Bosnia, dopo venticinque viaggi - Lorena Fornasir, Gian Andrea Franchi
Il report della missione che si è svolta
dall’8 al 13 ottobre 2021
Questa
volta, partiamo in sei con tre auto. Con noi, Sandra Rosatti e Gabriele Sala
dell’associazione Mamre di Borgo Manero, Biancaluna Bifulco e Antonio Nigro di
Salerno.
Cantone di Una Sana. Scene di diffusa sofferenza, di normale capillare
violenza fra edifici abbandonati dai tempi della guerra civile jugoslava,
villette leziose di bosniaci emigrati, case cadenti, colli boscosi e fiumi.
Ad ogni nostra visita, tutto appare sempre un po’ peggio, con
l’inesorabilità di una frana. È l’effetto della politica di rigetto dell’UE,
che tende costantemente ad aggravarsi, anche per l’aumento del numero di paesi
determinati a bloccare ogni accesso ai loro territori.
Vista dalla Bosnia, ma anche dalla piazza della stazione di Trieste, la
politica dell’Unione Europea nei confronti dei migranti sembra di breve respiro,
irrazionale oltre che criminale, ma ha pezzi di razionalità.
Sul piano economico: si accumula in Bosnia e nei Balcani una riserva di forza
lavoro a bassissimo prezzo.
Sul piano politico interno: per favorire sistemi di governance più
autoritaria di popolazioni provate da una perdurante crisi economica – pensiamo
solo a come in Italia i sondaggi diano ai due partiti dichiaratamente contro i
migranti il maggior numero di voti.
Inoltre, e soprattutto, bisogna tener presente che al posto di comando in Europa
come ovunque nei paesi ‘ricchi’ c’è “l’Economia”, la crescita
fine a se stessa, strutturalmente indifferente ad ogni altra cosa: basti
pensare al comportamento nei confronti della gravissima questione climatica,
per cui il segretario generale dell’ONU – di un organismo quindi certamente non
su posizioni radicali – ha sentito l’esigenza di dire che “siamo sulla buona
strada per la catastrofe” (26 ottobre).
Nelle nostre riflessioni sociali e politiche bisogna tener conto di questa
cecità strutturale del sistema economico mondiale nei confronti di tutto ciò
che ostacola una crescita che ormai è solo crescita dei profitti. Il disastro
balcanico dei profughi e ancor più quello libico-mediterraneo ne sono una
dolorosa evidenza.
Recentemente 12 paesi europei hanno chiesto di finanziare muri ai confini. L’Europa ha risposto
negativamente, ma sottolineando che ogni paese ha diritto a difendere le
proprie frontiere come crede, “pur nel rispetto dell’acquis europeo”. La
questione migranti è rimasta un problema interno di ogni singolo Stato. Diverse
sono le varianti e anche le contraddizioni, che non inficiano la sostanziale
unità di una politica cinica e violenta. Andando sul terreno, la tocchiamo con
mano.
Dobbiamo tener sempre presente che questo fenomeno di migrazioni di profughi,
dal Medioriente, dall’Africa, sono l’inizio di un fenomeno storico
fondamentale, il segnale dell’invivibilità di vaste e sempre maggiori parti del
mondo e, di conseguenza, il rovesciamento sull’Europa, ancora assai modesto,
degli effetti del colonialismo, su cui la prosperità dell’Europa è nata.
Venendo alla nostra attività – di aiuto concreto e
socializzazione con i migranti, di rapporto con organizzazioni che operano in
maniera stanziale e di informazione diretta sullo sviluppo di una situazione
che frequentiamo regolarmente ormai da più di tre anni -, sentiamo
l’esigenza fare alcune riflessioni sull’intervento dei gruppi internazionali di
volontari in Bosnia.
È un intervento ovviamente indispensabile sul piano umanitario, per attenuare
le dure condizioni di vita dei migranti fuori dai campi; sul piano politico,
per diffondere conoscenza e informazioni aggiornate sull’intollerabilità della
condizione migrante, raccogliendo informazioni precise anche sui suoi aspetti
peggiori, come, per citare il caso forse più grave, l’azione della polizia
croata.
Tuttavia, è difficilissimo passare ad un livello politico più complesso, che
pure sarebbe indispensabile, sia per quel che riguarda il rapporto fra le
organizzazioni di volontariato, che per il rapporto con la popolazione e,
soprattutto, con i migranti stessi a partire da una loro consapevolezza di
esser portatori di un diritto alternativo a quelli imposti o proclamati dagli
Stati.
