domenica 31 gennaio 2016

La dignità - lectio magistralis di Moni Ovadia

ricordo di Hashim al-Homran




È MORTO HASHIM, IL RAGAZZO CON LA TELECAMERA, EROE SCONOSCIUTO Luigi Grimaldi

Yemen, governatorato di Sadaa. È il 22 gennaio 2016. Un giorno che forse sarà ricordato come una data tragica e storica. È il giorno della morte di un piccolo e sconosciuto eroe, Hashim al-Homran, 17 anni.

Hasim sta documentando con la sua videocamera gli effetti di un bombardamento, l'ennesimo in un anno di guerra, dell'aviazione dell'Arabia Saudita sulla popolazione civile dello Yemen. Siamo a Dhayan, 20 km dalla città di Sadaa.

Arrivano i soccorsi, la gente corre ad aiutare i feriti.  Si scava per liberare i corpi dalle macerie.
Ma i sauditi non ci stanno e mettono in atto un “Dual Tap”. Una pratica orrenda che consiste nel bombardare, attendere che arrivino i soccorsi, e ribombardare la stessa area per colpire i soccorritori. Un crimine di guerra, un crimine contro l'umanità, che nessuna missione militare può giustificare.

Hashim lo sa. Un anno di guerra gli ha insegnato come vanno queste cose. Intorno a lui c'è un inferno ma Hashim non scappa, non cerca di mettersi al sicuro. Non cerca un cannone per sparare a sua volta. Continua a usare la sua piccola telecamera e filma tutto quel che avviene. Viene ferito gravemente, ma non molla e continua a documentare l'incredibile: un terzo attacco.

Il ragazzo yemenita filma tutto, anche il bombardamento dell'ambulanza di Medici Senza Frontiere dell’ospedale Al Gomhoury che, dopo il secondo bombardamento, è riuscita a raggiungere la zona.  L'autista dell'ambulanza muore.
Anche Hashim muore, il giorno dopo, a causa delle terribili ferite riportate. Nessun media internazionale ha mandato in onda il suo video, terribile, che però in parte è stato caricato su internet ed è visibile su youtube a questo indirizzohttps://www.youtube.com/watch?v=1gYaArAnkvQ.

A 17 anni questo ragazzo è morto senza sapere di aver forse scritto una pagina di storia: le sue riprese sono un documento importantissimo. Sono la prova, assieme alle testimonianze dei sopravvissuti, che inchiodano alle loro responsabilità gli autori di un gravissimo crimine guerra. Il “Dual Tap”.

Il Relatore speciale delle Nazioni Unite sulle esecuzioni extragiudiziali Christof Heyns nel 2012 ha qualificato gli «attacchi secondari sui soccorritori che stanno aiutando i feriti dopo un attacco iniziale, un crimine di guerra». L'ennesimo commesso dai sauditi e dai loro alleati nello Yemen. 

Crimini più volte denunciati e documentati dall'Onu, da Amnesty International, da Human Rights Watch: crimini su cui mai è decollata una inchiesta internazionale indipendente a causa delle pressioni esercitate sulla diplomazia internazionale dal potentissimo Regno dei Saud.

Il governo italiano, anche sulla base di questo ennesimo atto di ferocia dovrebbe imporre l'interruzione dei regolari rifornimenti di bombe per l'aeronautica militare saudita prodotte nel nostro Paese dalla Rwm di Domusnovas.

L'ultimo carico è partito da Cagliari non più tardi dello scorso 16 gennaio, diretto alla base aerea di Taif, da cui il 22 gennaio sono decollati gli aerei che a Dhayan hanno ucciso Hashim e colpito i soccorritori, assieme a decine di altri civili inermi.

L'ultimo attacco

Hasim, videomaker di 17 anni, sta documentando con la sua videocamera gli effetti di un bombardamento, l'ennesimo in un anno di guerra, dell'aviazione dell'Arabia Saudita sulla popolazione civile dello Yemen. Siamo a Dhayan, 20 km dalla città di Sadaa.

Arrivano i soccorsi, la gente corre ad aiutare i feriti. Si scava per liberare i corpi dalle macerie.
Ma i sauditi non ci stanno e mettono in atto un “Dual Tap”. Una pratica orrenda che consiste nel bombardare, attendere che arrivino i soccorsi, e ribombardare la stessa area per colpire i soccorritori. Un crimine di guerra, un crimine contro l'umanità, che nessuna missione militare può giustificare.

Hashim lo sa. Un anno di guerra gli ha insegnato come vanno queste cose. Intorno a lui c'è un inferno ma Hashim non scappa, non cerca di mettersi al sicuro. Non cerca un cannone per sparare a sua volta. Continua a usare la sua piccola telecamera e filma tutto quel che avviene. Viene ferito gravemente, ma non molla e continua a documentare l'incredibile: un terzo attacco.

Il ragazzo yemenita filma tutto, anche il bombardamento dell'ambulanza di Medici Senza Frontiere dell’ospedale Al Gomhoury che, dopo il secondo bombardamento, è riuscita a raggiungere la zona. L'autista dell'ambulanza muore. Anche Hashim muore, il giorno dopo, a causa delle terribili ferite riportate.

La famiglia è diversa su tutta la terra - Ascanio Celestini

Gentile Signor Bagnasco,
lei dice che “la famiglia è un fatto antropologico, non ideologico” e io la boccio. Cioè lo boccerei se fossi il suo professore. Carissimo cardinale Bagnasco, ci faccia il favore di parlare dell’eucarestia, non si infili in discorsi che non conosce. L’antropologia non c’entra con le vostre chiese, coi vostri crocifissi, le vostre madonne, i vostri santi col cerchio alla testa.
Pensi un po’, signor Bagnasco, che se lei avesse studiato antropologia, saprebbe che la prima cosa che ti fanno studiare è proprio la famiglia. Perché la famiglia è diversa in ogni angolo della terra rotonda (a proposito… la terra è rotonda, è d’accordo?).
Anzi, se sapesse cosa dice quando parla di “antropologia” capirebbe che anche le vostre divinità sono concetti antropologici, burattini inventati dagli uomini.Che sono gli uomini a fare gli dei e non i vari Dio a fabbricare gli uomini.
Signor Bagnasco, la prego di non appropriarsi anche di concetti che non solo c’entrano poco con la sua Chiesa, ma che sono addirittura contro la vostra visione del mondo che non definisco “pregiudizio” e “scaramanzia” perché vi rispetto. Faccia il suo mestiere e dica “pane al pane” e “omosessuale all’omosessuale” senza fingere di avere una visione del mondo più comprensiva del vostro protocollo vaticano. Serva il suo padrone e il suo Dio, ma non ci rubi la nostra antropologia, un pensiero senza dio e senza padrone.


