mercoledì 31 ottobre 2018

La negritudine concentrata in una foto di protesta - Antonella Sinopoli




La dignità e il rispetto possono essere concetti astratti. Finché qualcuno o qualcosa te li consegna in carne ed ossa.
E se questa carne e queste ossa appartengono a bambini, allora la lezione diventa storica. Per te che la racconti e per gli altri – si spera.
Più lunga è la mia permanenza in territorio africano, meno mi attardo a fotografare le persone. Esseri umani, come me. Che la maggior parte delle volte non hanno nessuna voglia di finire sui tuoi social a generare commenti o like a cui loro non potranno replicare. Lo raccontavo anche qui, quanto fastidioso diventa, con il tempo, fare i conti con la pornografia della povertà, che ha trasformato gli africani in oggetti e noi in consumatori voraci di storie e facce disperate. Sicuro che sono disperate? O siamo noi alla ricerca continua di realtà che ci facciano sentire,  inconsciamente ma evidentemente – fortunati, migliori, civilizzati, diversi.
No, non siamo diversi. E loro, i ragazzi che vedete nella foto, me lo hanno sbattuto in faccia. Prenderne coscienza è stato illuminante. E come vorrei, come vorrei che questo gesto passasse e circolasse tra tutti quelli che vanno in giro a rubare volti e situazioni. Tra tutti quelli che l’Africa la usano. Tra tutti quelli per cui esiste un “loro” ma non un “noi”.
Quella foto volevo prenderla per testimoniare la difficoltà di frequentare la scuola per bambini che vivono in villaggi – in questo caso un villaggio sulla costa occidentale del Ghana – dove mezzi di trasporto non se ne possono prendere e si deve camminare a lungo sulla spiaggia e attraversare  un ponte, singolare ma instabile, per arrivare all’edificio scolastico.  E questo tutti i giorni, andare e venire.

Dopo averne scattata una da lontano, li ho raggiunti e gli ho fatto cenno che volevo fotografarli. A quel punto è successo questo: si sono piegati, uno accanto all’altro, e hanno abbassato la testa, in modo che non potessi riprendere il loro volto. Non ho capito in un lampo, ma mentre scattavo la foto. Ho capito che mi stavano combattendo. Che mi stavano sfidando. Che mi stavano rifiutando.

Non me. Ma tutti noi. Tutta la nostra arroganza, presunzione di poter fare quello che ci pare. Di poter passare sopra desideri e consensi. Sopra volontà e rifiuti. Passare sopra a tutto. Disumanizzare gli altri solo per vanità, superficialità. Perché tanto noi possiamo. Se la negritudine – che questi bambini non hanno in mente cosa sia – ha un aspetto, per me sta in questa foto. Mostrare la propria dignità, la propria capacità di decidere. Affrontare la mancanza di rispetto con l’azione, con la protesta silenziosa. Con un atto che umilia, finalmente, quella parte di gente che ha sempre pensato – e continua a farlo – “Noi possiamo tutto”.
La pornografia della povertà è odiosa e alimenta visioni distorte dell’Africa e degli africani. Poi capita che con un solo gesto di ribellione, dei bambini ti mostrino la loro visione delle cose. E tu rimani lì a interrogarti su quanti fiumi di letture non siano nulla di fronte all’azione concreta di chi ti sbatte in faccia la tua mancanza di rispetto, la tua e quella di tutti coloro per cui le persone non sono esseri umani ma oggetti da condividere, mostrare, raccontare. Riderne, magari. Dimenticandone le vite reali, dimenticandone le volontà, dimenticandone le storie.
Questi bambini hanno detto “non sono in vendita.” Hanno detto “esisto”. Non perché nero tra neri, ma perché sono io. Hanno messo in atto l’orgoglio. Un orgoglio giovane, ma nello stesso tempo tanto, tanto antico.

intervista a Noura Erakat



Pubblichiamo un’intervista trasmessa dalla CBSN a Noura Erakat, attivista a avvocato palestinese, nei giorni dell’apertura dell’ambasciata americana a Gerusalemme. Ne scaturisce una lucida e dirompente analisi sullo squilibrio che ha caratterizzato i negoziati di pace tra Palestina e Israele fino ad oggi. (Traduzione di Luca Urbinati)

martedì 30 ottobre 2018

Gaza. Tre bambini fatti a pezzi da Israele - Patrizia Cecconi




La notizia che tra Israele e Gaza, con la mediazione dell’Egitto, fosse stato raggiunto il cessate il fuoco non ha quasi fatto in tempo ad essere stampata che un’azione mostruosa commessa da Israele potrebbe averla resa nulla.

La tregua firmata ieri dalla Jihad, decisione che ha creato qualche perplessità in quanto l’accordo è stato firmato da un movimento politico e non dai rappresentanti dell’autorità che governa Gaza, oggi forse si può considerare rotta. I rappresentanti della Jihad, infatti, avevano pubblicamente affermato che “il cessate il fuoco verrà rispettato finché Israele lo rispetterà” e Israele questa sera, prima ancora che arrivasse la notte non lo ha rispettato, uccidendo tre bambini.

Tre bambini di circa 12 anni che avevano tentato un’avventura folle. Una cosa di quelle che se fosse riuscita li avrebbe fatti sentire degli eroi partigiani degni di essere ricordati e onorati, il giorno in cui Gaza sarà finalmente libera, magari da un grande regista che avrebbe dedicato loro un film, un po’ come Tarkovskji con il pluripremiato “L’infanzia di Ivan”. Il paragone non è azzardato perché una serie di circostanze sono simili. Ivan era un bambino di 12 anni nell’Europa tormentata dalla Seconda guerra mondiale e aveva perso i genitori per mano del nazismo.

Khaled, Abdul e Mohammed, i tre bambini che hanno tentato l’avventura mortale, non sappiamo ancora se fossero anch’essi orfani come Ivan, ma sappiamo, per triste esperienza, che sicuramente nelle loro case erano appese foto di fratelli o genitori o altri parenti martiri. Perché non c’è famiglia a Gaza che non abbia almeno un martire e spesso molti di più.

Ivan decise di combattere contro gli invasori nazisti e Khaled, Abdul e Mohammed decidono di mostrare che saranno capaci di rompere l’assedio imposto dagli invasori della loro terra.

I tre ragazzini vivevano nella stessa area, Wadi al Salqa, un luogo dove la mancanza di depuratori e le acque reflue rendono l’aria irrespirabile. Dove avranno concepito la loro idea di rompere l’assedio? Magari tornando insieme da scuola, oppure seduti sulla sabbia di fronte a quel mare che Israele blocca col suo assedio! Quali discorsi avranno dato loro il coraggio di affrontare un nemico tanto forte pensando di non essere scoperti? Come Ivan, che non accetta di essere protetto ma vuole stare in prima linea ritenendo che solo i vigliacchi si fanno indietro, anche loro hanno voluto affrontare il nemico mostrando che se l’assedio non lo rompe il Diritto internazionale, sempre accondiscendente verso Israele, lo avrebbero rotto loro, piccoli, avventurosi e determinati. Ma come Ivan sarebbero stati fermati dal nemico.