Sarebbe importante cominciare a discutere di questo fra gli attivisti, ma non
ci facciamo illusioni in merito.
Non faremo un resoconto descrittivo del viaggio: riteniamo che non abbia
più senso, ma mostreremo alcune situazioni esemplari.
Arriviamo a Velika Kladuša dopo un viaggio interminabile
sotto la pioggia, dovuto a una chiusura improvvisa dell’autostrada
Susak-Karlovac. Troviamo grandi nuvole basse, pioggerella insistente, freddo.
Cominciamo i nostri incontri con i migranti lo stesso giorno del nostro
arrivo: accampamenti e squat dove la gente sopravvive come in una
situazione di guerra. E guerra è, infatti.
Questi migranti si trovano fra due guerre: la guerra donde provengono –
guerra vera e propria, come in Siria, in Afganistan, guerriglie di vario genere
e disfacimento sociale, come in Iraq, guerre ambientali, come in Bangladesh e
anche un insieme di tutto questo; e la guerra dell’Unione Europea contro di
loro lungo tutta la catena balcanica, dalla Turchia alla Bosnia. Una guerra
fatta di polizie, di fili spinati, di muri, di fiumi, montagne, freddo, fango,
fame. E nel prossimo futuro sarà ancora peggio.
Sabato sera, andiamo subito all’ex macello, luogo storico d’incontro con i
migranti. Luogo storico vuol dire che ha conosciuto tempi meno peggiori, quando
c’erano docce calde installate da No Name Kitchen. Ed era un luogo
di socializzazione fra attivisti e migranti.
Intorno a un fuocherello, sotto una tettoia, alcuni uomini. Più in là, in
un piccolo ambiente oscuro, una famiglia afgana: con una bimba di 6 anni, una
ragazzina di 15 e due fratelli. Il padre faceva l’interprete per un contingente
internazionale ed eccolo qui a tentar di arrivare in Europa con la sua
famigliola, rischiando tutto, mentre le chiacchiere mediatiche sull’Afghanistan
sono già spente!
Il giorno dopo, con Simon di NNK, andiamo in un grande squat,
fuori Kladuša dove vivono alcune decine di migranti. Anche qui, famiglie con
bimbi piccoli. Anche qui, fra muraglie squallide, resti di una guerra mai
conclusa, incontriamo un mondo dove l’accoglienza del viaggiatore è un rito
sociale importante. Queste donne e questi uomini hanno bisogno prima di tutto
di essere riconosciuti come tali e la donazione di beni indispensabili è il
mezzo attraverso cui passa questo riconoscimento, senza che sia possibile
scindere l’uno dall’altro.
Domenica 10, in partenza per Bihac, andiamo in quella sorta di
villaggio afgano, che sorge nel prato alla periferia di Kladuša, non lontano
dal cosiddetto hangar dell’elicottero. Circa 150 famiglie con molti bambini. Il
cielo basso, la pioggerella insistente sulle misere tende, le corse giocose di
molti bambini nel fango rendono la situazione indescrivibile. Incontri,
sguardi, storie.
Ne riportiamo una, raccolta da Antonio Nigro, fra le più dolorose delle
tante raccontate, accennate, alluse, tutte incise nei corpi, balenanti negli
sguardi. Un energico arrabbiato uomo afgano sui 35-40 anni.
“Durante la notte la polizia di frontiera mi ha portato vicino a Velika
Kladusa, frontiera bosniaca. Hanno coperto le loro facce con delle maschere e
non c’era luce, non riuscivo a vedere nulla. Loro hanno iniziato a picchiarmi
forte. Mi hanno detto: “Vuoi andare in Italia? Vuoi andare in Germania? Vuoi
andare nel Regno Unito?”. Hanno acceso la musica e hanno iniziato a ballare sul
mio corpo e non potevo muovermi. Ho urlato e pianto tanto dicendo “per favore
non picchiatemi”. Erano molto soddisfatti, godevano della mia sofferenza, ho
sentito che mi vedevano come un animale, come se mi volessero rendere carne per
il barbecue. Ero ferito ed ero diventato nero per il troppo sanguinare. Ero
steso nel campo, non potevo muovermi per le troppe ferite. Non so, questa è
l’Unione europea, questi sono i diritti umani. Voi non supportate i diritti
umani, state mentendo, questa è sofferenza e supportate un regime, ci prendete
la libertà. Non c’è democrazia per colpa vostra e della vostra sporca politica.“
Prima di prendere, sempre sotto la pioggia, la tortuosa strada che porta a
Bihac, passiamo per un altro squat ad incontrare due famiglie afgane in una
casa abbandonata.