ps Mi sento in dovere di precisare che l’idea di bocciare Bagnasco è uno scherzo. Non sono un professore e lui non è un allievo. E questo posto non è un aula universitaria, né un trattato di antropologia. Quando parlo di burattini non intendo prendere in giro nessuno: si tratta di un immagine, tant’è vero che faccio teatro e ho una grande ammirazione per il teatro di figura. I burattini sono un “doppio” dell’uomo (e della donna… non vorrei si arrabbiasse qualcuno) e come tale una rappresentazione anche di Dio. Pinocchio figlio di un falegname non è forse una figura che ricorda Cristo anche nei suoi patimenti e nella sua estrema povertà? E non s’arrabbino i cultori di Pinocchio se uso il termine “burattino” estendendolo anche alla marionetta.
Ma ribadisco che trovo poco rispettoso che uno che non ce l’ha nemmeno una famiglia si arroghi il diritto di decidere per quelli che ce l’hanno eterosessuale e anche omosessuale. Io non dico a Bagnasco che si deve sposare la perpetua o che deve unirsi civilmente con Bertone. Perché lui mi vieta di sposarmi il mio vicino di casa camionista? Perché non posso essere padrone della mia vita e della mi sessualità? Perché non posso esserlo visto che essendolo non cambio di una virgola la sua?
Più o meno è come se gli ebrei imponessero al parlamento italiano una legge che impedisce di mangiare cibi non graditi alla loro religione. Io voglio mangiare il maiale e mi dispiace più per lui che per gli ebrei. E sono certo che alla maggior parte degli ebrei non passa per la testa di rompermi le scatole e vietarmi il panino con la mortadella. Perché allora questo prete deve decidere (perché decide, perché influenza i politici e il popolo) come deve vivere la propria intimità la gente che non la pensa come lui?
Vi sembra tanto bislacca questa posizione? Siete sicuri che stiamo parlando di Dio e della Chiesa? Siete sicuri che stiamo parlando di antropologia? Non vi pare che sia semplicemente un discorso sulla libertà personale e sui diritti che qualcuno vuole negare (questa sì) per una presa di posizione ideologica e (quest’altra ancora) contro natura? Chie è contro la natura? Due uomini che si amano o Bagnasco che glielo vieta?

Errare humanum est, perseverare autem diabolicum

Al Ministro dell’Istruzione
Al Dipartimento per il sistema educativo di istruzione e formazione
Alla Direzione generale per gli ordinamenti scolastici
I docenti del coordinamento nazionale A017 segnalano che per l’ennesima volta al Ministero si agisce contrariamente alle norme in vigore , per ciò che riguarda l’attribuzione delle nomine a commissari esterni per l’esame di Stato nei professionali per l’enogastronomia e l’accoglienza turistica (alberghieri).
Prendono visione in data odierna (30 gennaio, vedi qui) di un elenco delle materie e delle classi di insegnamento per l’esame di Stato 2015/16 diverso da quello pubblicato qualche giorno fa. La tabelle pubblicata il 28 gennaio era quella corretta ,e in essa veniva contemplata una sola classe di concorso la A017 , in quanto negli istituti alberghieri a norma di legge , anche con le nuove classi di concorso, i docenti A019 non hanno titolo ad insegnare la materia , dunque la loro abilitazione non consente di essere nominati commissari .
L’unico caso in cui la docenza é consentita dalle norme in vigore ai docenti abilitati A019 riguarda l’indirizzo enogastronomia nella sola opzione prodotti dolciari.
La cosa è ancora più grave dopo la sentenza del TAR del Lazio , pubblicata in data 21.12.2015 (sentenza n.14339/2015, REG.PROV.COLL.N. 11145/2014 REG.RIC), con la quale si da ragione al ricorrente professor Davide Bertolotti , difeso dall’avvocato Melis Costa del Foro di Cagliari , annullando la nota 1666 del 2014, che aveva istituito in modo fittizio l’atipicità allargando l’insegnamento della materia ai docenti A019 privi del titolo di studio richiesto per accedere all’insegnamento di questa materia.
Si informa che una ulteriore imposizione del MIUR ingiustificata e contraria alle norme sarà oggetto di esposto alla procura della repubblica per mancato rispetto delle norme in vigore e per mancato rispetto delle sentenze del TAR del Lazio oltre che oggetto di azioni plurime di risarcimento danni da parte dei docenti A017 che non saranno nominati commissari a causa dell’allargamento ai docenti della A019 .
Si fa presente che lo scorso anno in tutta Italia furono numerose le dimissioni dei colleghi della A019 che venivano nominati commissari per la materia nelle classi quinte dei professionali per l’enogastronomia e l’accoglienza turistica

Pertanto si invita codesta amministrazione a provvedere alla correzione immediata del testo con cui ha comunicato le materie per l’esame di Stato , togliendo la A019 dai corsi ordinari Enogastronomia , Sala e vendita e Accoglienza turistica.

(anche qui)

un'intervista con Alaa Al-Aswany

«Quei 18 giorni sono stati i più belli della mia vita. Belli e difficili». Al telefono dal Cairo Alaa Al-Aswany, autore di uno dei romanzi arabi più amati e venduti in tutto il mondo, «Palazzo Yacoubian», ripensa alla rivoluzione di Piazza Tahrir di cinque anni fa. «Per 18 giorni, la mia famiglia aspettava che tornassi a casa da Piazza Tahrir alle 6 del mattino, passavo sempre per dire loro che ero ancora vivo. Poi, all’1 del pomeriggio tenevo una conferenza stampa nella mia clinica odontoiatrica perché spiegare cosa stava succedendo era mio dovere in quanto scrittore indipendente. Anche le mie figlie May e Nada di 19 e 20 anni, e il maschio Seif, che è più grande, hanno partecipato alla rivoluzione: lui il 28 prese anche parte in una marcia dove la gente fu uccisa, ma non potevo impedirglielo ovviamente. Siamo una famiglia rivoluzionaria, dai tempi di mio padre». La rivoluzione di Piazza Tahrir quest’anno non è stata celebrata con le manifestazioni: il regime di Al Sisi le ha proibite, ha condotto migliaia di arresti preventivi, ha istruito gli imam a predicare che protestare è peccato. Ma la primavera tornerà, secondo Al-Aswany, che sta scrivendo un nuovo romanzo, intitolato «La Repubblica come se», per tenere viva la memoria della rivoluzione. «In una dittatura – spiega così il titolo – tutto appare come se fosse reale, ma l’unica verità è la volontà del dittatore. Racconterò la lotta dei giovani rivoluzionari di Piazza Tahrir, e come la religione è stata usata contro la rivoluzione»

