minoranza la linea Merkel. Nel Parlamento Europeo si dovrebbe cercare l’alleanza con altri, come i Verdi tedeschi, che pongono la questione di un “Piano Marshall” per l’Europa.
La candidatura di Alexis Tsipras può contribuire a creare una coalizione di tali forze in Italia, al Sud e in Europa? Una coalizione che superi lo spazio classico dei partiti della sinistra radicale radunando forze sociali più ampie?
Questa è la speranza che abbiamo in Italia in un piccolo gruppo di persone. Vorremmo che in Italia ci fosse una lista civica, di cittadini attivi, una lista di persone della società civile che scelgono Tsipras come candidato alla presidenza della Commissione Europea. Non è semplice, perché abbiamo pochissimo tempo per creare qualcosa. Per farlo ci vorrà tutta l’intelligenza di Alexis Tsipras, come quella che gli ha permesso di formare una coalizione tra le anime della sinistra radicale greca.
E’ chiaro che non dovrebbe essere una coalizione dei vecchi partiti della sinistra radicale, perché non avrebbe alcuna possibilità di successo. Abbiamo bisogno di qualcosa di più grande, qualcosa per scuotere la coscienza della società, superando i margini molto stretti delle formazioni politiche della sinistra radicale. Con l’obiettivo di unire le forze della società colpite dalla crisi.
Il confronto con l’Europa dell’austerità e della barbarie necessita di una maggiore convergenza delle forze sociali rispetto a quelle espresse dai partiti della tradizionale sinistra radicale.
Sicuramente. Abbiamo visto in questi giorni le reazioni e le proteste di alcuni gruppi in Italia e abbiamo visto in precedenza le proteste in Grecia, Spagna, Portogallo. Il confronto con l’Europa dell’austerità è oltre la portata della vecchia sinistra radicale.
Una grande parte di cittadini ha perso la speranza nell’Europa, a questi cittadini bisogna fare un discorso diverso: non dentro o fuori l’Europa, ma come vogliamo cambiare l’Europa e che tipo di Europa vogliamo costruire.
In Grecia si usa il concetto di ricostruzione e rifondazione dell’Europa.
Questo è esattamente l’obiettivo che abbiamo di fronte per presentare una candidatura di Alexis Tsipras in Italia e nell’Europa del Sud. Questa è la sfida. E’ come lasciare alle spalle una guerra, perché gli anni di austerità equivalgono ad una guerra. Soprattutto in Grecia. Dopo la guerra l’Europa è uscita con una voglia di ricostruzione, con un enorme entusiasmo, che dobbiamo ritrovare…

lunedì 30 dicembre 2013

L’uomo duplicato – Josè Saramago

uno vede un altro uguale a lui, in un film, fa di tutto per cercarlo, e lo trova, e ognuno dei due ha una compagna, che non distingue l’uno dall'altro.
come fare ad andare avanti in una storia così per trecento pagine? nessuno di noi riuscirebbe a fare una cosa non noiosa, con una storia così (apparentemente) banale.
ma quel genio di Josè Saramago lo sa fare, senza annoiare un minuto, con una scrittura avvolgente e coinvolgente.
c’è il doppio, ma ci siamo noi, che leggiamo, e solo noi sappiamo tutto, Saramago ci ospita in questa storia vertiginosa.
povero chi non trova il tempo di leggere un capolavoro così.
ps: da questa storia è stato girato un film (che sarà in sala nei primi mesi del 2014), “Enemy”, di un regista straordinario, con un attore (protagonista) grandissimo; si può scegliere l’ordine, ma non privatevi né del libro né del film - franz

Il libro inizia così:
L'uomo che è appena entrato nel negozio per noleggiare una videocassetta ha nella sua carta d'identità un nome tutt'altro che comune, di un sapore classico che il tempo ha reso stantio, niente di meno che Tertuliano Máximo Afonso. Il Máximo e l'Afonso, di applicazione più corrente, riesce ancora ad ammetterli, a seconda, però, della disposizione di spirito in cui si trovi, ma il Tertuliano gli pesa come un macigno fin dal primo giorno in cui ha capito che l'infausto nome si prestava a essere pronunciato con un'ironia che poteva essere offensiva. È professore di Storia in una scuola media, e la videocassetta gli era stata suggerita da un collega di lavoro che tuttavia non si era dimenticato di preavvisare, Non che si tratti di un capolavoro del cinema, ma potrà intrattenerla per un'ora e mezza. In verità, Tertuliano Máximo Afonso ha un gran bisogno di stimoli che lo distraggano, vive da solo e si annoia, o, per dirla con la precisione clinica che l’attualità richiede, si è arreso alla temporale debolezza d’animo comunemente nota come depressione. Per avere un’idea chiara del suo caso, basti dire che è stato sposato e non si ricorda di cosa lo abbia portato al matrimonio, ha divorziato e ora non vuole neanche ricordarsi dei motivi per cui si è separato. In compenso, da questa mal riuscita unione non sono nati figli che ora sarebbero lì a pretendere gratis il mondo su un vassoio d’argento, ma la dolce Storia al cui insegnamento lo hanno chiamato e che potrebbe essere il suo cullante rifugio, la vede ormai da lungo tempo come una fatica senza senso e un inizio senza fine...
da qui

venerdì 20 dicembre 2013

22 dicembre 1887: nasce Srinivasda Rananujan, grande matematico autodidatta

Ramanujan morì nel 1920, Godfrey Hardy, il matematico inglese che lo "scoprì", morì nel 1947.
Per 27 anni successe quello che scrisse: “Quando sono depresso e costretto ad ascoltare gente pomposa e noiosa, mi dico: “Be’, io ho fatto una cosa che Voi non avreste mai potuto fare e cioè aver collaborato con Ramanujan pressappoco alla pari” (da qui).

per ricordare Srinivasda Rananujan in rete ci sono tante cose interessanti, ho scelte questa:

