giovedì 31 dicembre 2020

La prigionia kafkiana di Julian Assange smaschera i miti statunitensi sulla libertà e la tirannia - Glenn Greenwald

 

La persecuzione non è tipicamente riservata a coloro che snocciolano lamenti convenzionali, o si astengono dal porre minacce significative a coloro che detengono il potere istituzionale, o rimangono obbedientemente entro i limiti di libertà di parola e di attivismo imposti dalla classe dirigente.

Coloro che si rendono acquiescenti e innocui in questo modo saranno - in ogni società, comprese le più repressive - di solito saranno liberi da rappresaglie. Non verranno censurati o incarcerati. Avranno il permesso di vivere la loro vita in gran parte indisturbati dalle autorità, mentre molti saranno ben ricompensati per questa servitù. Tali individui si vedranno liberi perché, in un certo senso, lo sono: sono liberi di sottomettersi, conformarsi e acconsentire. E se lo fanno, non si renderanno nemmeno conto, o almeno non si preoccuperanno, e potrebbero persino considerare giustificabile, che coloro che rifiutano questo patto orwelliano che hanno abbracciato ("libertà" in cambio di sottomissione) sono schiacciati con forza illimitata.

Coloro che non cercano di dissentire o sovvertire in modo significativo il potere di solito negheranno - perché non capiscono - che tale dissenso e sovversione sono, di fatto, rigorosamente proibiti. Continueranno a credere beatamente che la società in cui vivono garantisca le libertà civiche fondamentali - di parola, di stampa, di riunione, di giusto processo - perché hanno reso il loro discorso e il loro attivismo, se esiste, così innocui che nessuno con la capacità di farlo si prenderebbe la briga di cercare di ridurlo. L'osservazione attribuita in modo apocrifo all'attivista socialista Rosa Luxemburg, incarcerata per la sua opposizione al coinvolgimento tedesco nella prima guerra mondiale e poi sommariamente eseguita dallo Stato, la esprime al meglio: "Chi non si muove, non nota le proprie catene".

Il parametro per determinare se una società è libera non è il modo in cui vengono trattati i suoi cittadini ortodossi, ben educati e deferenti all'autorità. Queste persone sono trattate bene, o comunque di solito ignorate, da ogni sovrano e da ogni centro di potere in ogni epoca, in tutto il mondo.

Non sentirai il pungiglione della Silicon Valley o di altre censure istituzionali fintanto che sarai d’accordo con le ultime dichiarazioni COVID dell'OMS e del dottor Anthony Fauci (anche se quelle dichiarazioni contraddicono quelle di qualche mese prima), ma lo sentirai se metti in dubbio, confuti o ti discosti da loro. Non cancelleranno la tua pagina Facebook se difendi l'occupazione israeliana della Palestina, ma sarai bandito da quella piattaforma se vivi in Cisgiordania e Gaza e solleciti la resistenza alle truppe di occupazione israeliane. Se chiami Trump un clown fascista arancione, puoi rimanere su YouTube per l'eternità, ma non se difendi le sue politiche e affermazioni più controverse. Puoi insistere a voce alta sul fatto che le elezioni presidenziali statunitensi del 2000, 2004 e 2016 sono state tutte rubate senza la minima preoccupazione di essere bandito, ma le stesse affermazioni sulle elezioni del 2020 comporteranno la negazione sbrigativa della tua capacità di utilizzare monopoli tecnologici online per farti ascoltare .

La censura, come la maggior parte della repressione, è riservata a coloro che dissentono dall'ortodossia maggioritaria, non a coloro che esprimono opinioni comodamente all'interno del mainstream. Democratici e repubblicani dell'establishment - aderenti all'ordine neoliberista prevalente - non hanno bisogno di protezioni per la libertà di parola poiché nessuno al potere si preoccuperebbe abbastanza di metterli a tacere. Sono solo gli scontenti, coloro che stanno su posizioni radicali e ai margini, che hanno bisogno di quei diritti. E quelle sono precisamente le persone a cui, per definizione, più spesso vengono negate.

Allo stesso modo: potenti funzionari a Washington possono divulgare illegalmente i segreti del governo più sensibili e non subiranno alcuna punizione, o riceveranno il più leggero tocco sul polso, a condizione che il loro scopo sia quello di far avanzare le narrazioni tradizionali. Ma i leaker di basso livello il cui scopo è quello smascherare le malefatte dei potenti o rivelare le loro bugie sistemiche avranno tutto il peso del sistema della giustizia criminale e tutti i servizi d'intelligence si precipiteranno su di loro, per distruggerli per vendetta e anche per mettere la testa su una picca per terrorizzare i futuri dissidenti dal farsi avanti allo stesso modo.