sabato 30 gennaio 2016

Tutte le colpe dell’Onu in Siria - Francesca Borri

A due anni di distanza dagli ultimi negoziati, dichiarati chiusi e falliti in meno di mezz’ora, a Ginevra in questi giorni si torna a discutere di Siria. L’obiettivo è un governo transitorio, ed entro diciotto mesi una nuova costituzione e nuove elezioni. Per la prima volta, sono al tavolo tutti i principali protagonisti del conflitto, incluso l’Iran. Sono a Ginevra la Russia e gli Stati Uniti, la Turchia e l’Arabia Saudita. Mancano solo l’Ahrar al Sham e il Fronte al nusra: mancano solo i combattenti.
Ma non è solo per questo, in realtà, che a questi negoziati non crede nessuno. In genere ogni responsabilità è imputata all’opposizione, all’assenza di una opposizione unita e rappresentativa – e possibilmente, non legata ad Al Qaeda. Ma la verità è che in Siria entrambi i fronti sono da tempo frantumati in decine, centinaia di milizie che cambiano continuamente nome e alleanza, e fondamentalmente non rispondono che a se stesse. Non combattono che per i propri interessi.
Se tra i ribelli si contano oltre duemila gruppi armati, anche Assad ormai è poco più che il sindaco di Damasco. Nelle aree sotto il suo controllo, non governa alcun governo: comanda Hezbollah, comandano le guardie rivoluzionarie iraniane, comandano mille signori della guerra. E ora, i russi. Tra morti e disertori, il suo esercito ha perso metà degli uomini. E quindi l’unica cosa chiara, in questa carneficina che si complica ogni giorno di più, è che in Siria non si avrà un happy ending hollywoodiano, per dirla con l’analista Aaron David Miller, non si avrà un accordo di pace globale. Risolutivo.
In Siria una serie di attori esterni che perseguono essenzialmente ognuno i propri obiettivi, la propria strategia, interagiscono con una miriade di gruppi armati dai caratteri spesso settari e tribali, milizie che dedicano larga parte delle loro energie alle battaglie interne per il potere, alle faide, le vendette, i regolamenti di conti: il tutto sullo sfondo di un mondo arabo che dalla Tunisia allo Yemen, è una polveriera di povertà, repressione, frustrazione. Un mondo arabo in cui il sogno per cui i ventenni sono pronti a morire in mare è venire a vivere una di quelle nostre vite di periferia da cui noi vorremmo fuggire.
In un contesto simile, l’unico tentativo di pace realistico è un tentativo graduale, costruito e consolidato passo a passo. Non un accordo di pace, cioè, ma piuttosto un processo di pace: perché un accordo di pace non si saprebbe neppure a chi farlo firmare. E il problema, però, è che in un processo di pace il ruolo fondamentale è quello del mediatore, chiamato a vigilare sulle parti e a sanzionare le inadempienze: mentre il mediatore, in Siria, è uno dei combattenti.
Perché è dell’Onu l’arma che in Siria si è rivelata più potente: gli aiuti umanitari.
Ed è per questo che a questi negoziati non crede nessuno.
Siamo abituati a pensare alla guerra come a uno scontro tra combattenti. E invece la guerra, in questi ultimi anni, ha cambiato profondamente natura: ora l’obiettivo, l’obiettivo intenzionale, non il danno collaterale, sono i civili. La strategia di Assad è stata chiara e ferma dall’inizio, dai giorni delle prime manifestazioni, quando davanti a ragazzi laici e pacifici, denunciò il pericolo di una deriva islamista, e con un’amnistia liberò non i prigionieri politici, non i suoi oppositori, ma gli oppositori dei suoi oppositori, i jihadisti: proponendosi al mondo come unico possibile garante della stabilità. “O io o l’anarchia”.
E ha funzionato. Con i suoi bombardamenti, Assad ha sistematicamente, e letteralmente, raso al suolo tutto quello che i ribelli hanno conquistato, metro dopo metro, per impedire che si radicassero delle istituzioni alternative a quelle di Damasco, delle forme efficaci di autogoverno, come stava avvenendo ad Aleppo prima che cominciassero a grandinare barili esplosivi.
Contemporaneamente, Assad ha cercato di indurre i siriani a rifugiarsi nelle aree sotto il suo controllo, assicurando cibo, medicine, elettricità, gasolio: assicurando una vita il più possibile normale, fedelmente pubblicizzata da Sana, l’agenzia di informazione di stato, che ancora oggi, come se niente fosse, aggiorna sui migliori concerti in programma a Damasco, sulla promozione del ciclismo per ridurre l’effetto serra, sui successi degli scolari alle competizioni di matematica – mai sui parchi giochi trasferiti sotto terra per evitare che quegli scolari, tra un premio e l’altro, finiscano uccisi dai mortai.
Ma la verità è che Assad è mantenuto dall’esterno, militarmente e finanziariamente. L’economia della Siria non esiste più: parliamo di un paese in cui l’80 per cento della popolazione è sotto la soglia di povertà, e i costi di ricostruzione sono stimati in dieci volte quello che gli Stati Uniti hanno speso per l’Iraq. Senza Hezbollah il fronte sarebbe crollato. Ma senza l’Onu sarebbe crollato tutto il resto.
Un milione di siriani sotto assedio
L’Onu ha consegnato gli aiuti umanitari sempre e solo ad Assad. Si è giustificata sostenendo che per statuto è tenuta a cooperare con l’unico governo riconosciuto, e cioè il governo di Damasco. E il diritto internazionale, in effetti, che è ancora basato sulla tutela della sovranità nazionale, impone di agire con il consenso dello stato territoriale: ma specifica anche che questo consenso non può essere negato per ragioni arbitrarie, o persino illegali – per esempio, affamare la popolazione per costringerla alla resa.
E comunque, anche dopo che sono state approvate le risoluzioni 2165 e 2258 che autorizzano la distribuzione di aiuti umanitari indipendentemente dal consenso di Assad, e sono sotto assedio quasi un milione di siriani, e tutti nelle aree militarmente più strategiche, l’Onu continua a chiedere il permesso. E quindi ha rinunciato a intervenire a Deir Ezzor, in cui sono in trappola duecentomila civili, perché Assad ha detto che l’aeroporto non è sicuro: anche se atterrano dieci aerei al giorno per rifornire i suoi soldati.
L’Onu non solo non ha mai distribuito direttamente gli aiuti, ma neppure ha mai pensato di tracciarli. Si limita a depositarli nei magazzini centrali di Damasco. Quando hanno conquistato Idlib, a marzo, i ribelli hanno trovato quintali e quintali di aiuti dell’Alto commissariato Onu per i rifugiati (Unhcr) nelle caserme.
Erano finiti ai soldati, invece che ai civili. Ad Aleppo, l’unico luogo in cui si vede il logo Unhcr è il mercato nero.
A Madaya, quarantamila abitanti, negli ultimi tre mesi sono entrati dieci chilogrammi di riso, quattro chilogrammi di zucchero, quattro chilogrammi di patate, due chilogrammi di spaghetti, cinque litri di olio e dei barattoli di fagioli. Un chilo di riso costa 256 dollari. L’unico intervento dell’Onu, per i siriani, è stato quello di Staffan de Mistura, che ha negoziato una serie di cessate il fuoco a livello locale: e cioè la resa dei ribelli in cambio dell’apertura agli aiuti umanitari. L’Onu, anche qui, non ha mai controllato cosa sia accaduto dopo la tregua. Dopo le conferenze e i comunicati stampa. E d’altra parte è difficile saperlo: di molti degli attivisti che si sono fidati, e sono tornati nelle aree del regime, non si hanno più notizie.
Ma l’Onu ha sempre negato tutto. Davanti alle prime, inequivocabili immagini di cadaveri scheletrici, ai giornalisti che scrivevano di “starvation”, di fame, ha risposto che, tecnicamente, si trattava di casi di malnutrizione. Oggi, con analogo cinismo, analoga complicità, a chi parla di aree assediate risponde che si tratta solo di “aree difficili da raggiungere”: perché l’assedio, come l’affamare la popolazione civile, è un crimine di guerra.
Perché la malnutrizione, la povertà, la difficoltà di movimento sono normali, in guerra, sono l’effetto inevitabile del collasso dell’ordine politico e sociale: mentre affamare, assediare sono verbi, non sostantivi. Sono azioni che implicano un soggetto. Una responsabilità.
Ma in Siria, invece che fermare i morti, l’Onu due anni fa ha fermato il conteggio dei morti.
I suoi documenti, come sempre infarciti di tecnicismi, a leggerli sembrano che non dicano niente. E invece quel linguaggio così asettico è più politico che mai. La guerra di Siria sarà ricordata come l’unico caso in cui l’Onu, in settant’anni di Bosnia e Ruanda e fallimenti di ogni tipo, è stata capace di giocare un ruolo effettivo. Purtroppo.
da qui

