martedì 30 novembre 2021

Crisi climatica e transizione energetica: le nuove tattiche negazioniste smontate una per una - Stella Levantesi, Antonio Scalari

 

In queste ultime settimane, gli interventi negazionisti del cambiamento climatico sembrano essere aumentati. Questo non è un caso. La macchina del negazionismo si attiva a pieni giri quando l’azione per il clima è al centro dello scenario politico, com’è accaduto in queste ultime settimane in occasione della riunione del G20 a Roma e della COP26, la Conferenza internazionale sul clima di Glasgow.

La COP26 si è conclusa con un accordo che contiene luci e ombre. Alok Sharma, presidente della Conferenza, ha dichiarato che l'obiettivo di contenere l'aumento della temperatura globale entro 1.5° è ancora in vita ma «il suo polso è debole». È una «vittoria fragile», che dipenderà da quanto i singoli governi rispetteranno gli impegni presi. Nel documento finale approvato alla COP si fa riferimento, per la prima volta, ai combustibili fossili e alla necessità di eliminare i sussidi per il settore. Questo viene giudicato un importante passo avanti, anche se all'ultimo minuto ci sono state pressioni per cambiare la formulazione del passaggio sul carbone. "Eliminazione" è stato sostituito con un più debole "riduzione". Una questione critica rimane inoltre quella del sostegno finanziario dei paesi ricchi alle azioni per il clima nei paesi poveri, impegno che i primi non hanno ancora rispettato. Rimane perciò ancora molto da fare per colmare il divario tra le politiche nazionali e le emissioni di gas serra e il percorso che potrebbe portare il pianeta a rimanere al di sotto di 1.5°.

Mentre il mondo discute di come affrontare la crisi climatica, i negazionisti continuano a cercare di inserirsi nella discussione. Questo sta avvenendo anche in Italia. Sui social media ha ripreso a circolare una dichiarazione del fisico Antonino Zichichi, che attribuisce il riscaldamento globale all’attività solare (una vecchia tesi, già smentita). Zichichi aveva espresso queste opinioni nel 2019 in un'intervista pubblicata sul Giornale (testata che ha pubblicato in questi anni diversi interventi negazionisti), che era stata poi rilanciata dall'Huffington Post senza nessun contesto né commento critico. Nella versione diffusa sui social media Zichichi viene messo a confronto con Greta Thunberg, con l’intento di presentarlo come un voce scientifica e autorevole, più credibile di quella dell’attivista. È un confronto ingannevole, che oltre a dare credito ad affermazioni false oscura la posizione della comunità scientifica.

Alcune trasmissioni televisive e testate giornalistiche hanno di nuovo dato spazio a personalità già conosciute per le loro posizioni “contrarie” sul cambiamento climatico. Di recente il programma Cartabianca, su Rai3, ha ospitato Franco Battaglia, docente di chimica fisica dell’Università di Modena. Durante la discussione Battaglia ha potuto ripetere che le attività umane «non c’entrano niente con il cambiamento climatico».

Il giorno successivo all'inaugurazione della COP26, Il Foglio ha pubblicato un’intervista a Franco Prodi, fisico dell’atmosfera. «Il cambiamento è connaturato al clima», afferma Prodi, ripetendo di fatto un vecchio ritornello negazionista (“il clima è sempre cambiato”). Il Foglio lo aveva già intervistato lo scorso agosto, dopo la pubblicazione del nuovo rapporto dell'Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC). La sua posizione era racchiusa nel titolo del pezzo che, oltre a riproporre la solita retorica sul "catastrofismo", non lasciava spazio a interpretazioni: «ecco perché sul clima l'Onu sbaglia». Prodi - che compare tra i firmatari di una lettera, apparsa nel 2019, intitolata “non c’è nessuna emergenza climatica” - aveva dichiarato, in un’intervista all’Huffington Post del 2019, che nella comunità scientifica sarebbe ancora in corso una discussione sulle cause del riscaldamento globale.

Tutte queste posizioni sono in evidente contrasto con un consenso scientifico - la posizione collettiva della comunità internazionale di scienziati - ormai consolidato da molti anni. Il confronto tra tesi opposte è tipico delle discussioni che avvengono nei talk show, ma su temi come il cambiamento climatico ha l’effetto di fare da megafono alla disinformazione. Dare spazio a voci negazioniste, specialmente sui media mainstream, dà al pubblico la falsa percezione che ci sia ancora qualche incertezza sulla responsabilità umana nel riscaldamento globale e che il dibattito scientifico sul tema sia ancora in corso. Anche se non lo è più da molto tempo.

Quello a cui assistiamo è un copione già visto. Da quando si è messa in moto, negli anni ‘70 e ‘80, la strategia negazionista ha puntato a insinuare dubbi sulla realtà stessa del riscaldamento globale e delle sue cause. Lo slogan, per diverso tempo, è stato “la scienza non è ancora definita”. L’obiettivo era impedire o ritardare l’approvazione di leggi e politiche contro le emissioni di gas serra, attraverso campagne di disinformazione - sostenute da gruppi di interesse, media, think tanks e dalle stesse industrie - e il lobbying politico ed economico.

Da qualche tempo, tuttavia, il negazionismo climatico sta cambiando pelle. Il riscaldamento globale molto spesso non viene più negato apertamente e nemmeno viene contestata la necessità di politiche e azioni per affrontarlo. Posizioni platealmente contrarie alla scienza continuano a circolare, ma a queste si sono aggiunti altri argomenti, più insidiosi e ingannevoli.

Il negazionismo si adatta ai tempi e alle circostanze e sfrutta le occasioni che il dibattito pubblico offre. Oggi la crisi climatica e la transizione energetica si trovano al centro della politica mondiale e dei grandi piani dei governi. In questo scenario, il negazionismo è perciò ancora all’opera. In una cosa non è cambiato: il suo approccio continua a essere basato sulla strumentalizzazione, la manipolazione di dati e studi scientifici e l’uso di argomenti infondati e fallaci.

 

"Le politiche climatiche costano troppo (e la crisi climatica è esagerata)"

La denuncia dei costi delle politiche per ridurre le emissioni di gas serra, causate dall'uso dei combustibili fossili, è sempre stata presente nella retorica negazionista. Ora che la transizione ecologica ed energetica è entrata nell’agenda dei media e delle politiche nazionali e globali questo argomento ritorna in auge, adattato alle circostanze. Negli interventi che oggi enfatizzano i costi della transizione raramente si parla della necessità di distribuirli in modo equo nella società o a livello globale tra paesi ricchi e poveri. L’intento, piuttosto, è quello di far apparire le politiche per l’ambiente e il clima come un potenziale ostacolo alla crescita. Un fardello per le imprese, i consumatori e per l’intera collettività.

Queste posizioni sono spesso rivendicate come pragmatiche e realistiche, ma sono in realtà una forma di "cherry-picking", cioè una selezione di dati ed evidenze a vantaggio di una tesi. Inoltre, vanno spesso di pari passo con la minimizzazione delle conseguenze del riscaldamento globale. Sono due argomenti speculari. Se le politiche per il clima costano troppo e se la crisi climatica è esagerata, perché dovremmo preoccuparci così tanto dell'aumento della temperatura? Perché investire risorse economiche in azioni e politiche per impedirlo?