Loro però non hanno trovato davanti a sé un nemico che li avrebbe arrestati, giudicati - sebbene sommariamente - e poi condannati a morte con la crudeltà di cui la guerra in generale e il nazismo in particolare erano capaci.
No, Khaled, Abdul e Mohammed non hanno avuto davanti a sé soldati che li hanno catturati e portati davanti a un tribunale, Israele in questo ha superato di gran lunga le aberrazioni naziste. Israele purtroppo, come ammettono con dolore anche i pochi israeliani sinceramente democratici, non rispetta in nessun modo i diritti dei palestinesi, li fucila come e quando vuole senza che nessuna sanzione delle Nazioni unite fermi i suoi crimini.
Israele si pone al di sopra di ogni norma del Diritto internazionale e somministra, quando vuole, la pena di morte ai palestinesi di ogni età senza arresto, senza istruttoria, senza processo, ponendosi fuori da ogni fondamento democratico, anche solo formale, col plauso del 90% dei suoi cittadini ebrei.

I tre piccoli amici di Wadi al Salqa, intercettati mentre cercavano di rompere l’assedio illegale mantenuto grazie alle complicità internazionali, non sono stati fermati, restituiti ai propri genitori in quanto minori o magari arrestati, no, l’aviazione israeliana si è occupata del caso centrandoli e uccidendoli. PENA DI MORTE SENZA PROCESSO. I loro corpi sono stati smembrati dalle bombe e le ambulanze della Mezzaluna Rossa non sono state fatte passare per soccorrerli. Vietato soccorrere i feriti, se questi sono palestinesi! Solo più tardi, quando Israele ha deciso che poteva disfarsi di quei piccoli corpi smembrati, li ha consegnati alla Mezzaluna Rossa.

Tre vite fatte a pezzi perché sognavano di poter raggiungere la libertà che i loro padri e fratelli non avevano raggiunto. Se su quei pezzi ci si mettesse la faccia dei nostri figli o dei nostri fratelli sarebbe più facile capire cosa significa il diritto all’odio per chi quel figlio o quel fratello lo ha perso e, insieme, il dovere collettivo all’odio verso l’ingiustizia mai sanzionata che perpetua questi.crimini.  
I media mainstream parleranno di quest’ennesimo crimine? E se sì “come” ne parleranno? Probabilmente mettendo l’accento sul fatto che i bambini volevano creare una breccia nel muro che li assedia e quindi sono colpevoli della loro stessa fine. Lo diranno con più o meno garbo, ma questo sarà il loro dire perché su una cosa Israele è stato veramente fantastico, nel far dimenticare i suoi torti e le sue colpe primarie, per cui si toglierà l’accento dalla disumanità e dall’illegalità dell’assedio e si darà la colpa ai bambini che volevano creare un varco o, meglio ancora, ai loro genitori, colpevoli di non averli tenuti in casa. In questo modo non si percepirà a pieno la gravità del pluriomicidio, né tantomeno quella dell’assedio e quindi non si sentirà quell’odio contro l’ingiustizia che è l’unico antidoto al suo perpetuarsi impunemente.

Non vale soltanto per i crimini commessi da Israele contro i palestinesi, è un discorso che riguarda l’universo, ma Israele è il paradigma dell’ingiustizia tollerata e legalizzata e basta guardare con lenti oneste le sua storia su terra Palestinese per rendersene conto. Questi ultimi tre bambini che sognavano di dare un esempio per conquistare la libertà saranno probabilmente gettati dai media nel calderone dei “terroristi” lasciando che il mostro prosegua nelle sue stragi indisturbato.

Betlemme 28 ottobre 2018




Alternanza scuola guerra - Antonio Mazzeo




Gli stage di Alternanza Scuola Lavoro per gli studenti siciliani dell’Istituto d’Istruzione Superiore “Carlo Alberto Dalla Chiesa” di Caltagirone e Mineo?Pagando trecento euro per cinque giorni tra i sottomarini, i caccia e gli elicotteri ospitati nelle basi di guerra pugliesi, con tanto di incursioni ed escursioni in compagnia dei fanti di marina del Reggimento “San Marco”.
Mercoledì 24 ottobre gli alunni frequentanti quattro classi dell’ISS “Dalla Chiesa” sono partiti alla volta di Martina Franca per intraprendere le attività di Alternanza Scuola Lavoro previste da un protocollo firmato tra la dirigenza e la Marina Militare.
Intenso il programma predisposto dai vertici della forza armata. Il 25 ottobre “percorso formativo” presso la Caserma “Carlotto”, sede del Reggimento “San Marco”, truppa d’élite delle forze armate italiane e Nato. Successivamente, visita al “Monumento del Marinaio”, la brutta struttura in cemento armato a forma di timone realizzata nel porto di Brindisi nel 1933 per volere di Benito Mussolini per “commemorare i caduti della Grande Guerra”. Venerdì 26 ottobre invece, visita della base aerea della Marina Militare di Grottaglie con altro “percorso formativo” a cura del personale di Maristaer per conoscere, si immagina, le intrepide operazioni di bombardamento dei caccia AV-8B II Herrier in Serbia, Kosovo e Montenegro nel 1999 e in Afghanistan (2001-02) o, forse, le giravolte sperimentali dei nuovi prototipi di droni d’attacco made in Italy. Sabato 27, visita alla base navale di Taranto con “percorso formativo presso il Centro Scuole e visita a bordo dei sommergibili e delle unità navali se presenti in porto”. Dulcis in fundo, domenica 28, con la visita guidata al Castello Aragonese di Taranto di proprietà della Marina Militare, al Canale Navigabile e al Ponte Girevole. In serata partenza in pullman per rientrare in Sicilia.
“Il costo pro capite è di trecento euro”, riporta in calce la circolare dell’istituto “Dalla Chiesa”. “Per motivi di sicurezza non sono menzionati i percorsi oggetti di interesse. Gli Studenti saranno accompagnati da Ufficiali e Sottufficiali istruttori per tutto il periodo di percorso. Si precisa che qualora dovessero svolgersi in tale date eventi istituzionali al momento non programmati/programmabili, l’attività potrebbe subire variazioni nelle modalità esecutive, ovvero revocate, anche con breve preavviso”. Cioè, paghi, ma non è certo che sali a bordo dei mezzi di Alternanza Scuola-Guerra. Ma se sei fortunato, magari potrai toccare con mano l’ultimo “gioiello” prodotto nelle industrie di morte di Cameri-Novara, il cacciabombardiere F-35B “a decollo corto e ad atterraggio verticale”, consegnato alla Marina a gennaio e attualmente in fase di collaudo sulla portaerei Cavour e a Grottaglie.
La scuola italiana è davvero (più) partita per la guerra.