Una mattina del 28 Gennaio 1913, Godfrey Hardy, famoso professore matematico trentaseienne di Cambridge, aprendo la sua cassetta della posta, insieme alle solite numerose lettere di “studentelli” e colleghi vogliosi di comunicargli le loro presunte imprese matematiche, trovò una lettera particolare proveniente dall’India.
L’aprì e lesse la presentazione:
“Gentile Signore, mi pregio di presentarmi a Voi in qualità di contabile [...] con un salario di sole 20 sterline l’anno. Al momento ho quasi ventitré anni. Non ho ricevuto un’ istruzione universitaria [...] Dopo aver lasciato la scuola, ho utilizzato il tempo libero a mia disposizione per occuparmi di matematica [...] e i risultati che ho ottenuto sono definiti dai matematici di queste parti “sorprendenti””
Con umiltà e sfacciataggine, il giovane contabile proseguiva elencando alcuni suoi studi: “Ho trovato una funzione che rappresenta esattamente il numero di numeri primi minori di x…”
Hardy sapeva che quella era un’affermazione sbalorditiva, incuriosito, sfogliò velocemente le pagine, alla ricerca di quella dimostrazione.
L’indiano diceva di non aver ricevuto un’educazione universitaria, ma accludeva undici paginecontenenti centoventi strane formule, senza neppure una dimostrazione.
Una delle prime presentate era questa:
1 1 2 3 … … 12 + + + + + = − n
Il povero Hardy avrà pensato: “La somma di numeri interi tendente all’infinito uguale ad una frazione negativa? Ben comprendo che voi non abbiate ricevuto un’istruzione universitaria, caro signore, avranno sbarrato le porte d’ingresso al solo vedervi. Persino ad un occhio non qualificato questa formula appare ridicola.”
Accantonò inorridito la lettera senza proseguire nella lettura.
Quella sera stessa venne a fargli visita il suo amico Littlewood , altro eminente matematico con cui spesso collaborava. Davanti ad una tazza di the fumante cominciò a raccontare al suo ospite della lettera ricevuta e della presunzione ed ignoranza del giovane indiano.
Immagino il dialogo tra i due: H. – “Avrei dovuto cestinarla subito la lettera o rispondere a tono che non mi si faccia perder
tempo dietro simili idiozie“ L. – “Non hai quindi letto l’intero contenuto? Non sei arrivato all’argomento che a noi tanto
interessa, non hai verificato di che funzione trattasi seppur solo per curiosità?” H. – “Il giovine ha un modo di scriver numeri e formule che non ha senso ordinato e logico” L. – “Sarei curioso di potergli dare uno sguardo, spero tu non l’abbia bruciata”.
No! Hardy non aveva distrutto la lettera, l’aveva solo accantonata in un angolo della sua scrivania. I due cenarono e subito dopo si armarono di sana curiosità e buona volontà; ripresero insieme la lettura di quegli undici fogli.
Quei folli teoremi contenuti nella lettera cominciarono ad esercitare la loro malia e i due colleghi per mezzanotte ne erano venuti a capo. I due cominciarono a rendersi conto che quelle non erano esternazioni di uno “spostato”, ma l’opera di un genio, di un matematico privo di una preparazione formale, ma senza alcun dubbio brillante…
Hardy aveva compreso che si trovava di fronte ad un vero genio, che però, a causa della sua precaria istruzione e formazione, parlava un “linguaggio matematico” personalissimo ed a volte incomprensibile.
Necessitava, secondo lui, che fosse incanalato verso canoni matematico-espressivi consoni ed ufficiali; era chiaro che, benchè traboccasse di talento, Ramanujan aveva un disperato bisogno di essere aggiornato sullo stato attuale delle conoscenze.
Così sia Hardy che Littlewood decisero che avrebbero cercato di fare il possibile per portare Ramanujan a Cambridge. Inviarono in India E. H. Neville per convincere il Ramanujan a seguirlo in Inghilterra, ma questi, bramino praticante, era riluttante, la sua religione gli impediva di attraversare i mari. Fu un amico che si rese conto che, nonostante gli impedimenti imposti dalla sua fede, Ramanujan desiderava ardentemente di potersi confrontare direttamente con i matematici inglesi.
Escogitò così un piano: lo portò al tempio di Namagiri a cercare ispirazione divina e dopo tre notti passate a dormire sul pavimento del tempio, Ramanujan si svegliò improvvisamente e disse all’amico:
“ Ho visto in un lampo di luce splendente, Namagiri che mi ha ordinato di attraversare il mare “.
La sua Dea e musa ispiratrice lo aveva quindi messo su una nave il il 17 marzo 1914 e dopo circa un mese, Ramanujan arrivò a Cambridge, nel “tempio” della Matematica di quel periodo.
Me lo immagino come un personaggio di quei documentari storici in cui i protagonisti, emigranti in cerca di lavoro, scendono dal treno con il loro carico di valige di cartone legate a doppio spago, frastornati dal viaggio, ma soprattutto dall’assordante rumore della “civiltà”.
Confuso, emozionato ed agitato, si presenta al cospetto del grande matematico inglese.
Ebbe così inizio una delle più grandi collaborazioni della storia della Matematica.
Ramanujan iniziò ad aprire la sua mente ad Hardy ; questi intuì ben presto che il piccolo indiano non aveva nessuna idea di cosa fosse una dimostrazione, perchè aveva studiato soltanto su un manuale di formule, e i suoi risultati li otteneva in maniera quasi inconscia.
Un compagno di scuola ricorderà di averlo visto spesso alzarsi a metà della notte per scrivere le formule che aveva sognato. Lui stesso precisò che l’ispirazione onirica gli veniva dalla dea Namagiri , o che il dio Narasimha gli mostrava nel sonno dei rotoli, dei quali al risveglio
egli riusciva a trascrivere soltanto una piccola parte.
Il sodalizio tra Hardy e Ramanujuan , per quanto stimolante, risultava problematico a causa di un evidente contrasto culturale. Gli incontri e le loro discussioni matematiche, spesso si riducevano a dei monologhi in cui l’indiano sciorinava sempre nuove teorie ed idee;
fu proprio Hardy che una volta osservò:
“ Sembrava ridicolo angustiarlo domandandogli come avesse scoperto questo o quel problema noto, quando lui me ne mostrava una mezza dozzina di nuovi quasi ogni giorno “.
L’inglese scoprì che dare un’educazione matematica a Ramanujan era una vera e propria impresa di equilibrismo, temeva infatti che, se lo avesse costretto a cercare anche le dimostrazioni delle sue teorie, l’incantesimo si sarebbe potuto spezzare.
Chiese a Littlewood di provare a farlo familiarizzare con il rigore matematico occidentale,
ma anche questi ben presto si arrese:“ Come si fa ad insegnare qualcosa a qualcuno che in risposta alle domande presenta valanghe di idee originali che ti bloccano immediatamente? “. (tratto da qui, è un lavoro di un ragazzo di nome Marco Cameriero, del 2010, aveva 15 anni allora).
(tratto da qui, è un lavoro di un ragazzo di nome Marco Cameriero, del 2010, aveva 15 anni allora).

giovedì 19 dicembre 2013

20 dicembre 1973 : Il primo ministro spagnolo Luis Carrero Blanco muore a Madrid a seguito di un attentato dell’ETA

molti, me compreso, sanno di quel giorno grazie al film di Gillo Pontecorvo, intitolato “Ogro”, uscito nel 1979, con Gian Maria Volontè.
per ricordare quel momento chiave per la Spagna, e non solo, ecco un interessante documento di 9 minuti, in spagnolo:


poi due canzoni sul volo di Carrero Blanco:




e una pagina, molto interessante e ricca di informazioni e commenti, di Riccardo Venturi (da qui):