Secondo Bjørn Lomborg, «una forte azione globale per il clima» causerebbe addirittura «molta più fame e insicurezza alimentare rispetto al cambiamento climatico stesso» e «il riscaldamento globale salva più persone di quante ne uccida». Lomborg, un autore attivo da un paio di decenni nella discussione sul clima e l'ambiente, è un perfetto esempio di "lukewarmer". Nel gergo del dibattito sul clima, un lukewarmer è una persona che non nega che esista il cambiamento climatico o che sia colpa delle attività umane, ma sostiene che sia un problema meno grave di come viene dipinto. Le cose starebbero andando molto meglio di quanto pensiamo. Per sostenere questa tesi, i lukewarmer non scrivono sulle riviste scientifiche, ma cercano di tirare dalla loro parte i dati e gli studi pubblicati da altri. Le affermazioni, citate prima, sono conclusioni scorrette e arbitrarie che Lomborg trae da due ricerche apparse su Nature Climate Change e su The Lancet. Commentando l'ultimo libro di Lomborg, intitolato False Alarm, Joseph Stiglitz nota: «scritto con l’obiettivo di convertire chiunque si preoccupi dei pericoli del cambiamento climatico, il lavoro di Lomborg sarebbe assolutamente pericoloso se riuscisse a persuadere chiunque che c'è del valore nelle sue argomentazioni».

L'azione di questi commentatori è particolarmente insidiosa. L'abilità nel mescolare informazioni veritiere con interpretazioni scorrette, argomenti ingannevoli e manipolazioni, li fa sembrare credibili e ragionevoli. Queste tattiche argomentative si ritrovano negli interventi di un altro autore, Michael Shellenberger, che in un articolo pubblicato nel 2020 sulla rivista Forbes ha scritto, tra le altre cose, che «il cambiamento climatico non sta peggiorando i disastri naturali». Un'affermazione che è in aperto contrasto con le evidenze e la posizione della comunità scientifica. In Apocalypse Never (libro tradotto e pubblicato anche in Italia), Shellenberger alterna descrizioni scorrette o inaccurate della scienza del cambiamento climatico ad argomenti fallaci, attacchi rivolti a scienziati, giornalisti, attivisti e polemiche contro «l'esagerazione, l'allarmismo, l'estremismo». Non è un caso che i suoi interventi siano rilanciati da media che hanno posizioni negazioniste sul cambiamento climatico.

Con questa mescolanza di vero e di falso, di dati e di argomenti fallaci e ideologici, difficile da districare per i non addetti ai lavori, questi autori riescono a proporre una narrazione "ottimista e razionale" del cambiamento climatico, alternativa a quella del cupo catastrofismo. Quella che offrono è una visione del futuro cornucopiana, in cui per risolvere problemi come il cambiamento climatico bastano la crescita economica e qualche innovazione tecnologica (in questi scenari, in genere, l'unica valida soluzione energetica è il nucleare, ma non le rinnovabili).

In queste posizioni non c'è spazio per una corretta rappresentazione dei costi della crisi climatica. Tantomeno, di quelli economici.

Il World Economic Forum riporta che nel decennio 2010-2020 le perdite economiche causate da eventi meteo-climatici estremi, come precipitazioni intense, siccità, ondate di calore, sono aumentate rispetto al decennio precedente. La comunità scientifica, a dispetto di quanto affermano i lukewarmer, ritiene che questi eventi estremi stiano diventando più frequenti o intensi a causa del riscaldamento globale. Oggi è possibile individuare la traccia del riscaldamento globale in questi fenomeni, come le intense piogge, seguite da inondazioni, che la scorsa estate hanno colpito la Germania e il Belgio e l’ondata di calore, con temperature massime che hanno superato i 49°, che si è verificata nell’ovest degli Stati Uniti e del Canada («virtualmente impossibile senza il cambiamento climatico causato dall’uomo», scrive un gruppo di esperti).

Di recente, anche la Banca Centrale Europea si è occupata del problema. La BCE ha effettuato degli stress test, da cui è emerso che i cambiamenti climatici, nello scenario peggiore, potrebbero determinare un crollo del 10% del PIL dell’Unione Europea e un aumento del 37.5% della probabilità di default per le imprese esposte ai maggiori rischi da eventi come alluvioni e incendi. Nonostante la transizione richieda elevati costi a breve termine questi «impallidiscono in confronto ai costi di un cambiamento climatico non frenato nel medio e lungo periodo», scrive la BCE.

I costi delle politiche per la transizione dovrebbero perciò essere messi a confronto con quelli che stiamo già pagando e che pagheremo in futuro a causa del riscaldamento globale. In un recente sondaggio, svolto dall’agenzia di stampa Reuters, un gruppo di economisti ha espresso un forte consenso di opinione sui benefici di un'azione tempestiva contro il cambiamento climatico. Charles Kolstad, professore di economia alla Stanford University ha dichiarato che «se rimandiamo l’azione sul cambiamento climatico, sarà più elevato il costo per raggiungere l’obiettivo di zero emissioni entro il 2050».

Secondo questi economisti, gli investimenti per la transizione, necessari per raggiungere l’obiettivo di Parigi, richiederebbero risorse pari al 2 o 3% del PIL mondiale, ogni anno fino a al 2050. Il Fondo Monetario Internazionale, ricorda Reuters, ha invece calcolato che sono necessari investimenti pari allo 0.6-1% del PIL per le prossime due decadi. Secondo gli economisti  Nello studio G20 Climate Risks Atlas, il Centro Euro-Mediterraneo sui Cambiamenti Climatici ha calcolato che nei paesi del G20 - che comprende l’Italia -  nello scenario peggiore di riscaldamento globale, le perdite economiche potrebbero ammontare al 4% del PIL annuale entro il 2050 e all’8% entro il 2100  (il doppio di quelle causate dalla pandemia nei paesi del G20). Come nota il Centro, «in Europa, in uno scenario ad alte emissioni, i decessi legati ad eventi di calore estremo potrebbero aumentare da 2700 all’anno fino a 90.000 all’anno entro il 2100».

Gli impatti del riscaldamento globale vengono oggi considerati un rischio anche dagli operatori finanziari. Un rapporto dello Swiss Re Institute - istituto dell’omonima compagnia assicurativa - afferma che, rispetto a quanto accadrebbe su un pianeta senza l’attuale riscaldamento globale, un aumento della temperatura fino a 2° determinerebbe una riduzione del PIL globale dell’11% e del 18% se l'aumento della temperatura arrivase a 3.2°. «Il cambiamento climatico è un rischio sistemico», avverte l’istituto. Se non verranno centrati gli obiettivi dell’Accordo di Parigi gli impatti avranno dei costi significativamente più elevati.