L’incontro può essere efficacemente riassunto, senza parole, dalla foto di
Lorena intitolata ‘la principessa afgana’.
A Bihac, abbiamo incontrato a lungo Amir Labbaf, l’esponente dei Dervisci Gonabadi, delle cui dolorose vicende abbiamo già informato precedentemente e che continuiamo a seguire nel suo difficile percorso di lotta.
Insieme a lui, un giovane iraniano, anche lui perseguitato politico, vittima di
un attacco da parte di un gruppo di pakistani all’interno del Miral per motivi
banali, nell’indifferenza della vigilanza, fatto che gli impedisce l’uso delle
gambe.
Bisogna ricordare – e denunciare – che la pessima gestione dei campi
produce spesso situazioni di grave disagio che possono provocare tensioni e
anche violenze. La condizione migrante è anche una lotta per la sopravvivenza e
porta il peso di un mondo orientale che frana sotto i colpi di una
mondializzazione cieca e ottusa, i cui interessi geopolitici ed economici sono
indifferenti ai disastri sociali che provocano.
Abbiamo aiutato questo ragazzo, espulso dal Borici, a trovare una sistemazione,
in un contesto che gli garantisca un minimo di sicurezza. Sappiamo infatti che
l’intelligence iraniana continua a perseguire gli esuli politici,
ricattandoli pesantemente con le famiglie rimaste in patria.
Infine, a Bihac abbiamo ripreso l’abitudine recente di recarci al parco
sull’Una per curare. Fino a quando non è arrivata ad impedircelo la polizia,
allertata da qualche cittadino.
A ritorno, per noi due, piccola cerimonia di controllo poliziesco.
Rapporto economico
Velika Kladusa
Abbiamo mantenuto il riferimento della nostra volontaria bosniaca che aiuta
circa 20 famiglie composte in gruppi allargati con bambini che vivono tra
gli squats e la tendopoli di plastica, alla quale abbiamo
lasciato buoni spesa alimentare concordati con il supermarket Suda Luka ed
altri due negozi.
Con No Name Kitchen la collaborazione è stata
mantenuta non solo coordinandoci nell’attività ma, anche, nell’acquisto di beni
di prima necessità e in contributi investiti in voucher. Questi voucher sono
dei buoni spesa che i migranti privi di tutto, possono spendere secondo un
tetto monetario prestabilito, presso i negozi con cui esiste l’accordo
Bihac
A Bihac abbiamo sostenuto alcune situazioni molto vulnerabile e supportato No
Name Kitchen con le stesse modalità di Velika Kladusa. Abbiamo inoltre
mantenuto il nostro supporto economico all’Associazione Solidarnost per l’acquisto di cibo, scarpe,
legna e altri generi di prima necessità.
L’impegno economico devoluto è stato in totale di euro 5.551, 49.
N.B. Tutte le spese relative ai nostri viaggi comprensive di vitto,
alloggio, carburante, sono state, come sempre, esclusivamente a nostro carico.
Grazie a tutti e tutte per aver reso possibile questo aiuto che non è solo
assistenziale ma esprime una solidarietà politica occupandosi, appunto, della
cura di persone ai margini della vita. Una gratitudine particolare va alle
Associazioni che ci hanno sostenuto e che sono l’espressione più importante
della società civile e dei legami di comunità.
Nella rinnovata gratitudine per i nostri donatori e la loro generosa
solidarietà, vogliamo estendere i ringraziamenti a questi volontari che conosciamo
per serietà e affidabilità e che si spendono nella dura realtà di Kladusa,
Bihac, Kljuc, Hadžići, Sarajevo, Tuzla e Velika Kladusa.
https://www.meltingpot.org/Bosnia-dopo-venticinque-viaggi.html
“Nella foresta
vedo morire i profughi e con loro muore la nostra dignità” – Tania Paolino
La situazione al confine tra la Bielorussia e la
Polonia si fa ogni ora più grave.