Giornalisti come Bob Woodward, che hanno passato decenni a rivelare i segreti più delicati per volere delle élites della classe dirigente di Washington DC, saranno osannati con premi e immense ricchezze. Ma quelli come Julian Assange che pubblicano segreti simili ma contro la volontà di quelle élites, con l'obiettivo e il risultato di smascherare (piuttosto che oscurare) le bugie della classe dirigente e di impedire (piuttosto che portare avanti) la loro agenda, subiranno il destino opposto a quello di Woodward: sopporteranno ogni punizione immaginabile, inclusa la reclusione a tempo indeterminato in celle di massima sicurezza. Questo perché Woodward è un servitore del potere mentre Assange è un dissidente contro di esso.

Tutto ciò illustra una verità fondamentale. La vera misura di quanto sia libera una società - dalla Cina, Arabia Saudita ed Egitto alla Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti - non è il modo in cui vengono trattati i suoi servitori convenzionali e ben educati della classe dominante. I vassalli della corte reale finiscono sempre bene: ricompensati per la loro sottomissione e quindi, convinti che le libertà abbondano, raddoppiano la loro fedeltà alle strutture di potere dello status quo prevalente.

Se una società è veramente libera è determinato da come tratta i suoi dissidenti, coloro che vivono e parlano e pensano al di fuori delle linee consentite, coloro che effettivamente sovvertono gli obiettivi della classe dirigente. Se vuoi sapere se la libertà di parola è genuina o illusoria, non guardare al trattamento di coloro che servono lealmente le fazioni dell'establishment e affermano a voce alta le loro più sacre devozioni, ma al destino di coloro che risiedono al di fuori di quelle fazioni e lavorano in opposizione a loro. Se vuoi sapere se una stampa libera è autenticamente garantita, guarda la difficile situazione di coloro che pubblicano segreti progettati non per propagandare la popolazione a venerare le élites, ma, invece, quelli le cui pubblicazioni generano malcontento di massa contro di loro.

Questo è ciò che rende l'imprigionamento in corso di Julian Assange non solo un'ingiustizia grottesca, ma anche un prisma vitale e cristallino per vedere la frode fondamentale delle narrazioni statunitensi su chi è libero e chi no, su dove regna la tirannia e dove no.

Assange è in prigione da quasi due anni. È stato trascinato fuori dall'Ambasciata ecuadoriana a Londra dalla polizia britannica l'11 aprile 2019. Ciò è stato possibile solo perché i governi degli Stati Uniti, del Regno Unito e della Spagna hanno costretto il mite presidente dell'Ecuador, Lenin Moreno, a ritirare l'asilo concesso ad Assange sette anni prima dal suo predecessore, leale difensore della sovranità, Rafael Correa.

I governi degli Stati Uniti e e della Gran Bretagna odiano Assange a causa delle sue rivelazioni che hanno svelato le loro bugie e crimini, mentre la Spagna era infuriata dalla copertura giornalistica e dall'attivismo di WikiLeaks contro la violenta repressione di Madrid del 2018 del movimento indipendentista catalano. Così hanno fatto i prepotenti e hanno corrotto Moreno per gettare Assange ai lupi, cioè a loro. E da allora, Assange è stato detenuto nella prigione di massima sicurezza di Belmarsh a Londra, una struttura utilizzata per i sospettati di terrorismo che è così dura che la BBC ha chiesto nel 2004 se fosse "la baia di Guantanamo in Gran Bretagna".

Assange non è attualmente imprigionato perché è stato condannato per un crimine. Due settimane dopo essere stato trascinato fuori dall'ambasciata, è stato riconosciuto colpevole del reato minore di “saltare la cauzione” e condannato a 50 settimane di prigione, la pena massima consentita dalla legge. Ha scontato completamente quella condanna a partire dall'aprile di quest'anno, ed quindi doveva essere rilasciato, senza dover affrontare altre accuse. Ma poche settimane prima della sua data di rilascio, il Dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti ha svelato un atto d'accusa nei confronti di Assange derivante dalla pubblicazione di WikiLeaks nel 2010 dei cablogrammi diplomatici del Dipartimento di Stato americano e dai registri di guerra che hanno rivelato una massiccia corruzione da parte di numerosi governi, funzionari di Bush e Obama e varie società in giro il mondo.