Sebbene questo rischio sia oggi sempre più evidente, i costi potrebbero essere anche maggiori di quanto pensiamo. La loro valutazione, infatti, potrebbe essere ancora viziata da una sottovalutazione degli impatti della crisi climatica. Esperti dell'Earth Institute della Columbia University, della London School of Economics e del Potsdam Institute for Climate Impact Research scrivevano, nel 2019, che «le valutazioni economiche dei potenziali rischi futuri del cambiamento climatico hanno omesso o sottovalutato grossolanamente molte delle conseguenze più gravi».

Il riscaldamento globale sta generando numerosi impatti, che hanno conseguenze su molte attività umane. Se non si interviene oggi, le conseguenze future saranno molto peggiori. Il dilemma perciò è questo: quanto siamo disposti a spendere oggi per evitare costi che si manifesteranno in un futuro che percepiamo come lontano? La risposta a questa domanda è oggetto di discussioni tra gli economisti. Le risposte possono essere molto diverse a seconda degli approcci e delle assunzioni di partenza. Ma sottostimare gli impatti del cambiamento climatico - come molto probabilmente abbiamo fatto finora  e continuiamo a fare - ha rilevanti conseguenze sulle politiche sul clima. Come dichiara all'agenzia Reuters Eric Neumayer, docente alla London School of Economics, «il cambiamento climatico è qualcosa che rompe la cassetta degli attrezzi degli economisti». «Come economisti - aggiunge - dovremmo ascoltare gli scienziati quando ci parlano dell’impatto devastante del cambiamento climatico».

Nonostante questi limiti oggi c’è un ampio consenso tra gli esperti: i benefici della transizione saranno molto maggiori dei costi necessari per portarla a termine e la crisi climatica comporta un prezzo da pagare molto più elevato delle azioni necessarie per fermarla. I costi di cui abbiamo parlato finora sono peraltro solo di natura economica. La crisi climatica è oggi anche un serio problema di salute pubblica e una minaccia per l’esistenza stessa di interi ecosistemi.

Perciò, parlare solo dei costi della transizione, senza ricordare (o minimizzandoli) quelli del riscaldamento globale, ha il solo effetto di insinuare il dubbio sulla necessità delle azioni per il clima.

 

"I combustibili fossili portano ricchezza e benessere"

Quando è stato pubblicato l’ultimo rapporto dell’IPCC ad agosto 2021, la macchina del negazionismo climatico ha tentato di ridimensionarne l’urgenza e la gravità promuovendo la narrazione dei combustibili fossili come “salvatori”, una dinamica detta “fossil fuel saviour narrative”. In altre parole, il petrolio ha fornito ricchezza e una più alta qualità della vita, e vietare i combustibili fossili mette in pericolo la popolazione e “riporta l’umanità al medioevo”. Per chi sostiene questa argomentazione, allontanarsi dai combustibili fossili sarà costoso ed equivale a dire che le politiche sul cambiamento climatico ci danneggeranno tutti, in alcuni casi porteranno persino la povertà. Questa strategia ha l’obiettivo di minimizzare la realtà e la gravità del cambiamento climatico e di radicare il sistema basato sui fossili. In particolare, fa leva sul fatto che i fossili sono fornitori “passivi” e che non fanno altro che rispondere alla domanda di energia da parte dei consumatori.

Sono stati gli storici della scienza Naomi Oreskes e Geoffrey Supran a coniare l’espressione “fossil fuel saviour narrative”. In uno studio hanno analizzato le comunicazioni pubbliche della ExxonMobil sul riscaldamento globale durante la metà degli anni 2000. Hanno scoperto che la compagnia è passata dal negare completamente il fenomeno in un quadro di presunta “incertezza scientifica”, al riconoscere implicitamente l’esistenza del cambiamento climatico attraverso due strategie: far passare l’azione per il clima come una minaccia socio-economica e far passare i combustibili fossili come “salvatori”. Vent’anni dopo, la strategia di ExxonMobil non si discosta molto da quella dei primi anni 2000. Il 28 ottobre 2021 durante l’udienza di Big Oil all’Oversight Committee del Congresso americano, che ha aperto un’indagine sul ruolo del settore fossile nella disinformazione sul clima, la linea di difesa di Darren Woods, CEO di Exxon è allineata con la “fossil fuel saviour narrative”. Questa strategia, inoltre, non è utilizzata solo da Exxon ma anche da altre aziende fossili e, più generalmente, da gruppi, individui e lobby che si impegnano per ostacolare la transizione energetica ed evitare o ritardare il più possibile la decarbonizzazione.

 

"Le politiche climatiche sono una strategia governativa per limitare la nostra libertà"

L’appello alla libertà personale ed economica è un argomento caratteristico di un copione negazionista che si è ripetuto anche su altri temi, come i danni del fumo, i vaccini e la stessa pandemia. La discussione pubblica sul cambiamento climatico non ha mai riguardato soltanto la scienza e i fatti, ma anche le loro implicazioni ideologiche e pratiche. Se la scienza dimostra che il riscaldamento globale esiste, è di origine umana ed è un problema grave, le politiche necessarie per fermarlo possono mettere in crisi alcune ideologie, oltre che interessi economici. La negazione delle evidenze è perciò una reazione a suo modo razionale, motivata dalla necessità di difendere interessi o posizioni ideologiche che si ritiene siano minacciate.

La presidenza di Donald Trump (che in passato era arrivato a definire il riscaldamento globale una “bufala”), con la decisione di ritirare gli Stati Uniti dall'Accordo sul clima di Parigi e la cancellazione di un centinaio di leggi sulla protezione dell’ambiente, è stata l’applicazione sul campo di un’ideologia conservatrice che negli ultimi decenni ha avuto una grande influenza nella politica americana, anche sulle decisioni in campo ambientale ed energetico. Il negazionismo climatico ha infatti trovato terreno fertile e supporto nell'area conservatrice e di destra libertarian (una versione, più radicale, del liberalismo classico), che in nome di una visione fondamentalista del libero mercato, di una concezione dello Stato “minimo” e del rifiuto di politiche considerate “socialiste”, si è opposta ai trattati internazionali e alle regolamentazioni in campo ambientale. Comprese quelle necessarie per ridurre le emissioni di gas serra.

Eppure, già alla fine degli ‘80, la leader conservatrice britannica Margaret Thatcher mise in guardia dal pericolo del riscaldamento globale, affermando che era un pericolo reale e che era necessario affrontarlo. La sua era una posizione pragmatica e fondata sulle migliori evidenze scientifiche allora disponibili.

Tuttavia, negli anni ‘90, soprattutto negli Stati Uniti dove l’azione del negazionismo organizzato è stato più pervasiva, il dibattito pubblico sul cambiamento climatico ha subito una forte polarizzazione. Le posizioni più apertamente negazioniste e antiscientifiche sul clima sono state propagandate dai think tanks e dai media del mondo conservatore e libertarian.