venerdì 29 gennaio 2016

Please Don't Kill My Child - Zomba Prison Project



Io sto con Bernie - Silvia Pareschi

(San Francisco) – Sei qui per Bernie? – mi chiede l’uomo con la camicia bianca e i capelli grigi e ispidi come una paglietta per i piatti.
Ho risposto a un’e-mail che convocava i sostenitori di Bernie Sanders ad assistere a un discorso registrato che il candidato alle primarie rivolgerà alla sua base elettorale. Il luogo dell’incontro è un piccolo bar con le pareti tappezzate di grandi schermi, che di solito trasmettono sport e che oggi verranno prestati per qualche decina di minuti al sorprendente candidato che non ha paura di definirsi socialista.
Dopo avere risposto di sì, vengo invitata a scrivere il mio nome su un’etichetta adesiva e ad appiccicarmela al maglione. Non conosco nessuno e sono un po’ imbarazzata. Non possiedo il talento per la cordialità immediata piuttosto comune da queste parti, e non sono mai stata a un raduno politico. Però Bernie mi è simpatico, sogno che vinca le elezioni, e anche se non sono cittadina americana e quindi non posso votare penso che magari, chissà, se mi convincono potrei anche provare a dargli una mano.
Mi piazzo su uno sgabello davanti a uno degli schermi, e mentre aspetto che venga trasmesso il messaggio registrato mi guardo un po’ in giro. Alzo gli occhi e vedo la scritta “Fernet Flight $25”. Non riesco a trattenere una smorfia. Flight in questo caso significa “serie di assaggi”. Sì, assaggi di fernet. Quattro o cinque bicchierini di diversi tipi di fernet per la modica cifra di 25 dollari. Perché a San Francisco il fernet è diventato la bevanda di culto degli hipster, anche se nessun italiano ne capisce il motivo. Guardando meglio, vedo che c’è anche una botticella con sopra scritto “Fernet invecchiato in botte”. Meglio tornare a Bernie. Sempre in tema di alcolici, il bar offre per l’occasione il cocktail “Feel the Bern”, a base di vodka. Ma sono le due del pomeriggio, e preferisco non assaggiarlo.
Il locale è discretamente affollato. L’età dei partecipanti è mista, stagionati progressisti della “vecchia” San Francisco ma anche, grazie al cielo, tanti giovani. Anzi, direi che i giovani sono la maggioranza. Tra di loro c’è il ragazzo di fianco a me, che si presenta come Jeff e poi mi chiede perché ho deciso di sostenere Bernie. Jeff è asiatico, ha una faccia carina e pulita e seria: l’esatto contrario del tipo cinico. Ci penso un momento e poi gli rispondo che mi interessa la politica e che secondo me Bernie è un candidato interessante – non mi sbilancio, d’altronde io sono cinica, e non sono mica convinta fino in fondo che Bernie, per quanto simpatico, non sia in realtà un’utopia controproducente e che alla fine non sia meglio tifare Clinton – anche se non potrò votarlo perché non sono cittadina americana.
– Neanch’io, – risponde lui. – Sono canadese…

giovedì 28 gennaio 2016

a proposito di memoria, da ricordare tutti i giorni

Quando l’altro giorno Ban Ki-moon (segretario dell’ONU) ha criticato le attività di colonizzazione degli israeliani in Palestina (tra l’altro con un ferreo sistema di apartheid) e che è naturale resistere all’occupazione, Netanyahu lo ha accusato di incoraggiare il terrorismo.

Eppure se la gran parte della Palestina viene chiamata in tutto il mondo Territori Occupati qualcosa vorrà dire.
Se solo si legge la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, approvata dall’Assemblea dell’ONU nel 1948 è impressionante verificare quanti articoli vengano violati da Israele, senza la benché minima reazione da parte della comunità internazionale.
Addirittura il Preambolo della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani dice:
“è indispensabile che i diritti umani siano protetti da norme giuridiche, se si vuole evitare che l'uomo sia costretto a ricorrere, come ultima istanza, alla ribellione contro la tirannia e l'oppressione”.

Gli Usa appoggiano senza nessun tentennamento Israele, forse perché si riconoscono in quel paese, abusivo come il loro. Entrambi rubano le terre ai nativi, si dichiarano la democrazia migliore del mondo o della zona, hanno eserciti potenti, che addirittura esportano democrazia e hanno un carattere morale, ai nativi si espropriano anche le case, e li richiudono in riserve, esattamente come è successo agli indiani degli Usa (o agli indios in Brasile per fare un altro esempio)
La maggior parte degli stati del mondo riconosce lo stato palestinese, ma non importa.
Anche l’immaginario, la storia raccontata dai vincitori, accomuna tutti i nativi (e i poveri e i colonizzati), indiani e palestinesi sono brutti, sporchi e cattivi.





…Le attività di colonizzazione, ha detto per l'ennesima volta Ban Ki-moon, sono "un affronto per il popolo palestinese e per la comunità internazionale"…
…Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, accusa il segretario generale dell'Onu, Ban Ki Moon, di "incoraggiare il terrore". Netanyahu si riferisce alle parole di Ban Ki Moon sulla sulla "frustrazione dei palestinesi" causata dall'occupazione israeliana, alla quale è "naturale resistere"…


Dichiarazione Universale dei Diritti Umani – ONU 1948

Articolo 5
Nessun individuo potrà essere sottoposto a tortura o a trattamento o a
punizione crudeli, inumani o degradanti.
Articolo 7
Tutti sono eguali dinanzi alla legge e hanno diritto, senza alcuna
discriminazione, ad una eguale tutela da parte della legge. Tutti hanno diritto
ad una eguale tutela contro ogni discriminazione che violi la presente
Dichiarazione come contro qualsiasi incitamento a tale discriminazione.

Articolo 12
Nessun individuo potrà essere sottoposto ad interferenze arbitrarie nella sua
vita privata, nella sua famiglia, nella sua casa, nella sua corrispondenza, né a
lesione del suo onore e della sua reputazione. Ogni individuo ha diritto ad
essere tutelato dalla legge contro tali interferenze o lesioni.

Articolo 13
1.   Ogni individuo ha diritto alla libertà di movimento e di residenza entro i
confini di ogni Stato.
2.   Ogni individuo ha diritto di lasciare qualsiasi paese, incluso il proprio, e
di ritornare nel proprio paese.