lunedì 29 ottobre 2018

I Palestinesi meritano la stessa dignità riconosciuta ai figli dei sopravvissuti all’Olocausto - Shahd Abusalama



Mentre scrivo, ricordo le molte volte in cui ho dovuto sedermi in una stanza in cui gli Europei discutevano della loro profonda colpa per le atrocità commesse contro le loro comunità ebraiche. Ricordo altresì i molti momenti estremamente dolorosi  in cui mi sono sentita completamente invisibile durante le discussioni sul razzismo, sul colonialismo, sulla giustizia sociale e sui diritti dei rifugiati e dei migranti. Il battito accelerato del mio cuore che mi sopraffaceva insieme agli innumerevoli ricordi di terrore e di dolore, un grido trattenuto che desiderava disperatamente una risposta: perché non c’è alcun sentimento di colpa nei nostri confronti dato che i Paesi europei alimentano e permettono il terrorismo israeliano contro i Palestinesi? O noi non contiamo come persone? Che ne è della questione dei rifugiati Palestinesi, il problema di più lunga data nella nostra storia moderna?
Vorrei poter scuotere la coscienza delle persone e affrontarle ponendo loro davanti un secolo di complicità che, se avessero riconosciuto, avrebbe loro causato una durissima sensazione di colpevolezza nei confronti dei Palestinesi. La situazione era, è e continuerà ad essere cupa fino a quando non verranno intraprese azioni concrete per fermare (non per  alleviare) le gravi ingiustizie che per tutti i 70 anni di occupazione coloniale israeliana e di apartheid  sono avvenute e avvengono alla luce del giorno e davanti agli occhi di tutto il mondo.
Fino ad allora, i desideri irrealizzati dei nostri nonni che sono morti mentre si aggrappavano fino all’ultimo respiro al loro diritto al ritorno, vi perseguiteranno. Le vite dei molti pazienti che sono morti per malattie minori dovute alla chiusura dei valichi e ai posti di blocco, vi perseguiteranno. I sogni dei nostri bambini. Le grida delle madri palestinesi. Gli anni rubati ai nostri prigionieri politici. Le foto di tutte le nostre vittime, giovani e vecchie. Le gocce di sangue che scorrono da ogni persona ferita. Gli arti amputati. Gli ulivi sradicati. Le case demolite. I ricordi custoditi in ciascuno dei loro angoli. Le terre deserte. Gli occhi insonni che aspettavano da tempo l’alba della libertà. I corpi uccisi che sono rimasti sanguinanti fino a quando non sono stati prosciugati del loro sangue. Il corpo senza vita di Malak Rabah Abu Jazar, una ragazza palestinese di Gaza che le onde del mare hanno spinto verso le coste turche dopo una fallita fuga dalla prigione a cielo aperto di Gaza verso una vita più sicura. Tutto ciò vi perseguiterà, e ignorarlo è a nostro pericolo.
Lungo la recinzione che separa Gaza, una folle enorme si confronta ancora con i cecchini israeliani che si nascondono dietro i cumuli di sabbia e nelle loro jeep militari, andando avanti e indietro a seconda del livello di forza letale che Israele stabilisce si debba utilizzare contro di loro. La Grande Marcia del  Ritorno di marzo è arrivata al suo settimo mese, con il campo più volte trasformato in una drammatica scena di spargimenti di sangue e di repressione, il tutto documentato dalla stampa  locale e dalle persone sul campo, che vogliono ricordare al mondo le orribili ingiustizie subite dai  Palestinesi e spingere a favore di azioni che potrebbero porvi fine.
Mentre queste atrocità continuano impunemente, il discorso dominante dei media occidentali sta trasformando questi eventi orribili in uno spettacolo che distoglie l’attenzione dall’ingiustizia che i Palestinesi vivono sotto Israele e dalle loro legittime rivendicazioni, e comunque ogni notizia viene  sempre preceduta da una dichiarazione dell’esercito israeliano atta a giustificare i suoi crimini . Se i media sono riusciti a desensibilizzarvi, ricordatevi  che se si accumulassero tutte  le lacrime di tutte le famiglie che hanno avuto almeno un membro ucciso, mutilato, annegato o imprigionato, quel fiume di  lacrime sommergerebbe la terra.
Nonostante questo lungo processo di disumanizzazione, demonizzazione e pacificazione, e la conseguente repressione israeliana, i manifestanti non si scoraggiano e continuano a manifestare  lungo la barriera. Per loro, la scelta rimane tra un inferno vivente o una morte dignitosa.  Vogliono disperatamente che il mondo metta a nudo  i crimini di Israele. Esprimono l’urgenza di una soluzione politica che non si limiti ai confini di Gaza e alla fine dell’assedio, ma che comprenda la richiesta del Diritto al Ritorno.
I Palestinesi chiedono anche una competente leadership che sappia investire in questa resistenza popolare e nei suoi sacrifici. Le chiedono di correggere il percorso che gli accordi di pace di Oslo del1993 hanno contrassegnato con divisioni interne e marginalizzazione delle questioni fondamentali della lotta anticoloniale, a favore di una delirante autonomia su territori strutturati da bantustan (dove i Palestinesi sono  a tutti gli effetti funzionari dell’occupazione israeliana).
I Palestinesi si stanno sacrificando per ricordare agli attori interni ed esterni che la nostra lotta anti-colonialista riguarda la liberazione, non l’indipendenza. Questo era, è e continuerà ad essere la natura della nostra lotta, nonostante quelle mani maledette che tentano di ridefinirla e di distorcerla.

Shahd Abusalama è una studentessa della Sheffield Hallam University con dottorato di ricerca sul cinema palestinese, nata e cresciuta nel campo profughi di Jabalia, nella parte nord di Gaza, in Palestina. È artista, attivista, autrice del blog My Eyes e co-fondatrice della Hawiyya Dance Company con sede a Londra. Seguila su Twitter all’indirizzo @ShahdAbusalama.
Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni schiavitù” Invictapalestina.org
Fonte: https://mondoweiss.net/2018/10/palestinians-holocaust-survivors/?fbclid=IwAR03q5TxicbInjN7RQDmNs0oQ9LCB82RCCuxvkdIgKHxTltj8xlC49gDpws


Morta per le sassate dei coloni ma viene punita la sua famiglia - Alessandra Mincone