Adesso i migranti, nella realtà profughi di guerra che dovrebbero essere
protetti dal diritto internazionale, sono diventati “armi
non convenzionali”, ostaggi incolpevoli di ciò che si va consumando
alle loro spalle e sulla loro pelle. Nel frattempo, in attesa che le
istituzioni europee prendano delle decisioni, rimane ai volontari, agli
attivisti, il compito di rendere la loro condizione meno difficile, di cercare
di evitare la morte di migliaia di persone rimaste bloccate nella foresta.
Nawal Soufi, ad esempio,
l’attivista italo-marocchina impegnata nella difesa dei diritti umani dei migranti
che conosciamo già perché l’abbiamo seguita lungo la rotta
balcanica, adesso è proprio lì a documentare con le immagini
fotografiche e la raccolta di testimonianze agghiaccianti le conseguenze del
cinico gioco politico in cui gli interessi di parte prevalgono sui principi
umanitari.
“I bambini sono senza latte e
le mamme non riescono più ad allattare, perché oramai si trovano in condizioni
disumane da lungo tempo”, racconta Nawal nel suo diario di frontiera. I
volontari non riescono ad aiutare nemmeno tutti coloro che si trovano tra i
boschi in territorio polacco: alcuni a soli tre chilometri dal confine, altri
più lontani, anche una ventina di chilometri all’interno. Per chi si trova in
territorio bielorusso, poi, la situazione è ancora più drammatica: è lasciato
completamente al proprio destino.
Cuore grande
Nawal a volte viene aiutata da un taxista locale a
trasportare persone verso Minsk.
Corse per salvare la vita a chi non mangia da giorni. Oramai, infatti, rimane
poco da fare oltre a comprare del cibo e consegnarlo a questo buon uomo, che
poi lo porta ai migranti.
L’altro ieri una donna, dopo 25 giorni di questo
inferno, è riuscita ad arrivare a Varsavia.
Nawal ha quindi chiesto ai suoi contatti social di cercare per lei da dormire
in quella città. La risposta dall’Italia è arrivata: c’è tanta gente dal cuore
grande, per fortuna.
La volontaria ha davanti ai sui occhi immagini
terribili, alle quali si sommano i racconti di altri testimoni:
la polizia che blocca interi nuclei familiari, con bambini spaventati e
affamati ai quali si nega persino l’acqua;
giovani siriani arrestati in Polonia e ricoverati negli ospedali a causa delle
loro condizioni critiche: non appena si riprenderanno, saranno espulsi. Pare
che qualcuno di loro abbia chiesto asilo politico e
il diritto internazionale vorrebbe che la loro volontà venisse rispettata. Ma
c’è da dubitare fortemente che accadrà.
Una donna da giorni nella foresta, fame, gelo,
solitudine, il telefonino quasi scarico, rischiava di morire, per fortuna è
stata raggiunta e tratta in salvo. Una delle tante. E, ancora, una famiglia di
10 persone, una piccola comunità cui si aggiunge ogni giorno qualcun altro:
“Hanno già tentato di attraversare il confine polacco otto volte e
puntualmente, dopo aver chiesto asilo, sono stati riportati nella foresta. Nel
gruppo ci sono donne, tra cui un’anziana. Ieri sera, però, è successo qualcosa
di molto grave e il gruppo è
scomparso dopo averci mandato questo messaggio: Il cane della polizia ha
attaccato un ragazzo di Deraa (Siria) e gli ha morso la testa. Da quel momento
non ho più notizie. Non riesco a descrivervi come mi sento”, dice Nawal.
Rabbia e frustrazione
Possiamo solo immaginarlo, ma lei è lì, a seguire
questa tragedia umanitaria da vicino, con la rabbia e il senso di frustrazione
addosso. E poi ancora bambini, sempre più infreddoliti, che hanno bisogno di
mangiare: “Stanotte tra le 3 e le 4, un elicottero ha terrorizzato i più
piccoli. Era l’unico momento in cui erano riusciti a prendere sonno dopo una
giornata terribile”, racconta. Altri che implorano: Dio,
ho fame. E i singoli destini diventano il paradigma di
un tragico fallimento. “Questo bambino –
dice Nawal scegliendo un esempio fra i tanti – si trova alle porte dell’Europa.
Lui fa parte di coloro che sotterreranno la dignità dell’Europa unita.