L’ambientalismo è stato attaccato come una minaccia per le libertà economiche e personali e per il “nostro stile di vita” e come una pericolosa utopia. Secondo uno dei fondatori dell’Istituto Bruno Leoni - think tank italiano di orientamento liberale, che per diverso tempo ha abbracciato tesi negazioniste sul cambiamento climatico - «ammettere» l’origine antropica del cambiamento climatico significherebbe correre il rischio che si attivino «meccanismi di controllo che intervengono in maniera dettagliata sulla vita della gente». Uno scenario distopico, che sarebbe il frutto di una deriva, nello stesso tempo, scientista e ambientalista.

Oggi i sondaggi mostrano che negli Stati Uniti il sostegno alle politiche per il clima è cresciuto anche nell’elettorato repubblicano. Ciononostante, il partito repubblicano (insieme ai più moderati tra i democratici) continua a mettersi di traverso alle politiche energetiche a favore della transizione. E non solo. La strategia negazionista sulle limitazioni della libertà individuale fa leva sulla paura del controllo da parte del governo sulla popolazione. In particolare, sfrutta la polarizzazione politica e sociale su temi legati al clima, come il consumo della carne. Secondo questa narrazione chi si batte per le politiche climatiche è oppressivo e ha l’obiettivo di controllare ogni aspetto della vita dei cittadini, incluso ciò che possono o non possono mangiare. Per questo, quando nell’ultimo anno si è parlato di politiche climatiche durante l’amministrazione Biden i negazionisti hanno fatto circolare il falso mito che i democratici avevano interesse a vietare gli hamburger.

Anche in Europa, nonostante i sondaggi evidenzino una diffusa preoccupazione per la crisi climatica nell’opinione pubblica, si riscontra ancora una correlazione tra atteggiamenti negazionisti e ostili alle politiche per il clima e orientamenti politici di destra. I partiti di destra (insieme al centro-destra rappresentato dal Partito popolare europeo) si sono opposti alla decisione di innalzare l'obiettivo di riduzione delle emissioni dell'Unione Europea al 60% entro il 2030. Secondo un’analisi del centro studi Adelphi, sul cambiamento climatico la maggior parte dei partiti della destra populista europea esprime posizioni negazioniste e scettiche o caute e poco interessate.

In Italia il negazionismo climatico si ritrova in un'area politica sovranista, che si estende oltre i confini degli attuali partiti di destra. Le opinioni non di rado assumono tinte complottiste (le domande su “chi manovra” Greta Thunberg” si sprecano). Secondo alcuni commentatori, all'orizzonte si starebbe perfino materializzando la minaccia di un “lockdown climatico”, dopo quello pandemico. La stessa crisi climatica sarebbe una scusa che le “élites globaliste” sfruttano per imporre costrizioni agli individui e agli stati e distruggere le loro economie. Per quanto stravaganti, si tratta di opinioni che si sono rafforzate durante la pandemia e che oggi circolano negli stessi ambienti che si sono opposti alle misure di contenimento o che - come aveva fatto lo stesso Trump - hanno negato o minimizzato la gravità della diffusione del coronavirus.

 

Appello alla responsabilità individuale

Secondo il mito della responsabilità individuale, l’individuo viene identificato come responsabile del problema della crisi climatica, dell’inquinamento, e del riscaldamento globale e, di conseguenza, è responsabile anche della soluzione a questi problemi. Oggi, l’appello alla responsabilità individuale è estremamente diffuso ma, in realtà, nasce da una vecchia strategia comunicativa.

“L’Indiano che piange”, il Crying Indian Ad, è uno spot pubblicitario degli anni ’70 il cui slogan recitava “Le persone inquinano, le persone possono fermare l’inquinamento.” Lo spot era parte di una campagna pubblicitaria messa su da Keep America Beautiful (KAB), un’organizzazione fondata da aziende leader nel settore di bevande e packaging che aveva l’obiettivo di prevenire i divieti statali sugli imballaggi monouso. Fu questa campagna pubblicitaria a introdurre l’idea della responsabilità individuale. L’obiettivo principale era distogliere l’attenzione dall’attività delle industrie e dalla produzione, in modo tale che potessero continuare ad agire indisturbate. Il messaggio all’opinione pubblica americana, e poi mondiale, era che la soluzione dell’inquinamento dipende dagli individui e non dal sistema.

Aveva funzionato così bene che, inizialmente, lo spot televisivo era sostenuto anche dai principali gruppi ambientalisti tra cui la National Audubon Society e il Sierra Club. La risposta all’inquinamento, come intendeva KAB, non aveva nulla a che fare con la politica o la produzione, era invece una questione di azione individuale. Questa narrazione è fondamentale per capire come il negazionismo climatico si è insinuato in maniera quasi del tutto invisibile, trasformando le dinamiche comunicative a vantaggio delle lobby negazioniste, per cui grandi problemi sistemici sono diventati esclusivamente questioni di responsabilità individuale.

Questa narrazione è stata talmente efficace che gli effetti della campagna sono, ancora oggi, ben radicati nel pensiero collettivo. Nemmeno le aziende fossili evitano più di parlare di ambiente, perché sanno che risulterebbe in un effetto boomerang. Invece, tentano di mantenere il discorso sulla responsabilità individuale: “cosa puoi fare tu per salvare il pianeta”. E di sfuggire, a tutti i costi, alla responsabilità, distraendo dalla necessità impellente di un cambiamento sistemico.

L’impronta di carbonio individuale, un parametro utilizzato per stimare la quantità di emissioni prodotte da un individuo, è un esempio tangibile di questa evoluzione strategica. Nel 2004, la BP, azienda di gas e petrolio, ha presentato un calcolatore per misurare la propria impronta di carbonio individuale. È stata un’idea vincente soprattutto perché, nel giro di pochi anni, le piattaforme mediatiche hanno fatto propria l’espressione e la responsabilità individuale è diventata un tormentone. Nel frattempo, le aziende di combustibili fossili e la macchina negazionista hanno continuato ad evadere la responsabilità e a mantenere il loro business as usual. Il problema, infatti, è che non sono solo le aziende fossili a utilizzare questa strategia. La narrazione è stata interiorizzata a tal punto da non metterla più in discussione: viene reiterata e alimentata anche da piattaforme mediatiche e comunicatori “in buona fede”, che non agiscono necessariamente per interessi politici o economici.

Questo ha un risultato su tutti: confondere ancora di più il pubblico e radicare la narrazione all’interno di un bacino di possibili soluzioni possibili per attenuare la crisi climatica. Di questa dimensione fanno parte, per esempio, alcuni annunci pubblicitari o articoli di giornale che reindirizzano il lettore o consumatore verso comportamenti e azioni individuali per “salvare il pianeta”. Le azioni individuali sono necessarie e fondamentali, ma da sole non possono risolvere il problema delle emissioni e dell’aumento della temperatura.

