venerdì 31 marzo 2017

Aiutare i poveri, non punirli

In questi giorni le Camere stanno discutendo due decreti - quello sulla "sicurezza urbana" e quello sul "contrasto all'immigrazione illegale"- che portano il nome del Ministro dell'Interno, Marco Minniti.
Entrambi i decreti hanno la stessa radice: la persecuzione dei poveri, dei senza fissa dimora, degli immigrati e la filosofia della "prevenzione" per via giudiziaria e poliziesca del disagio sociale, del malessere urbano e la limitazione del diritto d'asilo.
Con il decreto sulla "sicurezza urbana", in nome del "decoro" e della "tranquillità" dei cittadini si dà ai sindaci il potere di sanzionare, multare ed espellere i poveri e i senza fissa dimora dai centri storici. Con il decreto sulla immigrazione si ripristinano e si rilanciano i centri di detenzione e si limita gravemente -una previsione incostituzionale- ai richiedenti asilo la  possibilità di ricorso.
Questi due decreti trattano i poveri come delinquenti e i richiedenti asilo come truffatori: invece di affrontare la povertà e la fuga dalle guerre con le politiche sociali, la solidarietà, i diritti si sceglie la strada punitiva, securitaria, poliziesca.
Chiediamo ai deputati e ai senatori - nel prosieguo della discussione parlamentare- di negare l'approvazione a questi due decreti e sosteniamo la mobilitazione delle organizzazioni della società civile che si stanno opponendo a questi due provvedimenti.

Fabrizio Gifuni, Wilma Labate, Giulio Marcon, Valerio Mastandrea, Roberto Saviano, Andrea Segre, Padre Alex Zanotelli

Tre mesi con i braccianti Sikh, nell’inferno del caporalato - Marco Omizzolo

  
Più di tre mesi trascorsi a lavorare nei campi agricoli della provincia di Latina con uomini obbligati a lavorare come schiavi. Tre mesi nell’inferno dei braccianti indiani che raccontano il volto oscuro dell’Italia. Un paese che nasconde parte di sé sotto le gonne del malaffare, espressione di un capitalismo baro, cinico, violento, spregiudicato e fondato sullo sfruttamento lavorativo, a volte in complicità con mafiosi di ogni genere e imprenditori sempre pronti a elogiare il potente di turno. Tre mesi dentro le serre pontine, compagno di lavoro di persone a cui nessuno chiedeva mai il nome. Uomini considerati solo strumenti per il profitto del padrone. Questa è la sintesi della mia esperienza di ricerca sociologica condotta sulla comunità punjabi in provincia di Latina e sul bracciantato agricolo, attività nella quale molti di loro sono impiegati.
Braccianti che dovevano obbedire, senza discutere. Uomini con le mani callose e sporche di terra, la schiena piegata per 10, 12 e a volte anche 14 ore al giorno per raccogliere pomodori, cocomeri, ravanelli o insalata. Il tutto per circa 20-30 euro al giorno. Accade ogni giorno nelle campagne del pontino. In provincia di Latina si contano circa 30mila punjabi, in prevalenza residenti nei Comuni costieri a spiccata vocazione agricola. Uomini, oggi sempre più anche donne, costretti a coltivare e a raccogliere gli ortaggi che poi prendono le autostrade della Grande distribuzione Organizzata, filiera sporca responsabile di tanta parte dello sfruttamento lavorativo, per finire nei piatti dei cittadini-consumatori di tutta Europa. Sono lavoratori col turbante che ho imparato a conoscere, che ho intervistato a centinaia, che ho guardato negli occhi anche quando si inumidivano dicendomi che avevano sbagliato a venire in Italia. Pensavano al nostro paese come una grande occasione di riscatto sociale ed economico per sé e la propria famiglia, l’opportunità di vivere “all’occidentale”, di vedere il mondo che gli avevano raccontato amici e parenti. E invece si sono trovati a lavorare piegati nei campi agricoli per poche centinaia di euro al mese sotto lo sguardo vigile del caporale o del padrone di turno e a dire sempre “sì capo”.

Partivo ogni mattina in bicicletta con un gruppo di braccianti indiani da Bella Farnia, piccolo residence vicino Sabaudia, per arrivare nel campo agricolo indicatoci dal caporale. Per ore a raccogliere fiori di zucca o cocomeri, sperando che nessuno dei miei compagni pronunciasse il mio nome italiano. Ero lì, sulla mia terra, per osservare le modalità del reclutamento, dell’intermediazione illecita (caporalato), ascoltare le parole dei lavoratori, fare la loro stessa fatica, guardare il datore di lavoro e poi provare a studiare il tutto, con gli occhi del sociologo e l’indignazione dell’essere umano, cercando di non smettere mai di restare umano. E ho osservato datori di lavoro pretendere dai lavoratori di essere chiamati padrone, obbligare i braccianti indiani a fare tre passi indietro e ad abbassare la testa prima di rivolgersi al capo italiano. Ho visto braccianti indiani lavorare tutti i giorni della settimana per un mese intero ed essere pagati appena 400 euro. Ed io con loro. Ho parlato con lavoratori indiani che dopo aver lavorato per settimane senza sosta e aver chiesto un giorno di riposo sono stati allontanati, licenziati, cacciati con ignominia. Ho intervistato i braccianti aggrediti e rapinati del mensile faticosamente guadagnato da bande di criminali italiani. Gli indiani mi spiegavano che denunciare è inutile. Non conoscono i nomi degli aggressori e anche quando ne vengono a conoscenza non si permetterebbero mai di farli alla polizia, perché spesso sono i figli o gli amici del padrone o i propri compagni di lavoro italiani. Meglio stare in silenzio dunque, che denunciare e perdere il lavoro. Ho incontrato lavoratori indiani che hanno subito spedizioni punitive solo per aver chiesto il riconoscimento di un giusto salario, come Hardeep, che dei giovani italiani in auto tentarono di investire mentre tornava con la sua bicicletta verso casa al termine di una faticosissima giornata di lavoro. Oppure Sarbjeet che sfuggì per poco al tentativo che dei delinquenti fecero di tramutarlo in una torcia umana, gettandogli addosso una tanica di benzina. O ancora Lathi, al quale ruppero entrambe le gambe. Per non parlare di tutti quei lavoratori indiani (ma anche rumene, bangladesi e a volte anche italiani) investiti per strada mentre si recano o tornano dal campo di lavoro e lì abbandonati. E poi gli incidenti sul lavoro mai denunciati. Le percosse e le violenze subite da chi osa alzare la testa e il silenzio costante delle istituzioni, che sollecitate sul tema, rispondono sempre che si tratta solo di casi isolati. I padroni hanno molti soldi, pagano campagne elettorali, spostano migliaia di voti. Meglio scegliere con attenzione i propri avversari politici. Meglio stare dalla parte del più forte che di coloro che non votano, non parlano italiano e non si ribellano. E così la politica pontina discute poco di questo tema. Il silenzio, loro pensano, paga e molto.
È lo stesso silenzio che fino a poco tempo fa copriva le urla di chi denunciava il radicamento delle mafie nel pontino, dei killer di camorra e delle loro relazioni con l’economia e la politica pontina. Mafie e sfruttamento lavorativo, riciclo del denaro e truffe, violenza e silenzi. Gli indiani piegati nei campi a lavorare come schiavi, i padroni a volte servi dei mafiosi a contare soldi, mentre tutto intorno il silenzio assordante di quasi tutte le istituzioni. Solo la Questura di Latina di recente si è svegliata e con coraggio ha iniziato ad ascoltare le nostre denunce. E allora continuiamo a denunciare, a raccontare e a vivere stando dalla parte degli schiavi di questo capitalismo. O almeno ci proviamo consapevoli che non si tratta di episodi isolati, di casualità, ma della manifestazione di una particolare e sempre più diffusa organizzazione del lavoro e poi sociale che comprende padroni e schiavi coinvolti in rapporto di dipendenza, coi primi che comandano e i secondi che obbediscono. Mancano le catene, per il resto la condizione di servo o di schiavo è drammaticamente evidente. Così nasce il sistema pontino di reclutamento e sfruttamento della manodopera bracciantile straniera, indiana in particolare, nei campi agricoli. L’espressione più truce di un capitalismo globalizzato, senza più remore e coscienza. Gli indiani vengono sfruttati e non denunciano, i padroni sfruttano e tacciono, il sindacato, soprattutto la Cgil, fa quel che può, le mafie proliferano, i cittadini fanno finta di nulla.
Le storie dei braccianti punjabi pontini sono state raccontate più volte da In Migrazione (www.inmigrazione.it) con articoli, dossier e documentari. Un impegno costante dedicato a chi spesso non riesce ad esprimere la propria rabbia. I nuovi schiavisti si fanno chiamare imprenditori. Sono invece solo sfruttatori, espressione di un capitalismo che pare vincente ma che è invece fragilissimo e sull’orlo costante della crisi.
Dopo le nostre denunce, avendo avuto accanto sempre la Cgil, sono iniziate le reazioni. Intimidazioni, violenze, provocazioni, peraltro sempre denunciate. Ma anche i primi arresti di imprenditori e faccendieri, i sequestri di alcune aziende agricole, le denunce contro i primi caporali, a volte anche indiani, le inchieste di Medici senza Frontiere, Medici per i Diritti Umani, di Amnesty International. Una grande coalizione di donne e uomini che con coraggio hanno raccolto le testimonianze dei braccianti indiani e hanno analizzato, studiato e raccontato un inferno invisibile solo agli occhi di chi vuole essere distratto.