Quell'accusa degli Stati Uniti e la richiesta di estradizione di Assange negli Stati Uniti per essere processato hanno fornito, come programmato, il pretesto al governo britannico per imprigionare Assange a tempo indeterminato. Un giudice ha rapidamente stabilito che Assange non poteva essere rilasciato su cauzione in attesa della sua udienza di estradizione, ma invece deve rimanere dietro le sbarre mentre i tribunali del Regno Unito valutano in tutti i dettagli la richiesta di estradizione del Dipartimento di Giustizia Usa (DOJ). Qualunque cosa accada, ci vorranno anni prima che questo processo di estradizione si concluda perché qualsiasi parte (il DOJ o Assange) perda in ciascuna fase (ed è molto probabile che Assange perda il primo round quando la decisione del tribunale sulla richiesta di estradizione verrà emessa la prossima settimana), faranno appello e Assange rimarrà in prigione mentre questi appelli verranno valutati molto lentamente nel sistema giudiziario del Regno Unito.

Ciò significa che - in assenza di una grazia da parte di Trump o del ritiro delle accuse da parte di quello che diventerà il DOJ di Biden - Assange sarà rinchiuso per anni senza bisogno di dimostrare di essere colpevole di alcun crimine. Sarà solo fatto sparire: messo a tacere dagli stessi governi di cui denuncia la corruzione e i crimini.

Quelli sono gli stessi governi - Stati Uniti e Regno Unito - che condannano ipocritamente i loro avversari (ma raramente i loro alleati repressivi) per aver violato la libertà di parola, la libertà di stampa e i diritti del giusto processo. Questi sono gli stessi governi che riescono - in gran parte a causa di media che credono che per la propaganda che diffondono consapevolmente saranno ricompensati - nel convincere un gran numero di loro cittadini che, a differenza dei Paesi cattivi come Russia e Iran, queste libertà civiche sono garantite e protette nei Paesi del Buon Occidente.

(Le ampie prove che dimostrano che l'accusa di Assange è la più grave minaccia alla libertà di stampa da anni e che gli argomenti addotti per giustificarla sono fraudolenti, sono state ripetutamente documentate da me e da altri, quindi non ripeterò queste argomentazioni qui. Coloro che sono interessati possono vedere l'articolo e il programma video che ho prodotto su questa accusa insieme al mio editoriale sul Washington Post; il New York Times di Laura Poitras pubblicato la scorsa settimana sull'accusa; l’editoriale del Guardian dell'ex presidente brasiliano Lula da Silva per l'immediato rilascio di Assange; l'editoriale del The Guardian e l’articolo della giornalista del Washington Post Margaret Sullivan che condanna questa accusa come ingiusta; e le dichiarazioni della Freedom of the Press Foundation, del Committee to Protect Journalists, della Columbia Journalism Review e dell'avvertimento dell'ACLU dei gravi pericoli per le libertà di stampa che pone)*.

Anche la condanna di Assange per le accuse di "bail jumping", e il modo in cui è rappresentato nel discorso dei media mainstream, rivela quanto siano ingannevoli queste narrazioni e quanto siano illusorie queste presunte libertà protette. La condanna di Assange per violazione della libertà provvisoria era basata sulla sua decisione di chiedere asilo dall'Ecuador piuttosto che comparire per la sua udienza di estradizione del 2012 a Londra. Quella richiesta di asilo è stata accolta dall'Ecuador sulla base del fatto che il tentativo della Svezia di estradare Assange dal Regno Unito per un'indagine su violenza sessuale potrebbe essere usato come pretesto per spedirlo negli Stati Uniti, che lo avrebbero poi imprigionato per il "crimine" di denunciare i suoi atti illegali e ingannevoli. Tale reclusione per ritorsione, ha detto l'Ecuador, equivarrebbe alla classica persecuzione politica, rendendo così necessario l'asilo per proteggere i suoi diritti politici dagli attacchi degli Stati Uniti (il caso in Svezia è stato successivamente chiuso dopo che i pubblici ministeri hanno concluso che l'asilo di Assange ha reso inutile l'indagine).

Quando gli Stati Uniti concedono asilo ai dissidenti dei paesi avversari per proteggerli dalla persecuzione, i media statunitensi lo annunciano come un atto nobile e benevolo, che dimostra quanto il governo degli Stati Uniti sia devoto ai diritti e alle libertà delle persone in tutto il mondo.