E’ stata vittima di una grave violenza eppure a pagare il conto, almeno per ora, è proprio la famiglia al Rabi. I media palestinesi riferiscono che lo Shin Bet, il servizio di sicurezza interno di Israele, ha revocato i permessi per lavorare nello Stato ebraico al marito e a un parente stretto di Aisha al Rabi, donna palestinese rimasta uccisa circa due settimane fa nell’incidente d’auto causato dai lanci di pietre dei coloni israeliani contro la sua automobile nei pressi di un posto di blocco militare a Nablus.
   Una punizione che da un lato grava sulla famiglia dove ora otto bambini sono orfani di madre e fa di Aisha la seconda persona uccisa nella stessa casa, e dall’altro lascia impuniti i responsabili, i coloni israeliani, ossia la rappresentazione più compiuta del sistema di occupazione della Cisgiordania palestinese.
Lo Shin Bet prova a tutelare la propria immagine assicurando che le indagini sono tutt’ora aperte e che “non verrà esclusa la pista di un atto di terrore portato avanti dai coloni israeliani dell’area”. E giustifica il ritiro dei permessi di lavoro ai familiari informandoli che sono dinieghi “temporanei” vincolati alle leggi di Israele.
Il ritiro dei documenti per il marito di Aisha al Rabi, tra l’altro anch’egli rimasto ferito e privo di coscienza nella sassaiola dei coloni contro la sua auto, rappresenta una forma di derisione da parte delle autorità israeliane e una legittimazione degli episodi quotidiani di abuso di potere contro i palestinesi.
Nickolay Mladenov, coordinatore speciale delle Nazioni Unite per il processo di pace in Medio Oriente, ha condannato l’attacco alla donna e al marito affermando che “i responsabili devono essere subito assicurati alla giustizia. Urge smetterla con il terrore e la violenza”.  Invece secondo il ministro del turismo d’Israele, Yariv Levin, che ha commentato l’accaduto in un’intervista radiofonica, le ragioni del decesso della donna non sarebbero ancora comprovabili, data l’assenza di una perizia del veicolo. Mettendo in dubbio la pista di un’aggressione da parte dei coloni, il ministro ha ipotizzato un semplice incidente d’auto poi strumentalizzato dalla famiglia descritta come “tipi di persone vicine agli ambienti di sinistra che in maniera ipocrita non fanno che incolpare lo Stato Ebraico”.
Ma quello che oggi risulta realmente ipocrita alla luce dei fatti, è che dal 2015 la Knesset, il parlamento israeliano, condanni uomini, donne e bambini palestinesi fino a 20 anni di carcere per il lancio di pietre “finalizzato all’aggressione contro civili e forze dell’ordine”, additando di terrorismo adulti e minori palestinesi in maniera indiscriminata, mentre i coloni israeliani sembrano poter utilizzare quella stessa violenza  in maniera legittima nelle aree di forte tensione. Inoltre se un palestinese volesse dimostrare la sua innocenza dall’accusa di aver lanciato sassi con l’intento voler ledere cose o persone incorrerebbe comunque in una pena lunga fino a 10 anni di prigione.
Dal 2018, nel periodo compreso tra gennaio e aprile, l’Ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento degli affari umanitari ha registrato più di 80 casi di violenze subite dai palestinesi dovute al lancio di pietre ad opera dei coloni israeliani. Nel 25% dei casi viene documentato che prendono di mira le persone in case e automobili, quando appaiono indifese. Invece non sono verificabili i procedimenti penali in corso dove i coloni sono imputati per il lancio di pietre, per una evidente mancanza di uguaglianza delle condanne per israeliani e palestinesi nei tribunali israeliani. Al contrario è da notare ch dal 1° ottobre 2015, quindi allo scoppio dell’Intifada di Gerusalemme, ad oggi più di 2500 minori palestinesi sono stati imprigionati e il capo d’accusa più comune nei loro confronti è il lancio di pietre.
E intanto l’esercito israeliano sperimenta quotidianamente contro i palestinesi i prodotti dell’industria bellica nazionale eletta come la più fruttuosa ed efficiente al mondo.

domenica 28 ottobre 2018

Mega Laboratorio INVALSI: la schedatura psicologica di massa dei minori italiani - Rossella Latempa


  
Una profilazione psicologica di massa degli alunni, a partire dalle scuole elementari, gestita in modo del tutto opaco da INVALSI.  Raccogliere dichiarazioni sull’autostima, la fiducia, o le aspettative future di circa 2 milioni di studenti e considerarli possibili predittori di comportamenti sociali o educativi da adulti, significa confezionare un enorme database di ipotetici profili di cittadini, lavoratori, studenti universitari. Chi sarà il proprietario dei dati psicologici raccolti dall’INVALSI? Quale uso potrebbero farne eventuali soggetti terzi che ne entrassero in possesso? Questo è quanto emerge dalla nostra analisi sulle socio-emotional skills che si conclude con questo terzo post. Proviamo a riprendere le fila:
1) l’Istituto di Valutazione italiano ha stabilito in maniera unilaterale che alcune nostre scuole aderiranno agli studi OCSE sulla misura delle soft skills (“domini Big Five”) di studenti dai 10 anni in avanti (I parte del post).
2) Gli studi che riguardano le soft skills si basano sulla somministrazione di questionari che associano le dichiarazioni dei bambini/adolescenti intervistati ad una certa probabilità di incidenza di comportamenti/manifestazioni socialmente desiderabili o di particolari rischi/disturbi nella vita adulta (II parte del post)
3) Gli studi che riguardano le soft skills sono generalmente su base campionaria e si svolgono dopo opportuna informazione e raccolta di consenso al trattamento dei dati personali dei partecipanti.
3) I quesiti sull’autoefficacia, autostima, motivazione e aspettative future del Questionario 2018 sembrano appartenere all’ area scientifica della psicologia dell’età evolutiva. Non ci risulta, inoltre, alcun precedente scientifico, nazionale o internazionale, di rilevazioni di massa di tipo psicometrico-motivazionale.
4) La somministrazione censuaria (a tutti gli studenti italiani) dei nuovi items contenuti nei questionari può, con ampio margine di ragionevolezza, configurarsi come una profilazione di minori (=raccolta automatizzata di dati per valutazione di aspetti personali) avvenuta in assenza di adeguata e preventiva informazione e con commistione di finalità, per le quali sarebbe stato necessario raccogliere consensi specifici e trasparenti. Proprio il modello delle Big Five (lo stesso dell’OCSE-INVALSI) è stato al centro del recente scandalo dell’azienda di consulenza Cambridge Analytica, la società entrata in possesso dei profili psicologici di circa 50 milioni di utenti Facebook, utilizzati senza autorizzazione.