Articolo 17
1.   Ogni individuo ha il diritto ad avere una proprietà sua personale o in
comune con altri.
2.   Nessun individuo potrà essere arbitrariamente privato della sua
proprietà.



…l’articolo 50 della Costituzione Italiana – diventato poi l’attuale articolo 54 – aveva un secondo comma poi scomparso. Il comma recitava:
« Quando i poteri pubblici violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino »


nella Costituzione tedesca, all’art.20, si parla del Diritto di resistenza,

Letizia scrive a Orhan Pamuk


Nuoro (Italia) 22/01/16
Caro Pamuk, le scrivo…
così, senza pretese, le scrivo per colmare quel vuoto che mi circonda, per puro egoismo, per sentirmi distante da una realtà mediocre nella quale tuttavia ho ancora fiducia, le scrivo per placare il mio desiderio struggente di verità che mi porta a evadere ogni volta che posso in pullman immaginari e senza meta, le scrivo per la gioia di scrivere, anche così, senza risposta, le scrivo per sfamare il mio egocentrismo di individuo quale io sono, perché per me è salvezza.
Le scrivo perché ho visto “Hüzün”, l’ho toccata, ci ho parlato, ed ammaliata vi ho stretto un patto indissolubile secondo il quale posso provare le gioie più forti solo se contrapposte alla tristezza più profonda. Ma questa è la vita e io la amo, e l’ho amata, quando ho capito che vita è il primo uomo sulla terra, l’immobile pietra marmorea che guarda il passare della storia attraverso lo sguardo delle statue greche, perché in fondo la parte buona dell’Occidente è quella dove nacque la civiltà, dove l’uomo volle raggiungere la perfezione pur sapendo di non riuscirci.
Amo il passato ed il presente per poter amare il futuro. “La nuova vita”. Amo.
Non so a quale dei due Orhan giungerà questa lettera, spero a tutti e due.
Le scrivo perché qui,”se non sogni il tempo non passa”.
Letizia, 16 anni


Lettera ad un soldato - C.

Alcuni dicono che scrivere una lettera sia il modo migliore per lasciare andare le cose. Ho deciso di scriverti una lettera che forse non leggerai mai. Ho deciso di scriverti perché dopo averti conosciuto, non posso fare finta di niente. Non posso tacere il fatto che anche tu sei una vittima di questa follia.
Durante le ore passate assieme ai Palestinesi, che vedevano demoliti gli sforzi di una vita, non sono riuscita a vederti come un carnefice, come un oppressore. Provavo dolore per loro e per te.
Entrambi vittime, entrambi umani.
Hai detto che vuoi essere un soldato umano, ma come si fa ad essere umani con un arma in mano, con un potere così grande?
Hai detto che quelli che esegui sono solo ordini e che devi fare quello che ti ordinano.
Ma è cosi? Abbiamo sempre una scelta. Tu puoi scegliere.
Io ho scelto di parlare con te e tu hai scelto di ascoltarmi.
Mi hai chiesto da che parte sto? Non esistono parti in questa follia. Io sto con loro e sto con te.
Io sto con loro perché sono miei fratelli e sto con te perché sei mio fratello.
Che tu sia un pastore o un soldato siamo tutti parte della stessa umanità.
Non so se ti ricorderai delle parole dette, non so se riuscirai a scegliere di non essere più una vittima.
So che entrambi abbiamo scelto di ascoltarci, di dialogare e per un attimo di essere semplicemente due persone: senza armi, senza divisa, senza macchina fotografica e senza maschere.
Mi hai insegnato a rimanere umana, a vedere l’umanità sotto la divisa.
Spero che ti ricorderai che non esistono solo ordini e che questi, in quanto tali, debbano per forza essere giusti.
Spero che la prossima volta, in cui ti troverai di fronte ad un Palestinese, tu trova la forza di scegliere.
Di dire no, io non voglio più essere parte di questa follia!
C.

mercoledì 27 gennaio 2016

il giorno della memoria



da qui

#Jan25 Cairo - Paola Caridi


Anniversario triste, il 25 gennaio.
cinque anni fa, la rivoluzione di Tahrir.
oggi, quei ragazzi egiziani che abbiamo sbattuto in prima pagina e che avremmo invitato volentieri nei nostri inutili salotti, sono in galera, sono stati ammazzati, sono costretti al silenzio, si sono costretti all’esilio, lottano con il grande coraggio e i pochi strumenti che posseggono.
vergognamoci.
#shameonus

L'Olocausto come risorsa politica - Amira Hass (e Norman Finkelstein)