Molti i casi inquietanti. Forse due su tutti meritano di essere raccontati. Il primo riguarda l’uso di sostanze dopanti da parte dei braccianti indiani per sopportare le fatiche fisiche e psicologiche subite nei campi agricoli. Vendita nei campi e assunzione di sostanze nocive che avveniva e avviene ancora con la complicità colpevole del padrone di turno. Alcuni braccianti, infatti, assumono metanfetamine, antispastici e oppio per riuscire a soddisfare gli ordini del padrone che esige sempre di più. Se hai 50 anni non puoi lavorare per 12 ore al giorno tutti i giorni senza sosta. Ma non puoi permetterti neanche di perdere quel lavoro. E allora ti dopi. Prendi oppio, magari con vergogna e di nascosto come mi è capitato più volte di vedere, perché hai ancora uno o due ettari di carote da raccogliere e sei così stanco che non riesci quasi a restare in piedi. Il dossier di In Migrazione, Doparsi per lavorare come schiavi (http://www.inmigrazione.it/it/dossier/2014—doparsi-per-lavorare-come-schiavi) ha riportato le prime testimonianze dai braccianti indiani che raccontano il loro inferno fatto di sostanze dopanti, fatica, sfruttamento e ancora pochissimi soldi, mentre il saggio contenuto nella collettanea Migranti e territori analizza questo fenomeno con maggiore precisione e lo confronta con la storia del bracciantato agricolo italiano della prima metà del Novecento. Dei circa 9 euro l’ora di lavoro previsti dal contratto provinciale al lavoratore ne arrivano solo tre o quattro. Il resto rimane nelle tasche del padrone, che li spartisce con il commercialista di turno, artefice anch’egli dello sfruttamento lavorativo e con lui tutti quei professionisti che consentono al padrone di evitare i controlli amministrativi e ispettivi, mimetizzandosi tra le pieghe del sistema ufficiale. Questo è il capitalismo globale? Le riforme del lavoro vanno sempre in questa direzione. Aiutano il padrone, riconoscendogli un ruolo sociale che non merita, sbilanciando i rapporti di potere a suo vantaggio e contribuendo a rendere il lavoratore ancora più dipendente dalla sua volontà. Ciò vale anche per le ultime riforme, Jobs Act compreso. Si mortificano i diritti dei lavoratori, la loro capacità di autodeterminare la propria condizione economica e sociale, di lottare per i propri diritti, di rappresentanza e si rende muta la dialettica propria del rapporto tra capitale e lavoro. Di Vittorio reagirebbe portando milioni di lavoratori, braccianti e operai, in piazza. Darebbe loro la voce che oggi non hanno. Noi, senza dubbio, facciamo ancora troppo poco.
Il secondo caso riguarda quello di un lavoratore indiano che dopo aver lavorato per circa tre anni per una retribuzione di circa 400 euro al mese decise di rivolgersi proprio a In Migrazione, per cercare di avere giustizia. Dopo aver sporto denuncia, a distanza di due anni, si attende ancora la prima udienza. Nel mentre quel lavoratore, dalla lunga barba e col turbante, è stato allontanato dal suo ex datore di lavoro e costretto, insieme ai due testimoni faticosamente trovati, a cercare lavoro fuori regione. Questa è la giustizia italiana. Le sue inefficienze nascondo ingiustizie che colpiscono ancora i più deboli e scavano un fossato quasi invalicabile tra poveri e ricchi.
Intanto gli studi, le interviste, le indagini continuano. Siamo stati ascoltati dalla Commissione antimafia del Parlamento italiano, ci siamo costituiti come parte civile nel primo processo contro un imprenditore agricolo fondano accusato dai suoi stessi lavoratori indiani di truffa documentale e sfruttamento. Abbiamo avviato il primo sportello legalità con il progetto Bella Farnia finanziato dalla Regione Lazio e Arsial, e durato solo sei mesi ma capace di determinare alcune svolte fondamentali. In sole sei mesi, infatti, abbiamo organizzato un corso di italiano per circa 20 persone, fatto più di 80 consulente legali gratuite a lavoratori che sino ad allora avevano conosciuto solo le pratiche dello sfruttamento e la rabbia strumentale del padrone. Di queste ben 15 sono diventate vere e proprie vertenze giudiziarie dalle quali ci aspettiamo un minimo di giustizia. Una buona pratica, in sostanza, riconosciuta anche dal CNR e da alcuni importanti giornali tedeschi, che meriterebbe di continuare ad operare per saldare un nuovo patto, ancora fragile, tra la comunità punjabi pontina e gli italiani onesti. Proprio nel pontino è nata la proposta di introdurre, dopo averlo aggiornato, il reato di caporalato nel 416bis (associazione mafiosa) così consentendo il sequestro e poi la confisca delle aziende che praticano la riduzione in schiavitù dei lavoratori. Ma non basta. Bisogna rimettere al centro il lavoro, i diritti, la giustizia sociale, saper riconiugare tutto questo in chiave moderna includendo nella battaglia gli imprenditori onesti e capaci, sconfiggere malaffare, mafie e le norme e prassi peggiori della Grande distribuzione Organizzata. Proprio nel Sud pontino esiste il Mercato ortofrutticolo di Fondi, già al centro delle cronache giudiziarie italiane per la presenza di clan mafiosi che in associazione lo utilizzavano per i propri loschi affari. Nella battaglia per i diritti dei lavoratori della terra rientra la lotta contro le mafie dunque, e la liberazione del Mof dal giogo degli interessi trasversali e dei traffici illeciti e leciti di mafiosi e sfruttatori che insieme strangolano parte dell’agricoltura pontina e nazionale.
Intanto ogni giorno nei campi agricoli pontini si ripete la pratica dello sfruttamento. Coi caporali che lucrano, i padroni che speculano, i lavoratori che si dopano e a volte muoiono di fatica, i commercialisti e alcuni consulenti del lavoro che riempiono di soldi le loro casseforti. Il sistema agromafioso così descritto va sconfitto quanto prima sul piano culturale, economico e giudiziario. Sapremo presto se esiste questa volontà politica o meno. Sapremo presto se anche questo governo sta coi padroni o coi lavoratori. Una via di mezzo, stante la situazione di fatto, non esiste, se non al costo di accettare una mediocre e ipocrita posizione mediana che vuole tenere tutto e tutti insieme per puro calcolo di convenienza politica. A noi non resta che continuare ad ascoltare i lavoratori, le loro storie, le aspettative di vita, i loro progetti e a denunciare, con cognizione di causa e coraggio, quanti sulle spalle piegate dei braccianti indiani hanno costruito le loro fortune, facendosi chiamare padroni e obbligando gli indiani ad abbassare la testa. Abbassare la testa poi chissà ancora per quanto tempo.

