Si trova nel cuore del quartiere delle istituzioni europee a Bruxelles, al
numero 20 dell’avenue d’Auderghem, ma passa inosservato all’ombra dei palazzoni
che lo circondano. È l’ufficio locale di Frontex,
l’Agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, la cui sede centrale è
a Varsavia. La mattina di mercoledì 9 giugno 2021, i muri dell’edificio sono
stati cosparsi di pittura rosso sangue, la strada ribattezzata “avenue
meurtrière” (viale assassino) mentre dal balcone del primo piano due striscioni
annunciavano l’inizio di una nuova campagna: Abolish Frontex.
Lo stesso giorno azioni simili si sono svolte in
altre sette città: Vienna, Bologna, L’Aja, Ouida in Marocco, Berlino e Friburgo
in Germania, Las Palmas nella Gran Canaria.
Un’azione diretta semplice e tutto sommato innocua, sottolinea Stéphanie
Demblon, dell’organizzazione pacifista belga Agir pour la paix, che aderisce
alla campagna. “Non abbiamo nemmeno impedito alle persone di andare a
lavorare”, osserva. Ma per un’istituzione a lungo abituata a operare
indisturbata e nella più completa impunità, quell’azione è stata un affronto.
In un’email ai suoi
dipendenti inviata il giorno stesso ma divulgata da poco, il direttore Fabrice
Leggeri parla di un “attacco fisico contro il nostro ufficio”, giunto al
culmine di “mesi di discorsi di odio contro Frontex”, e assicura che gli autori
saranno denunciati alla giustizia belga. “Azioni come quella di oggi a
Bruxelles non sono in linea con i valori dell’Unione europea o lo stato di diritto
e non possono essere considerate un contributo al dibattito democratico”.
Scritte dal responsabile di un’agenzia accusata di respingimenti illegali e
mortali di richiedenti asilo, queste parole suonano come un affronto.
Su un punto, però, Leggeri ha ragione. Frontex è la più odiata delle
agenzie dell’Unione europea: nei suoi sedici anni di esistenza, è stata
accusata di violazioni di diritti fondamentali così tante volte da fare
concorrenza al primo ministro ungherese Viktor Orbán. Con la differenza che, essendo
eletto, Orbán può far valere una sua legittimità.
“Le agenzie dell’Ue sono organi
diversi dalle istituzioni europee – sono infatti entità giuridiche separate,
istituite per eseguire compiti specifici in base al diritto dell’Ue”, si legge
sul sito ufficiale dell’Unione
europea. Frontex fa parte delle cosiddette agenzie decentrate, istituite a
tempo indeterminato per fornire “alle istituzioni e ai paesi dell’Ue conoscenze
specializzate in molteplici campi”, lavorando “su questioni e problemi che
hanno un impatto sulla vita quotidiana dei 500 milioni di cittadini dell’Ue”. È
inserita tra le agenzie che si occupano di “giustizia e affari interni”, come
Europol, quest’ultima incaricata di aiutare “le autorità nazionali a
contrastare le forme gravi di criminalità internazionale e il terrorismo”.
Frontex invece “aiuta i paesi dell’Ue e i paesi associati alla zona Schengen a
gestire le loro frontiere esterne. Contribuisce anche ad armonizzare i
controlli alle frontiere in tutta l’Ue”.
Il sito non è aggiornato. Si legge che Frontex impiega 315 dipendenti e ha
un bilancio annuo di 250 milioni, ma sono numeri che risalgono al 2016, l’anno
in cui i finanziamenti all’agenzia si sono impennati in seguito alla crisi del
sistema europeo di accoglienza. Nel 2021 Frontex, con i suoi 1.500 dipendenti,
ha potuto contare su un bilancio di 543 milioni di euro. Altri 140 milioni sono
stati stanziati per la costruzione della nuova sede dell’agenzia a
Varsavia, che dovrebbe essere inaugurata nel 2026 e permetterà di accogliere
duemila nuovi dipendenti. Per fare un confronto, nel 2021 Europol ha ricevuto
123,7 milioni di euro per 1.300 impiegati.
Ora, mentre l’utilità di un’agenzia come Europol può capirsi (anche se
molti criticano il modo in cui svolge il suo mandato, come ha fatto di recente
l’organizzazione European digital rights), nel caso di Frontex è la sua stessa
esistenza a essere problematica. Delle 39 agenzie decentralizzate dell’Ue, non
solo è la principale avversaria dei cittadini extraeuropei, ma è anche la più
inutile per i cittadini europei. Quale beneficio traiamo dal dispiegamento
sempre maggiore di guardie e mezzi impegnati a respingere, anche a costo di
farle morire, delle persone che cercano rifugio sul nostro territorio? Nessuno.