Ricordare il tono celebrativo della copertura mediatica degli Stati Uniti quando l'amministrazione Obama ha dato rifugio nella sua ambasciata di Pechino e poi asilo permanente all'avvocato-attivista cinese cieco Chen Guangcheng, che aveva affrontato numerose accuse penali nel suo paese d'origine per il suo lavoro contro le decisioni politiche che considerava come opprimenti e ingiuste. I liberali americani descrivono l'asilo, quando viene concesso dal governo degli Stati Uniti, per proteggersi dalla persecuzione in altri paesi dell'America Latina, come così sacro che gli sforzi dell'amministrazione Trump per limitare tale asilo hanno invocato la loro furia sostenuta (quella furia sta per dissiparsi mentre Biden fa lo stesso, ma con il linguaggio più morbido e gentile della riluttanza).

Ma quando l'asilo viene concesso da altri paesi per proteggere qualcuno dalla persecuzione per mano del governo degli Stati Uniti, improvvisamente l'asilo si trasforma da uno scudo nobile e benevolo contro le violazioni dei diritti umani in un crimine vile e corrotto. È così che i giornalisti statunitensi e britannici diffamano abitualmente la decisione dell'Ecuador di proteggere Assange dalla possibilità di essere spedito negli Stati Uniti per essere punito per il suo giornalismo, o come parlano ancora della concessione di asilo della Russia a Edward Snowden, che lo protegge dall'essere spedito negli Stati Uniti per affrontare una probabile condanna all'ergastolo ai sensi del repressivo Espionage Act del 1917, una legge che gli impedisce persino di sollevare una difesa di "giustificazione" in tribunale e di ottenere così un giusto processo. In questo quadro propagandistico, non solo i governi che concedono asilo contro la persecuzione degli Stati Uniti (come l'Ecuador e la Russia), ma anche le persone che chiedono asilo dalla persecuzione degli Stati Uniti (come Assange e Snowden) sono considerati cattivi dai media statunitensi e britannici, persino criminali per il fatto che si avvalgono di questo diritto di asilo garantito a livello internazionale.

In effetti, il giudice britannico che ha inflitto la pena massima ad Assange per il bail jumping, Deborah Taylor, ha sogghignato alla sua udienza di condanna dicendo che "ha usato il suo asilo presso l'ambasciata ecuadoriana per insultare la magistratura britannica". Ha aggiunto: "È difficile immaginare un esempio più serio di questo reato. Entrando nell'ambasciata, ti sei deliberatamente messo fuori portata, pur rimanendo nel Regno Unito. Sei rimasto lì per quasi sette anni, sfruttando la tua posizione privilegiata per infrangere la legge e pubblicizzare a livello internazionale il tuo disprezzo per la legge di questo paese ".

L’asilo (politico) di Snowden in Russia - l'unica cosa che si frappone tra lui e decenni in una gabbia di massima sicurezza negli Stati Uniti per il "crimine" di aver rivelato spionaggio incostituzionale da parte dei funzionari di Obama - è ugualmente disprezzato dai media e dai circoli politici dell'élite statunitense come qualcosa di vergognoso e persino tradimento piuttosto che uno scudo perfettamente legale secondo le convenzioni internazionali sull'asilo contro la persecuzione da parte del vendicativo e notoriamente repressivo stato di sicurezza degli Stati Uniti.

Qui vediamo l'accecante propaganda a cui i cittadini statunitensi sono soggetti all'infinito. L'asilo è sempre garantito quando esteso dal governo degli Stati Uniti a dissidenti o emarginati da paesi inferiori, ma non è mai garantito quando concesso da altri paesi a dissidenti statunitensi o altri giornalisti e attivisti la cui punizione gli Stati Uniti chiedono. Questa formulazione distorta è potente perché i media statunitensi riescono a spacciare la mitologia tossica secondo cui gli Stati Uniti hanno diritti e diritti unici che i paesi minori non hanno perché, a differenza di loro, gli Stati Uniti sono una democrazia amante della libertà che onora i diritti umani fondamentali e garantisce fermamente libertà civili di libera espressione, libera stampa e giusto processo a tutte le persone.

La prossima volta che qualcuno fa questa affermazione, esplicitamente o meno, digli di guardare al destino di Julian Assange, uno dei giornalisti e attivisti più efficaci di questa generazione nell'esporre i crimini, gli inganni e la corruzione dei principali centri di potere degli Stati Uniti, in particolare il suo stato di polizia permanente Assange non è nemmeno un cittadino statunitense, avendo trascorso una settimana in totale nella sua vita sul suolo americano e non avendo assolutamente alcun dovere - legale, giornalistico o etico - di salvaguardare i segreti degli Stati Uniti.