Il cinismo inerente all'atteggiamento delle istituzioni dello stato ebraico verso i sopravvissuti all'Olocausto non costituisce una rivelazione, per coloro che sono nati e vivono fra loro. Siamo cresciuti sbadigliando di fronte al gap fra la presentazione dello stato di Israele come il luogo della rinascita del popolo ebraico ed il vuoto esistente per ogni sopravvissuto all'Olocausto, e per la sua famiglia. La 'riabilitazione' personale dipendeva dalle circostanze di ciascuno: i pi+¦ forti verso gli altri, che non trovavano sostegno dalle istituzioni statali. Negli anni '50 e '60 abbiamo visto il disprezzo verso i nostri genitori 'per essere andati come pecore al macello' e la vergogna dei nuovi ebrei, i sabra, per i loro parenti sfortunati della diaspora.
Si pu+¦ sostenere che nei primi due decenni gran parte di questo atteggiamento potesse essere attribuito alla mancanza di informazione ed all'incapacit+á, estremamente umana, di comprendere il pieno significato del genocidio industriale perpetrato dalla Germania. Ma la consapevolezza degli aspetti materiali dell'Olocausto +¿ iniziata molto presto; le istituzioni ebraiche e sioniste hanno iniziato, nei primi anni '40, a discutere la possibilit+á di richiedere riparazioni. Nel '52 +¿ stato firmato con la Germania l'accordo per le riparazioni, in base al quale questa acconsentiva a pagare centinaia di milioni di dollari ad Israele, onde coprire i costi per assorbire i sopravvissuti e pagare perch+® fossero riabilitati. L'accordo obbligava la Germania pure a compensare i sopravvissuti individualmente, ma la legge tedesca differenziava fra coloro che appartenevano alla 'cerchia culturale tedesca' e gli altri. Coloro che erano in grado di provare un rapporto con la cerchia superiore hanno ricevuto somme più alte, anche se erano emigrati dalla Germania in tempo. I sopravvissuti ai campi di concentramento, esterni alla 'cerchia', hanno ricevuto la ridicola somma di 5 marchi al giorno. I rappresentanti israeliani hanno mandato giù la distorsione.
Questo fa parte delle radici del cinismo finanziario esposto oggi ai media, a causa dei seguenti motivi: l'etá avanzata ed il declino della salute dei sopravvissuti, il voluto indebolimento del welfare, la presenza di sopravvissuti dell'ex Unione Sovietica che non sono inclusi nell'accordo sulle riparazioni, l'attivismo mediatico di organizzazioni assistenziali non governative, il gradito arruolamento di giornalisti che si occupano di questioni sociali.
Questi sono turbati dal divario fra l'appropriazione ufficiale dell'Olocausto, percepita in Israele come comprensibile e giustificata, e l'abbandono dei sopravvissuti.
Trasformare l'Olocausto in una risorsa politica serve ad Israele in primo luogo nella lotta contro i palestinesi. Quando su un piatto della bilancia c'è l'Olocausto, insieme alla coscienza (giustamente) colpevole dell'Occidente, l'espulsione dei palestinesi dalla loro terra, nel '48, è minimizzata ed offuscata.
L'espressione 'sicurezza per gli ebrei' è stata consacrata come sinonimo esclusivo di 'lezione dell'Olocausto'. E’ ciò che permette ad Israele di discriminare in modo sistematico contro i cittadini arabi. Da 40 anni, è la 'sicurezza' a giustificare il controllo della Cisgiordania e di Gaza, nonchè di coloro che sono stati privati del diritto di vivere insieme agli abitanti ebrei, cittadini israeliani carichi di privilegi.
La sicurezza serve a creare un regime di separazione e discriminazione su base etnica, di stile israeliano, sotto gli auspici di 'colloqui di pace' che vanno avanti in eterno. Trasformare l'Olocausto in una risorsa permette ad Israele di presentare tutti i metodi palestinesi di lotta - persino quelli disarmati - come un altro anello nella catena antisemita che culmina ad Auschwitz. Israele ottiene per sè la licenza di presentare un numero sempre maggiore di tipi di barriere, muri e torri di guardia militari intorno alle enclave palestinesi.
Separare il genocidio del popolo ebraico dal contesto storico del nazismo e dal suo scopo di uccidere e soggiogare, e dalla serie di genocidi perpetrati dall'uomo bianco fuori d'Europa, ha creato una gerarchia fra le vittime, in cima alle quali stiamo noi. I ricercatori sull'Olocausto e l'antisemitismo cercano balbettando le parole, quando a Hebron lo stato porta avanti la pulizia etnica tramite i propri emissari, i coloni, e ignorano le enclave ed il regime di separazione che sta instaurando. Si denuncia come antisemita, se non come negatore dell'Olocausto, chiunque critica le politiche israeliane verso i palestinesi. Assurdamente, il delegittimare ogni critica ad Israele rende solo più difficile respingere le futili equazioni fra la macchina omicida nazista ed il regime israeliano, che discrimina ed occupa.
A ragione, la denuncia dell'abbandono istituzionale dei sopravvissuti è trasversale. La trasformazione dell'Olocausto in una risorsa politica, da usare nella lotta contro i palestinesi, è nutrita dal medesimo cinismo ufficiale, ma su questo vi è consenso.
* testo originale inglese:
http://www.haaretz.com/hasen/spages/849669
(traduzione di Paola Canarutto)
da qui


martedì 26 gennaio 2016

L'Iran più vicino all'Europa, Israele più lontano - Fulvio Scaglione

L’arrivo in Italia del presidente iraniano Hassan Rouhani, per di più in quasi perfetta coincidenza con la Giornata della Memoria che onora il ricordo della Shoah, ha comprensibilmente provocato un’ondata di editoriali  in cui l’Iran è messo sotto accusa per le discriminazioni ai danni delle minoranze religiose, per le condanne a morte distribuite con  grande facilità (è il Paese al mondo con il più alto tasso pro capite di esecuzioni, 1.084 persone giustiziate nel 2015 secondo i dati di Nessuno tocchi Caino), per le evidenti limitazioni ai diritti civili, per l’antisionismo sempre alle soglie dell’antisemitismo. Tutto giusto e tutto vero, e faranno bene i nostri politici (a differenza di come si sono comportati in altri non meno clamorosi casi) a far capire a Rouhani che per noi queste sono cose importanti e che non basta la prospettiva di far buoni affari insieme(ci sono in ballo contratti per 17 miliardi, dice il Financial Times) per farcele dimenticare.
Non sempre il pulpito da cui arrivano queste prediche è affidabile e coerente. A certi  editorialisti non frega nulla delle esecuzioni saudite, nulla dei bombardamenti sui civili nello Yemen, nulla delle complicità turche con l’Isis; non battono ciglio se a morire sono i curdi o gli iracheni o i palestinesi; manco notano le discriminazioni ai danni delle minoranze etniche e religiose nelle monarchie del Golfo Persico. Però sull’Iran hanno ragione e quindi, pure se sono ipocriti, meritano che gli venga riconosciuto.
Ho però la sensazione che il vero problema non sia lì. Cioè, se l’Iran sia uno Stato più canaglia dell’Arabia Saudita o dell’Egitto. Di rapporti con regimi tutt’altro che edificanti son piene le cancellerie. Agli Usa, che fanno la predica a tutti, non fa per niente schifo che il 22% del loro enorme debito pubblico sia coperto da investimenti della non troppo democratica Cina. Credo invece che il vero problema nascosto dietro queste polemiche sia il nostro rapporto con Israele.
Per molti anni, e presso molti ancora oggi, l’assioma è stato: ciò che va bene per Israele va bene per il Medio Oriente e va bene per noi. Quell’impalcatura sta saltando e molti non riescono ad accettarlo. E’ sotto gli occhi di tutti, infatti, che ormai non tutto ciò che va bene per Israele va bene anche per il Medio Oriente. E che non tutto ciò che va bene a Israele va bene per noi.
Prendiamo l’Isis. Come avevo scritto nel giugno scorso, cioè in tempi non sospetti (prendendomi gli insulti dei soliti fascistelli travestiti da amici di Israele) e come ora dicono gli stessi uomini che governano lo Stato ebraico, il Califfato è per Netanyahu e i suoi un pericolo secondario, quando non un’opportunità, per esempio per annettere ufficialmente il Golan. Per loro è l’Iran la minaccia principale. 

Per l’Europa è esattamente il contrario: l’Isis, già annidato in Libia, è il pericolo incombente mentre l’Iran è un potenziale partner. E non solo per la politica economica ma anche per la stabilizzazione del Medio Oriente, da cui a cascata deriva pure l’ondata di migranti che sta mettendo a rischio le basi stesse dell’Europa comunitaria, come il Trattato di Schengen. Figuriamoci poi per l’Italia, che dalla Libia infiltrata dai jihadisti dista un braccio di mare.
Altro esempio: l’accordo sul nucleare firmato dall’Iran con il cosiddetto Cinque+Uno (Usa, Cina, Russia, Gran Bretagna e Francia più Germania). Tutto il mondo lo considera un passo avanti verso la pace, tranne due Paesi: Arabia Saudita e Israele. Certo, lo spassoso editorialista del Corriere della Sera ci informa che tra dieci anni l’Iran avrà la bomba atomica, dimenticando che dieci anni fa Netanyahu giurava che l’Iran avrebbe avuto la bomba la settimana dopo. Amenità a parte, a chi dareste voi retta? Al mondo o all’Arabia Saudita e Israele?
Tutto questo non avviene perché qualcuno è stupido o cattivo. Netanyahu fa bene a difendere gli interessi di Israele con il mandato ricevuto dai suoi elettori, e altrettanto vale per Rouhani oppure Obama. Il fatto è che il disastro del Medio Oriente uscito da un secolo di manipolazioni occidentali si sta portando dietro un sacco di cose. Comprese alcune certezze e un bel po’ di propaganda.