Questa è il terzo e conclusivo post sulle socio-emotional skills.  Nella prima abbiamo visto che l’INVALSI ha aderito – o così sembrerebbe – ai recenti progetti OCSE di misura del “character” (prof. J. Heckam). Nella seconda, abbiamo mostrato come un preciso filone di letteratura scientifica (psicologico-economico-educativa) affermi di poter prevedere e correlare, con una certa probabilità, vari risultati della vita adulta alle diverse “sfumature” del carattere di bambini e adolescenti.
In quest’ultima parte proveremo a capire cosa bolle in pentola nel Laboratorio INVALSI in tema di soft skills.
Alcuni fatti recenti
In un’intervista[1]di qualche tempo fa, la Presidente dell’INVALSI Ajello, alla domanda su quale fosse il futuro dei test nella nuova fase politica del paese, ha risposto che non si prevede alcun “depotenziamento” delle attività dell’Istituto. Anzi, ha sottolineato, sono previste misure di nuove competenze: geografia e soft skills. In effetti, il Ministro Bussetti, tra le tante dichiarazioni rilasciate ad inizio anno scolastico, ha affermato che “bisogna pensare ad altre forme di valutazione non solo degli apprendimenti, ma delle soft skills, come fanno molti paesi dell’OCSE”. Molti paesi tra cui proprio l’Italia, a quanto pare.
La stessa dichiarazione è riportata anche dal Sussidiario, il quotidiano in rete della Fondazione per la sussidiarietà di Giorgio Vittadini, un nome ben noto a chi segue le vicende della politica italiana scolastica, “consulente permanente” di vari ministri e dirigenti INVALSI. Proprio il professor Vittadini negli ultimi tempi pare si stia dedicando, tra le altre cose, allo studio delle socio-emotional skills. Non solo è direttore scientifico del progetto triennale appena partito  dal titolo “Lo sviluppo delle competenze non cognitive negli studenti Trentini”, ma ha anche curato una recente raccolta di saggi dal titolo “Far crescere la persona. La scuola di fronte al mondo che cambia” [2]. Nel libro prende forma una nuova concezione di Capitale Umano, sulla scia anche dei recenti studi dell’OCSE, che pone la scuola di fronte all’ultima sfida: occuparsi non solo della formazione culturale e cognitiva degli studenti, ma anche di quegli “aspetti del carattere e dimensioni socio-emozionali recentemente classificate secondo [la tassonomia] delle “cinque grandi dimensioni” [3]: le Big Five, appunto. Ma, attenzione: quando Vittadini afferma che “è necessario superare il funzionalismo della scuola attuale[4] non intende, come si potrebbe pensare a una prima lettura,  sollecitare decisori politici o insegnanti a  risvegliare una formazione culturale attenta alla pienezza della persona umana, in una fase storica in cui la scuola sembra schiacciata dalla tecnicizzazione e standardizzazione. Al contrario: siccome “il character è educabile[5] e – come OCSE insegna – “misurabile”, bisogna entrare in un nuovo ordine di idee.  Di certo non smettere di utilizzare i test standardizzati per le cosiddette hard skills (competenze cognitive), ma valutare e monitorare con opportuni strumenti statistici anche le soft skills