 

Greenwashing

Il greenwashing è strettamente legato al concetto di impronta di carbonio individuale. Infatti, è la pratica fuorviante di promuovere un prodotto o un servizio come verde allo scopo di distogliere l’attenzione dalle proprie responsabilità nelle emissioni di gas serra o nell'inquinamento. È problematica perché può far sembrare un’azienda impegnata, più di quanto non lo sia realmente, nella protezione ambientale. La parola greenwashing è il risultato della combinazione di due parole: green, verde, e whitewashing, la pratica di nascondere fatti spiacevoli. L’espressione rappresenta la tendenza di molte aziende di pubblicizzarsi con presunti atteggiamenti ecosostenibili al fine di ingannare il consumatore e mantenere un profitto.

L’uomo che inventò il greenwashing si chiama Bruce Harrison e la società da lui fondata nel 1973, la E Bruce Harrison Company, guidò la prima lotta contro l’attivismo ambientale per conto dell’industria chimica. Alla fine degli anni Settanta, Harrison si rese conto che attaccare gli ambientalisti aveva troppi svantaggi, e cambiò strategia. Insegnò ai suoi clienti l’arte del “mimetismo aziendale”, strategia che i gruppi ambientalisti hanno poi etichettato come greenwashing. La campagna di influenza sociale messa in moto da Harrison funzionò così bene che il greenwashing oggi è centrale per la comunicazione di molte aziende, incluse quelle italiane.

Nel 2020, l’Autorità garante della concorrenza e del mercato ha sanzionato l’ENI per 5 milioni di euro per la diffusione di messaggi pubblicitari ingannevoli. Nella campagna promozionale di ENI diesel+ venivano usate le espressioni come “green diesel”, “componente green” e “componente rinnovabile” e venivano fatti altri annunci di tutela dell’ambiente, come “aiuta a proteggere l’ambiente. E usandolo lo fai anche tu, grazie a una significativa riduzione delle emissioni”. Secondo l’Antitrust «il prodotto è un gasolio per autotrazione che per sua natura è altamente inquinante e non può essere considerato green».

Generalmente, il greenwashing è utilizzato dal settore fossile per ingannare il pubblico e nascondere le proprie responsabilità, ma quest’industria non è stata la prima a mettere in campo la strategia e non è l’unica. Il fossile ha seguito il manuale dell’industria del tabacco per mascherare i propri sforzi negazionisti e molte aziende oggi, tra cui anche alcune alimentari, cosmetiche e di moda, utilizzano pubblicità e promozioni per deviare l'attenzione dai loro modelli di business dannosi, ingannare il pubblico e, nei casi più estremi come il lobbying fossile, convincere i politici a promuovere false soluzioni.

Si discute molto, ad esempio, di tecnologie come la cattura e lo stoccaggio del carbonio e la cattura diretta del carbonio. Pur essendo ancora oggetto di discussioni, si prevede che potranno contribuire alla riduzione della concentrazione di CO2 nell’atmosfera, soprattutto in certi settori e quando saranno dispiegate su larga scala. Tuttavia, c’è chi le presenta come soluzioni quasi salvifiche. Il rischio è che queste tecnologie possano essere sfruttate, dalle stesse compagnie del settore petrolifero (che stanno investendo nella loro realizzazione), come una scusa per ritardare l’abbandono dei combustibili fossili, continuare a produrre emissioni e darsi nel frattempo un’immagine green e sostenibile.

Pur essendo una vecchia strategia, il greenwashing fa parte del nuovo negazionismo climatico perché, per le aziende, è semplice metterlo in campo online o sui social media e permette loro di continuare ad ingannare il pubblico e evadere la propria responsabilità. Secondo un nuovo studio 25.147 annunci di sole 25 organizzazioni del settore del petrolio e del gas sulle piattaforme statunitensi di Facebook nel 2020 sono stati visualizzati oltre 431 milioni di volte. Complessivamente, questi annunci sono costati alle aziende 9.597.376 dollari.

Secondo lo studio, gli annunci promuovevano sia la “compatibilità” dell’industria con il clima ed evidenziavano gli investimenti nelle energie rinnovabili e la promozione del gas fossile come verde. In particolare, molti di questi annunci contenevano contenuti fuorvianti o presentavano informazioni che non sono allineata con la scienza del clima secondo i rapporti dell’IPCC e della International Energy Agency (IEA) sul raggiungimento dello zero netto entro il 2050. Questa strategia indica chiaramente che l’industria utilizza il greenwashing sui social media per influenzare il pubblico e si allinea con lo schema iniziale: le aziende distribuiscono gli annunci in base a eventi e momenti politici chiave come, per esempio, l’annuncio del piano climatico da parte di Biden per 2000 miliardi di dollari.

Un’altra analisi ha rivelato che due terzi dei post sui social network pubblicati dalla fine del 2019 da sei delle più grandi aziende europee di combustibili fossili presentano un’immagine “verde” anche se l’attività delle aziende resta, per la maggior parte, radicata nei fossili. L’analisi prende in esame 3.034 annunci pubblicati su Twitter, Facebook, Instagram e Youtube da parte di sei aziende fossili: il colosso olandese Royal Dutch Shell, la francese Total Energies, l’italiana Eni, la svedese Preem, la spagnola Repsol e la finlandese Fortum. In media, secondo l’analisi, il 63 per cento degli annunci pubblicitari analizzati rientra nella definizione di greenwashing.

 

"Il gas naturale è un carburante ponte"

In molti discorsi sulla transizione energetica il gas naturale recita il ruolo di combustibile fossile “pulito”. «Il futuro sarà pulito e a tutto gas», afferma il titolo di un post sul sito dell’ENI. Il metano, che è il principale componente del gas naturale, produce in effetti circa il 50% in meno di CO2 rispetto al carbone, quando viene usato come combustibile, e rimane in atmosfera per molto meno tempo (poco più di una decina d'anni). La sostituzione del carbone con il gas naturale contribuisce perciò alla riduzione delle emissioni.

L’uso del metano comporta però almeno due problemi. Questo gas ha un potenziale di riscaldamento globale 28 volte più grande della CO2 in un intervallo di tempo di 100 anni e di 84 volte in 20 anni. Questo significa che il metano è un gas serra molto potente soprattutto a breve termine, una volta che finisce nell’atmosfera. Il secondo problema è rappresentato dalle perdite di gas che si verificano lungo la filiera di estrazione, stoccaggio, trasporto e utilizzo, che sono peraltro spesso sottostimate.

Proprio perché il metano è un potente gas serra e rimane nell’atmosfera per un breve periodo, la riduzione delle sue emissioni è considerata un’azione critica, da realizzare immediatamente nei prossimi anni, per contenere l’aumento della temperatura globale entro 1.5°. Secondo il Global Methane Assessment, «la concentrazione atmosferica di metano sta aumentando più velocemente che in qualsiasi altro momento dagli anni '80». L’aumento è dovuto alle emissioni rilasciate dal settore dei combustibili fossili, ma anche da quello agricolo agricolo-zootecnico e dai rifiuti (le due altre sorgenti di metano originato da attività umane).