Consigli per una donna forte - Gioconda Belli (*)

Se sei una Donna Forte proteggiti dai parassiti che vorrebbero mangiare il tuo cuore. Essi usano tutti i travestimenti dei carnevali della Terra:
si vestono come colpe, come opportunità, come prezzi che bisogna pagare.
Ti frugano l’anima, insinuano il trapano dei loro sguardi o dei loro pianti
nel più profondo magma della tua Essenza….
non per accendersi con il tuo fuoco
ma per spegnere la passione, l’erudizione delle tue fantasie.
Se sei una Donna Forte devi sapere che l’aria che ti nutre,
trasporta anche parassiti, mosconi, minuti insetti che cercheranno di abitare nel tuo sangue e nutrirsi di quanto è solido e grande in te.
Non perdere la compassione, ma temi ciò che conduce a negarti la parola,
a nascondere chi sei… ciò che ti obbliga ad addolcirti / ammorbidirti
e ti promette un regno terrestre in cambio del sorriso compiacente.
Se sei una Donna Forte preparati per la battaglia:
impara a stare sola, impara a dormire senza paura nella più assoluta oscurità, impara che nessuno ti lancia corde quando ruggisce la tempesta,
impara a nuotare controcorrente.
Allenati nelle attività della riflessione e dell’intelletto.
Leggi, fa' l’amore con te stessa, costruisci il tuo castello,
circondalo di fossi profondi, però fai ampie porte e finestre.
È necessario che coltivi enormi amicizie,
che coloro che ti circondano e ti amano sappiano chi sei….
fatti un cerchio di falò e accendi nel centro della tua stanza
una stufa sempre ardente, dove si mantenga il bollore dei tuoi Sogni.
Se sei una Donna Forte proteggiti con parole e alberi
e invoca la memoria di Donne Antiche.
Devi sapere che sei un campo magnetico
verso il quale viaggeranno urlando i chiodi arrugginiti
e l’ossido mortale di tutti i relitti.
Proteggi, dà rifugio, però prima proteggi te stessa.
Mantieni le distanze
Costruisciti.
Abbi cura di te.
Conserva il tuo Potere.
Difendilo.
Fallo per Te:
Te lo chiedo in nome di tutte noi.

lunedì 25 gennaio 2016

Il silenzio dei dirigenti davanti alla distruzione della scuola pubblica - Marina Boscaino

Sono anni che la scuola statale subisce attacchi nobilitati dalla formula “razionalizzazione e semplificazione” e dalla retorica dell’innovazione.
Istanze che sono coincise – grosso modo – la prima con una periodica ed implacabile stretta alla borsa, che ha realizzato sulle spalle della scuola uno dei più strabilianti risparmi di bilancio che si siano mai verificati: diritto allo studio e diritto all’apprendimento, gli ultimi dei problemi; l’altra, con l’infiltrazione subdola, di matrice neoliberista, come la prima, di parole d’ordine che hanno plasmato menti, approcci, procedure, ma che non hanno apportato alcun significativo beneficio alle pratiche concrete, né – ancora – agli apprendimenti degli studenti. Bensì, ammantando di un’aura di modernità il funzionamento delle scuole, hanno foraggiato amici degli amici e stornato l’attenzione dall’incoerenza che il restyling presentava rispetto all’intenzionale disinvestimento in settori ben più strategici per la realizzazione della Scuola della Repubblica.
Un perverso progetto culturale che ha allontanato, senza che i più se ne accorgessero, la scuola statale dalla funzione di viatico di uguaglianza e pensiero divergente e laico che la Costituzione le affidò.
Le ondate di resistenza a queste condizioni coerentemente portate avanti da governi di ogni colore politico sono state intermittenti e significative, e hanno visto – a parte la costante pressione di un movimento che, più o meno tenacemente, non smette mai di esprimere le proprie ragioni e di elaborare proposte alternative – le punte di diamante più recenti nell’autunno del 2008 (Gelmini), del 2012 (Profumo), nella primavera del 2015 (l’attacco più infido e pericoloso: Giannini e la Buona Scuola). Non dimenticando le battaglie contro il “Concorsaccio” e l’autonomia scolastica di Berlinguer e, nel 2003, la controriforma Moratti.
Una domanda sorge spontanea: dove erano i dirigenti scolastici? A parte sparutissime avanguardie, che si contano letteralmente sulle punte delle dita di una mano (Simonetta Salacone e Renata Puleo, ad esempio, di cui mi onoro di essere amica), non pervenuti. La loro assente partecipazione alle battaglie per la difesa della scuola della Costituzione, la loro incapacità di esporsi in prima persona – timorosi, conniventi, inerti, esecutori acritici – davanti alla sopraffazione e all’arbitrio con cui la scuola è stata trattata; la loro pervicacia nel lasciarne la difesa nelle mani di docenti e studenti, tanto ostinata da far pensare ad una volontà inesistente; la loro prontezza nel recepire e far propri i più retrivi provvedimenti di esautoramento della democrazia scolastica e di accentramento nelle proprie mani di poteri che la Costituzione ha pensato come cogestiti attraverso il criterio della collegialità; il loro zelo nel partecipare allo smantellamento dell’unitarietà del sistema scolastico nazionale, assumendo prontamente il ruolo di autopromoter nel mercatino dell’orientamento. Insomma, è ormai fatto acclarato: la voce dei dirigenti – tranne che in casi rarissimi – si è fatta sentire esclusivamente in merito a rivendicazioni salariali.
Per il resto, partecipare a battaglie per la difesa della scuola della Repubblica è stato – salvo in casi rarissimi – affare nostro, di docenti e studenti, soprattutto da quando,con il dlgsl 165/01 è stata istituita la dirigenza scolastica: il vecchio preside – figura didatticamente e pedagogicamente significativa – lasciava il posto, per consentirgli i primi vagiti, al manager, il dirigente, le cui responsabilità, già allora declinate in previsione aziendalistica, sono enunciate dall'art. 25 di quel provvedimento.
Da quel momento la scuola ha lentamente ma inesorabilmente assunto una organizzazione aziendalista e dirigista, nonostante le condizioni intrinseche alla democrazia scolastica dettate nei due articoli della Carta che la riguardano, che si configurano soprattutto nel principio della libertà dell'insegnamento.
Come è noto qualche tempo fa ANP, la più potente lobby dei dirigenti scolastici, in grado di suonare la grancassa senza colpo ferire ad ognuna delle brutture individuate nella Buona Scuola, pur di aumentare il “potere” (sic!) nelle mani dei dirigenti scolastici, ha fatto sapere – urbi et orbi – cosa pensa della democrazia scolastica, quale opinione ha dei docenti italiani, come ritiene di attuare le prescrizioni di quella odiosa e pedestre norma, ribadendo – persino in quella che riteneva una “spiegazione” rispetto agli attacchi subiti di conseguenza – di credere e sostenere senza esitazione la logica dell'uomo solo al comando.
Questi trasformisti di ogni stagione, che solo poco tempo fa fingevano di fare la voce grossa con il governo Berlusconi e consentono oggi a Renzi di produrre un danno ben peggiore alla scuola pubblica, non stanno facendo altro che confermare la loro antica vocazione autoritaria, impartendo alle modeste figure di dirigente scolastico che sono riusciti a far reclutare grazie alla propria “capacità contrattuale” indicazioni che addirittura enfatizzano il conflitto che la legge già di per sé ha istituzionalizzato nelle scuole.
Quello che stupisce, piuttosto (ma fino ad un certo punto), è che le organizzazioni sindacali che hanno al proprio interno – a questo punto in maniera evidentemente contraddittoria – sia dirigenti scolastici sia docenti e personale Ata, non siano state nemmeno in grado di balbettare un minimo di stigma agli attacchi ripetuti che i docenti italiani hanno subito verbalmente e stanno subendo concretamente da questa zelante schiera di esecutori della 107.
E – ancora di più – (ma questa notazione è pura retorica) che il ministro dell'Istruzione non abbia ritenuto necessario dover spendere una parola rispetto al trattamento che ANP intende riservare ai “docenti contrastivi” e alla democrazia scolastica.
La stragrande maggioranza dei dirigenti scolastici italiani che operano quotidianamente sul campo ha per altro ritenuto prudente anche in questa occasione tacere sulla questione e conveniente disinteressarsi delle sue possibili implicazioni.
In questo desolante panorama di mancato presidio di spazi di democrazia e di omessa denuncia degli attacchi alla serenità della vita scolastica condotti da chi ha come interesse prioritario l'esercizio del proprio potere e soprattutto del proprio sottopotere, fa per fortuna eccezione la voce di una pattuglia di dissidenti, che ha avuto il coraggio di dissociarsi apertamente da ANP mediante una lettera aperta.
Tale presa di distanza è stata ripetutamente ripresa e citata in rete e soprattutto interpretata da molti come esempio di nobile resistenza culturale e professionale alla deriva imposta dai tempi, mentre a mio giudizio essa non fa altro che confermare – me ne daranno atto gli stessi firmatari della lettera, alcuni dei quali conosco personalmente – il fatto che nel nostro strano Paese ciò che altrove rappresenterebbe una ovvia legittima indignazione contro una evidente, violenta e intollerabile violazione di un principio costituzionale basilare – la libertà di insegnamento, garanzia culturale e didattica dell'interesse generale – si configura invece come atto isolato, e pertanto straordinario, di un manipolo di coraggiosi.
A fronte di questo le firme apposto al documento sono soltanto 24, a sottolineare ancora una volta in maniera inequivocabile quale sia l'autentico spessore umano, politico, democratico di coloro che hanno la responsabilità di dirigere le istituzioni scolastiche della Repubblica.
Del resto, ogni tempo ha i suoi eroi. E ogni eroe ha il suo tempo.
 (18 gennaio 2016)