giovedì 30 marzo 2017

Il poeta – Anna Fresu



A José Craveirinha,
poeta, mozambicano
 Il poeta guardava le pareti della sua cella, una volta bianche. Col manico del cucchiaio incideva parole, sfogava la sua angoscia. A volte il suo sguardo si velava per un rivolo di sangue che colava da una ferita che il sopracciglio corrugato faceva riaprire. Aveva ripetuto solo il suo nome, quello di un Zé Ninguém, di un nessuno di memoria paterna. Ma nelle sue vene scorrevano i fiumi della sua terra, Maputo, Limpopo, Zambesi, Rovuma… quelli di sua madre, ragazza del sud che l’amore aveva portato fra le braccia di quel suo padre, povero emigrante. Nella testa sentiva ancora le note struggenti di un fado che suo padre gli cantava al suono della chitarra. Nel cuore, i battiti del tamburo che riecheggiavano nel “silenzio amaro” del suo quartiere di legno e zinco.
Altro non aveva detto. Non i nomi di chi andava a raggiungere su quel treno lento che varcava la frontiera, né i luoghi dove si riunivano, né le azioni che preparavano. Per dimenticare i colpi, il dolore, ripeteva i suoi versi che l’avevano incriminato. Quasi un sorriso sulle labbra spaccate. Allora anche i tiranni, stupidi, ottusi, conoscevano la forza della poesia, sapevano quanto un verso letto  o passato di bocca in bocca potesse consolare, infiammare gli animi, gridare giustizia, libertà!
Ora non aveva carta su cui scrivere, foglietti che sua moglie avrebbe portato fuori nascosti nella scollatura. Le poesie diventarono brevi, incisive, sferzanti perché lei potesse impararle a memoria le rare volte che le era concesso vederlo. I suoi libri incriminati, i suoi autori “pericolosi”, sua moglie li aveva nascosti con cura alle retate della polizia, neppure lui sapeva dove. Sapeva che un giorno li avrebbe ritrovati, li avrebbe letti ai suoi nipoti perché respirassero bellezza e libertà. Avrebbe voluto tingere le pareti con i colori del pittore della cella accanto, anche lui pericoloso sovversivo, nero per giunta, che dipingeva danzatori e volti che urlavano oppressione, colori della loro terra, il verde della savana dopo la pioggia, il rosso della sabbia e del leone, il marrone della pelle e del baobab, le geometrie dei teli che le donne avvolgevano ai fianchi.
Avrebbero ridato memoria e impeto ai suoi sensi offuscati quando lo riportavano in cella dopo gli interrogatori.
Avrebbe voluto che i muri si allargassero in un campo di calcio dove correre e tirare a un pallone perché le sue membra intorpidite e dolenti riacquistassero vigore. Di sua moglie ormai solo la traccia di un piatto di upsha che il carceriere rimestava cercando chissà quale segreto. E la visione di lei in cucina, i bei capelli setosi avvolti in un fazzoletto, le mani abili a tritare foglie e cipolla, a pestare arachidi. Lui seduto al tavolo troppo piccolo – quante volte lo avevano detto – a scrivere su un quaderno per starle vicino e rubarle ogni tanto un sorriso. Maria. Dove sarà ora quel sorriso non più scambiato, non con i vicini che girano lo sguardo e gli amici che non ti salutano. Di sicuro lo conservi dentro, mentre aspetti tutti i giorni davanti al portone della prigione. Lo getti in faccia in sfida ai poliziotti  che vorrebbero allontanarti. Maria. Sposa sorella compagna di ogni giorno e di quelli che verranno.
Tu sai, Maria, che non mi spezzeranno, che mi avvolgerai ancora nella “carezza bruna e bionda del tuo amore” e che la “certezza di pace” del nostro affetto non sarà più soltanto una speranza.
(da: “Sguardi altrove”, Anna Fresu, Vertigo edizioni, Roma 2013)
da qui

Cos'è rapinare una banca a paragone del fondare una banca?

su come le banche non pagano le imposte, finanziano i giornali, che fanno bilanci falsi, e tutti insieme fanno impallidire il Gatto e la Volpe

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da un articolo di Repubblica:
Nascondere gran parte dei profitti. Obiettivo? Evitare di pagare le imposte dovute nei Paesi dell'Unione europea. E' quello che fanno le venti più grandi banche del Vecchio continente, secondo uno studio dell'organizzazione britannica Oxfam, che da anni punta il dito su elusione e evasione fiscale di banche e grandi corporation. Un metodo oliato con cui evitano di pagare imposte al fisco nei singoli Paesi, gli stessi che poi, stretti dalle regole di bilancio, alzano la tassazione sui cittadini, poi chiamati, in caso di fallimenti bancari, a contribuire a salvare le banche. Nel 2015, secondo lo studio di Oxfam, sono stati sottratti al fisco circa 27 miliardi di dollari, (25 in euro), parcheggiati tutti nei paradisi fiscali, i più gettonati dei quali sono Lussemburgo, Hong Kong e Irlanda. Il bello è che questi istituti di credito, tra cui le italiane Unicredit e Intesa, citate nello studio, dichiarano ben il 26% dei loro profitti nei paradisi fiscali.Ma una volta analizzati i dati, come ha fatto l'organizzazione britannica, si scopre anche un'altra amara verità. E cioé che solo il 12% del loro fatturato e il 7% dei loro dipendenti sono riconducibili ai paradisi fiscali. Dunque c'è un "gap clamoroso" secondo Oxfam, che non può che giustificarsi attraverso quella che si chiama elusione fiscale. Lo studio è basato su dati pubblici, richiesti dall'Unione europea, che chiede alle singole banche di specificare i guadagni ottenuti paese per paese. Una regola che dal 2015 è legge. La stessa che Oxfam e non solo, vorrebbe valesse anche per le grandi corporation…


il video fa parte di una campagna di Oxfam Italia (il cui direttore è Roberto Barbieri) per dire Basta ai paradisi fiscali e rendere credibile l’impegno preso dai leader mondiali di eliminare la povertà estrema entro il 2030.



qui un articolo chiarissimo sui paradisi fiscali delle banche, apparso su Il Sole 24 Ore.

e, coincidenza delle coincidenze, si è scoperto che il giornale rosa della Confindustria (quelli che con le loro prediche e i loro diktat economici fanno apparire il Grillo Parlante, quello di Pinocchio, un dilettante delle prediche) falsifica i bilanci, come se niente fosse.



E poi si dice: “Oh, il populismo!”. Con lo spirito e lo stupore di chi evoca l’invasione delle cavallette. Eppure a spiegare come l’onda populista, o come si dice oggi, anti-establishment, nasce e cresce, basta questa grande storia. Uno delle architravi del sistema del paese, il giornale economico e finanziario che per decenni dalle sue pagine ha indicato (con non poca supponenza) la strada della correttezza economica, delle regole, del bene comune, si ritrova al centro di una sorta di “scandalo delle tre carte”: vedo non vedo, vendo non vendo, recupero e intasco. Parliamo della crisi del Sole24Ore, ma magari fosse solo la crisi di un giornale. In verità si tratta della punta di un iceberg del declino di Confindustria e più in generale del capitalismo italiano, o meglio di una crisi che fa emergere nuovi rapporti e la marginalizzazione del settore del business…

l’esposto di Nicola Borzi, giornalista del quotidiano della Confindustria

qui un articolo sul falso in bilancio de Il Sole 24 Ore 

qui il dolore del giornalista (de Il Sole 24 Ore) Ugo Tramballi

appare quindi utile leggere qui un articolo di Pressenza.com.
parafrasando Giovanni Falcone, che diceva “Segui i soldi e troverai la Mafia!”, sapere chi sono i proprietari dei giornali ci farà capire perché scrivono quello che scrivono.

questo puntuale lavoro del Centro Nuovo Modello di Sviluppo (CNMS) è da tenere sempre a portata di mano.