Ho come il vago sospetto che l’inserimento in una raccolta di “canzoni contro la guerra” di una canzoncina, poi divenuta quasi popolare, che si rallegra, e non poco, di un attentato dinamitardo costato la vita sì alla vittima designata -la quale era un grandissimo pezzo di merda- ma anche ad un povero autista che aveva come unica colpa quella di guidare la macchina del pezzo di merda in questione, possa provocare qualche discreto “sturbo” in molte anime non-violente, pacifiste a oltranza eccetera. Beh, lo capisco. Come capisco che l’attentato fu organizzato e portato a termine dall’ETA, il che potrà provocare anche maggiori sturbi. Chi ha ancora un barlume di memoria avrà già capito che il pezzo di merda in questione si chiamava Luis Carrero Blanco; era il successore designato di Francisco Franco, suo strettissimo collaboratore fin dal “pronunciamiento” del 1936 che provocò la guerra civile spagnola (un milione di morti), cattolicissimo avallatore di tutti i massacri e di tutte le fucilazioni e garrote del Caudillo eccetera, eccetera. D’accordo, d’accordo, l’ETA che lo tolse di mezzo il 20 dicembre 1973 con la “Operación Ogro” (“ogro” significa “orco” in spagnolo; tale Carrero Blanco era!) sarebbe un gruppo “terrorista”, ma c’è sempre da chiedersi: chi erano e sono i veri terroristi? Quaranta e rotti anni di terrore in Spagna, chi li ha messi in atto? Sono domande. Ognuno avrà ovviamente le sue risposte. Intanto ne do una io, che magari potrà accendere ulteriori controversie in questo sito felicemente multilaterale; ed è una risposta molto semplice. Talvolta, per essere davvero “contro la guerra”, la guerra bisogna farla. La fecero, in Spagna, coloro che combatterono per tre anni contro il franchismo e furono sconfitti nel sangue. La fece anche chi organizzò l’attentato a Carrero Blanco, che interruppe il processo di continuità del regime e senz’altro affrettò sia la morte di Franco (neanche due anni dopo) e la fine del suo regime sanguinario, che era una guerra continua contro l’umanità e la vita. Luis Carrero Blanco era uno degli uomini più odiati di Spagna; a distanza di anni non vengono scritte canzoni come questa, perdipiù subendo rapidamente un processo di “popolarizzazione”, se non c’è un vero e profondo odio. Una canzone di una terribile, carognesca presa in giro, oltretutto; come se lo sarà guadagnato quel’odio, Carrero? In nome della “pace” sempre e comunque, acritica e non di rado codarda, è la guerra che trionfa. Al potere, sin dai tempi della “Pax Romana” di Ottaviano Augusto, la pace è sempre piaciuta tanto: la pace di far quello che vuole. Anche Mussolini fu glorificato a lungo per aver “pacificato” l’Italia, tranne poi mandare il paese alla rovina per fare la guerra. E anche lo stesso Francisco Franco non fu, in fondo, un “pacifista” quando si rifiutò di entrarvi, in quella guerra mondiale?
La “pace” di uomini come Carrero Blanco è sintetizzata perfettamente in un’affermazione che fece poco prima di essere scagliato nell’eternità: “Se in Spagna si capirà finalmente che tutti quelli che scendono in strada a fare confusione devono essere ricevuti a colpi di fucile dalla polizia, finirà il disordine.” (da qui)

anche qui

martedì 17 dicembre 2013

scatole e forconi - Stefano Deliperi

La protesta dei forconi sta attraversando tutta l’Italia.
C’è dentro di tutto: da imprenditori con l’acqua alla gola a disoccupati, da precari a movimenti localistici, da autotrasportatori a infiltrati, a improbabili leader.  Ma soprattutto c’è la disperazione di migliaia e migliaia di italiani, da qualsiasi parte, privi di soldi e speranza.
E la colpa non è certo degli ebrei, come incredibilmente raglia (senza offesa per i veri Asini) tal Andrea Zunino, leader dei forconi del nord ovest.
Su questo blog l’avevamo detto da tempo in tanti, stiamo scivolando sempre più verso un clima di violenza cieca, determinata da una politica profondamente incapace di eliminare sprechi e ingiustizie e di far ripartire l’Italia.
E in questo clima prova a inserirsi il principale responsabile della pluriennale crisi economico-sociale, l’uomo che ha influenzato l’ultimo ventennio italiano, Silvio Berlusconi.
Il noto pregiudicato per frode fiscale si ripropone, ma ormai è un’intera classe politica nazionale e regionale, dai vertici in giù, a esser squalificata in grandissima parte dei suoi componenti.
Via, fuori dalle scatole, andatevene una volta per tutte, prima che finisca nel sangue.

10, 100, 1000 Mandela


Marwan Barghouti (che secondo Uri Avnery è il nuovo Mandela, leggi qui) scrive una lettera a Mandela per ricordarlo e onorarlo:
Nel corso dei miei anni di lotta, ho avuto occasione a più riprese di pensare a te, caro Nelson Mandela. E soprattutto dopo il mio arresto nel 2002. Io penso ad un uomo che ha passato 27 anni in una cella di prigione, solamente per dimostrare che la libertà abitava in lui prima di diventare una realtà di cui avrebbe potuto gioire il suo popolo. Penso alla tua capacità di sfidare l’oppressione e l’apartheid, ma anche di sfidare l’odio e di preferire la giustizia alla vendetta.
Quante volte hai dubitato del risultato di quella lotta? Quante volte ti sei domandato se la giustizia avrebbe prevalso? Quante volte ti sei chiesto se il tuo nemico avrebbe mai potuto diventare un tuo partner? Alla fine, la tua volontà si è dimostrata incrollabile, facendo diventare il tuo nome uno dei più luminosi nomi della libertà.
Tu sei molto di più che una fonte di ispirazione. Tu dovevi sapere, il giorno della tua liberazione dal carcere, che eri in procinto non solo di scrivere la storia, ma di contribuire al trionfo della luce sull’oscurantismo, pur restando umile.
in un’interessante intervista (qui) Marwan Barghouti dice:
“…Dovessi un giorno essere ucciso, e Israele rassicurare il mondo con l’ultimo suo successo contro il terrorismo – apra le virgolette. Perché ho sofferto per anni in carcere, sono stato torturato e come tutti voi, ho un’unica vita a disposizione: e invece non ho potuto crescere i miei figli, dividere il mio tempo con la donna che amo, e solo topi e scarafaggi sono stati compagni e testimoni di mesi interminabili in scatole di un metro e mezzo per due, mesi in cui non avevo una finestra, solo un ventilatore e la luce sempre accesa, e a volte neppure quello, a volte solo l’aria attraverso lo spioncino della porta le infinite volte in cui il mio universo è stato largo quanto un cortile, e solo per meno di un’ora al pomeriggio, ammanettato mani e piedi, in isolamento senza una radio, una televisione un libro, e per toilette un foro nel pavimento. Eppure non ho mai odiato nessuno. E ancora adesso, dopo che hanno tentato di assassinarmi con un missile, e dimenticato qui con cinque ergastoli, e altri quarant’anni, dovessi per caso resuscitare, ancora adesso, uomo derubato dell’unica vita che aveva ancora adesso, dopo Piombo Fuso, ancora sono certo che avremo un giorno coesistenza tra due stati uguali, e indipendenti e sovrani. Ho sostenuto instancabile il processo di pace, quando davvero pensavo che Israele intendesse ritirarsi dal mio paese.
Mi è stato tolto tutto: ma non è possibile togliermi il diritto e la dignità di smentirvi: non voglio distruggere Israele. Non voglio distruggere nessuno. Voglio solo vivere libero…”