sabato 27 ottobre 2018

PAROLA D’ORDINE: GAZA NON SI INGINOCCHIA – Patrizia Cecconi




“Gaza è salda e non si inginocchia”, questa la parola d’ordine del 31° venerdì di protesta lungo la linea terrestre dell’assedio di Gaza.
Per fermare la protesta si è parlato di mediazioni egiziane, poi di mediatori che hanno desistito, quindi di ulteriori dissidi interni tra le due principali fazioni (Hamas e Fatah) che sembrano sempre più irresolubili e che faciliterebbero la minacciata aggressione massiccia israeliana. Poi timidamente – perché di fronte a Israele le istituzioni internazionali sono sempre timide – l’Onu ed alcuni governi hanno invitato lo Stato ebraico a limitare la forza, alias la brutale violenza omicida, ma è più elegante chiamarla forza. Quindi è sceso in campo il re di Giordania per rivendicare il diritto ai “suoi” territori in West Bank prima che Israele riesca a realizzare il suo obiettivo di annetterli completamente come sa già fin troppo bene ogni osservatore onesto.
Intanto in tutta la Palestina Israele uccide (l’ultimo ragazzo ucciso in Cisgiordania, al momento, aveva 23 anni, si chiamava Mahmud Bisharat e fino a ieri viveva a Tammun, vicino Nablus), arresta arbitrariamente, ritira i permessi di lavoro ai familiari di Aisha Al Rabi, la donna palestinese uccisa dalle pietrate dei coloni fuorilegge invertendo i ruoli tra vittima e carnefici, demolisce le abitazioni palestinesi e interi villaggi, non ultimo un villaggetto poco lontano dal sempre illegalmente minacciato Khan Al Ahmar che, a differenza di quest’ultimo, non essendo salito agli onori della cronaca è rimasto invisibile e non ha creato “fastidiose” proteste all’occupante.
Israele avanza senza freni col suo bagaglio di morte e di ingiustizia, distribuite con la naturalezza di un seminatore che sparge i semi nel suo campo, e i media democratici sussurrano con discrezione, o tacciono a meno che qualcosa non sia proprio degno di attenzione per non essere scavalcati totalmente dai social e perdere audience.
Quindi, dello stillicidio quotidiano di vite e di diritti prodotto dall’occupazione israeliana difficilmente i media danno conto, solo la Grande marcia del ritorno riesce ad attirare poco poco la loro attenzione sia perché la creatività dei manifestanti, sia perché l’altissimo numero dei morti e dei feriti – regolarmente inermi – un minimo di attenzione la sollecitano. Ricordiamo che solo ieri i martiri, solo al confine, sono stati 4 e i feriti 232 di cui 180 direttamente fucilati in campo. Tra i feriti, solo ieri, si contano 35 bambini e 4 infermieri che prestavano soccorso ad altri feriti.
Ad uso di chi leggerà quest’articolo e magari non ricorda o non sa i motivi della Grande marcia, precisiamo che i gazawi chiedono semplicemente che Israele rispetti la Risoluzione Onu 194 circa il diritto al ritorno e tolga l’assedio illegale che strangola la Striscia, cioè i gazawi chiedono quello che per legge internazionale dovrebbe già essere loro.
In 31 venerdì di protesta sono stati fucilati a morte circa 210 palestinesi tra i quali si contano bambini, invalidi sulla sedia a rotelle, paramedici e giornalisti, in violazione – come sempre IMPUNITA – del Diritto internazionale, e sono stati fucilati alle gambe migliaia e migliaia di palestinesi con l’uso di proiettili ad espansione (vietati ma regolarmente usati da Israele) i quali, se a contatto con l’osso, lo frantumano portando all’invalidità permanente. Gaza ha un numero altissimo di ragazzi e uomini con una o due gambe amputate per volere di Israele.
Ma nonostante tutto questo la Grande marcia continua. La parola d’ordine di quest’ultimo venerdì non poteva essere più esplicativa, “Gaza non si inchina”, che è qualcosa di più che dire “Gaza non si arrende” perché la resa a un potere tanto forte da stritolarti potrebbe essere necessaria, ma l’inginocchiarsi davanti a quel potere non è nella natura del gazawo medio e tanto meno delle donne gazawe.
La foto di Aed Abu Amro, il ragazzo palestinese che pochi giorni fa, a petto nudo, con la bandiera in una mano e la fionda nell’altra sfidava la morte per amore della vita è la più evocativa di questa incredibile, vitale e al tempo stesso disperata volontà di vincere. La posta in gioco è la Libertà, quella per cui generazioni di uomini e di donne hanno dato la vita, non per vocazione al suicidio ma per conquistare il diritto di vivere liberi. Lo sappiamo guardando la storia antica e quella contemporanea. E Gaza non fa eccezione. I gazawi, uomini e donne che rischiano la vita per ottenere la libertà rientrano in quella categoria di resistenti che merita tutta l’attenzione e il rispetto della Storia. Ignorarlo è codardia. Confondere o invertire il ruolo tra oppresso e oppressore è codardia e disonestà.
Molti media mainstream stanno dando prova di codardia e disonestà. E’ un fatto.
La foto di Aed, scattata dal fotografo Mustafa Hassouna ha una carica vitale troppo forte per essere ignorata dai media e troppo pericolosa per la credibilità di Israele: rischia di attirare simpatie verso la resistenza gazawa e di ridurre il consenso alla propria narrazione mistificante e allora, veloce come la luce arriva la mano della Hasbara, il raffinato sistema di propaganda israeliano, che entra nel campo filo-palestinese per smontare, con argomentazioni apparentemente protettive verso i palestinesi, la forza evocativa di quella foto che orma è diventata virale.
Non potendo più essere fermata, va demolita. Quindi la forte somiglianza col dipinto di Delacroix titolato “La libertà che guida il popolo” viene definita impropria e l’accostamento addirittura osceno (v. articolo di Luis Staples su L’Indipendent). No, l’accostamento è assolutamente pertinente e lo è ancor di più se lo si richiama anche alla parola d’ordine dell’ultimo venerdì della Grande marcia, cioè “Gaza non si inginocchia”.
Intanto alla fine della marcia, mentre negli ospedali della Striscia si accalcavano i feriti, una mano ufficialmente sconosciuta faceva partire 14 razzi verso Sderot richiamando la rappresaglia israeliana sebbene 12 di questi razzi fossero stati distrutti dall’iron dome e altri 2 non avessero procurato danni.
Forse Israele non aspettava altro, forse quei razzi potrebbero essere frutto di una ben concertata manipolazione o forse di qualche gruppo esasperato e fuori controllo, o forse una precisa strategia ancora non ufficializzata, ancora non ci è dato di saperlo anche se la prestigiosa agenzia di stampa mediorientale Al Mayadeen, questa notte riportava parole della Jihad islamica la quale, pur non rivendicando il lancio dei razzi, dichiarava che “la resistenza non può accettare inerte la continua uccisione di innocenti da parte dell’occupazione israeliana“. Cosa significa? Che si è scelto consapevolmente di lasciare mano libera a Israele senza neanche fargli rischiare il timido rimprovero delle Nazioni Unite potendosi giocare il jolly della legittima difesa?
O significa che si sta spingendo Hamas all’angolo costringendolo a riprendere la strategia perdente delle brigate Al Qassam? C’entra forse lo scontro interno tra le diverse fazioni? Gli analisti più accreditati non si sbilanciano. Comunque Israele ha serenamente risposto come suo solito, ovvero con pesanti bombardamenti per l’intera nottata. L’ultimo è stato registrato nei pressi di Rafah questa mattina.
Al momento in cui scriviamo non si denunciano altre vittime ma solo pesanti distruzioni, rivendicate con fierezza da Israele come fosse una sfida anodina di tiro al piattello.
Le immagini trasmesse in diretta durante la notte sono impressionanti, ma più impressionante è il comportamento della maggior parte dei palestinesi di Gaza: al primo momento di terrore ha fatto seguito “l’abitudine”. L’abitudine ai bombardamenti israeliani che – i media non lo dicono – con maggiore o minore intensità, sono “compagni di vita quotidiana” di questa martoriata striscia di terra. E l’abitudine, coniugata con l’impotenza a reagire, ha fatto sì che la grande maggioranza dei gazawi, provando a tranquillizzare i bambini terrorizzati, abbia scelto di dormire confidando nella buona sorte, forse in Allah.
Del resto quale difesa per un popolo che, a parte i discutibili razzi, non ha altre armi che le pietre e gli aquiloni con la coda fiammante? E la foto che ritrae Aed come un moderno quadro di Delacroix cos’è se non fionda e bandiera contro assedio e assedianti? Cos’è se non la sintesi fotografica della resistenza gazawa e, per estensione, della resistenza palestinese tout court a tutto ciò che Israele commette da oltre settant’anni senza mai subire sanzioni?
Non basteranno articoli come quello di Luis Staples su “L’Indipendent” e la coazione a ripetere del codazzo che si porteranno dietro a fermare la fame di Libertà e di Giustizia del popolo palestinese. La foto di Aed non farà solo la meritata fortuna professionale del fotografo Moustafa Hassuna, quella foto è diventata e resterà l’icona della Grande marcia, insieme alla parola d’ordine di ieri “Gaza non si inginocchia”.
Patrizia Cecconi
Bethelehem 27 ottobre 2018


giovedì 25 ottobre 2018

Cagliari, blitz antimilitarista davanti al liceo Pacinotti

Grazie Ilaria Cucchi. Da una figlia d’Arma - Paola Caridi

Sono figlia d’Arma. Così si dice nel gergo di chi ha o ha avuto un padre carabiniere. Anche se carabiniere, mio padre, lo fu solo per cinque anni. Arruolato durante la seconda guerra mondiale per fame, emigrato da Reggio Calabria in cerca di un lavoro. Si congedò per poter sposare la donna che amava: allora, era il 1949, un carabiniere non poteva contrarre matrimonio prima di dieci anni di servizio.
Mio padre carabiniere fu per tutta la vita sarto. Ma per tutta la vita rimase carabiniere. Ho vissuto infanzia e adolescenza circondata dai segni: le divise nere che cuciva ai suoi ex commilitoni poi ufficiali e alti ufficiali; i bottoni grandi con la fiamma, i cappelli, tanti alamari, i calendari dell’Arma, le sfilate di maggio a Piazza di Siena. Il 5 giugno. E poi le frasi che si sono incistate nella mia testa: nei secoli fedele, obbedir tacendo e tacendo morir, in servizio permanente effettivo 24 su 24.
Folklore dell’Arma, si dirà. Certo. Anche. Ma il mio grado di fiducia nell’Arma dei Carabinieri non è mai venuto meno. Eppure per conservarlo, ora, e in questi ultimi anni, c’è bisogno che qualcosa cambi.
Ciò che Ilaria Cucchi ha fatto in questi nove anni di coraggiosa (e spesso solitaria) battaglia per la giustizia che si deve a suo fratello Stefano, deve essere considerato dall’Arma dei Carabinieri un regalo. È attraverso la vicenda di cui Stefano Cucchi, la persona Stefano Cucchi, il cittadino Stefano Cucchi, è stato vittima sacrificale che l’Arma deve riconquistare quella fiducia che gli italiani le hanno sempre consegnato. Lo può fare solo istituendo una indagine seria, profonda, lunga, estenuante nei suoi ranghi.
L’omertà può fare molto male all’Arma. Può distruggere la sua reputazione. Può sporcare la memoria di chi, tra i carabinieri, ha perso la vita per fare il suo dovere. Può essere una slavina che non difenderà un corpo che vive su stipendi spesso ridicoli e poco dignitosi per il lavoro che si è chiamati a compiere.
Le notizie di questi ultimi anni, mesi, giorni sono a dir poco preoccupanti. Sono sirene che devono rompere il silenzio. La condanna di uno dei due carabinieri accusati di violenza sessuale a Firenze, e il rinvio a giudizio dell’altro accusato. I risultati dei RIS sull’omicidio di Serena Mollicone che indicano la caserma di Arce il luogo in cui si è consumato l’assassinio. La scioccante deposizione di un carabiniere, Francesco Tedesco, nel processo per trovare la necessaria e dovuta verità sulla morte di Stefano Cucchi. Queste notizie impongono un esame di coscienza dell’Arma, a tutti i livelli, per capire non solo cosa sia successo, ma perché è potuto succedere. Ripulire gli alamari delle divise dei carabinieri è un dovere e, allo stesso tempo, un atto necessario perché l’Arma possa ancora dirsi, in pienezza, un corpo a protezione e difesa dei cittadini.
Continuerò a dire che sono figlia d’Arma. E proprio per questo dico grazie a Ilaria Cucchi.
da qui