ecco la lettera di cui si parla nel testomdi Marina Boscaino:

I presidi non vanno alla guerra - Francesco Borciani

 Ai primi di dicembre l’ANP aveva pubblicato sul suo sito una presentazione sul Piano Triennale dell’Offerta Formativa che conteneva alcune considerazioni sul potere di indirizzo conferito al Dirigente.
Diverse affermazioni non ci avevano convinto. Ci erano sembrate l’espressione, un po’ preoccupante, di un modo di intendere i rapporti all’interno della scuola decisamente distante dal nostro.
Vediamo in questi giorni che quelle considerazioni vengono lette come la posizione ufficiale di tutti i Dirigenti scolastici. Ne riportiamo alcune.
Secondo l’interpretazione proposta dall’ANP, il nuovo modello di titolarità dei docenti, oltre alla possibilità di sceglierli in funzione del piano dell’offerta formativa predisposto in ogni scuola e alla maggiore probabilità di fare squadra, presenterebbe per il Dirigente il vantaggio di “non ‘avere le mani legate’ rispetto a docenti contrastivi”.
Ancora, rispetto al ruolo di elaborazione del CdD (dove la legge 107/15 chiarisce “Il piano è elaborato dal collegio dei docenti sulla base degli indirizzi per le attività della scuola e delle scelte di gestione e di amministrazione definiti dal dirigente scolastico. Il piano è approvato dal consiglio d'istituto.”) si suggerisce di affidarsi ad un gruppo di lavoro, con la raccomandazione di acquisire per prudenza qualche parere “mirato” preliminare, senza formalizzare la consultazione, e di portare il testo in collegio docenti, per una discussione “da contenere quanto possibile”, sottolineando che il Collegio “si può esprimere solo con un voto”.
Infine, per quanto riguarda l’approvazione definitiva in Consiglio di istituto, il documento ANP sottolinea che la possibilità che il CdI intervenga a modificare il testo in fase di approvazione è “un evento da evitare con ogni cura”, preparando “accuratamente la delibera, che sostanzialmente dovrà essere una ratifica”.
Vogliamo ribadire che non tutti i Dirigenti scolastici si riconoscono in queste posizioni, che riteniamo lesive della dignità dei docenti, del ruolo del Collegio e del Consiglio di Istituto e che disegnano uno scenario di conflitto permanente all’interno delle scuole, cercato con determinazione.
L’ANP non rappresenta l’insieme dei Dirigenti scolastici, parla esclusivamente a nome dei propri iscritti, in particolare quando si esprime su temi così critici, con letture e interpretazioni assolutamente di parte.
Noi non ci riconosciamo in una visione di scuola in cui gli Organi Collegiali sono assemblee da controllare, evitando che possano avere voce in capitolo, riducendole al ruolo di chi ratifica le decisioni del Dirigente; o in cui gli insegnanti sono elementi “contrastivi” da ridurre all’obbedienza grazie a nuovi poteri di comando.
Non concordiamo con il suggerimento, sempre contenuto nello stesso documento, di non sollecitare proposte, secondo “il principio dei marines: don’t ask, don’t tell…”.
È una posizione che, siamo certi, non condividono neppure molti iscritti all’ANP e che, in definitiva, produce e alimenta proprio lo scontro che si dice di temere.
Al di là delle posizioni culturali, politiche o sindacali, ci riconosciamo in un’idea di scuola come opera collettiva, realizzata da tante istanze, organi, persone, che lavorano insieme attraverso la via del confronto, in una prospettiva pluralista che non ammette scorciatoie, tantomeno autoritarie. Ognuno di noi, secondo la propria sensibilità, le proprie scelte, le condizioni locali in cui opera, declinerà diversamente il proprio ruolo; ma sempre nell’ottica del dialogo, non certo dell’imposizione o peggio della manipolazione.
Se ANP si prepara alla battaglia, convinta che la L. 107/2015 affidi ai Dirigenti il compito di sconfiggere tutte le altre componenti della scuola, ha letto una legge diversa da quella su cui noi, nella quotidianità dei nostri istituti, stiamo lavorando.
Questa visione non ci rappresenta e non crediamo rappresenti un futuro auspicabile per la nostra scuola.
Ferrara, 3/1/2016