Dedicato ai morti per Acqua - Vincenzo Consolo


(articolo su “L’unità“ – 27 Settembre 2002)
Non si finisce più di contare i morti, i clandestini annegati che giorno dopo giorno emergono dai fondali renosi del mare che bagna le coste meridionali di Sicilia, i cadaveri che le onde ributtano sulle spiagge dai nomi di una classicità scaduta da tempo immemorabile – Porto Empedocle, Baia Dorica, Costa Ellenica – cadaveri sulla sabbia come detriti di un’immane risacca. Sono vittime, questi poveri cristi fuggiti da Liberie, Tunisie, Algerie, Marocchi, Iraq o Palestine, prima che dei mercanti di vite umane, della nostra opulenza, della nostra arroganza, della nostra empietà e ferocia, della nostra ottusa indifferenza. Eppure, da quelle plaghe siciliane in cui oggi si raccattano cadaveri, e così dalla Calabria, dalla Sardegna, sono partite in passato masse di diseredati per raggiungere il Maghreb. Anche loro clandestini, anche loro sfruttati dai boss mafiosi, anche loro che s’avventurano su carrette di mare, loro che in quel periglioso Canale perivano nei naufragi. Ma in Tunisia questi nostri clandestini, questi nostri emigranti trovarono accoglienza, lavoro, speranza; si stabilirono nei porti della Goletta, di Biserta, di Sousse, di Monastir, di Mahdia, nelle campagne di Kelibia e di capo Bon, nelle regioni minerarie di Sfax e di Gafsa. Nel 1911, le statistiche davano una presenza italiana ufficiale di 90mila unità. Nel 1914, Andrea Costa, vicepresidente della Camera, visita le regioni dove vivevano le comunità italiane. Dice, in un discorso ai lavoratori : «Ho visitato la Tunisia da un capo all’altro; sono stato tra i minatori del sud e fra gli sterratori della strade nascenti, e ne ho ricavato il convincimento che i nostri governanti si disonorano nella loro viltà, abbandonandovi pecorinamente alla vostra sorte». E’ a partire dal 1968 che avviene l’inversione di rotta: tunisini, algerini, marocchini cominciano ad approdare sulle nostre coste. Approdano soprattutto i tunisini a Trapani e si sparpagliano per le campagne, si stanziano nell’antico quartiere arabo di Mazara del Vallo la città dove nell’827 erano approdati i loro antenati per la conquista della Sicilia. Il sociologo di Mazara, Antonino Cusumano, ha scritto il libro “ Il ritorno infelice “ su questa emigrazione di tunisini in Sicilia. Emigrati da una Tunisia lontana da quella striscia costiera delle vacanze «esotiche» di noi europei, da quell’anello di lussuosi alberghi, di Abu Nuwas, di proprietà degli Emirati Arabi. Emigrati contadini che il fallimento della riforma agraria promossa da Bourghiba, che portava il bel nome di Rigenerazione del suolo, ha buttato nella miseria, emigrati braccianti, pescatori, minatori che l’odierna politica di Ben Alì relega al di sotto di un livello di sopravvivenza. Mi trovavo, nel giorno del naufragio di Porto Empedocle, dei 27 morti liberiani, a pochi chilometri da quel mare, a Palma di Montechiaro, il paese fondato nel ‘600 dai principi di Lampedusa, i «gattopardi» di GiuseppeTomasi. Ma il paese anche, quello, che Danilo Dolci scelse nel 1960 come paese simbolo di depressione, miseria, per un convegno sulle condizioni di vita e di salute in zone arretrate della Sicilia occidentale. Fra studiosi, politici, parteciparono a quel convegno Carlo Levi, Paolo Sylos Labini, Tommaso Fiore, Girolamo Li Causi, Leonardo Sciascia, Ignazio Buttitta. Mi trovavo dunque a Palma di Montechiaro per un convegno su madre Francesca Saverio Cabrini, la santa degli emigrati, colei che operò negli Stati Uniti e in Sudamerica fra i nostri poveri emigrati laggiù. Nel 1879, Giustino Fortunato così scriveva: « Con lo sviluppo dell’emigrazione meridionale negli Stati Uniti, il sistema di mediazione esercitato dalle agenzie per mezzo dei “notabili” diventa un efficace strumento per esportare nelle Little Italy d’oltre oceano le forme di sfruttamento camorristico o mafioso (…) Spesso infatti i boss italo-americani sono in contatto diretto con gli agenti italiani, i quali procurano contemporaneamente passeggeri alle compagnie di navigazione e manovali alle imprese americane». I naufraghi di Scoglitti speravano, con la falsa notizia, con l’inganno della «sanatoria» della nuova legge italiana sull’immigrazione, di poter andare a lavorare, come molti loro connazionali, nelle imprese ragusane delle serre, in quegli immensi labirinti di calore e di veleni che sono i campi coperti di plastica. Non ce l’hanno fatta, sono rimasti al di qua delle serre, riversi in quelle dune di sabbia, dette «macconi», di spiagge chiamate abulicamente Baia Dorica e Costa Ellenica. Là, coperti da teli, in attesa dei pietosi raccattacadaveri. A questi naufraghi, ultime, ennesime vittime dell’attuale nostro mondo crudele, vogliamo dedicare come fosse un «requiem», i versi di Morte per Acqua di T.S.Eliot:
Fleba il Fenicio, morto
da quindici giorni,
Dimenticò il grido dei gabbiani
e il flutto profondo del mare,
E il guadagno e la perdita.
Una corrente sottomarina
Gli spolpò le ossa in sussurri,
Mentre affiorava e affondava
Traversò gli stadi
della maturità e della gioventù
Entrando nei gorghi.
Gentile o Giudeo,
o tu che volgi la ruota e guardi
nella direzione del vento,
Pensa a Fleba, che un tempo
è
Stato bello e ben fatto al pari
di te.

mercoledì 29 marzo 2017

Un documento segreto rivela che Israele espulse abitanti di Gaza subito dopo la guerra dei Sei Giorni - Yotam Berger



Il memorandum del Ministero degli Esteri rivela che l’esercito israeliano fu impegnato in un’azione di punizione collettiva, in cui scacciò dozzine di residenti del campo profughi e demolì case, per una mina antiuomo le cui tracce portavano al campo.
Un documento segreto del Ministero degli Esteri datato 15 giugno 1967 rivela che Israele espulse dei palestinesi dalla Striscia di Gaza come punizione collettiva per rappresaglia rispetto ad un tentato attacco alle truppe israeliane.
Il documento descrive una visita di funzionari del Ministero degli Esteri all’ufficio del governatore militare a Gaza e parla della decisione di espellere dozzine di palestinesi da Gaza verso il Sinai, dopo che era stata piazzata una mina antiuomo destinata a colpire le forze di sicurezza israeliane. Il documento classificato fu scritto da Avner Arazi, che all’epoca era in servizio al dipartimento per l’Asia del Ministero degli Esteri.
Il dottor Guy Laron, un docente del dipartimento di relazioni internazionali dell’Università Ebraica, ha detto ad Haaretz: “Non so niente di questo episodio, ma vi sono state espulsioni e massacri alla fine della guerra. Non facevano parte della storia ufficiale, ma sono accaduti.”
Ha detto di non aver letto di questo specifico episodio, ma ha citato un esempio relativo all’unità di commando Shaked avvenuto alla fine della guerra. “E’ accaduto sotto il comando di Benjamin Ben-Eliezer (poi deputato e più volte mnistro laburista, ndtr), il 10 o l’11 giugno. C’è anche la storia dei beduini di Rafah, avvenuta dopo, nel gennaio 1972. Furono espulsi migliaia di beduini, si stima dai 6.000 ai 20.000.”
Il documento è stato scoperto da membri di Akevot, l’istituto di ricerca sul conflitto israelo-palestinese. Il direttore esecutivo di Akevot, Lior Yavne, ha detto ad Haaretz: “Quello che è eccezionale in questa storia è che i funzionari del Ministero degli Esteri hanno immediatamente scritto un memorandum di intesa. Non era il loro compito. Dovevano firmare un accordo con UNRWA (agenzia ONU per i profughi palestinesi, ndtr.). Sembra che fossero turbati da quanto avevano visto.”
Il documento descrive la visita di Arazi a Gaza il 14 giugno, giorni dopo la fine della guerra dei Sei Giorni, in cui incontrò il governatore militare di Gaza. I funzionari ricevettero un’informativa sugli avvenimenti dei giorni seguiti alla presa di Gaza. “Il 12 o il 13 una mina antiuomo è esplosa nelle vicinanze di Gaza”, asserisce il documento. “L’indagine ha riscontrato che la mina era stata posata poco prima che esplodesse. Le tracce hanno condotto ad alcune case nel campo profughi di Al-Tarabshe (sic).”
Secondo il documento, gli israeliani chiesero agli abitanti delle case di segnalare le persone che avevano compiuto l’attacco. “Poco tempo dopo, sono comparse 110 persone che si sono dichiarate soldati dell’esercito di liberazione palestinese, assumendosi la responsabilità collettiva,” afferma il documento.
Arazi descrive le ripercussioni di questo atto. “Non hanno voluto sentir parlare di segnalare chi tra loro avesse compiuto l’azione”, ricorda. “Gli furono concesse tre ore per rivelare gli autori dell’azione, altrimenti sarebbero stati puniti tutti – fu deciso di trasferire nel Sinai tutti quelli che non avessero risposto al termine dell’ultimatum e abbandonarli! Pare che nel frattempo sia stata eseguita la punizione. L’esercito fece anche esplodere otto case alle quali conducevano le tracce.”
Il documento descrive anche altri episodi in cui l’esercito cercò di far pressione sulla popolazione palestinese perché consegnasse armi e soldati alle forze di sicurezza.
“Il governo ha chiesto ai residenti del campo profughi nella Striscia di consegnare tutte le armi in loro possesso”, è scritto nel documento. “Loro non hanno risposto a questo appello. Perciò il governo ha chiesto al rappresentante locale dell’Unrwa di indicare un deposito in cui chi possedeva armi potesse riporle nella notte senza essere ricercato o dover essere identificato. Questo metodo è stato più efficace.” E inoltre: “Nell’ipotesi che alcuni soldati egiziani si nascondessero in case del campo profughi, i residenti del campo sono stati invitati a consegnare questi soldati. Non vi è stata alcuna risposta.”
Laron sostiene che ci sono testimonianze oculari di espulsioni di massa dalla Cisgiordania appena finita la guerra. “E’ successo alla fine della guerra in Cisgiordania”, ha detto. “Probabilmente c’era qualche piano organizzato, riguardo al quale non sono stati diffusi documenti. Tuttavia, ci sono resoconti di soldati che arrivavano sui camion e spingevano i residenti ad andarsene, li trasportavano per espellerli”, ha aggiunto.
“Uri Avnery, nelle memorie che ha appena pubblicato, sostiene di aver incontrato soldati dell’unità che dicevano che quello era il loro lavoro – attuare un piano organizzato finalizzato all’espulsione dei residenti della Cisgiordania”, ha continuato Laron. “Il comandante generale, Uzi Narkiss, appena prima della guerra disse che, se ce lo permettessero, potremmo scacciare gli arabi dalla Cisgiordania in 48 ore. Senza dubbio furono esiliate migliaia di persone.”
Yavne, dell’istituto Akevot, ha detto che la testimonianza nel documento del governatore di Gaza nel 1967 dimostra che le demolizioni delle case e le espulsioni sono state usate come strumento di punizione nei territori da parte dell’esercito fin dai primi giorni dell’occupazione. Riguardo all’ufficiale che parlò con i funzionari del Ministero, Yavne ha aggiunto: “I giuristi dello stato tendono a negare che le demolizioni delle case siano parte di una politica di punizioni, ma la testimonianza del generale Gaon mostra la vera natura dell’azione di demolizione, che danneggia sempre coloro che non sono coinvolti nel conflitto.”
(Traduzione di Cristiana Cavagna)

tre canzoni di Manu Chao







Intervista a Luis Sepulveda

(di Alba Vastano)