Chi tiene imprigionato Marwan Barghouti (qui si parla di una campagna per la sua liberazione) è il governo di Israele, complice e venditore di armi al Sudafrica dell’apartheid, nonostante l’embargo dell’ONU del 1977.
Israele ha imparato benissimo come si fa l’apartheid, in Sudafrica erano dei dilettanti, al confronto, come raccontano i componenti di una delegazione sudafricana, inorriditi della durezza del sistema di repressione definita da loro peggiore dell'apartheid sudafricana, in un articolo di Gideon Levy del 10 luglio 2008 (qui)
Non stupisce che i governanti di Israele siano rimasti a casa, il Sudafrica è troppo lontano e il viaggio troppo costoso. E poi, come potevano rendere omaggio a uno come Nelson Mandela, che diceva che ”L’ONU ha preso una posizione forte contro l’apartheid, e nel corso degli anni, è stato costruito un consenso internazionale, che ha contribuito a porre fine a questo sistema iniquo. Ma sappiamo fin troppo bene che la nostra libertà è incompleta senza la libertà dei palestinesi” . D'altronde anche il governo degli Stati Uniti d’America (solo nel 2008) ha deciso che Mandela non era (più) un terrorista, chissà se il governo di Israele lo sa.
PS: grazie a Fawzi per l’ispirazione di questo scritto.

domenica 15 dicembre 2013

16 dicembre 1942: Himmler firma il “Decreto Auschwitz”, che prevede la deportazione degli zingari a Auschwitz

1943, febbraio – 1944, agosto: in funzione lo Zigeunerlager di Auschwitz. I rom e sinti registrati sono 20.943 (10.094 uomini e 10.888 tra donne e bambini), ma si stima siano stati detenuti in 23.000.
- 1943, marzo: inizia la deportazione a Auschwitz.
- 1943, 23 marzo: Ritter comunica alla DFG: “Lo studio degli zingari e dei loro ibridi, nonostante le difficoltà dovute allo stato di guerra, è in grandi linee da considerarsi terminato per i territori del vecchio Reich e la marca dell’Est, come previsto… Il numero di casi chiariti dal punto di vista della biologia razziale è attualmente 21.498…”.
- 1943, maggio: Il dott. Mengele inizia a prestare servizio ad Auschwitz; iniziano gli esperimenti sui bambini zingari.
- 1944, 31 gennaio: Ritter parla nella sua comunicazione alla DfG di “23.822 casi di zingari definitivamente chiariti”.
- 1944, notte 1-2 agosto. Quasi 3000 rom e sinti vengono gasati, lo Zigeunerlager è chiuso.
- 1944. estate e autunno. Mengele invia al KWI per l’antropologia copioso materiale scientifico: in esso, occhi di zingari uccisi, organi interni di bambini uccisi, scheletri di due ebrei uccisi, sieri di gemelli infettati di tifo dal dott. Mengele.
- 1945, 17 gennaio: a dieci giorni dalla liberazione, ad Auschwitz sono presenti solo 4 zingari. (da qui)
Una parte della popolazione infantile imprigionata fu poi usata da Joseph Mengele nei suoi tragici esperimenti medici. Questo primo tempo nello Zigeunerlager-Birkenau era tuttavia destinato ad esaurirsi dal momento in cui la politica razzista del Terzo Reich nei riguardi degli zingari assunse standard sempre più rigidi. Nel luglio del 1943, durante una visita di Himmler al campo, accompagnato dal comandante Rudolph Höss, dinanzi alla visione dell’epidemia di noma in corso, che stava decimando soprattutto i bambini, e alle scene di sovraffollamento, il comandante delle SS si decise per l’eliminazione dei“residenti”. Con la fine di maggio del 1944 si avviò quindi la liquidazione graduale del campo. Una parte degli zingari tedeschi erano già stati spediti verso altri campi: il 9 novembre 1943 diverse centinaia di giovani erano stati trasportati a Natzweiller; il 15 aprile dell’anno successivo 1.357 Rom erano stati inviati a Buchenwald e a Ravensbrück; il 24 maggio era stata poi la volta di 226 individui, inviati a Flossenburg. Altri ancora furono ridistribuiti nel resto del Lager mentre 2.897 persone furono infine assassinate in una sola notte, il 2 agosto 1944, con il ricorso alle camere a gas del crematorio V. Le baracche così liberate furono utilizzate per i prigionieri ebrei. Nella sezione BIIe venne allestito il lazzaretto femminile. Da quel momento non risultò più esistere uno Zigeunerlager-Birkenau anche se si ha notizia di almeno 800 zingari riportati ad Auschwitz da Buchenwald nell’ottobre di quell’anno e cinque giorni dopo gassati. (da qui)
…gli zingari furono perseguitati, imprigionati, seviziati, sterilizzati, utilizzati per esperimenti medici, gasati nelle camere a gas dei campi di sterminio, perché zingari e, secondo l’ideologia nazista, « razza inferiore» , indegna di esistere. La pericolosità – o asocialità – zigana non era, infatti, assimilabile a quella degli altri individui perseguitati per ragioni di ordine pubblico. Gli zingari erano geneticamente ladri, truffatori, nomadi: la causa della loro pericolosità era nel loro sangue, che precede sempre i comportamenti…
…Tra il 1939 e il 1945 vennero uccisi oltre 500.000 zingari, vittime del nazionalsocialismo. La storia della deportazione e dello sterminio degli zingari è una storia dimenticata: ancora oggi la documentazione è frammentaria e lacunosa. Eppure la persecuzione degli zingari in epoca nazista è l’unica, oltre a quella ebraica, dettata da motivazioni esclusivamente razziali: proprio come gli ebrei, infatti, gli zingari furono perseguitati e uccisi in quanto « razza inferiore». E anche il regime fascista di Mussolini diede il suo “contributo”… (da qui)
Dello sterminio degli zingari si sa infatti molto poco, troppo poco. Nonostante sia ormai appurato che, come gli ebrei, furono vittime della persecuzione e dello sterminio razziali praticati dai nazisti in Germania e nei paesi dell’Europa occupata, normalmente si tralascia la loro vicenda o, nel migliore dei casi, se ne accenna in lavori che si occupano del Terzo Reich o del sistema concentrazionario in generale includendoli tra le vittime per poi tralasciare cause e conseguenze della loro persecuzione. Questo anche a causa del fatto che per molto tempo dopo la guerra lo sterminio del popolo zingaro non è stato riconosciuto come razziale ma lo si è considerato conseguenza (quasi ovvia) di quelle misure di prevenzione della criminalità che ovviamente si acuiscono in caso di guerra. Una tesi che trova fondamento nella definizione di “asociali” con la quale inizialmente gli zingari furono deportati, ma che non considera il fatto che, secondo le teorie nazionalsocialiste, gli zingari erano tali perché le caratteristiche loro attribuite dai nazisti erano nei loro geni, nel loro sangue, che li rendeva “irrecuperabili” condannandoli quindi allo sterminio, alla cosiddetta “soluzione finale”.
Va comunque tenuto presente che, almeno per ciò che riguarda il nazismo (e grazie soprattutto all’impegno della studiosa ebrea Miriam Novitch che dedicò gran parte della sua vita a raccogliere documenti sullo sterminio del popolo Rom), esiste oggi una documentazione sufficiente a dimostrare che gli zingari sono stati tra le vittime dello sterminio razziale e che almeno 500.000 di loro sono morti nei Lager, dopo esser stati imprigionati, torturati e violentati come tutti gli altri prigionieri. (da qui)
qui   un filmato sul Porrajmos, il nome dell’Olocausto degli zingari
qui una serie di interviste con zingari sopravvissuti ai lager