Ma non importa: chiunque sfidi efficacemente il potere degli Stati Uniti deve e sarà schiacciato. Questo perché la libertà di parola e di stampa e altre garanzie civiche sono concesse solo a coloro che si astengono dallo sfidare in modo significativo la classe dirigente statunitense: cioè, a coloro che non hanno bisogno di quei diritti. A coloro che hanno bisogno di quei diritti - coloro che dissentono e sono disamorati - vengono negati, dimostrando definitivamente che questi diritti esistono solo sulla pergamena, che in realtà sono artificiali e illusori per chi ne ha realmente bisogno e se li merita.

da qui


*per i riferimenti e i link si rimanda all’articolo originale 

(traduzione a cura di Francesco Masala)


Covid: Vivere in Cina o morire nelle economie del “benessere”? - Gianni Lixi

E’ un coro unanime, tutti nel mondo occidentale si dissociano dal  modo “autoritario(?)” in cui la Cina è uscita dalla pandemia. “Noi non potremmo mai accettare di vivere così…”, “ la nostra libertà ci impedisce di accettare quello stile di vita…” “non possiamo accettare che ci si obblighi a seguire certe regole…”, e cosi via discorrendo.  Non voglio certo qui discutere dei diritti umani in Cina  e cito solo il  rapporto pubblicato domenica 27/12/2020  dall’Academic Center for Chinese Economic Practice and Thinking, presso la Tsinghua University nel quale gli economisti cinesi oltre che prevedere  una crescita del Pil tra l’8 e il 9% nel 2021, consigliano che questo sviluppo sia accompagnato “ da una distribuzione del reddito più equa per garantire che l’espansione economica porti benefici a tutti“, con “maggiori sforzi sui servizi pubblici e sulla sicurezza sociale“. 

No, quello che mi interessa analizzare è quale tipo di sviluppo noi non possiamo, non vogliamo abbandonare. Innanzitutto, ed è ahimè sotto gli occhi di tutti, lo sviluppo  che, solo tra Europa e USA fa morire per Covid quasi un milione  di persone a fronte  di circa 4700 cinesi . Cinesi che sono  una popolazione quasi doppia. Ma il numero dei morti per covid sono bazzecole rispetto al numero di morti di cui queste economie del “benessere “  hanno bisogno per sopravvivere.  L’America, paese da cui tutte le economie occidentali dipendono, ha sempre avuto una stretta correlazione tra interventi militari e crescita economica.   Il premio Nobel per l’economia Peter North, replicando ad un incauto giornalista che faceva presenti i meriti del keynesismo per l’uscita dalla crisi degli anni trenta replicava: “Non siamo usciti dalla depressione grazie alla teoria economica, ne siamo venuti fuori grazie alla Seconda guerra mondiale”. Questi dati sono forniti dagli stessi istituti di ricerca americani . Se si studiano i grafici economici ufficiali si evince che  dopo ogni guerra in cui l’America è stata coinvolta dal 1945 ad oggi le linee sono tutte in crescita. Seconda guerra mondiale, guerra di Corea, Vietnam, scudo stellare di Reagan (Reagan e Trump dicevano “meno stato” ma entrambi hanno aumentato la spesa pubblica a favore degli armamenti), la guerra del Golfo, Afganistan, tutte guerre che hanno visto noi italiani e tutti i paesi europei partecipare direttamente (Serbia) o indirettamente.

Secondo Il prof. Michel Chossudovsky, direttore del Centre for Research on Globalization, il numero di persone uccise dalla ininterrotta serie di guerre, colpi di stato (in America centrale, Africa e Sud America) e altre operazioni sovversive effettuata dagli Stati Uniti dalla fine della guerra nel 1945 ad oggi viene stimato in 20-30 milioni di persone. Mezza Italia in 70 aa!! E come ci ricorda Manlio Dinucci sul “il manifesto” :”Oltre ai morti ci sono i feriti, che spesso restano menomati: alcuni esperti calcolano che, per ogni persona morta in guerra, altre 10 restino ferite. Ciò significa che i feriti provocati dalle guerre Usa ammontano a centinaia di milioni. A quello stimato nello studio si aggiunge un numero inquantificato di morti, probabilmente centinaia di milioni, provocati dal 1945 ad oggi dagli effetti indiretti delle guerre: carestie, epidemie, migrazioni forzate, schiavismo e sfruttamento, danni ambientali, sottrazione di risorse ai bisogni vitali per coprire le spese militari”.

