quasi
come un diario, di anni e anni.
ho
letto l’edizione del 2008, che è la ristampa della prima edizione, di dieci
anni prima, con l’aggiunta di una seconda parte, che parla degli anni
successivi (alla prima edizione).
ci
sono le peripezie di Antonio Moresco con editori, direttori editoriali,
colleghi, amici, scrittori, tutti naturalmente con nomi e cognomi, le storie di
blog, come nazione indiana e ilprimoamore, fondati e a volte abbandonati.
molte
persone fanno una figura pessima, altre un po’ meno, qualcuno brilla, come
Ermanno Olmi e Carla Benedetti, per esempio.
nella
prima parte, quando lo scrittore era un cucciolo inedito, Moresco racconta
della sua vita, e dell’attività politica, e un poco delle peripezie editoriali,
su queste si concentra la seconda parte.
tutto
il libro è vita, rapporti umani, e molte delusioni.
"Lettere a
nessuno" è il tipico libro che non si fa. Che non andrebbe fatto, che
è di cattivo gusto, che stuzzica le corde sbagliate in un mondo che, si
sa, è così e non va toccato nel profondo. In risposta a una lettera aperta
di Nicola Lagioia (pubblicata sul "Riformista"), Moresco la
mette così: "Lo sapevo, scrivendo questo libro prima di gettarmi nella
conclusione di Canti del caos, che non si deve fare, che non
conviene, che il mondo in cui viviamo non funziona così, che il mondo della
cultura non funziona così, che persino gli scrittori — e persino adesso —
pensano di avere qualcosa da perdere."
Spesso, chi dice
le cose in faccia e "non ha paura di niente", è nella condizione di
poterselo permettere. Moresco, che si fida dopotutto e sempre della sua
razionalità, va oltre. Se ne frega. In condizioni di instabilità e sommersione,
o di presunta — ancorché "di nicchia" — stabilità, continua a dire la
sua e raccontare quello che nessun altro racconta.
Ma di cosa si
tratta, quindi, per sollevare tanta polvere?...
… questo libro è
un grido. E da questo grido emerge un quadro preciso del mondo editoriale
italiano. Tale mondo peraltro non è soltanto così: sarebbe
ingiusto e fazioso considerarlo. È tuttavia anche così, e
questo "anche" ha un peso specifico di grande entità. L'ansia
continua per il potere e il suo accumulo, la necessità della conventicola,
dello spalleggiamento, del mutamento continuo di opinioni, del presenzialismo,
dell'assenza di spirito critico, della chiacchiera, del situazionismo...
Abitudini che vengono ben isolate nell'idea del nessuno. Di fronte
a chi si pone fuori dal sistema, in genere c'è spazio soltanto per la non
risposta, per il silenzio.
Ma dal libro non
emerge solo questo. Riga dopo riga, le "Lettere" ci mettono di fronte
a una sorta di tribunale. Veniamo invitati a considerare quanto la scrittura
sia un dovere etico, una questione innanzitutto di coraggio, di responsabilità.
E quanto occorra tornare, in questi tempi bui, a un luogo intatto: la
letteratura nella sua dimensione più forte, più intransigente, più vera. Da
nessuno, noi stessi, diventiamo qualcuno…
…Ci tornano così in mente due particolari punti del
libro. Il primo riguarda l’incontro tra Moresco e il suo collega americano
William Vollmann. I due non si conoscono, le loro strade si incrociano durante
un festival in cui sono chiamati a confrontarsi sul ruolo dell’esperienza nell’attività
di scrittori. Vollmann sostiene che uno scrittore deve conoscere e sperimentare
a fondo ogni cosa prima di trasformarla in narrazione.
E’ una disputa antica, la querelle per
eccellenza su cui chiunque abbia una qualche dimestichezza con i magmi creativi
si è certamente posto abissali dilemmi. Nelle pagine che seguono Moresco ci
offre la sua lettura del problema, una risposta che probabilmente riesce da
sola a svelare il fulcro di ogni suo tuffo nel corpo narrativo: la letteratura
non è solo una registrazione, un drenaggio chimico di qualcosa di esistente. Se
si limitasse a questo, sostiene Moresco, allora sarebbe unicamente un
contenitore in cui tutto va a finire a catalogarsi diligentemente, e i libri
sarebbero necropoli in cui seppellire brandelli di vita. Invece capita (può
capitare) che nel mezzo accada qualcos’altro, qualcosa che trasforma la
letteratura in un luogo propulsivo in cui tutto comincia, che insomma scrivere
non significa trascrivere, ma dare un nome alle cose.
Il mondo è un sarcofago che racchiude infiniti
sogni ancora da scoprire, sogni nascosti nei gesti e nei movimenti delle
creature che lo abitano misteriosamente, e che convivono fra loro spesso senza
nemmeno sfiorarsi. Può capitare dunque che anche la danza autistica di un piccione
incontrato ai margini di un marciapiede diventi punto di partenza per
individuare una breccia da spalancare, una zona critica in cui il linguaggio
del mondo e quello degli uomini si fondono insieme.
E’ questo il secondo punto del libro a cui ci
riferivamo prima, le poche righe in cui viene descritto il colombo al cospetto
di un compagno morto che giace a pochi centimetri da lui circondato dal
continuo viavai di persone. Tra l’indifferenza generale l’animale becca nel
vuoto, china la testa su e giù in moto perpetuo, elabora il suo rito funebre e
lo consegna al suo amico, agli dei, a noi. Ecco, uno stupido, fastidioso e
sporco paria della Terra è diventato improvvisamente segno religioso:
dimenticato per sempre sull’asfalto, ha ripreso vita in un mazzetto di parole
che qualcuno, oggi e domani, potrà decidere di non dimenticare, mai.
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