sabato 14 dicembre 2013

foto ricordo con Mandela



Madiba, il cammino della libertà – Marwan Barghouti

Nel corso dei miei anni di lotta, ho avuto occasione a più riprese di pensare a te, caro Nelson Mandela. E soprattutto dopo il mio arresto nel 2002. Io penso a un uomo che ha passato 27 anni in una cella di prigione, solamente per dimostrare che la libertà abitava in lui prima di diventare una realtà di cui avrebbe potuto gioire il suo popolo. Penso alla tua capacità di sfidare l’oppressione e l’apartheid, ma anche di sfidare l’odio e di preferire la giustizia alla vendetta.
Quante volte hai dubitato del risultato di quella lotta? Quante volte ti sei domandato se la giustizia avrebbe prevalso? Quante volte ti sei chiesto se il tuo nemico avrebbe mai potuto diventare un tuo partner? Alla fine, la tua volontà si è dimostrata incrollabile, facendo diventare il tuo nome uno dei più luminosi nomi della libertà.
Tu sei molto di più che una fonte di ispirazione. Tu dovevi sapere, il giorno della tua liberazione dal carcere, che eri in procinto non solo di scrivere la storia, ma di contribuire al trionfo della luce sull’oscurantismo, pur restando umile.
E hai portato la promessa ben oltre le frontiere del tuo paese, questa promessa, che l’oppressione e l’ingiustizia saranno sconfitte. Così hai aperto la strada alla libertà e alla pace. Dalla mia cella, io ricordo la tua ricerca quotidiana e allora qualsiasi sacrificio mi diventa sopportabile alla sola idea che il popolo palestinese potrà riacquistare la sua libertà, la sua indipendenza e la sua terra, e che questa terra potrà infine gioire della pace.
Tu sei diventato un’icona e hai fatto sì che la tua causa fosse un faro e si imponesse sulla scena internazionale. Universalismo contro isolamento. Sei diventato un simbolo al quale tutti coloro che credono nei valori universali alla base della tua lotta hanno potuto collegarsi, mobilitarsi e agire. L’unità ha forza di legge per un popolo oppresso. La tua minuscola cella, le ore di lavoro forzato, la solitudine e le tenebre non hanno potuto impedirti di vedere l’orizzonte, né di condividere la tua visione. Il tuo paese è diventato un faro e noi, Palestinesi, spieghiamo le vele per raggiungere la sua riva.
Tu hai detto: “noi sappiamo troppo bene che la nostra libertà non è completa senza quella dei Palestinesi”. E dalla mia cella io ti dico, la nostra libertà ci appare accessibile perché voi avete raggiunto la vostra. L’apartheid non ha prevalso in Sudafrica, e l’apartheid non può prevalere in Palestina. Noi abbiamo avuto il grande onore di accogliere in Palestina, qualche mese fa, il tuo amico e compagno di lotta Ahmed Kathrada, che dalla sua cella, dove ha preso forma una parte importante della storia universale, aveva lanciato la campagna internazionale in favore della libertà dei prigionieri palestinesi; mostrando con ciò che i legami fra le nostre lotte sono eterni.
La tua capacità di essere un simbolo di unificazione e un condottiero a partire dalla tua cella di prigioniero, tenendo nelle mani il futuro del tuo popolo mentre eri derubato del tuo stesso futuro, sono segni di un grande leader, eccezionale, e di una figura davvero storica.
Io saluto il combattente per la pace, il negoziatore di pace e il costruttore di pace che tu sei, mentre sei nello stesso tempo il leader militante e l’ispiratore di una resistenza pacifica, il combattente senza tregua e l’uomo di stato.
Tu hai consacrato la vita a far risplendere l’idea che la libertà e la dignità, la giustizia e la riconciliazione, la pace e la coesistenza possono prevalere. Adesso sono tanti quelli che nei loro discorsi onorano la tua lotta. In Palestina noi promettiamo a noi stessi di proseguire questa ricerca dei nostri valori comuni e di onorare la tua lotta non solo a parole, ma consacrando le nostre vite allo stesso scopo. La libertà, caro Madiba, prevarrà certo, un giorno, e tu hai meravigliosamente contribuito a fare di questa fede una certezza. Riposa in pace e che Dio benedica la tua anima invincibile.
Marwan Barghouti , Prigione Hadarim, cella 28

venerdì 13 dicembre 2013

Il nostro bisogno di consolazione è impossibile da saziare - Stig Dagerman (cantano "Têtes Raides")