Lo incontro ad una festa in casa di amici. Era settembre scorso. Qualcuno mi dice “C’è Sepulveda”. Mi avvicino e non faccio altro che abbracciarlo. Lo riconosco come l’uomo che ha combattuto per il suo Cile, in quei drammatici giorni della fine di Allende. Lui era lì. Ha combattuto per la libertà dei popoli dell’America latina, con Le Brigate internazionali Simon Bolivar. Un mito nel mito. Lo riconosco anche come l’uomo del volo della gabbianella dalla cattedrale di Amburgo, quella gabbianella che non voleva essere tale, che non aveva il coraggio di volare. Lui, Luis, l’autore della storia, con la sua fantasia e una fiducia infinita “nei puri di cuore”, non l’ha buttata giù dalla torre più alta. L’ha convinta che avrebbe potuta farcela ad essere se stessa. Le ha dato fiducia. E la gabbianella, “metafora dell’identità e della libertà ritrovata” ce l’ha fatta a riconoscersi tale e ha spiccato il volo. Questa è la forza dell’amore. La fiducia che si trasforma in coraggio e si assapora la libertà, quella vera. È la liberazione. Luis Sepulveda è l’uomo della liberazione, è l’uomo del volo. È davanti a me sorridente, stretto alla sua Carmen. La sua forza, la sua musa. Non posso che inseguirlo per mesi con la mia intervista. È in giro per il mondo. Non può rispondere. Infine eccola…
Maestro, qual è la sua idea sul concetto di libertà e di liberazione? La libertà è un valore fondamentale, ma senza il processo concreto e impegnativo di liberazione resta un’idea astratta. Quanto è difficile, essere veramente liberi? E quali i costi?
Si possono scrivere migliaia di pagine sul concetto di libertà, sull’essere liberi e sui suoi costi. Io so solo, per mia esperienza, che solo gli uomini liberi lottano per la libertà di tutti. Chi lotta per la libertà, lotta e combatte per non dimenticare di essere un uomo o una donna liberi.
I suoi trascorsi in America latina, schierandosi dalla parte dei più deboli e dei diritti umani e civili, l’hanno vista un uomo che ha vissuto una forte compromissione della libertà. Lei oggi si sente uomo libero?
Sono sempre stato un uomo libero. Conosco le limitazioni che il sistema capitalista cerca di porre alla mia libertà, ma non le accetto proprio perché sono un uomo libero.
Quanto, in questa liberazione, l’hanno aiutata anche la sua creatività e in seguito il riconoscimento mondiale verso la sua produzione letteraria? Il riconoscimento pubblico e la notorietà favoriscono un percorso di liberazione personale o in realtà la liberazione è un processo solo individuale?
Per quanto mi riguarda, essere un uomo libero certamente ha aiutato le mie capacità creative, di artista e di scrittore. La notorietà e il successo non sono stati determinanti in questo. Quando partecipo socialmente, lo faccio perché lo sento come un dovere di uomo, di cittadino, di chi assume una posizione etica di fronte alla vita e alla società. Io prima di tutto sono un cittadino e solo dopo sono uno scrittore.
Maestro, un tasto importante nella sua vita. Fra i suoi ricordi che l’hanno segnata come uomo, come politico e forse anche come scrittore. Un accenno al suo Cile, a quando era vicino ad Allende, a quella tragedia che lei ha vissuto in prima persona , pagando anche un caro prezzo. Come e quanto hanno influito nella sua vita quei drammatici giorni della fine di Allende e le conseguenze di questa drammatica vicenda nella sua storia personale?
Tutto ciò è parte della mia vita, della mia memoria, della mia storia. Tutto ciò che ho vissuto, ha influito nella mia vita ma non in forma traumatica o patetica. So perché ho fatto tutto quello che ho fatto e sono in pace con me stesso.
Il 1979 la vede a combattere con le brigate internazionali Simon Bolivar. La sua militanza per la liberazione dei popoli oppressi è davvero incredibile. Cosa è rimasto in lei, nella sua anima, di quel periodo? Rifarebbe ancora lo stesso percorso?
Non mi considero una persona straordinaria per tutto questo. Io, come molti altri compagni, ho fatto quanto dovevo fare nel momento giusto. Essere un rivoluzionario latinoamericano negli anni ‘60 e ‘70 era un’attitudine etica e si praticava in base a quella etica. “Rifarebbe ancora lo stesso percorso?” Per questo non ho una risposta perché questa possibilità non esiste.
Parliamo di amore, di amore per una donna, quello vero. Lei ha avuto una esperienza importante in tal senso che ha attraversato tutta la sua vita. Cosa ha rappresentato e rappresentato per lei Carmen, Yanez, la poetessa, la compagna di una vita che le è ancora oggi accanto? L’amore può cambiare le persone?
L’amore è un qualcosa che si costruisce giorno per giorno. Il rapporto di coppia si basa sul rispetto, ma non solo come un fatto intimo: il vero rispetto nasce quando si condivide un’attitudine etica nei confronti della vita.
Sepulveda e la scrittura. Cosa rappresenta oggi poter lasciare al mondo che legge le sue opere una parte della sua anima e della sua sensibilità? Quando scrive, Sepulveda si emoziona sempre?
Ho sempre inteso la letteratura come una forma di condivisione di un qualcosa, del mio modo di vedere, di immaginare, di creare o ricreare la storia. Scrivo sulla base della mia sensibilità e dei miei sentimenti e mi piace pensare che i miei lettori abbiano sensibilità e sentimenti simili ai miei.
L’opera di Sepulveda che ama di più e perché?
Sono affezionato a tutti i miei libri perché sono tutti una parte di me.
Parliamo della più famosa forse, notissima a docenti e allievi. Un’opera di grande insegnamento per tutti, attualissima perché tratta dell’accoglienza al diverso. Parlo della gabbianella. “Vola solo chi osa farlo”. Ci vuole coraggio per raggiungere l’autonomia. Ma si fa prima e si osa di più se ci sente accolti ed amati.
Credo che il libro spieghi chiaramente il significato della metafora di “volare”. Non voglio aggiungere interpretazioni a ciò che è già chiaro.
Se trasferiamo il concetto di diversità al problema attuale dell’accoglienza al migrante la questione si complica un po’. I migranti che fuggono dalle guerre osano volare alto, attraversando il mare e sfidando la morte, ma… Qui non ci siamo. Perché l’uomo è solipsista e malvagio, per sua natura?
I migranti che muoiono nel Mediterraneo o alla frontiera tra il Messico e gli Usa, i migranti che prendono il mare alla ricerca di un rifugio in Europa, non volano. Lo fanno per cercare ciò che un giorno gli permetterà di volare. Non credo che l’uomo sia malvagio per natura. C’è una mentalità egoista, un’idea della vita per cui importa solo accumulare ricchezza, una perdita intenzionale di memoria che fa dimenticare agli Europei che anche loro sono stati migranti. Abbiamo un sistema perverso che mira a soffocare quei valori che ci rendono umani.
L’economia mondiale è in mano alle potenze imperialiste che giocano a scacchi sul possesso delle risorse naturali del Medio Oriente e foraggiano il terrorismo islamico. Parliamo di stragi, Charlie-Hebdo, del Bataclan, di Nizza, degli ultimi attentati terroristici in Germania. Follia umana, autodistruzione. Siamo alla terza guerra mondiale? Come si ferma questo processo di distruzione dell’umanità?
Possiamo parlare, leggere, vedere la tv e dire “com’è terribile il terrorismo islamico!”. Ovviamente gli jihadisti sono semplicemente criminali, però dimentichiamo perché esistono. Cosa hanno fatto le potenze coloniali europee, occidentali, con il mondo arabo, quando è caduto l’impero ottomano? La ragione del fondamentalismo islamico non va ricercata nel Corano - anche se il Corano così come la Bibbia, non sono esattamente dei monumenti ai diritti umani -, ma nel disprezzo dell’occidente nei confronti del mondo arabo. Oggi è facile condannare i musulmani e dire che tutti sono terroristi, anche se sappiamo che non è vero. Non siamo alla terza guerra mondiale: stiamo combattendo le stesse guerre fomentate dal colonialismo e dall’imperialismo.