Stiamo parlando di un paese che ha provocato tanti disastri senza mai essere stato attaccato! Non si è mai trattato di guerre di difesa ma di offesa. Per ogni guerra,una bugia che la possa giustificare. Con la guerra di civiltà, studiata a tavolino dai consiglieri di quasi tutte le amministrazioni americane e che ha avuto un grosso elemento trainante dalle le teorie di Samuel  Huntington , politologo reazionario che ha scritto il controverso libro  “The Clash of Civilizations”, si è forse raggiunto l’apice della bugia più grossa che ha fatto più morti perché è stata capace di sostenere molte guerre basate sul nulla. Creare il mostro che non c’era, l’islam, e combatterlo. Servendosi anche di paesi come l’ Arabia Saudita che ha da sempre finanziato Talebani, Isis e gruppi satelliti- Ma anche di  associazioni direttamente o indirettamente legate al governo israeliano . E’ noto infatti che Israele ha sempre cercato di favorire le divisioni tra popolazione ebraica e mussulmana, divisioni che storicamente non ci sono mai state e che israele ha sempre usato in chiave antipalestinese . Saddam, Gheddafi, personaggi discussi e discutibili, non più di tanti altri capi di stato appoggiati dagli americani e che la propaganda, assecondata da giornalisti prezzolati o stupidi, ha fatto diventare mostri.  Propaganda che per esempio fa rovesciare la realtà secondo cui un giovane, spesso giovanissimo palestinese armato di un temperino che si scaglia  contro un soldato israeliano armato di tutto punto,  sia considerato lui un terrorista e non , come molte risoluzioni dell’ONU hanno più volte affermato, un resistente alla occupazione della sua terra.

Secondo molti studi, un dollaro investito in istruzione da più posti di lavoro che un dollaro investito in armamenti. Ma allora perché non si sceglie quel modello di sviluppo? Questa domanda un poco naive per la sua disarmante semplicità ed ingenuità ha una risposta altrettanto semplice. La scelta del modello di sviluppo è fatta sempre dalle classi dominanti che con la guerra fanno ingentissimi guadagni e che non gradiscono una equa distribuzione delle risorse e si servono di strumenti che possano sostenere questa iniquità. Il capitalismo è lo strumento che hanno scelto e sembra che funzioni davvero bene visto che la forbice tra i ricchi ed i poveri del pianeta si sta ampliando sempre di più. Siamo proprio sicuri di vivere in una civiltà libera che garantisce benessere a tutti?  Le libertà di cui godiamo sono le libertà fittizie consentite da un sistema che non ammette critiche od opposizioni, e quando qualcuno si avvicina a minare i gangli che sostengono questo sistema mette la sua vita in pericolo. No non è una esagerazione, e l’assurda vicenda capitata a Julian Assange ne è la testimonianza.  Jiulian Assange, dipinto dalla propaganda come uno stupratore opportunista, è l’attivista politico che grazie al suo giornalismo informatico  tramite il sito da lui fondato, WikiLeaks, ha iniziato a far scricchiolare le basi su cui si regge questo sistema. Non sappiamo se questo scricchiolio sia l’inizio della fine  di questo mondo fatto di menzogne e di corrotti che garantisce il benessere di pochi, ma se dovesse veramente essere così è anche grazie a lui. Questa almeno è la speranza. Lui invece fa filtrare dal carcere di massima sicurezza di Belmarsh (Londra) dove è detenuto insieme a pericolosi assassini già condannati, che  di speranza ne ha ben poca.  Il 04 gennaio 2021 la classe politica forse più retrograda e reazionaria che un governo inglese abbia mai avuto, dovrà decidere della sua estradizione verso gli USA dove lo aspetta una corte che lo accusa delle accuse più gravi che possano essere contestate ad un giornalista ed in verità a qualsiasi essere umano,  e rischia più di 170 aa di carcere.

