sabato 13 novembre 2021

Lettere a nessuno (2008) - Antonio Moresco

 

quasi come un diario, di anni e anni.

ho letto l’edizione del 2008, che è la ristampa della prima edizione, di dieci anni prima, con l’aggiunta di una seconda parte, che parla degli anni successivi (alla prima edizione).

ci sono le peripezie di Antonio Moresco con editori, direttori editoriali, colleghi, amici, scrittori, tutti naturalmente con nomi e cognomi, le storie di blog, come nazione indiana e ilprimoamore, fondati e a volte abbandonati.

molte persone fanno una figura pessima, altre un po’ meno, qualcuno brilla, come Ermanno Olmi e Carla Benedetti, per esempio.

nella prima parte, quando lo scrittore era un cucciolo inedito, Moresco racconta della sua vita, e dell’attività politica, e un poco delle peripezie editoriali, su queste si concentra la seconda parte.

tutto il libro è vita, rapporti umani, e molte delusioni.

 

 

 

 

"Lettere a nessuno" è il tipico libro che non si fa. Che non andrebbe fatto, che è di cattivo gusto, che stuzzica le corde sbagliate in un mondo che, si sa, è così e non va toccato nel profondo. In risposta a una lettera aperta di Nicola Lagioia (pubblicata sul "Riformista"), Moresco la mette così: "Lo sapevo, scrivendo questo libro prima di gettarmi nella conclusione di Canti del caos, che non si deve fare, che non conviene, che il mondo in cui viviamo non funziona così, che il mondo della cultura non funziona così, che persino gli scrittori — e persino adesso —  pensano di avere qualcosa da perdere."

Spesso, chi dice le cose in faccia e "non ha paura di niente", è nella condizione di poterselo permettere. Moresco, che si fida dopotutto e sempre della sua razionalità, va oltre. Se ne frega. In condizioni di instabilità e sommersione, o di presunta — ancorché "di nicchia" — stabilità, continua a dire la sua e raccontare quello che nessun altro racconta.

Ma di cosa si tratta, quindi, per sollevare tanta polvere?...

… questo libro è un grido. E da questo grido emerge un quadro preciso del mondo editoriale italiano. Tale mondo peraltro non è soltanto così: sarebbe ingiusto e fazioso considerarlo. È tuttavia anche così, e questo "anche" ha un peso specifico di grande entità. L'ansia continua per il potere e il suo accumulo, la necessità della conventicola, dello spalleggiamento, del mutamento continuo di opinioni, del presenzialismo, dell'assenza di spirito critico, della chiacchiera, del situazionismo... Abitudini che vengono ben isolate nell'idea del nessuno. Di fronte a chi si pone fuori dal sistema, in genere c'è spazio soltanto per la non risposta, per il silenzio.

Ma dal libro non emerge solo questo. Riga dopo riga, le "Lettere" ci mettono di fronte a una sorta di tribunale. Veniamo invitati a considerare quanto la scrittura sia un dovere etico, una questione innanzitutto di coraggio, di responsabilità. E quanto occorra tornare, in questi tempi bui, a un luogo intatto: la letteratura nella sua dimensione più forte, più intransigente, più vera. Da nessuno, noi stessi, diventiamo qualcuno…

da qui

 

 

Ci tornano così in mente due particolari punti del libro. Il primo riguarda l’incontro tra Moresco e il suo collega americano William Vollmann. I due non si conoscono, le loro strade si incrociano durante un festival in cui sono chiamati a confrontarsi sul ruolo dell’esperienza nell’attività di scrittori. Vollmann sostiene che uno scrittore deve conoscere e sperimentare a fondo ogni cosa prima di trasformarla in narrazione.
E’ una disputa antica, la querelle per eccellenza su cui chiunque abbia una qualche dimestichezza con i magmi creativi si è certamente posto abissali dilemmi. Nelle pagine che seguono Moresco ci offre la sua lettura del problema, una risposta che probabilmente riesce da sola a svelare il fulcro di ogni suo tuffo nel corpo narrativo: la letteratura non è solo una registrazione, un drenaggio chimico di qualcosa di esistente. Se si limitasse a questo, sostiene Moresco, allora sarebbe unicamente un contenitore in cui tutto va a finire a catalogarsi diligentemente, e i libri sarebbero necropoli in cui seppellire brandelli di vita. Invece capita (può capitare) che nel mezzo accada qualcos’altro, qualcosa che trasforma la letteratura in un luogo propulsivo in cui tutto comincia, che insomma scrivere non significa trascrivere, ma dare un nome alle cose.
Il mondo è un sarcofago che racchiude infiniti sogni ancora da scoprire, sogni nascosti nei gesti e nei movimenti delle creature che lo abitano misteriosamente, e che convivono fra loro spesso senza nemmeno sfiorarsi. Può capitare dunque che anche la danza autistica di un piccione incontrato ai margini di un marciapiede diventi punto di partenza per individuare una breccia da spalancare, una zona critica in cui il linguaggio del mondo e quello degli uomini si fondono insieme.
E’ questo il secondo punto del libro a cui ci riferivamo prima, le poche righe in cui viene descritto il colombo al cospetto di un compagno morto che giace a pochi centimetri da lui circondato dal continuo viavai di persone. Tra l’indifferenza generale l’animale becca nel vuoto, china la testa su e giù in moto perpetuo, elabora il suo rito funebre e lo consegna al suo amico, agli dei, a noi. Ecco, uno stupido, fastidioso e sporco paria della Terra è diventato improvvisamente segno religioso: dimenticato per sempre sull’asfalto, ha ripreso vita in un mazzetto di parole che qualcuno, oggi e domani, potrà decidere di non dimenticare, mai.

da qui

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