È vero. “Vola solo chi osa farlo” e chi lotta per la libertà non si sente mai suddito, ma è già un uomo libero. Grazie Maestro.

martedì 28 marzo 2017

I have a (pedagogical) dream - Jean Luc Nuvoli


Qualche giorno fa si è registrata l’ennesima dichiarazione allarmistica sulla scuola italiana da parte di professori universitari, giornalisti, pedagogisti, scrittori ecc. Seicento intellettuali (Ernesto Galli della Loggia, Massimo Cacciari, Benedetto Vertecchi, Ilvo Diamanti, Paola Mastrocola ecc) hanno firmato una lettera rivolta alla presidenza del consiglio dei ministri nella quale invocano urgenti misure allo scopo di fermare il declino dell’italiano nella nostra scuola. 
Quando questi signori si sono diplomati e laureati gli italiani scrivevano meglio? Francamente ho dei dubbi. Sicuramente ai loro tempi (Galli della Loggia è del ‘42, Cacciari del ‘44) quelli che arrivavano al diploma o alla laurea scrivevano molto meglio dei ragazzi di oggi. Il problema è: chi arrivava alla laurea? E gli altri, quelli che non ci arrivavano, come scrivevano?
Ma non è questo il punto. Sono sicuro che i 600 firmatari della lettera abbiano le loro buone ragioni per affermare quanto affermano. 
Il punto è che, a mio parere, le proposte che essi fanno per migliorare lo stato dell’italiano e dell’istruzione italiana (http://gruppodifirenze.blogspot.it/…/contro-il-declino-dell…) vanno esattamente nella direzione opposta a quella che sarebbe necessario percorrere per ottenere reali miglioramenti. 
Io sono un oscuro insegnante che ogni mattina si reca nella sua scuola per cercare, insieme a studenti e colleghi, di trovare un po di senso in questo nostro tempo. Ma, credetemi, è dura!
E non è dura a causa dei ragazzi. I ragazzi sono vivi, sono belli, sono pieni di energia! Non vedono l’ora di trovare persone che li valorizzino, contesti positivi di crescita e sviluppo. 
Ripeto, io sono solo un umile insegnante. Non sono neanche poi così sicuro del mio stesso italiano. Ma nel mio piccolo sono certo di una cosa: le proposte di queste persone, che invocano maggiore serietà, durezza, rigore, aumento del carico di lavoro, aumento dei momenti di valutazione e di controllo in tutti i cicli scolastici non fanno altro che potenziare quella che è la vera causa del declino che denunciano. La verità è che la nostra scuola pubblica, in tutti i suoi ordini e gradi sta diventando sempre più un luogo triste, buio, cupo, disperati, un’istituzione che crea sofferenza, stress, malattie in alunni e insegnanti. La nostra scuola è come la nostra società, ne è uno specchio. 
Ve lo dice una persona che tutto sommato lavora ancora in una scuola di buon livello (considerata rispetto alla media italiana), ve lo dice uno che è convinto che la maggior parte degli insegnanti ce la metta tutta, uno che è convinto che ci siano scuole che fanno tante cose meravigliose, uno che crede ancora, nonostante tutto, nella scuola pubblica. Ma quello che non va è il sistema, la cultura, l’antropologia che sta dietro al modo in cui facciamo scuola. 
La forma mentale collettiva che sta alla base del nostro sistema è che ogni vero progresso, ogni evoluzione, debbano basarsi sulla sofferenza. Non può esserci vero apprendimento senza sacrificio, senza dolore. Non so da dove questo assunto derivi. Forse dal fatto che il simbolo della nostra religione è un Dio che muore fra le più atroci sofferenze per cercare di far progredire tutti gli altri. Fatto sta che questa premessa generale (che la pedagogia ha sempre tentato di mettere in discussione mostrando come l’apprendimento possa invece essere gioia, libertà, creatività) è oggi un dogma assoluto, che nessuno può più mettere in discussione. Questo pensiero unico, che vediamo agire anche nella lettera dei seicento, è uno dei principali responsabili dell’attuale stato delle cose, del fatto che gli zaini dei bambini e dei ragazzi siano sempre più pesanti , che nei loro pomeriggi non ci sia più tempo da dedicare ai giochi o alle relazioni. Ad esso si deve il fatto che ragazzi nel pieno del loro vigore fisico e mentale siano costretti a trascorrere metà delle loro giornate fermi, seduti su un banco in aule spoglie e incolori, e l’altra metà in preda all’ansia per il giorno successivo. Quante energie che si potrebbero liberare con esiti positivi per tutti vengono in questo modo mortificate?
Per questi motivi io (e credo anche tanti altri come me) ho un sogno: che la felicità e il benessere inizino ad essere il principale fine della scuola, la premessa di tutti gli altri obiettivi, infatti una persona felice è forte e in grado di capire autonomamente ciò di cui ha bisogno, sogno che la scuola possa essere un luogo di libera espressione di se stessi, un luogo di creatività, sogno che nessuno si senta giudicato o etichettato per i propri insuccessi per le proprie difficoltà, ma che ognuno venga accettato per ciò che è e aiutato a progredire con i propri tempi, secondo i propri bisogni, sogno che la scuola diventi un luogo di ascolto e di comprensione, di amore.
Tutte queste cose dovrebbero essere scontate. La migliore pedagogia ce le va ripetendo da secoli, da Socrate a Rousseau, da Tagore a Neill, da Dewey a Montessori. Queste idee dovrebbero essere state acquisite già da lungo tempo e invece no, chi oggi le sostiene viene considerato nella migliore delle ipotesi un ingenuo. In realtà queste idee sono state realizzate tante volte e in tanti paesi da singoli o gruppi di persone. Oggi i sistemi scolastici di interi paesi si stanno sempre più ispirando a queste idee, si vedano le esperienze dei paesi nord europei e della Scandinavia. Perché dovremmo rassegnarci al grigiore e alla tristezza? Che cosa hanno quei paesi in più di noi? Una cosa sicuramente, il fatto che la comunità abbia deciso che l’educazione sia uno dei settori più importanti per il benessere delle persone e per il loro futuro, il fatto che la cura dei bambini e dei ragazzi sia il bene più importante. In questi paesi i programmi sono stati ridotti al minimo, il tempo libero a disposizione dei bambini e dei ragazzi è maggiore, sono stati aboliti i compiti, non esistono test standardizzati, gli studenti sono coinvolti in attività significative di ricerca di scoperta, spesso a contatto con la natura, sono coinvolti in discussioni con persone ben formate e motivate, in ambienti stimolanti e ricchi di positività; l’educazione emotiva, l’educazione alla creatività, al pensiero divergente, alla soluzione di problemi sono messe in primo piano. Gli studenti di questi paesi sono, udite udite, sempre ai primi posti delle classifiche internazionali sull’istruzione che tanto ci ossessionano. Raggiungono con gioia e con felicità obiettivi che noi, con tutta la nostra cupezza e sofferenza, non riusciamo nemmeno a immaginare. Sempre questi paesi sono ai primi posti per quanto riguarda la qualità della vita, la salute, la libertà di stampa, la cura dei diritti sociali e civili, la cura degli anziani, dei disabili, dei detenuti ecc. Proviamo a riflettere che forse sono queste le cose di cui bisognerebbe dibattere negli spazi pubblici come la TV e non le beghe di partito o il fatto se le donne dell’est siano preferibili a quelle italiane.

Hommage à Édouard Glissant


QUI il documentario completo, su Arte

Quando la dignità è più forte della paura: la lotta di 60 braccianti Sikh nelle campagne romane

(dal sito di Clash City Workers)