In questo periodo c’è un grande affannarsi da parte di Mattarella e di Papa Francesco che raccomandano che non bisogna lasciare indietro nessuno.  Mettono in guardia su  una cattiva condivisione delle risorse, su una cattiva gestione delle risorse energetiche che stanno causando danni ambientali e climatici che colpiscono più duramente le popolazioni più fragili ; su uno squilibrato accesso alla sanità, all’istruzione, al lavoro. Parole sante ma non credo efficaci. Si deve  gridare che bisogna abbandonare subito questo sistema di sviluppo  e  lo si deve combattere con tutta la forza di cui si dispone, appoggiando le molte organizzazioni che dalla base gridano inascoltate e spesso criminalizzate da molto, troppo tempo. Penso ai No Tav, a chi combatte le offese all’ambiente,  alle organizzazioni che si occupano di migranti, a chi combatte contro le basi militari e per questo è imprigionato  o in attesa di processo, penso a chi lotta per chi ha perso o sta perdendo  il suo posto di lavoro in una società in cui l’ipocrita classe politica non permette di parlare di una tassa di solidarietà perché ha paura di non essere rieletta. Si, non bisogna lasciare indietro nessuno, ma  per non lasciare indietro nessuno bisogna stare vicini, molto vicini, a  tutti quei begli esempi di attivisti, di cittadini, di cui parlavo prima, altrimenti sono parole al vento.

Voglio però finire con le parole di speranza proprio di Julian Assange “ Se la guerra inizia sempre con una bugia,  la pace può iniziare con la verità”.

 

https://contropiano.org/news/internazionale-news/2020/12/29/cina-volta-pagina-con-salario-sociale-classe-0134968

http://www.proteo.rdbcub.it/article.php3?id_article=159#nb5

https://www.globalresearch.ca/dal-1945-ad-oggi-20-30-milioni-uccisi-dagli-usa/5660461

https://ilmanifesto.it/dal-1945-ad-oggi-20-30-milioni-gli-uccisi-dagli-usa/

http://inpalestine.site/archives/10726

 

da qui

I Fili dell’Odio - Valerio Nicolosi

 


mercoledì 30 dicembre 2020

Agitu Ideo Gudeta è stata uccisa

 


Agitu Ideo Gudeta è stata uccisa. Su Unimondo.org avevamo provato a raccontare chi eri. Avremmo voluto raccontare anche chi saresti diventata...


Ci sono un’etiope, un curdo, e noi…

Lei. Agitu Ideo Gudeta, rifugiata etiope, per tutti Agi, pastora di capre felici, imprenditrice, donna con una forza disarmante. Una di quelle che ti viene da invidiare con quel sentimento buono, di ammirazione, per quel tornado di entusiasmo, coraggio e intraprendenza che porta con sé ovunque vada, per la tenacia di fronte alle minacce razziste, per la voglia di reinventarsi senza perdere di vista le proprie origini, per il fascino di una semplicità curata e coltivata... Segue qui


Il fenomeno migratorio e il "differenziale paranoico

Questa paranoia collettiva nei confronti dei migranti presenta numerose analogie con la cultura popolare contemporanea dove come ricorda Zoja “siamo esposti ad una bulimia di informazioni che non incoraggia l’analisi approfondita e la critica dei fatti” e spesso “agisce come un gigantesco moltiplicatore dei sospetti”. Ecco allora che nascono casi come quello dell’imprenditrice Agitu Ideo Gudeta. Segue qui...


Di differenze rivoltate come fieno

Ci sono sabati pomeriggio di sole e cieli senza nuvole che non vai in montagna né al lago, non fai shopping, non ti vedi con gli amici per arrampicare, non fai la spesa né le pulizie di casa. Ci sono sabati pomeriggio che hai semplicemente la fortuna di condividere con persone speciali, che mettono il lievito al tuo impasto e fanno crescere la persona che sei. Il sabato di qualche fine settimana fa è stato uno di questi, fatto di incontri e racconti, di esperienze di cui fare tesoro. Siamo in Trentino, a Maso Filzerhof, una casa rurale tradizionale mochena che risale agli anni tra il ‘600 e il ‘700. Poco distante, una piccola stalla con un uomo che taglia legna. Sembra di entrare dentro un dipinto d’altri tempi mentre guido su una strada di curve a gomito tra boschi e pendii. Scendo dalla macchina e con Agitu scarichiamo l’occorrente per la merenda. Segue qui...


La ragazza etiope che alleva capre felici in Trentino

La sua giornata comincia molto presto, alle 4.30 di mattina. “La mungitura è intorno alle 5, poi c’è da portare le capre al pascolo, per poi tornare a fare il formaggio nel caseificio”, spiega Agitu Idea Gudeta, 37 anni, occhi di un marrone brillante, sorriso smagliante e contagioso. “Le capre hanno il nome delle mie amiche e delle mie clienti, ognuna ha il suo carattere: Marta, Melissa, Rachele, Francesca, Ribes, Trilli”. Agitu Idea Gudeta è nata ad Addis Abeba, in Etiopia.  Quando aveva 18 anni è venuta in Italia per studiare sociologia all’università di Trento. Segue qui...