Sì, l’Unione Europea ha perso la sua dignità in questa
frontiera. Lui ancora accenna un sorriso, ha entrambe le gambe
amputate e non riesce ad avere acqua e cibo da troppo tempo. Forse un giorno
tornerà verso il suo Paese d’origine o forse morirà a ridosso di questa
frontiera a causa del freddo e della fame e a noi resterà l’arduo compito di
guardarci allo specchio nei prossimi anni”.
Già, ha ragione, Nawal, e, quando ci guarderemo,
vedremo lo stesso volto che ha chiunque chiuda gli occhi insieme al cuore: il
volto del carnefice e del suo complice.
Da emergenza
umanitaria a pericolosa emergenza politica – Paolo Soldini
È un’emergenza umanitaria senza
precedenti. Migliaia di persone, molte famiglie, moltissimi
bambini, sono prigioniere in uno spazio strettissimo nella foresta tra la
Bielorussia e la Polonia. Non possono attraversare il confine verso la Polonia
e non possono tornare indietro: sono bloccati al freddo e non ricevono da
mangiare e da bere ormai da giorni. La tv polacca ha mostrato una sequenza in
cui una bambina siriana implora un po’ d’acqua e viene minacciata col mitra da
un poliziotto. E quando un gruppo di migranti è riuscito a rompere (pare anche
con utensili graziosamente forniti dai militari bielorussi) la barriera di filo
spinato armato e a inoltrarsi per qualche metro in territorio polacco sono
stati duramente picchiati e portati via dai poliziotti. Dove non si sa: non
certo in qualche ufficio dove potessero fare, come pure sarebbe diritto per la
grandissima parte di loro, richiesta di asilo
politico. Si sono sentiti anche degli spari e non s’è capito
da quale parte del confine: dei morti ci sono stati, ma (per ora) a causa della
temperatura che la notte scende a diversi gradi sotto lo zero e per la
denutrizione.
Tensione con la Lituania
Ma la crisi umanitaria sta diventando una crisi
politica dalle conseguenze che potrebbero essere molto
pericolose. L’Unione europea e la NATO non sanno come reagire alla sfida di
Lukashenko e di Putin, il quale ha smesso ogni ipocrisia da mediatore e si è
schierato apertamente con il suo fido vassallo di Minsk, e la tensione si sta
spostando, ora, anche ai confini della Lituania. Le
ultime notizie parrebbero confermare che anche qui il regime bielorusso stia
per schierare l’arma impropria dei profughi. D’altra parte, quella regione è un
focolaio di tensioni per colpa certo dell’autocrate del Cremlino e delle
sue pulsioni neoimperiali ma
anche per le responsabilità dell’occidente che ha spinto l’alleanza
militare fino ai confini della fu Unione Sovietica,
disattendendo gli impegni che erano stati presi al tempo dell’unificazione
tedesca, proprio nella zona geografica che i russi (sotto qualsiasi regime)
considerano il cuneo indifendibile del loro sistema
di difesa.
Il governo polacco ha imposto lo stato di emergenza
lungo tutta la frontiera con la Bielorussia e la exclave russa di Kaliningrad e
ha aggiunto alla polizia i reparti mobilitati dell’esercito. Sull’altro fronte,
Mosca ha inviato agli alleati degli aerei da ricognizione di quelli che si
usano per tenere d’occhio gli spostamenti di truppe. C’è da ritenere che si
tratti di manovre solo dimostrative, ma quando la tensione è così alta c’è
sempre il rischio di un incidente.
Bisogna insomma trovare il modo di disinnescare
la crisi, ma come? Se dominassero ragione e buon senso, la
prima cosa da fare sarebbe annullare l’arma di Lukashenko portando via dal
confine i profughi dopo aver fatto passare loro il confine. In fin dei conti si
tratta di qualche migliaio di persone (chi dice duemila, chi sei o settemila)
che si potrebbero far entrare in Polonia per poi essere trasportate altrove con
un corridoio umanitario. Verso dove? Berlino ha fatto sapere che non intende
accogliere i profughi, i quali, in grande maggioranza, dicono invece che
proprio in Germania vogliono andare. Ma si potrebbe adottare un meccanismo
di distribuzione fra vari paesi
come quello che venne inventato con la mediazione della Commissione europea a
suo tempo, quando in Italia Salvini bloccava le navi dei soccorritori. Allora,
è vero, si trattava di numeri sull’ordine delle centinaia e non delle migliaia
e non c’era ancora la minaccia del Covid, che rende ovviamente tutto più
difficile. Ma è l’ipotesi di soluzione cui, da quanto si può sapere da
Bruxelles, starebbe lavorando la Commissione e che sarebbe stata oggetto di un
colloquio che Ursula von der Leyen ha avuto ieri
con Filippo Grandi, Alto Commissario
dell’Onu per i Rifugiati. A una via d’uscita di questo tipo starebbero
pensando, in contatto con il Vaticano, le gerarchie cattoliche polacche non
asservite al regime.