Questa è una piccola ma immensa storia di lotta. È la storia di 60 lavoratori impiegati in un’azienda agricola della campagna romana, nei pressi del litorale, che produce ortofrutta e aromi per i maggiori marchi della grande distribuzione e discount, da Coop a Conad, ad Eurospin.
I braccianti che lavorano per quest’azienda sono quasi tutti indiani Sikh provenienti dal Punjab, ad eccezione di qualche italiano che ricopre però mansioni di livello superiore. Anche la loro sarebbe, anzi lo è, una tra le innumerevoli odiose storie di sfruttamento che percorrono le campagne del nostro paese da nord a sud. Lavoratori che affollano la cosiddetta ‘zona grigia’ del mercato del lavoro, con l’esistenza di un contratto che però è pura carta-straccia, e che serve solo al padrone per tenersi al riparo da eventuali controlli a sorpresa in azienda. Rispetto ai lavoratori, invece, nessuno scrupolo a farsi beffa di quanto spetterebbe loro effettivamente in base a quello stesso contratto sottoscritto anche dal padrone.
Accade così che questi lavoratori sono costretti a paghe da fame di 4 euro l’ora e a giornate lavorative interminabili di 10 ore minimo al giorno, quando per contratto non dovrebbero lavorare più di 6 ore e mezza al giorno e prendere una retribuzione di 8 euro l’ora circa. Per non parlare delle condizioni lavorative: una sola pausa giornaliera di lavoro, quella per il pranzo, di non più di mezz’ora circa e con l’obbligo di portarsi da casa pasto ed acqua; un lavoro duro e insopportabile, esposti al freddo e alle intemperie di inverno o alle temperature infuocate delle serre in estate; sotto lo sguardo scrutatore e vigilante di un caporale autoritario e dispotico; obbligati a comprarsi in azienda le attrezzature di cui necessitano per lavorare, come ad esempio i guanti.
Come si fa a sopportare tutto questo? Per paura! Semplice quanto odiosa, la paura di perdere anche la più squallida miseria, piegati dal bisogno di portarsi a casa quel minimo che ci può assicurare la sopravvivenza. È quella stessa paura che abbiamo iniziato ad avvertire un po’ tutti e sempre più intensamente in questi ultimi anni di crisi, trasformata da padroni e loro ‘tutori’ istituzionali in un’occasione per renderci sempre più docili e mansueti mentre a colpi di riforme ci stanno spogliando anche dei più elementari diritti e tutele sul posto di lavoro. Ma, evidentemente, c’è un sentimento ancora più forte della paura. È quel sentimento che scatta quando si ha la sensazione di aver toccato il fondo, quando si percepisce che quando è troppo è davvero troppo, quando non c’è più nulla da cedere, quando non è rimasta che la propria dignità da barattare e quella no, non si tocca! È quel sentimento di rabbia e di voglia di riscatto che leggi negli occhi dei tuoi colleghi e che ti fa salire un coraggio di cui non sapevi di essere capace, anche quando in ballo c’è davvero tanto, non solo il posto di lavoro, ma insieme a questo, come succede a molti immigrati in questo paese, la possibilità di rinnovare il proprio permesso di soggiorno e quindi vedersi negati quel minimo di diritti che ti permette di percepirti ancora come un essere umano. È per questo che la piccola storia che riguarda questi braccianti sikh della campagna romana è in realtà immensa. Perché, nonostante le condizioni di profonda precarietà in cui si trovano a lavorare e a vivere, insieme hanno trovato il coraggio di lottare uniti e compatti per migliorare le proprie condizioni di lavoro.
Si sono auto-organizzati e sono entrati in sciopero, richiedendo l’allontanamento del caporale, la fornitura delle attrezzature a spese dell’azienda, un aumento della paga oraria e un’ulteriore pausa dal lavoro di 10 minuti la mattina per fare colazione. Il padrone è stato costretto a recarsi in azienda, che da tempo immemorabile ormai gestiva a distanza tramite l’intermediario scelto, e a negoziare con i lavoratori. Ha provato a fare la voce grossa, a non cedere, a ricattarli, dicendo loro che potevano anche andarsene, tanto ne avrebbe trovati chissà quanti di indiani disposti a sostituirli alle medesime condizioni. Il tempo di metabolizzare il colpo e riorganizzarsi e il giorno dopo è ancora lotta: i braccianti Sikh si recano sul posto di lavoro, iniziano la loro giornata lavorativa ma si fermano dopo 5 ore di lavoro e tutti insieme escono dall’azienda, e al padrone, costretto nuovamente a recarsi sul posto, gridano: ‘sarà così tutti i giorni finché non ci riconoscerai quello che chiediamo!’. E così vincono! I 60 lavoratori Sikh hanno vinto: hanno ottenuto dall’azienda la fornitura di attrezzature a suo carico; hanno costretto il datore di lavoro ad allontanare il caporale autoritario che li aveva gestiti sino ad allora, anche se poi sostituito da un altro ma meno dispotico ed odioso; hanno ottenuto un ulteriore pausa dal lavoro di 10 minuti la mattina e un aumento di 50 centesimi della paga oraria. Forse sembrerà poco, ma non lo è…quello che sono riusciti a costruire questi lavoratori è straordinario, hanno percepito la loro forza e l’hanno messa in pratica, e potranno farlo altre 100, 1000 volte. Ci hanno insegnato che non può essere la paura, che i padroni e i politici, loro amici, tentano di diffondere tra noi, a gestire le nostre vite. Abbiamo qualcosa di più prezioso che ci costringe a lottare: la nostra vita, che dobbiamo poter vivere con dignità!

Gramsci educatore, racconta Angelo D'Orsi

lunedì 27 marzo 2017

La polizia ferma un importante attivista israeliano per presunto possesso di materiale BDS - Jotam Berger


Mercoledì scorso la polizia ha sottoposto a fermo l’attivista di spicco della sinistra Jeff Halper, presso l’insediamento di Ma’aleh Adumim, per sospetto incitamento, affermando di aver agito sulla base di una denuncia per possesso di “materiali relativi al movimento BDS”.
Halper, che si è trasferito in Israele dagli Stati Uniti nel 1973, è stato trattenuto dopo aver guidato un tour di stranieri al sito E1,di fronte all’insediamento, e è stato portato dal furgone della polizia a una commissariato vicino, per essere poi rilasciato senza essere messo agli arresti.
Prima di liberarlo gli agenti di polizia hanno fotografato i manifesti e le mappe che teneva in mano. Halper nega di avere distribuito durante il tour qualsiasi materiale relativo al BDS, o anche di avere discusso del movimento di boicottaggio.
Distribuire tali materiali non sarebbe stato in violazione della legge, anche di una legge anti-boicottaggio del 2011 [http://www.haaretz.com/israel-news/israel-passes-law-banning-calls-for-boycott-1.372711], secondo la quale una persona o un’organizzazione che chiede il boicottaggio di Israele, compresi gli insediamenti, può essere denunciato da chi è bersaglio del boicottaggio, anche senza che debba dimostrare di avere subito alcun danno.
La legge nega anche a una persona o una società che sostiene il boicottaggio di Israele o degli insediamenti la possibilità di partecipare agli appalti governativi. Un’altra legge, approvata questo mese, dà diritto a Israele di negare l’ingresso agli attivisti pro-BDS [http://www.haaretz.com/israel-news/.premium-1.775614].
Halper, co-fondatore del Comitato israeliano contro la demolizione delle case, ha dichiarato ad Haaretz che mercoledì stava partecipando a un tour nei territori con visitatori stranieri. Aveva condotto un gruppo di quindici persone in un punto di osservazione sulla zona E1, nei pressi di Ma’aleh Adumim.
“È un buon posto per mostrare il contesto in cui si trova Ma’aleh Adumim rispetto a Gerusalemme. E’ una tappa regolare dei nostri tour; non era la prima volta che portavo un gruppo in quel luogo”, ha detto Halper.
Al termine della visita i turisti erano saliti a bordo di un autobus diretto a nord e lui stava andando a prendere un autobus per Gerusalemme, ma “mentre correvo verso l’autobus, ho scorto la polizia nella zona, e li ho visti parlare e contattare il gruppo. Ho chiamato l’autista palestinese (del bus che trasportava i turisti) che mi ha detto di avere sentito dire che stavamo distribuendo materiale BDS “.
“Improvvisamente l’autobus, dopo due fermate, si è fermato nel mezzo di Maaleh Adumim, la polizia è salita a bordo, mi ha intimato che mi stava arrestando, e mi ha fatto uscire dall’autobus”, ha riferito Halper.
Halper è stato interrogato riguardo al materiale che aveva con sé.
“Non mi hanno spiegato il motivo del fermo, hanno accennato a qualcosa sul BDS, ma nessun dettaglio. Mi hanno messo in un furgone, già sgradevole di per sé. Mi hanno spinto in direzione della stazione di polizia. Appena arrivati ​​alla stazione, si sono fermati e mi hanno fatto un paio di domande su quello che avevo nel sacco e se c’era del materiale BDS.
“Siamo usciti dal veicolo e hanno gettato le mie mappe sul furgone; erano le mappe di Gerusalemme e della sua area più estesa. C’era anche qualcosa con sopra scritto “BDS per BDS”: è qualcosa di cui faccio uso. Io sostengo che non abbiamo soluzioni da offrire e propongo uno Stato democratico bi-nazionale, per questo uso lo slogan “BDS per BDS”. Non è un adesivo o un volantino, ma solo una mappa con quelle parole scritte sopra.
“L’hanno trovato e l’hanno preso, hanno scritto un verbale o qualcosa del genere, e mi hanno rilasciato”, ha detto Halper.
Halper ha affermato che la polizia ha rifiutato di dargli una copia della contravvenzione o di spiegare ciò di cui era sospettato.
In risposta ad una domanda di Haaretz, la polizia regionale della Samaria ha detto:
“Non c’è alcuna indagine su questa questione. C’erano informazioni che sono state verificate da una pattuglia; una volta chiaro che non ha commesso alcuna violazione, è stato liberato.”
Il portavoce della polizia ha detto che l’accusa contro di lui è “incitamento”, ma è stato rilasciato dopo l’interrogatorio; non è prevista nessun’ altra indagine.
(Traduzione di Angelo Stefanini)

Macbettu – regia di Alessandro Serra

l'altra sera ho visto Macbettu, sapevo poco, è stata una bellissima sorpresa, Shakespeare doveva essere un emigrato sardo in Inghilterra, prima della Brexit, e solo attori maschi.
grande lavoro nello scrivere il testo in sardo nuorese, e non solo, di Giovanni Carroni.
regia essenziale, rigorosa, funzionale alla storia.