In Europa a beneficiare dell’operato di Frontex sono solo quei partiti e
governi che presentano l’immigrazione come una minaccia alla sicurezza per
potersi ergere a difensori degli elettori, e quelle aziende che lucrano sulla
crescente militarizzazione delle frontiere (un settore al quale il Corporate
Europe observatory ha dedicato un rapporto nel febbraio del
2021). E questi benefici sono legati alle morti e alle sofferenze causate ai
confini esterni dell’Unione dalle politiche incarnate da Frontex.
Quando le chiedo come è nata la campagna, Stéphanie Demblon mi spiega che
“la rabbia a un certo punto diventa insopportabile”: “Ti svegli la notte e ti
chiedi ‘Che possiamo fare?’. È cominciata così, con un incontro tra alcune e
alcuni di noi, per capire cosa fosse già stato fatto contro Frontex, cosa
mancava, cosa potevamo fare per mettere insieme tutte queste realtà”.
Abolish Frontex è una rete autonoma di persone, gruppi e
organizzazioni attive in campi diversi, dalle ong che operano salvataggi in mare ai
collettivi presenti alle frontiere, passando per associazioni di giuristi,
centri di ricerca come Statewatch, Stop Wapenhandel e Transnational
institute e gruppi antirazzisti. Per tutti loro l’agenzia “è
solo la punta dell’iceberg”, spiega Demblon. “Se domani la Commissione dovesse
chiudere Frontex, questo non risolverebbe il problema delle politiche
migratorie europee. Per noi quindi era importante ampliare le nostre rivendicazioni, chiedere anche la
chiusura dei centri di detenzione per persone straniere, la fine delle
espulsioni, la regolarizzazione e la libertà di circolazione per tutte e tutti,
denunciare insomma tutto ciò che nasce dal cosiddetto regime di frontiera
europeo”. Si tratta di un’iniziativa decentralizzata: “Dal momento in cui ci si
riconosce nelle rivendicazioni, chiunque può organizzare quello che vuole in
nome della campagna”, spiega Demblon. A Bruxelles Abolish Frontex era tra gli
organizzatori del raduno di sostegno a
Mimmo Lucano che si è tenuto davanti all’ambasciata italiana il 20 ottobre (qui il testo della
lettera consegnato alle autorità italiane in quell’occasione).
Commentando l’email di Leggeri, Stéphanie Demblon la definisce
“impagabile”: “Il principio dell’azione diretta è esattamente questo, è un modo
per provocare un confronto. Si tratta di opporre un discorso radicale a
un’istituzione per ottenere una reazione, perché senza reazione non succederà
nulla. Bisogna rendere visibile ciò che preferisce restare nell’ombra. Per
questo il lavoro d’inchiesta di tanti giornalisti è essenziale: permette di
ottenere delle immagini e di contestualizzare il senso di quelle immagini. Le
azioni di Frontex non si possono più negare. Sono più di quindici anni che
l’agenzia esiste e che le ong dicono che bisogna sbarazzarsene, ma il messaggio
non riusciva a passare. Dieci anni fa si parlava molto dei voli di rimpatrio
coordinati da Frontex, criticati perché erano voli militari e non c’erano
osservatori a bordo. Ma non esistevano prove di quello che accadeva su quei
voli, era la parola delle persone espulse, di attivisti e militanti, contro la
versione ufficiale”.
Frontex ha continuato ad approfittare di questa situazione per anni,
ignorando le critiche dei mediatori
europei e contando sull’appoggio incondizionato di Commissione e stati
membri. Le cose hanno cominciato a cambiare con il diffondersi di immagini e
video fatti da chi tentava di raggiungere l’Europa. “Non bastava dire che le
persone arrivate in Grecia erano state messe su dei gommoni e rispedite in
Turchia, bisognava mostrarlo”. È successo nell’ottobre del 2020, grazie
all’inchiesta “Frontex at fault”, frutto del lavoro di una rete
di testate. “Senza quelle immagini, la Commissione e il parlamento europeo non
si sarebbero interessati alla vicenda. E il fatto che i politici non possano
più evitare di affrontare la questione in pubblico è un enorme passo avanti”,
commenta Demblon.