mercoledì 24 ottobre 2018

Quel borgo e la sua lezione di economia - Francesco Gesualdi


Attaccando Riace, non si colpisce solo un modello di accoglienza e di integrazione, ma un modello economico. L’esperienza di Riace nasce dall’aver capito  che i bisogni  si possono trasformare in soluzioni se  si sanno mettere l’uno al servizio dell’altro. Nel caso specifico è stato il bisogno di una nuova casa messo, al servizio di chi viveva nell’isolamento, a trasformare l’immigrazione da minaccia in opportunità. Per primo lo capì Gerardo Mannello, quando nel 1997 approdarono alcune centinaia di curdi sulle spiagge di Badolato, comune della Locride, di cui era sindaco. Fra gli abitanti del borgo scattò subito una gara d’ospitalità, ma dopo l’emergenza bisognava gestire la normalità e a Mannello venne spontaneo sistemarli nell’infinità di case vuote che affollavano Badolato. Così come gli venne spontaneo sviluppare occasioni di lavoro che valorizzassero le risorse del paese. Per varie circostanze, l’esperienza di Badolato non andò molto avanti, ma fu presa a riferimento da Mimmo Lucano che la sviluppò a Riace, altro comune della Locride, prima come semplice cittadino, tramite l’associazione “Città futura”, poi come sindaco.
Da decenni Riace, come altri paesi del Meridione, non offriva più niente, meno di niente. E le famiglie partivano. Prima oltre oceano, poi nel secondo dopoguerra verso Torino, Milano, Genova, ovunque trovassero un lavoro. L’esodo diventa sempre più imponente. Una dopo l’altra le case si chiudono, le finestre vengono sprangate, le persiane inchiodate. Da 4.000 abitanti degli anni Quaranta, Riace giunge a seicento negli anni Novanta. Tutto cambia nel luglio 1998 quando un altro barcone di curdi naufraga anche sulla spiaggia di Riace. Fra gli spettatori di quel disastro c’è anche Mimmo Lucano, allora professore di chimica all’istituto tecnico di Roccella Jonica, che decide di non rimanere impotente. E quando il padre lo vede arrivare con tutta quella gente, è preso dallo sgomento: “E dove li mettiamo tutti questi ragazzi?”. Mimmo non si perde d’animo: propone di accoglierne qualcuno a casa loro e  distribuire gli altri nelle case sfitte. Ma dopo la casa ci vuole il lavoro e come soluzione Mimmo propone di riattivare gli antichi mestieri. Si ricomincia a tessere con la ginestra, con la canapa, con la lana. E, poi, grazie a un prestito di Banca Etica si iniziano a ristrutturare le case abbandonate per realizzare un Villaggio Solidale, finalizzato a ospitare unturismo responsabile.
Nel 2004 Mimmo Lucano diventa sindaco  di Riace e aderisce come comune al sistema Sprar,  il progetto per l’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati, diffuso su tutto il territorio italiano, gestito dagli enti locali col coinvolgimento del Ministero dell’Interno. Per ogni richiedente asilo il comune riceve 35 euro al giorno: fondi che Riace può utilizzare per ristrutturare nuove abitazioni, per fornire nuovi alloggi, per impartire corsi di italiano e organizzare ogni altro tipo di servizio. E mentre vengono inaugurati scuola e asilo, si recuperano botteghe destinate a chiudere. L’unica panettiera di Riace, che ormai non aveva più un negozio, bensì distribuiva pane nei borghi circostanti, ora ha due punti vendita in paese.  Oltre alla lavorazione della ginestra si sviluppano laboratori di ceramica, si apre un frantoio, si apre una fattoria didattica, con attività di apicoltura, allevamenti, percorsi faunistici e botanici. Tutte attività   orientate alla sostenibilità che creano lavoro per immigrati e giovani del luogo. Perciò Riace non è solo un  modello di accoglienza.
È un progetto di ecologia integrale che ha saputo trasformare la pietra scartata in pietra d’angolo per la costruzione di  una nuova  società basata su  solidarietà, servizio alla persona e rispetto per l’ambiente. A partire dall’economia locale perché se si vuole creare occupazione e ridurre la produzione di CO2 le merci devono viaggiare il meno possibile. I fagiolini giusti da mangiare non sono quelli che si comprano a dicembre e che vengono dal Kenya, ma quelli che si mangiano di luglio magari prodotti da soli nel proprio orto. E se nell’epoca della globalizzazione le scarpe vengono fabbricate in Asia e distribuite in tutto il mondo, in un mondo normale sono prodotte in forma diffusa su tutto il globo e non per durare una stagione e poi buttarle via, ma per poterle riparare e indossare un’intera vita. E come ci insegnano i gruppi di Transition Towns, il locale non solo per produrre cibi e manufatti, ma anche per produrre energia da pannelli solari   e biogas  da biomasse ed escrementi. Il locale tuttavia fa rima con un altro concetto che è quello di piccolo,  perché, per riprendere un adagio di Enrst Schumacher, “l’uomo è piccolo, per questo il piccolo è bello”. Che tradotto significa limitare il gigantismo, generalmente antidemocratico e dirigista, per sviluppare il più possibile piccole attività basate anche su un altro principio che è quello delle tecnologie appropriate. Ossia semplici e controllabili, esattamente come si è scelto di fare a Riace per la raccolta dei rifiuti che avviene per mezzo di muli.
E dopo i termini “locale, piccolo e appropriato”, il quarto addendo è “democratico”, ossia iniziative promosse dal basso perfino in ambiti che sembrano complessi come quello monetario. A Riace è stata attuata una sorta di sovranità monetaria locale tramite i bonus sociali che nascono per sopperire ai ritardi del Ministero dell’Interno. Fra un esborso e l’altro passano mesi, un’eternità durante la quale tutto rischia di bloccarsi; perciò Lucano si inventa dei titoli di piccolo taglio garantiti dai contributi del Ministero dell’Interno. Delle specie di cambiali convertibili in euro che i commercianti accettano in pagamento e che permettono ai migranti di comprare tutto il necessario per vivere. E poiché nessuno dubita della loro convertibilità in euro, in paese tutti li accettano come fossero biglietti di banca, per cui è stato messo in moto un processo moltiplicatore che ha dato un grande impulso all’economia locale. Del resto sul modello dell’Aspromonte, moneta interna al Parco creata venti anni prima dall’allora Presidente Tonino Perna, i bonus sono offerti anche ai turisti al cambio di uno a uno contro l’euro. In contropartita ottengono uno sconto del 20% sui prodotti locali che tutti gli operatori sono ben contenti di applicare pur di vedere crescere i propri fatturati.
In Italia i migranti sono stati gestiti senza un vero progetto di accoglienza, per cui invece dell’integrazione si sono sviluppati la paura e il senso del rifiuto. Ma Riace dimostra che se accogliessimo i migranti come persone che possono darci mano per costruire un futuro sostenibile, diventerebbero i nostri liberatori. Esattamente come sogna Guido Viale  secondo il quale “la dote che l’ospite, lo straniero, il profugo, deve essere messo in grado di portare con sé è un grande piano europeo di conversione ecologica, di lavori pubblici, di potenziamento dei servizi, di promozione dell’agricoltura biologica: un piano capace di garantire lavoro e sicurezza sia a lui che a tutti i cittadini dei paesi dell’Unione che sono disoccupati, o in povertà, o costretti a lavori precari e umilianti, o senza casa”.