due note stonate, secondo me:

1 - il monologo di Maurizio Giordo in sassarese (stona non perché è in sassarese, ma perché tutti gli attori non sono primedonne, ognuno è un pezzo al servizio della storia, come se ci fosse un assolo non necessario, e quindi inutile, per quanto l'attore sia bravissimo, come tutti, d'altronde) 
2 - e poi, come all'opera, se scorressero i testi, in italiano, gli spettatori non nuoresi li capirebbero un po', se no è come guardare e ascoltare un'opera di Tadeusz Kantor in polacco, senza sottotitoli, qualcosa si perde, no?

detto questo, è un'opera straordinaria, se ci fosse un libro sulla storia del teatro sardo Macbettu sarebbe inclusa senza se e senza ma.
non perdetevi Macbettu, è di più di quello che ti aspetti.


ps: allego qualche impressione di chi ha visto Macbettu


dice Isa:
Sono innamorata di Macbettu !! lo ho visto tre volte, ognuna da diversa prospettiva.
Lo spettacolo è affascinante, onirico, polisemico. Parla a chi sa andare Oltre il Senso primo della Parola, sa trasmettere la potenza dei gesti, degli sguardi penetranti che accompagnano le azioni. La forza scenografica,  le 'immagini' , fotogrammi,  lentamente scorrono sul palco e ritornano prorompenti la notte nei sogni; i suoni riecheggiano nell'animo,  riportano alla Sardegna, il suo cuore ancestrale, arcaico, il Supramonte, i richiami pastorali, il bestiame al pascolo ma anche la caccia grossa. Le ambizioni più viscerali, la vendetta, la faida si leggono chiaramente nelle espressioni degli attori, nei loro gesti Pesati al grammo e sapientemente illuminati o lasciati in penombra.
Qualcuno potrebbe asserire che il dialoghi erano incomprensibili, eppure, hanno saputo parlare di bieco potere, folle ma anche umano. Quell'umanità che non è in grado di sostenere  la Follia del Potere, che spinta dalla bramosia non fa  distinguo tra identità di genere e rimanda all'umano dubbio.

Shakespeare sarebbe onorato di questa Lettura Altra, sicuramente affascinato di ciò che si è compiuto sul palco e della nostra Terra. 
Un'opera d'Arte  degna dei migliori musei contemporanei , capace al contempo di non perdere di vista le proprie Radici.


dice Mario Faticoni:
Mercoledì ho visto lo spettacolo Macbettu di Alessandro Serra.
Grande grandissimo teatro di stordente bellezza, omaggio al mestiere, alla grande tradizione artistica. Si sbianca la scena, barcolla un ubriaco e vedo Strehler, un nudo s'inginocchia e vedo il Principe Costante, sghignazzano le streghe e vedo Bosch...Grazie.

dice Enrico Pau:
Questo è Macbettu, questo è grande teatro, questo teatro non l'avevo mai visto alle nostre latitudini. E' uno spettacolo universale che rivela il talento puro e visionario di un regista che ha un'idea di teatro che si fonda sulla cura millimetrica dei particolari. Per arrivare a questa perfezione devi avere la capacità di creare un gruppo di attori capaci di seguirti dovunque, anche dentro l'inferno in terra del Macbeth scespiriano, creare un gruppo di attori che siano disposti ad ascoltare e ad ascoltarsi. E' una cosa inedita sulle scene sarde dove per "secoli", a parte rarissime eccezioni, nessuno ha ascoltato nessuno, dove troppe volte abbiamo assistito a piccoli spettacoli creati nelle tante parrocchiette dove si è preparato per anni il rito inutile del "mio teatro". Macbettu è un potente segnale, una ribellione che aspettavo da tempo, una rivoluzione senza sangue se non quello, finto, che nella trama scespiriana gronda da tutte le parti. E' uno spettacolo ipnotico, ma l'ipnosi qui è quella della bellezza, della forma, il bello si fonda sulla capacità di parlare insieme al cuore e alla mente, il bello sta in quella magica terra di nessuno dove nasce e si fissa il pensiero...


«E se realizzassimo una balentia senza fucili?» si chiedeva Sergio Atzeni, qualche mese prima della sua tragica fine, in un acuto intervento su “L’Unione Sarda” (7 maggio 1995). Alessandro Serra per il suo Macbettu sembra averlo preso alla lettera. Sul proprio terreno, naturalmente, che è quello del teatro, e più precisamente di una composizione drammaturgica che si avvale anche (e mai finora con tanta scoperta consapevolezza) degli strumenti dell’antropologia teatrale. Tolti i fucili, tolta la brutalità, rimangono forme, figure, gesti, sguardi, posture, tutta una fenomenologia del balente, e dietro di lui di tradizioni che affondano le radici nella civiltà nuragica. Un patrimonio di espressioni e contegni da smontare, ripensare, rimontare con valori e significati altri, secondo quel processo che Richard Schechner chiamava il «restauro del comportamento».
I cavalieri possono, per esempio, avere fissità impettite, portamenti orgogliosi e insieme avanzare col passo del cavallo, in una danza sincopata di centauri; i soldati possono richiamarsi con le grida dei pastori e cospirare appoggiandosi l’un l’altro nelle posture del cantu a tenore.
Sprofonda negli strati più arcaici dell’isola, questo Macbeth in sardo, e vi ritrova archetipi che valgono anche per la Scozia medievale – valgono per noi oggi. Sono tutti maschi gli otto interpreti (Fulvio Accogli, Andrea Bartolomeo, Leonardo Capuano, Giovanni Carroni, Maurizio Giordo, Stefano Mereu, Felice Montervino, Leonardo Tomasi), in onore tanto alla tradizione elisabettiana quanto a quella dei carnevali della Barbagia, dalle cui suggestioni è partito anni fa il progetto di Serra. Cinque di loro indossano camicia bianca e vestito di velluto nero, sos cosinzos ai piedi e su bonette in testa.
Si muovono su una partitura di fitte variazioni intorno a dinamiche di schiera, di stringa, dove il singolo assolo viene sempre ricondotto al cuncordu. Gli altri tre sono avvolti in lunghe vesti scure, scialle nero e fazzoletto in testa, per dare vita a un grottesco e spassosissimo trio di streghe gobbe e litigiose. Scendono dalle mura del castello, si muovono con veloci attraversamenti del palco o con i passetti del ballu tundu, cui corrisponde il loro continuo confabulare, scontrarsi, schivarsi, rincorrersi masticando improperi, sputandosi addosso: «Bagassa!» Rispondono a una vera e propria coreografia in cui traspare anche l’intervento di Chiara Michelini. Costruite sulla maschera di Sa Filonzana (la filatrice), queste figure dovrebbero portare il fuso per filare, come le Moire greche, il filo della sorte degli uomini, ma qui invece sono dotate di pattada, con cui giocano piuttosto a recidere il filo della vita.
«Macbettu ha mortu su sonnu! Su sonnu innossente, su sonnu ch’imbolica sa madassa iscumentada de s’affannu.» Sa limba sarda risuona nella sua affascinante, irriducibile alterità. Nella traduzione di Giovanni Carroni, Macbeth diventa musica...

dice Walter Porcedda
Coinvolgente, visionario e apocalittico. Come un Mito. Ha potenza evocativa e anche contemporaneo senso del tragico perché rimanda alle guerre che ogni giorno le tivù rimandano sui piccoli schermi con il loro carico di lutti e tragedie. E' lo spettacolo “Macbettu”, o meglio il primo studio di un'opera ambiziosa che, se mantiene le promesse (a novembre la seconda parte) potrebbe diventare uno degli spettacoli più intriganti della prossima stagione.
Di sicuro potrebbe persino far compiere al teatro sardo un bel salto in avanti, animando una scena spesso a corto di sicurezza e nuove visioni. Di queste invece, nella tragedia shakespiriana, ambientata da Alessandro Serra nel cuore di una immaginaria Barbagia, presentata al Massimo giorni fa, invece ce ne sono tante. Sono dentro scenari avvolti nei colori grigi dell'alba e oscuri del tramonto, terra e metallo con i corpi degli attori (tutti maschi) che paiono danzare sospesi tra il giorno e la notte. Gli eroi parlano il sardo tagliente del nuorese in quella che non è solo una versione di “Macbeth” in lingua sarda (coproduzione Sardegna teatro e Teatropersona e distribuito da Cedac in stagione), in alcuni momenti più echeggiante Eschilo che il Bardo, ma una interessante sfida: ritrovare il filo di una teatralità capace di parlare a voce alta nel panorama nazionale. “Macbettu” interpretato da otto rimarcabili attori, quasi tutti sardi (tra questi anche Giovanni Carroni, autore dei dialoghi in barbaricino) ha aperto la settimana scorsa la galleria di proposte, di giovani compagnie quasi tutte coprodotte da Sardegna Teatro.