Il nostro bisogno di consolazione è impossibile da saziare

Sono privo di fede e non posso dunque essere felice, poiché un uomo che rischia di temere che la sua vita sia un’erranza assurda verso una morte certa non può essere felice. Non ho ricevuto in eredità né un dio né un punto fermo sulla terra da cui possa attirare l’attenzione di un dio. Non ho ereditato nemmeno il furore ben celato dello scettico, le astuzie sottili del razionalista o l’ardente innocenza dell’ateo. Non oso dunque gettare alcuna pietra su colei che crede in cose che non mi ispirano che il dubbio  o su colui che venera il suo dubbio come se non fosse egli stesso circondato dalle tenebre. Questa pietra colpirebbe me stesso, perché di una cosa sono convinto: che il bisogno di consolazione che ha l’uomo è impossibile da saziare.
Per quel che mi riguarda, cerco la consolazione come il cacciatore bracca la preda. Dovunque io creda di scorgerla nella foresta, tiro. Spesso non raggiungo che il vuoto ma, a volte, una preda cade ai miei piedi. E, poiché so che la consolazione non dura che il tempo di un soffio di vento sulla cima di una albero, mi affretto ad appropriarmi della mia vittima.
Cosa stringo allora tra le braccia?
Poiché sono solitario: una donna amata o un infelice compagno di strada. Poiché sono poeta: un arco di parole che tendo sentendomi pervadere di gioia e di spavento. Poiché sono prigioniero: un spiraglio improvviso di libertà. Poiché sono minacciato dalla morte: un animale caldo e vivo, un cuore che batte irridente. Poiché sono minacciato dal mare: uno scoglio d’inamovibile granito.
Ma ci sono delle consolazioni che vengono a me senza essere invitate e che riempiono la mia camera di mormorii odiosi: “Io sono il tuo piacere: amali tutti! Io sono il tuo talento: fanne cattivo uso quanto di te stesso! Io sono il tuo desiderio di godimento: che vivano solo i buongustai!  Io sono la tua solitudine: disprezza gli uomini! Io sono la tua aspirazione alla morte: allora tronca!”
Il filo del rasoio è ben stretto. Vedo la mia vita minacciata da due pericoli: dalle bocche avide della golosità da un lato e, dall’altro, dall’amarezza dell’avarizia che si  nutre di se stessa. Ma tengo a rifiutare di scegliere tra l’orgia e l’ascesi, anche se devo a causa di questo subire il supplizio della griglia dei miei desideri. Per me, non basta sapere che, poiché non siamo liberi dei nostri atti, tutto è scusabile. Ciò che cerco, non è una scusa alla mia vita ma esattamente il contrario di una scusa: il perdono. In effetti, quando la mia disperazione mi dice: “Disperati, perché ogni giorno non è che una tregua fra due notti”, la falsa consolazione mi grida: “Spera, perché ogni notte non è che una tregua tra due giorni.”
Ma l’umanità non sa che farsene di una consolazione in forma di motto di spirito: essa ha bisogno di una consolazione che illumini. E colui che si augura di diventare malvagio, cioè di diventare un uomo che agisca come se ogni azione fosse difendibile, deve almeno avere la bontà di farlo notare quando vi riesce.
Nessuno può elencare tutti i casi in cui la consolazione è una necessità. Nessuno sa quando cadrà il crepuscolo e la vita non è un problema che possa essere risolto separando la luce dall’oscurità e i giorni dalle notti. E’un viaggio imprevedibile fra due luoghi che non esistono. Posso, per esempio, camminare sulla riva e sentire d’improvviso la sfida spaventosa che l’eternità lancia alla mia esistenza nel movimento perpetuo del mare e nella fuga perpetua del vento. Che diventa allora il tempo, se non una consolazione per il fatto che niente di ciò che è umano dura. […]
Posso riempire tutti i miei fogli bianchi con le più belle combinazioni di parole che possa immaginare il mio cervello. Dato che desidero assicurarmi che la mia vita non sia assurda e che io non sia solo sulla terra, raccolgo tutte le parole in un libro e lo offro al mondo. In cambio questo mi dà ricchezza, la fama e il silenzio. Ma che posso farmene di questo denaro e che piacere può darmi contribuire al progresso della letteratura? Non desidero che ciò che non avrò: la conferma che le mie parole hanno toccato il cuore del mondo. Che diventa allora il mio talento se non una consolazione per la mia solitudine? Ma che consolazione spaventosa, che riesce solo a farmi vivere la solitudine con intensità cinque volte maggiore! […]
Non possiedo filosofia nella quale possa muovermi come il pesce nell’acqua o l’uccello nel cielo. Tutto ciò che possiedo è un duello, e questo duello si libera, a ogni attimo della mia vita, fra le false consolazioni, che non fanno che accrescere la mia impotenza e rendere più profonda la mia disperazione, e quelle vere, che mi portano verso una liberazione temporanea. Dovrei forse dire: la vera perché, in verità, non esiste per me che una sola consolazione che sia reale, quella che mi dice che sono un uomo libero, un individuo inviolabile, un essere sovrano all’interno dei miei limiti.
Ma la libertà comincia dalla schiavitù e la sovranità dalla dipendenza. Il segno più certo della mia servitù è la mia paura di vivere. Il segno definitivo della mia libertà è il fatto che la mia paura lascia libero campo alla gioia tranquilla dell’indipendenza. Si direbbe che ho bisogno della dipendenza per poter finalmente conoscere la consolazione d’essere un uomo libero, ed è certamente vero. Alla luce dei miei atti, mi accorgo che tutta la mia vita sembra non avere avuto per scopo che di fare la mia stessa infelicità. Ciò che dovrebbe portarmi la libertà mi porta la schiavitù e le pietre al posto del pane.
Uomini diversi hanno padroni diversi. Io, per esempio, sono a tal punto schiavo del mio talento che non ho il coraggio di farne uso per timore d’averlo perso. Sono poi così schiavo del mio nome da non osare quasi scrivere una riga per paura di arrecargli danno. E quando infine giunge la depressione, sono schiavo anche di quella. Il mio più grande desiderio diventa quello di trattenerla, il mio più grande piacere è sentire che il mio unico valore stava in ciò che credo di aver perduto: la capacità di creare bellezza a partire dalla mia disperazione, dal mio disgusto e dalle mie debolezze. Con gioia amara voglio vedere le mie case crollare e me stesso sepolto sotto la neve dell’oblio. Ma la depressione è una bambola russa e dentro all’ultima sono riposti un coltello, una lametta da barba, del veleno, un’acqua profonda e un salto da una grande altezza. Finisco per essere schiavo di tutti questi strumenti di morte. Mi seguono come cani, o sono io a seguirli come un cane. E mi pare di capire che il suicidio è l’unica prova della libertà umana.
Ma, giungendo da una direzione che ancora non sospetto, ecco che si avvicina il miracolo della liberazione. Ciò può verificarsi sulla riva e la stessa eternità che, poco fa, suscitava il mio spavento è ora testimone del mio accesso alla libertà. In che consiste, dunque, questo miracolo? Semplicemente nella scoperta improvvisa che nessuno, nessuna potenza, nessun essere umano, ha il diritto di esprimere nei miei confronti esigenze tali che il mio desiderio di vivere ne sia indebolito. Perché se il desiderio non esiste, chi allora può esistere?
Poiché mi trovo sulla riva del mare, dal mare posso imparare. Nessuno ha il diritto di pretendere dal mare che sorregga tutte le imbarcazioni o dal vento che gonfi costantemente tutte le vele. Allo stesso modo, nessuno ha il diritto di pretendere da me che la mia vita consista nell’essere prigioniero di certe funzioni. Per me, non si tratta del dovere prima di tutto: prima di tutto è la vita. Come ogni essere umano, devo avere diritto a dei momenti in cui posso farmi da parte e sentire di non essere solo un elemento di una massa chiamata popolazione terrestre, ma di essere anche un’unità autonoma.
Solo momenti così posso essere libero davanti a tutte quelle consapevolezze sulla vita che, prima, hanno causato la mia disperazione. Posso riconoscere che il mare e il vento non potranno che sopravvivermi, e che l’eternità non si cura di me. Ma chi chiede a me di curarmi dell’eternità? La mia vita è breve solo se la colloco sul patibolo del tempo. Le possibilità della mia vita sono limitate solo se faccio il conto della quantità di parole o di libri che avrò il tempo di produrre prima della mia morte. Ma chi mi chiede di fare questo conto? Il tempo è una falsa misura per la vita. Il tempo è in fondo uno strumento di misura privo di valore, perché tocca esclusivamente le mura esterne della mia vita.
Ma tutto quel che mi accade di importante, tutto ciò che dà alla mia vita il suo contenuto meraviglioso – l’incontro con una persona amata, una carezza sulla pelle, un aiuto nel momento del bisogno, lo spettacolo del chiaro di luna, una gita in barca a vela sul mare, la gioia che dà un bambino, il brivido di fronte alla bellezza – tutto questo si svolge totalmente al di fuori del tempo. Perché poco importa che io incontri la bellezza per un secondo o nello spazio di cent’anni. Non solo la felicità si situa ai margini del tempo, ma essa nega anche ogni relazione tra il tempo e la vita.
Depongo dunque il fardello del tempo dalle mie spalle e, con esso, quello delle prestazioni che da me si pretendono. La mia vita non è qualcosa che si debba misurare. Né il salto del capriolo né il sorgere del sole sono delle prestazioni. E nemmeno una vita umana è una prestazione, ma qualcosa che cresce e cerca di raggiungere la perfezione. E ciò che è perfetto non dà prestazioni: ciò che è perfetto opera in stato di quiete. È assurdo sostenere che il mare esista per sorreggere flotte e delfini. Certo, lo fa, ma conservando la sua libertà. Ed è altrettanto assurdo affermare che l’uomo esiste per qualcos’altro che non sia il vivere. Certo, egli alimenta macchine o scrive libri, ma potrebbe fare qualsiasi altra cosa. L’essenziale è che faccia quel che fa mantenendo la propria libertà e con la chiara coscienza di avere in sé – come ogni altro dettaglio della creazione – il proprio fine. Egli riposa in se stesso come un ciottolo sulla sabbia.
Posso anche affrancarmi dal potere della morte. Certo, non potrò mai liberarmi dal pensiero che la morte segue i miei passi, e tanto meno negare la sua realtà. Ma posso ridurre la minaccia fino ad annullarla non ancorando la mia vita a punti d’appoggio tanto precari come il tempo e la fama.
Per contro, non è in mio potere di restare in eterno rivolto verso il mare e comparare la sua libertà con la mia. Arriverà il momento in cui dovrò rivolgermi verso la terra e affrontare gli organizzatori dell’oppressione di cui sono vittima. Ciò che sarò allora costretto a riconoscere, è che l’uomo ha dato alla sua vita delle forme che, almeno in apparenza, sono più forti di lui. Anche con la mia libertà così recente non le posso rompere, non posso che sospirare sotto il loro peso. Per contro, fra le esigenze che pesano sull’uomo, posso vedere quali sono assurde e quali sono ineluttabili. Secondo me, una specie di libertà è persa per sempre o a lungo. È la libertà che viene dalla capacità di possedere il proprio elemento. Il pesce possiede il suo, così come l’uccello o l’animale terrestre. Thoreau aveva ancora la foresta di Walden – ma dov’è ora la foresta nella quale l’essere umano possa provare che è possibile vivere in libertà al di fuori delle rigide forme della società?
Sono obbligato a rispondere: da nessuna parte. Se voglio vivere libero, occorre per il momento che lo faccia all’interno di queste forme. Il mondo è dunque più forte di me. Al suo potere non ho nulla da opporre se non me stesso – ma, d’altro canto, questo non è poco. Poiché, fintanto che non mi lascio schiacciare dalla quantità, anch’io sono una potenza. E il mio potere è temibile fintanto che io posso opporre la forza delle mie parole a quella del mondo, perché colui che costruisce prigioni si esprime meno bene di colui che costruisce la libertà.  Ma la mia potenza non conoscerà più limiti il giorno in cui non avrò che il silenzio per difendere la mia inviolabilità, perché nessuna ascia può intaccare il silenzio vivente.
Questa è la mia sola consolazione. So che le ricadute nella disperazione saranno numerose e profonde, ma il ricordo del miracolo della liberazione mi porta come un’ala verso una meta che mi dà la vertigine: una consolazione che sia più di una consolazione e più grande di una filosofia, cioè: una ragione di vivere.