Gli autori di uno studio pubblicato su Nature hanno calcolato che per avere una probabilità del 50% di non superare 1,5° di aumento della temperatura bisogna evitare di estrarre, da oggi al 2050, circa il 60% delle riserve di petrolio e gas naturale (58 e 59% rispettivamente) e l'89% di quelle di carbone. Se la maggior parte delle riserve di gas dovranno rimanere nel sottosuolo, ciò comporta che anche la sua domanda dovrà presto ridursi. Secondo il World Energy Outlook 2021, pubblicato dalla IEA, in uno scenario compatibile con le emissioni nette zero al 2050, la domanda nelle economie avanzate dovrebbe subire una contrazione già dopo il 2025, mentre dovrebbe aumentare nei paesi emergenti dove il gas può sostituire il carbone. Negli anni ‘30 l'uso del gas per la produzione di energia elettrica dovrebbe diminuire dell’80% a livello globale.

Il gas naturale è un’alternativa migliore del carbone ma, come le altre fonti fossili, non può essere considerato una soluzione per la transizione energetica.

 

"Prima agisci tu, poi io"

Un altro argomento ampiamente diffuso sostiene che altri stati producono più emissioni di gas serra e quindi hanno maggiore responsabilità nell’azione per il clima. Chi sostiene queste argomentazioni spesso decontestualizza statistiche o dati per “paragonarsi” ad altri che emettono di più. È una strategia del partito Repubblicano negli Stati Uniti, per esempio, che spesso evidenzia quanto la Cina inquini di più o non stia agendo come dovrebbe.

Come sostiene lo studio “Discourses of climate delay”, un problema di fondo in questa narrazione è la dinamica del “free rider”: a meno che tutti gli individui, le industrie o i paesi si impegnano a ridurre le emissioni, alcuni beneficeranno delle azioni di altri. In sostanza, altri trarranno beneficio da coloro che guidano la mitigazione del cambiamento climatico. Secondo il professore di Studi ambientali della New York University Dale Jamieson, questa dinamica di atteggiamento del “prima tu, poi io” è molto comune, soprattutto tra Stati. E viene utilizzata come strategia per procrastinare e ritardare l’azione il più possibile: nessuno vuole agire se non lo fanno tutti.

 

Riferimenti alla sfera religiosa o all’estremismo

Questa tattica negazionista ha a che fare con il linguaggio. I riferimenti alla sfera pseudoreligiosa, infatti, vengono utilizzati in Italia per influenzare il pubblico sulla crisi climatica al fine di relegare le posizioni in supporto della scienza del clima ad un estremo dello spettro, e per sminuire il consenso mondiale sulla scienza del clima. Nelle ultime settimane, e con il clima al centro dello scenario mediatico e politico in occasione della Cop26, questa strategia è tornata prevalente su alcune piattaforme mediatiche. In un recente articolo su Il Foglio l’ecologia diventa «religione per sostituire il cristianesimo concettuale» per cui «si baciano alberi e si adorano balene». Anche espressioni come “fanatismo ambientale” o termini come “integralista” o “fondamentalista”, carichi oggi di una connotazione negativa nella percezione sociale, sono associati a parole come “ecologia” nel tentativo di dare l’impressione che si parli di qualcuno dalla posizione estrema e che quindi perde di credibilità nel contesto di una tematica di portata pubblica. Vengono utilizzati su Il Foglio epiteti come “profeti del klima”  e “le teorie” sul cambiamento climatico diventano “dogmi” su cui “non è ammesso il dissenso”. L’attivismo climatico dei giovani diventa, poi, la “crociata dei bambini di Greta”.

Associare il cambiamento climatico alla religione, inoltre, rafforza il messaggio che sia una questione di fede e che non abbia a che fare con una realtà fattuale e fisica. In altre parole, neutralizza il consenso della scienza del clima. In un altro recente articolo gli ambientalisti sono “dogmatici” e, per questo, occorre combattere anche contro chi «ha trasformato in un culto la difesa dell’ambiente». Utilizzare termini come “dogma” e “culto” è una scelta che sfrutta la forte connotazione delle parole per far passare il messaggio che chi lotta per il clima è irragionevole, sganciato dalla realtà e incapace di vedere le cose lucidamente. Questo capovolgimento ha l’obiettivo di allontanare il più possibile il clima dalla dimensione fisica e scientifica e di confinare il tema ad una questione di bigotteria e puritanesimo.

In molti casi, il riferimento è diretto e si parla di “religione del riscaldamento globale”. L’Istituto Bruno Leoni, per esempio, riporta sul suo sito un commento, del 2007, intitolato “Il riscaldamento globale è la religione dei nostri tempi” dove nell’occhiello si legge che «la scienza del clima non è ancora in grado di spiegare compiutamente il fenomeno del riscaldamento globale e ogni allarmismo riflette non certezze scientifiche ma un’agenda politica o ideologica». L’Istituto Bruno Leoni è membro della Cooler Heads Coalition il cui sito è pagato e gestito dal Competitive Enterprise Institute (CEI), un think tank dal ruolo chiave nel ritiro degli USA dall’Accordo di Parigi. Altri membri della Cooler Heads Coalition includono il Marshall Institute, il Heartland Institute e il canadese Fraser Institute, tutti think tank centrali per il loro ruolo nella rete negazionista.

 

Disfattismo e narrazione apocalittica

Il disfattismo è considerato tra i discorsi di procrastinazione nell’azione per il clima poiché è controproducente e dà al pubblico la falsa percezione che “non c’è più nulla da fare” o “il mondo sta finendo”. Le dichiarazioni politiche possono rientrare tra questo genere di discorsi se sollevano il dubbio che la mitigazione non sia possibile, indicando sfide politiche, sociali o tecnologiche apparentemente insormontabili. Il disfattismo sostiene inoltre che qualsiasi azione che intraprendiamo non basterà e che, comunque, è troppo tardi.

Dichiarazioni di questo genere evocano paura e possono portare a uno stato paralizzante di rassegnazione, e come sostiene il climatologo Michael E. Mann, «individui che altrimenti sarebbero in prima linea, persone che si preoccupano profondamente del problema vengono convinte del fatto che è troppo tardi e si disimpegnano e questa è una grande vittoria per i negazionisti». Come molti altri discorsi di procrastinazione, questa strategia non favorisce l’azione per il clima e l’impegno a sviluppare soluzioni efficaci.

Il disfattismo non è da confondere con il catastrofismo o l'allarmismo di cui parlano i negazionisti. Infatti, sfruttando la connotazione negativa del termine “catastrofista” o “allarmista”, i negazionisti del cambiamento climatico screditano un legittimo avvertimento scientifico, e associandosi, invece, al termine “realista”, ribadiscono un elemento fondante del negazionismo climatico. Per esempio, l’Heartland Institute, un'organizazzione particolarmente attiva, indice ancora un congresso annuale dove sostiene che la crisi climatica non è davvero una crisi e dove il “realismo climatico” si contrappone al “socialismo climatico” degli “allarmisti”. Questi, secondo l'Heartland Institute, presenterebbero «una raffica quotidiana di informazioni false, fuorvianti e unilaterali, progettate per convincere la gente che una crisi climatica è alle porte». Questo tipo di comunicazione, infatti, fa leva sul ribaltamento della realtà e sulla creazione di una realtà alternativa: i fatti vengono rimossi e resi irrilevanti a favore di tesi cospirazioniste che spesso accusano gli scienziati del clima, gli ambientalisti o le piattaforme d’informazione di mentire e ingannare il pubblico.