Perché parlare dell'occupazione israeliana all'estero? In modo che questa disgrazia possa finire - Hagai El-Ad



Al  primo ministro  Benjamin Netanyahu è  stata posta questa settimana dal redattore del documento di propaganda più letto in Israele, una domanda ossequiosa durante una  conferenza per la stampa cristiana . La propaganda nascosta è apparsa nella domanda stessa e nel  suggerire , più o meno esplicitamente , che le attività di B'Tselem  sono "antisemitiche".

Netanyahu non ha rifiutato ciò che gli era stato chiesto e ha aggiunto la sua definizione su B'Tselem: "una vergogna". Una vergogna è quando durante le proteste degli ultimi mesi, cecchini israeliani  uccidono  tre bambini di 11 anni nella Striscia di Gaza. Nassar Musbah, Yassar Abu Al-Haja e Majdi al-Sitri . Tre  dei 31 minori uccisi dall'esercito. Abbiamo ucciso  paramedici e anche  giornalisti e ferito  con fuoco vivo oltre 5.300 persone. Alcuni rimarranno  disabili per tutta la vita . Un disonore è che di fronte a questo orrore due membri del gabinetto di sicurezza discutano tra loro: uno è orgoglioso del gran numero di palestinesi feriti, l'altro richiede più sangue. 

È vergognoso che questa orribile "discussione" tra due membri del piccolo gruppo di alti responsabili delle decisioni in Israele sia vista come completamente normale e accettabile e, in quanto tale, è riportata dai media come una questione di routine. Quasi non importa  a quale livello di violenza l'oratore inciti :  è un ebreo che chiede più morti palestinesi, più  punizioni collettive, più superiorità e più truppe , le sue parole non saranno mai definite come "incitamento". La disgrazia è la routine dei  coloni violenti - in pratica, le milizie del regime di occupazione in  Cisgiordania  - Danneggiano i palestinesi e le loro proprietà , mentre i soldati li osservano e non fanno nulla per fermarli, tranne forse proteggere gli aggressori o addirittura unirsi a loro.


Il  sistema di progettazione israeliano in Cisgiordania è una disgrazia. È un meccanismo burocratico il cui unico scopo è quello di spianare la strada al  controllo su più e più terreni e costruire sempre più insediamenti. Al diavolo i palestinesi. Quanta spudoratezza e insensatezza è necessaria per far parte di questo sistema, una delle pietre miliari dell'impresa di espropriazione?

E 'una disgrazia che tante denunce di palestinesi non siano mai state aperte, ma sono state coperte, fatte fallire o lasciate cadere .Ogni  madre palestinese sa, con quasi completa certezza, che se  suo figlio è ucciso da un proiettile israeliano , anche se tutto è registrato in video e  ci sono testimoni e prove, nessuno fornirà giustizia. È un disonore permettere ai nostri soldati di entrare nelle case palestinesi nel cuore della notte, a svegliare educatamente tutti i residenti, riunire tutti loro, giovani e vecchi, nel soggiorno o in una camera da letto e poi scrivere i loro nomi su un modulo e scattare  a loro foto.

È un disonore che un palestinese non possa sapere se può andare all'estero,  ricevere cure mediche ,  lavorare la propria terra,  arrivare al lavoro in tempo. Tutto ciò che sa è che nessuna di queste cose dipende da lui, ma da  una decisione arbitraria israeliana che non ha modo di influenzare. È una vergogna che battaglioni di giuristi israeliani -   negli uffici militari  o  nell'ufficio del Procuratore di Stato, i difensori militari , i  consulenti legali,i  giudici militari e i  giudici della Corte Suprema - uniscano le loro forze  per mantenere questo mostro da oltre 50 anni.

Utilizzando  formalismi  legali , ignorando convenientemente i fatti e il contesto, stanno utilizzando le loro conoscenze legali  per giustificare quasi ogni ingiustizia: demolizioni e demolizioni "punitive", detenzione a lungo termine senza processo, l'imprigionamento di quasi 2 milioni di persone nella  Striscia di Gaza, il fuoco vivo contro manifestanti palestinesi disarmati, il prendere  possesso della terra palestinese usando una vasta gamma di tecniche e altro ancora . Per legalizzare tutto questo, gli avvocati hanno inventato il loro linguaggio legale, basato su assurde interpretazioni legali.

 Questa situazione, nonostante l'ineguale equilibrio delle forze e il famoso potere di Israele, è una realtà pericolosa, violenta per sua natura e immorale. La documentazione di questa situazione, la sua esposizione, la condanna e la  richiesta di cambiamento non sono solo un imperativo morale, ma un modo per  salvare vite umane. È un disonorecontinuare a reprimere i palestinesi e a  ucciderli. Ed è una disgrazia guidare gli israeliani sempre più in basso lungo questo pendio. Perché parlare dell'occupazione  all'estero? In modo che questa disgrazia possa finire

Il direttore esecutivo di B'Tselem. Hagai El-Ad