Je suis dépourvu de foi et ne puis donc être heureux, car un homme qui risque de craindre que sa vie soit une errance absurde vers une mort certaine ne peut être heureux. Je n’ai reçu en héritage ni dieu, ni point fixe sur la terre d’où je puisse attirer l’attention d’un dieu : on ne m’a pas non plus légué la fureur bien déguisée du sceptique, les ruses de Sioux du rationaliste ou la candeur ardente de l’athée. Je n’ose donc jeter la pierre ni à celle qui croit en des choses qui ne m’inspirent que le doute, ni à celui qui cultive son doute comme si celui-ci n’était pas, lui aussi, entouré de ténèbres. Cette pierre m’atteindrait moi-même car je suis bien certain d’une chose : le besoin de consolation que connaît l’être humain est impossible à rassasier.
En ce qui me concerne, je traque la consolation comme le chasseur traque le gibier. Partout où je crois l’apercevoir dans la forêt, je tire. Souvent je n’atteins que le vide mais, une fois de temps en temps, une proie tombe à mes pieds. Et, comme je sais que la consolation ne dure que le temps d’un souffle de vent dans la cime d’un arbre, je me dépêche de m’emparer de ma victime. 
Qu’ai-je alors entre mes bras ?
Puisque je suis solitaire : une femme aimée ou un compagnon de voyage malheureux. Puisque je suis poète : un arc de mots que je ressens de la joie et de l’effroi à bander. Puisque je suis prisonnier : un aperçu soudain de la liberté. Puisque je suis menacé par la mort : un animal vivant et bien chaud, un cœur qui bat de façon sarcastique. Puisque je suis menacé par la mer : un récif de granit bien dur. 
Mais il y a aussi des consolations qui viennent à moi sans y être conviées et qui remplissent ma chambre de chuchotements odieux : Je suis ton plaisir – aime-les tous ! Je suis ton talent – fais-en aussi mauvais usage que de toi-même !
Le fil du rasoir est bien étroit. Je vois ma vie menacée par deux périls : par les bouches avides de la gourmandise, de l’autre par l’amertume de l’avarice qui se nourrit d’elle-même. Mais je tiens à refuser de choisir entre l’orgie et l’ascèse, même si je dois pour cela subir le supplice du gril de mes désirs. Pour moi, il ne suffit pas de savoir que, puisque nous ne sommes pas libres de nos actes, tout est excusable. Ce que je cherche, ce n’est pas une excuse à ma vie mais exactement le contraire d’une excuse : le pardon. L’idée me vient finalement que toute consolation ne prenant pas en compte ma liberté est trompeuse, qu’elle n’est que l’image réfléchie de mon désespoir. En effet, lorsque mon désespoir me dit : Perds confiance, car chaque jour n’est qu’une trêve entre deux nuits, la fausse consolation me crie : Espère, car chaque nuit n’est qu’une trêve entre deux jours.
Mais l’humanité n’a que faire d’une consolation en forme de mot d’esprit : elle a besoin d’une consolation qui illumine. Et celui qui souhaite devenir mauvais, c’est-à-dire devenir un homme qui agisse comme si toutes les actions étaient défendables, doit au moins avoir la bonté de le remarquer lorsqu’il y parvient.
Personne ne peut énumérer tous les cas où la consolation est une nécessité. Personne ne sait quand tombera le crépuscule et la vie n’est pas un problème qui puisse être résolu en divisant la lumière par l’obscurité et les jours par les nuits, c’est un voyage imprévisible entre des lieux qui n’existent pas. Je peux, par exemple, marcher sur le rivage et ressentir tout à coup le défi effroyable que l’éternité lance à mon existence dans le mouvement perpétuel de la mer et dans la fuite perpétuelle du vent. Que devient alors le temps, si ce n’est une consolation pour le fait que rien de ce qui est humain ne dure – et quelle misérable consolation, qui n’enrichit que les Suisses !
Je peux rester assis devant un feu dans la pièce la moins exposée de toutes au danger et sentir soudain la mort me cerner. Elle se trouve dans le feu, dans tous les objets pointus qui m’entourent, dans le poids du toit et dans la masse des murs, elle se trouve dans l’eau, dans la neige, dans la chaleur et dans mon sang. Que devient alors le sentiment humain de sécurité si ce n’est une consolation pour le fait que la mort est ce qu’il y a de plus proche de la vie – et quelle misérable consolation, qui ne fait que nous rappeler ce qu’elle veut nous faire oublier !
Je peux remplir toutes mes pages blanches avec les plus belles combinaisons de mots que puisse imaginer mon cerveau. 
Etant donné que je cherche à m’assurer que ma vie n’est pas absurde et que je ne suis pas seul sur la terre, je rassemble tous ces mots en un livre et je l’offre au monde. En retour, celui-ci me donne la richesse, la gloire et le silence. Mais que puis-je bien faire de cet argent et quel plaisir puis-je prendre à contribuer au progrès de la littérature – je ne désire que ce que je n’aurai pas : confirmation de ce que mes mots ont touché le cœur du monde. Que devient alors mon talent si ce n’est une consolation pour le fait que je suis seul – mais quelle épouvantable consolation, qui me fait simplement ressentir ma solitude cinq fois plus fort !
Je peux voir la liberté incarnée dans un animal qui traverse rapidement une clairière et entendre une voix qui chuchote : Vis simplement, prends ce que tu désires et n’aie pas peur des lois ! Mais qu’est-ce que ce bon conseil si ce n’est une consolation pour le fait que la liberté n’existe pas – et quelle impitoyable consolation pour celui qui s’avise que l’être humain doit mettre des millions d’années à devenir un lézard !
Pour finir, je peux m’apercevoir que cette terre est une fosse commune dans laquelle le roi Salomon, Ophélie et Himmler reposent côte à côte. Je peux en conclure que le bourreau et la malheureuse jouissent de la même mort que le sage, et que la mort peut nous faire l’effet d’une consolation pour une vie manquée. Mais quelle atroce consolation pour celui qui voudrait voir dans la vie une consolation pour la mort !