In questo senso è importante fare una distinzione poiché la contrapposizione "realista vs. allarmista" è una strategia comunicativa intenzionale mossa da interessi economici, politici e ideologici, mentre il disfattismo può essere intenzionale ma, nella maggior parte dei casi, è una reazione emotiva che, seppur non particolarmente costruttiva, non è necessariamente in malafede.

 

Creare confusione

Come mostrato in precedenza, l’Italia è uno dei pochi paesi dove alcune piattaforme mediatiche anche mainstream continuano a dare spazio a posizioni negazioniste sul clima, come se il dibattito scientifico sull’esistenza del cambiamento climatico o sulla responsabilità antropica nella crisi climatica fosse ancora in corso. Sappiamo che non lo è, infatti dare la parvenza che il cambiamento climatico sia solo “una teoria”, “un’opinione” e non una realtà scientificamente fondata è una delle prime strategie della macchina negazioniste e risale a decenni fa. Oggi viene reiterata dai negazionisti o da chi si impegna per confondere le acque e seminare dubbio sulla scienza del clima, allo scopo di evitare un’azione politica sul tema. All’interno di questa categoria ci sono anche argomentazioni come “il clima è sempre cambiato naturalmente” oppure “l’aumento della temperatura è colpa del sole” o ancora “fa freddo, quindi il cambiamento climatico non esiste”. I gruppi coinvolti nel negazionismo del clima hanno fatto molta attenzione a portare avanti dei messaggi che contenessero poche cose vere e tante falsità, quel che basta a far sembrare che il tutto, nel complesso, sia “abbastanza ragionevole”.

Oreskes la definisce la “strategia della confusione”. Uno dei motivi per cui finora è stato così facile seminare dubbi sul cambiamento climatico è che quando l’obiettivo è la confusione, i messaggi ambigui e contraddittori sono una strategia molto efficace. Per i negazionisti l’ambiguità è una scappatoia facile e mira quasi sempre a produrre l’equivoco. Spesso, per esempio, negli argomenti dei negazionisti, soprattutto in lingua inglese, vengono utilizzate parole che hanno un doppio significato per guidare il pubblico verso una conclusione fuorviante. Molti dei contenuti che vengono ora diffusi, infatti, non sono falsi, ma fuorvianti. Invece di dati inventati e storie false, i negazionisti rielaborano contenuti genuini. Il risultato è quello che viene chiamato “caos intenzionale”. I negazionisti hanno una lunga storia di confusione intenzionale per ritardare l’azione sul clima. Meno il pubblico comprende la scienza del clima, meno probabilità ha di sostenere politiche climatiche a livello politico.

Per alimentare questa confusione non è più necessario negare la crisi climatica. È sufficiente  enfatizzare alcuni aspetti della questione, ignorando il resto del quadro. C’è chi, ad esempio, mette in contrapposizione l’adattamento e la mitigazione (cioè il taglio delle emissioni climalteranti), suggerendo che il primo sia un’alternativa più realistica della seconda. «Il climate change non ha bisogno di panico ma di adattamento», recita il titolo di un intervento su Il Foglio. Descrivere l’adattamento come una sorta di alternativa all’obiettivo di emissioni zero è strumentale e scorretto. I due obiettivi vanno di pari passo e la prima necessaria, urgente, azione è fermare le emissioni di gas serra. Inoltre, adattarsi a 1.5°, 2° o 3° non è affatto la stessa cosa. Sono argomenti strumentali, che possono veicolare idee sbagliate e pericolose.

Uno degli aspetti più insidiosi delle nuove strategie negazioniste è che spesso non appaiono come distinte e nettamente separate tra loro, quindi è più complesso riconoscerle. Anzi, per la maggior parte, le tattiche e strategie di disinformazione sul clima si sovrappongono tra loro, intrecciandosi. In alcuni casi, come menzionato in precedenza, sono riproposizioni di vecchie strategie riadattate e plasmate per continuare ad essere efficaci in contesti sociopolitici diversi. Qualunque forma o nome prenda, il negazionismo climatico ha un obiettivo principale: ritardare e ostacolare il più possibile le politiche climatiche.

Nella realtà alternativa proposta dai negazionisti i fatti non contano e, anche se fondamentali, non bastano più. Un fenomeno scientifico come il cambiamento climatico diventa un tema di propaganda politica, una questione ideologica, una dimensione incerta e ambigua, dove fatti e scienza non solo sono messi in discussione ma resi dubitabili. Per questo, oltre a conoscere i fatti è cruciale imparare a riconoscere quali sono le loro tattiche.

 

https://www.valigiablu.it/crisi-clima-negazionisti/

Nawal El Saadawi. Scrittrice, femminista, dissidente egiziana. Lascia un’eredità infinita - Eliana Riva


La prima lettera Nawal la scrisse bambina e la indirizzò a Dio. Gli chiedeva conto dei torti compiuti in nome suo e lo minacciava: se continuerai ad essere ingiusto, non potrò credere in te.

La ribellione ce l’aveva nel sangue. Sua nonna era una rivoluzionaria, illetterata, analfabeta ma dissidente. E anche lei è diventata una dissidente. Quando andava a scuola percorreva tutta la strada correndo per sfuggire agli sguardi degli uomini e alle pietre dei bambini. Gliele lanciavano semplicemente perché era una femmina e si trovava per strada invece che a casa. Ma lei un giorno raccolse quelle pietre e gliele scagliò contro con la stessa rabbia, la stessa violenza. Quando i ragazzini videro che sapeva essere violenta proprio come loro, si spaventarono. Da quel giorno non le tirarono più pietre. Capì che essere una dissidente, utilizzare l’aggressività e attaccare le persone dalle quali si era attaccati, era l’unico modo per impedire di essere sottomessa.

 

La mia memoria resta una pagina vuota

Sin dall’infanzia

Una montagna nascosta sott’acqua

Con un solo occhio che mi fissa

L’occhio di Dio o Satana

Perché sono una cosa sola

E io li temo entrambi

La ribellione l’aveva nel sangue, Nawal, ma quella genetica, innata, non bastava: doveva sommarsi a quella acquisita con i libri, le letture, il pensiero. Da ragazzina cominciò a scrivere un diario segreto per cercare di tirar fuori la rabbia e la frustrazione che provava per ciò che ogni giorno viveva. Studiava tanto e a scuola era molto brava. Suo fratello più grande, al contrario, era pigro e svogliato. Eppure, aveva molti più doni e privilegi di lei e durante le feste riceveva, come gli altri fratellini, 2 monete, mentre a lei ne spettava solo una. Nawal si arrabbiava e chiedeva perché. Le veniva risposto che era stato dio a dirlo: una femmina vale la metà di un maschio.