Sfida sovranista
Ma questa ipotesi pare destinata a scontrarsi con
l’irragionevolezza sovranista del regime di Varsavia, che appena poche
settimane fa ha sfidato apertamente le istituzioni dell’Unione sostenendo la
preminenza del diritto nazionale su quello comunitario. Il primo ministro
Mateusz Morawiecki ha detto e ripetuto che nessun “clandestino” dovrà entrare
in Polonia, che il respingimento dei profughi in Bielorussia è una questione di
principio e che Varsavia non sta difendendo solo i confini propri, ma quelli di
tutta l’Europa. La quale, secondo il credo sovranista, dovrebbe blindare le
frontiere esterne erigendo il Muro per
il quale qualche settimana fa 12 paesi dell’Unione, ungheresi e polacchi in
testa, hanno chiesto non solo l’approvazione della Commissione, ma anche i
soldi per tirarlo su.
La Commissione, allora, respinse al mittente la
provocazione, ma a Bruxelles non tutti la pensano come la presidente von der
Leyen e la maggioranza del Parlamento europeo che pure ha criticato fermamente
la proposta. Il presidente del Consiglio europeo Charles
Michel, per esempio, ha detto che “si può aprire un
discorso” sul finanziamento da parte della Ue di “infrastrutture fisiche alle
frontiere” e che questo dibattito dev’essere pure veloce perché “i confini
polacchi e baltici sono confini dell’Europa”. Per un paradosso la cui
pesantezza dev’essergli sfuggita, Michel ha detto queste cose durante la
celebrazione alla fondazione Konrad Adenauer della CDU della caduta del Muro di
Berlino…
Ancora più esplicito, e più rozzo, è stato il
capogruppo dei popolari al Parlamento europeo, il social-cristiano Manfred
Weber: “Ci vogliono più difese, più muri, più recinzioni,
più filo spinato a protezione dei confini dell’Unione europea”.
Insomma, le opinioni a Bruxelles sono divise e
anche in questa occasione, come in molte altre, c’è da registrare una
divaricazione degli orientamenti della Commissione e del Parlamento europeo, le
istituzioni più inserite nel meccanismo della integrazione europea, da quelli
del Consiglio, espressione delle volontà dei governi. Se prevarrà la linea
della “fortezza Europa” è ben difficile che si troverà la via d’una
soluzione giusta e umana della crisi
nella foresta di Byałistok. Perché come si legge in un messaggio che il
Movimento europeo italiano ha dedicato al disastro umanitario al confine tra la
Polonia e la Bielorussia, “se non vogliamo che li usino (i profughi) come
un’arma, smettiamo di averne paura”.
Una fiala di profumo – Tonio Dell’Olio
Di Lorena Fornasir e Gian Andrea Franchi e della loro
associazione triestina Linea d'ombra ci eravamo già occupati ai tempi in cui
vennero denunciati per favoreggiamento dell'immigrazione clandestina.
In realtà si erano semplicemente chinati sulle ferite
dei migranti che giungono a Trieste dopo aver camminato giornate intere in
condizioni disumane. I due coniugi, lui 85 anni, non si sono scoraggiati,
tutt'altro. Ogni notte sono fuori dalla stazione di Trieste ad attendere quei
ragazzi e a curare i loro piedi feriti. Mi colpisce che Lorena a un certo punto
tiri fuori una fiala di profumo. Nella mia rozzezza non penso che sia
esattamente ciò di cui hanno bisogno, ma lei spiega che c'è una grande dignità
in queste persone e che talvolta hanno pudore ad avvicinarsi anche perché non
fanno una doccia da giorni e giorni. Quella fiala di profumo più che nascondere
il cattivo odore, conferisce dignità. E ogni notte sono lì, a curare i piedi
piagati, a cercare un nuovo paio di scarpe e a regalare un po' di profumo alla
vita di chi cerca solo di vedere riconosciuta la propria dignità.
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