mercoledì 11 dicembre 2013

ricordo di Gipo Farassino




BALLATA PER UN EROE
(Farassino)

Partire partirò partir bisogna
Cacciando in fondo al cuore la vergogna
Di appartenere a un gregge muto e vile
Che non sa dir di no ad un fucile

Partire partirò e un cappellano
Con un sorriso mesto nella mano
Mi porgerà un'immagine e un addio
Nel nome intemerato del buon Dio

Lo squillo sgangherato di una tromba
Ed il fragore della prima bomba
Per quanto possan essere potenti
Non copriranno il batter dei miei denti

E all'ordine imperioso dell'attacco
indietro resterò da buon vigliacco
E sconterò alfine la mia pena
Crepando con sei palle nella schiena

Andrò a ingrossare la nutrita schiera
Di quelli che aggrappati a una bandiera
Son morti bestemmiando di paura
Ad occhi chiusi in una notte scura

Diranno che ero un ottimo soldato
Diranno ch'ero il più disciplinato
E forse manderanno un telegramma
Di condoglianze alla mia cara mamma

La gente del mio piccolo paese
Concorrerà orgogliosa a quelle spese
Che serviranno un giorno a immortalare
Il nome mio nel marmo di un altare

E forse mi faranno un monumento
Che sfiderà la collera del vento
Il busto eretto i pugni sul fucile
Lo sguardo fiero volto al campanile

Si indignerà lo spirito immortale
Di chi donò la vita a un ideale
Per contro mille figlie di Maria
Mi crederanno santo e così sia

Io pregherò soltanto che il sorriso
Di un bimbo non si posi sul mio viso
Il marmo può arrossire di vergogna
Partire partirò partir bisogna.

un appello, grazie a Snowdwn

Negli ultimi mesi è diventato di dominio pubblico in che misura viene esercitata la sorveglianza di massa. Basta qualche clic e lo stato può accedere al vostro cellulare, alla vostra posta elettronica, alla vostra attività sui social network e alle ricerche su Internet. Può seguire le vostre simpatie e attività politiche e, in collaborazione con le grandi società di Internet, raccoglie e archivia i vostri dati, potendo così prevedere i vostri consumi e il vostro comportamento. 

L'inviolabile integrità dell'individuo è il pilastro fondamentale della democrazia. L'integrità umana va oltre la fisicità corporea. Tutti gli esseri umani hanno il diritto di non essere osservati e disturbati nei loro pensieri, nel loro ambiente personale e nelle comunicazioni. 

Questo diritto umano fondamentale è stato annullato e svuotato dall'uso improprio che stati e grandi imprese fanno delle nuove tecnologie a fini di sorveglianza di massa. 

Una persona sotto sorveglianza non è più libera; una società sotto sorveglianza non è più una democrazia. Per mantenere una qualche autenticità i nostri diritti democratici devono valere nello spazio virtuale come in quello reale. 
* La sorveglianza viola la sfera privata, e compromette la libertà di pensiero e di opinione. 
* La sorveglianza di massa tratta ogni cittadino alla stregua di un potenziale sospetto. Sovverte una delle nostre conquiste storiche, la presunzione di innocenza. 
* La sorveglianza rende l'individuo trasparente, mentre lo stato e le grandi imprese operano in segreto. Come abbiamo visto questo potere è oggetto di abusi sistematici. 
* La sorveglianza è furto. Questi dati non sono proprietà pubblica: appartengono a noi. Nel momento in cui vengono usati per prevedere il nostro comportamento veniamo derubati di qualcos'altro: il principio del libero arbitrio, fondamentale per la libertà democratica. 

Rivendichiamo il diritto di tutte le persone a determinare, in quanto cittadini democratici, in che misura possa avvenire la raccolta, archiviazione e elaborazione dei propri dati personali e ad opera di chi; il diritto di essere informati sulle modalità di archiviazione dei propri dati e sull'uso che ne viene fatto; di ottenere la cancellazione dei propri dati nel caso in cui siano stati raccolti e archiviati illegalmente. 

FACCIAMO APPELLO AGLI STATI E ALLE IMPRESE perché rispettino questi diritti.

FACCIAMO APPELLO A TUTTI I CITTADINI perché lottino in difesa di questi diritti. 

FACCIAMO APPELLO ALLE NAZIONI UNITE perché riconoscano l'importanza fondamentale della protezione dei diritti civili nell'era digitale e della creazione di una Carta internazionale dei diritti digitali. 

FACCIAMO APPELLO AI GOVERNI affinché sottoscrivano tale convenzione e vi aderiscano.