Frontex è finita sotto i riflettori e, con buona pace di Leggeri, non ne
uscirà tanto facilmente. Le inchieste sul suo operato si moltiplicano,
giornalistiche ma anche istituzionali (dopo le conclusioni del parlamento europeo e della Corte dei conti
europea, si aspettano quelle dell’Ufficio europeo per la lotta antifrode, che ha
aperto un’indagine alla fine del 2020). Sul fronte legale due denunce sono state
presentate alla Corte penale internazionale nel 2018 e 2019, altre due alla Corte di giustizia
europea nel 2021.
Università responsabili
Tutte queste iniziative aumentano la pressione non solo sull’agenzia, ma anche
su chi accetta di collaborare alle sue attività. Come si legge sul sito di
Abolish Frontex, è il caso di parte del mondo accademico europeo. Oltre
alle sei università che propongono un
master creato da Frontex, lo European joint master in border management, altri
atenei collaborano sul fronte della ricerca. Il 20 ottobre Luca Rondi ha
pubblicato su Altreconomia un’inchiesta intitolata “Il Politecnico di
Torino a fianco di Frontex”, criticando la decisione dell’ateneo italiano di
produrre servizi cartografici “per supportare le attività” dell’agenzia.
“Attività che spesso”, scrive Rondi, “si traducono nella violazione sistematica
del diritto d’asilo lungo i confini marittimi e terrestri europei. Nonostante
questo, fonti del Politecnico fanno sapere di ‘non essere a conoscenza
dell’utilizzo dei dati e dei servizi prodotti’”.
Il 24 ottobre, sempre su Altreconomia, il professore Michele Lancione si è dissociato
pubblicamente dall’accordo siglato tra il suo dipartimento al Politecnico di Torino
(Dipartimento interateneo di scienze, progetto e politiche del territorio) e
Frontex. Come mi ha spiegato Lancione, quello firmato nel quadro di un bando da
quattro milioni di euro è un contratto di committenza, non di ricerca: “Nel
secondo caso, un ricercatore singolo è libero di fare quello che vuole, e se ne
prende la propria responsabilità morale, politica e scientifica. Nel primo
caso, una collettività decide di offrire un servizio, di rispondere a una
committenza e, così facendo, di associarsi al committente su molteplici
livelli: di operato, di immagine e di opportunità. Il contratto in questione è
problematico perché non lascia, per definizione, spazio al lavoro fondamentale
della ricerca, che è un lavoro di critica e di avanzamento del sapere. Qui si
tratta d’altro. Frontex chiede un servizio, noi lo forniamo e, così facendo,
offriamo all’agenzia l’opportunità di ripulirsi l’immagine. L’operazione
culturale in atto valida Frontex, ed è quindi pericolosissima”.
Dal giorno della pubblicazione della sua lettera, racconta Lancione, “il
Politecnico ha scelto la linea del silenzio. I miei colleghi non hanno preso
posizioni pubbliche, a volte per motivi che comprendo e accetto (legati a
posizioni di precariato), in altri casi preferendo percorsi e dibattiti interni
alle mura del dipartimento, nei quali però non si prende una posizione chiara e
univoca su Frontex. Studenti e sindacalisti si stanno organizzando. L’idea è
non solo di cancellare questo accordo, ma di creare un precedente, di dare un
esempio: in Italia non accettiamo che le nostre università lavorino con
Frontex”.
Un “appello alle università e ai centri di ricerca italiani ed europei a
non legittimare l’apparato violento, repressivo, espulsivo e razzializzante
dell’Unione europea” è stato lanciato il 28 ottobre dal sito della
campagna LasciateCIEntrare. Servirebbe una mappa di
tutti gli atenei dell’Ue che, come il Politecnico, hanno partecipato a bandi
che prevedono una collaborazione con Frontex. Sono informazioni d’interesse
pubblico, soprattutto per chi in quelle università studia e lavora.
La lettera di Lancione è stata ripresa e tradotta sul sito di Abolish
Frontex. “Rispetto alle aziende private, le università devono giustificare le loro
scelte di fronte agli studenti e agli altri atenei con cui collaborano”,
commenta Demblon.
Ogni atto di resistenza conta, conclude l’attivista. “La cosa fondamentale
è far sì che Frontex non esca più dall’attualità”. E a chi obietta che il nome
della campagna è idealista, risponde: “Può darsi, ma è un traguardo che
dobbiamo immaginare se vogliamo che l’Unione europea riconosca gli stessi
diritti e la stessa dignità a tutte e tutti”.
L’11 novembre Agir pour la paix organizza a Bruxelles
un “lobby tour” dedicato al rapporto tra industria delle armi e
politiche migratorie europee.
Nessun commento:
Posta un commento