Quando aveva 10 anni la sua famiglia decise che avrebbe dovuto sposarsi. Sua cugina, anche lei di 10 anni, si era sposata poco tempo prima. Nawal bambina la ricorda, vestita di bianco, piangere il giorno del suo matrimonio. Anche le altre donne piangevano e vedeva nei loro occhi la tristezza del ricordo della loro prima notte. Dio diceva che la moglie doveva assaggiare il bastone del marito già dal primo giorno. Nawal ricorda le urla della cuginetta, per il dolore del bastone e della deflorazione che il marito compì a mani nude, per dare prova alla comunità di aver sposato una bambina pura. Nawal utilizzò, per allontanare il suo promesso sposo, la stessa violenza che aveva utilizzato con i bambini sulla strada per la scuola. E poi studiava, continuava a studiare senza sosta. Sua madre volle continuare a garantirle un’istruzione anche quando i soldi in casa erano pochi e il padre era fiero di avere una figlia tanto diligente. Ma i pretendenti non apprezzavano una ragazzina che preferiva avere in mano una penna invece che un mestolo o un manico di scopa. “Fu il saper leggere e scrivere che mi salvò dai potenziali mariti”.

La mamma, per prima, le aveva insegnato l’alfabeto e poi a scrivere il suo nome. Ne andava molto fiera e le sembrò naturale, quando il primo anno la maestra le chiese di scrivere per esteso come si chiamava, mettere vicino a Nawal il nome di sua madre, Zaynab. Ma la maestra la sgridò, le disse di cancellarlo e sostituirlo con quello di suo padre e di suo nonno, El Saadawi. Non era solo il nome di sua madre a dover essere cancellato. Alle bambine veniva insegnato a vergognarsi del proprio corpo, della propria pelle, delle gambe, dei seni, del ciclo mestruale, del clitoride. All’età di 6-7 anni arrivò la daya e glielo tagliò via con una lametta. La madre non aiutò Nawal e anzi era tra le donne che la tenevano ferma, con le gambe e le braccia larghe, così come sua madre aveva fatto con lei molti anni prima. Nawal non dormì per molte notti, aspettandosi che la daya ritornasse per tagliarle via un altro pezzo del suo corpo, un altro pezzo che potesse essere vergognoso agli occhi di Dio.

Poi dimenticò quell’evento, lo rimosse, sepolto nella memoria per tanti anni. Un giorno, però, quando da studentessa di medicina prese a visitare le donne che erano state circoncise, cominciò a ricordare, l’inconscio sputò fuori quello che le pareva essere solo un incubo. Così iniziò a lottare contro quella terribile pratica di mutilazione. Allora tutti le si misero contro: il ministro della salute, i religiosi, anche i suoi colleghi medici. Cristiani, ebrei, musulmani l’accusavano di essere contro dio.

 “Nel corpo, da qualche parte appena sotto il cuore, nell’incavo profondo tra le costole, sentivo un’energia, una vitalità imprigionata. Di che cosa era fatta? Gioia, tristezza, collera, il sogno di essere libera, di librarmi oltre i muri della cucina, della nostra casa, della scuola. Ma per andare dove? […] La mattina, al momento del risveglio, guardavo mia sorella Leila o le altre negli occhi alla ricerca di quella cosa, del sogno che mi turbava la notte: ma i loro sguardi erano sempre limpidi e rilassati, senza tracce d’ansia, né di qualcosa che ne avesse potuto disturbare il sonno. Anche a scuola guardavo le compagne alla ricerca di uno solo di questi segni e anche dopo, all’Università, alla facoltà di medicina, facevo lo stesso con le ragazze, le mie colleghe o quelle che esercitavano la professione. Ovunque andassi, continuavo a cercare, a guardare gli occhi delle altre persone sperando di ritrovare quel sogno”.

Con la pubblicazione, nel 1971 del volume Donne e sesso, lo scontro con il potere e con il sistema che la circondava fu formalizzato: Nawal venne allontanata dal Ministero della Sanità e costretta a lasciare la rivista per cui scriveva e sulla quale aveva più volte denunciato la pratica della circoncisione genitale femminile. Anni dopo Nawal, quando ricorderà questo periodo, dirà che la scelta del governo egiziano fu per lei quasi una liberazione: le permise di fare quello che realmente voleva fare. E quello che Nawal voleva fare era scrivere, parlare, organizzarsi e manifestare per i diritti delle donne. Lavorò come consulente delle Nazioni Unite per il Programma per le Donne in Africa e Medio Oriente. Intanto, gli arresti dei contestatori e degli avversari politici del presidente egiziano Anwar al-Sadat si moltiplicavano e nel 1981 toccò anche a Nawal El Saadawi, fermata per crimini contro lo Stato. In prigione non le davano la carta igienica, preoccupati che potesse utilizzarla per scrivere. Ma lei trovò comunque il modo di farlo.

Si è ritrovata a combattere tutt’insieme l’ignoranza, il patriarcato, la religione e la crudeltà. Ha cominciato a farlo scrivendo e poi organizzandosi con le altre donne. Era certa che l’organizzazione fosse essenziale e così nel 1982 ha fondato l’Arab Women’s Solidarity Assocation, una associazione di donne che si definivano storichesocialiste e femministe. Grazie alla storia sapevano che l’oppressione delle donne esisteva in ogni epoca e in ogni luogo. Erano certe che il capitalismo e il patriarcato fossero strettamente connessi e si opponevano alla dominazione dell’uomo nella scienza, nella cultura, nell’economia, nella politica. Era un’associazione di donne ma formata per il 40% da uomini: anche loro si sentivano vittime della società patriarcale e volevano sovvertirla.

L’associazione venne dichiarata fuori legge 10 anni dopo, poco prima che Nawal al-Saadawi venisse prima di nuovo incarcerata e cominciasse poi il suo esilio negli Stati Uniti, quando fu emessa la sua condanna a morte da parte di un gruppo fondamentalista religioso. Anche da lì continuò a parlare dell’oppressione economica e militare dei popoli occidentali su quelli africani e orientali, oppressione che affonda le sue radici, da sempre, nelle ragioni di interesse economico, e che non ha quindi nulla a che fare con quello “scontro di civiltà” molte volte richiamato e utilizzato per giustificare sopraffazione e schiavitù. Nel 2002 tentarono di sottoporre Nawal e suo marito al divorzio coatto: la ferma opposizione del marito e la mobilitazione internazionale riuscirono ad impedirlo. Nel 2004 si candidò alle elezioni egiziane ma ritirò la partecipazione quando capì che non le sarebbe stato permesso di fare campagna elettorale né di vincere. È stata denunciata più volte per apostasia e per eresia, rispondendo alle accuse in tribunale, dove vinse le cause che la vedevano imputata.

Ha scritto molti libri e ricevuto altrettanti premi. Scrivere le veniva naturale “come parlare o respirare”, non poteva farne a meno. Ci ha lasciato, così, un patrimonio grande di civiltà, esperienza, impegno civile, ma soprattutto di immensa forza e umanità.

da qui

Manu Chao in concerto