 

da qui

C’è posto per loro - Chiara Sasso

 

«Quando vedo arrivare delle famiglie nel rifugio di Oulx, voluto fortemente da don Luigi Chiampo, responsabile della Fondazione Talità Kum, il mio pensiero va sempre a noi, a quando siamo partiti lasciando l’Albania». A raccontare è Lavdosh Maliquj, uno dei volontari che si danno il cambio in alta valle di Susa, al Rifugio Fraternità Massi, messo in piedi nel settembre del 2018 grazie a un accordo in comodato gratuito con una struttura dei Salesiani. «Per partire e lasciare casa nostra ci abbiamo messo cinque minuti – sottolinea la moglie Fatbardha Zeka – Ho messo in borsa un cambio per i nostri due figli di quattro e sette anni, per noi niente, avevamo solo quello che indossavamo».

La famiglia Maliqui ha lasciato l’Albania il 4 marzo del 1991. Hanno chiuso la porta di casa senza sapere se ci sarebbero tornati. Hanno lasciato ricordi, parenti, tutto e sono saliti sulla nave. Lavdosh lavorava in una fabbrica, aveva un diploma, gli studi lo avevano portato a coprire un posto di responsabilità: dirigeva circa quattrocento operai e fra questi anche Bardha, in seguito diventata sua moglie. «Non eravamo ricchi ma neppure poveri, una fascia media. Il problema non erano i soldi – interviene Lavdosh – ma il mangiare, dovevamo alzarci all’alba per metterci in fila per sei uova e un po’ di farina, mancava tutto».

Al porto c’erano grandi navi in partenza, non si pagava un biglietto, niente. Lavdosh si è convinto che ci fosse un accordo fra Italia e Albania, perché era tutto molto strano. L’accoglienza a Brindisi, lo ricordano come straordinaria, sia da parte dello Stato Italiano sia dai semplici cittadini, che si erano fatti in quattro per aiutare. Venticinquemila persone sbarcate in Puglia. Una breve permanenza in una scuola, poi organizzate in gruppi su dei pullman e dirette in una regione sconosciuta. A loro era toccato il Piemonte, la Valle di Susa, la caserma degli alpini di Susa (da tempo dismessa). Dopo poco tempo hanno avuto dei documenti e un lavoro: Lavdosh ha accettato di tutto, compreso lavorare con il «pich e la pala», lo dice in piemontese. «In tre mesi eravamo autonomi, avevamo una casa, pagavamo l’affitto, lavoravamo. Certo, abbiamo avuto l’aiuto da parte di tutti, per questo non dimentico».

Sono trascorsi trent’anni, hanno acquistato la casa dove ora vivono, a Bussoleno (Torino), i figli sono sistemati, i nipoti rappresentano il futuro, ma Lavdosh ha deciso di mettersi a servizio per quel rifugio di Oulx. Una restituzione. Il turno dal tardo pomeriggio alla mattina del giorno dopo. Una trentina di posti letto, la possibilità di fare una doccia, di mangiare un piatto caldo, pastasciutta o riso in grandi quantità perché la fame è sempre tanta. Per cucinare si alternano i volontari.

Bardha si intromette nel racconto per ricordare, ridendo, che a casa il marito non si è mai occupato della cucina. «Forniamo qualche indumento per coprirsi, soprattutto scarpe perché quelle da ginnastica non sono adatte sulla neve. Il giorno dopo si rimettono in viaggio. Vogliono proseguire, andare in Francia in altri paesi d’Europa. Ultimamente arrivano pachistani, afghani, iracheni, siriani, dalla “rotta balcanica”. Arrivano in tutti i modi, in treno, in auto, con i camion. Proprio l’altra sera un gruppo di dodici persone, iracheni, avevano fatto il viaggio nascosti in un camion fino a Trieste ed erano stremati; hanno pagato cinquemila euro a persona rischiando di morire asfissiati, ma ce l’hanno fatta. Alcune volte vediamo i segni delle violenze della polizia».

In Croazia, paese aderente all’Unione Europea, non vanno leggeri, come più volte denunciato dai media (in ultimo, ripetutamente, dall’Avvenire) e da Amnesty International. «La norma è trovare piaghe nei piedi semi congelati e piaghe non curate infette. Spesso arrivano da noi ragazzi respinti dalla Francia. Si riposano un poco, poi qualcuno decide di ritentare, altri tornano dalle città da dove son partiti». La presenza del personale di Rainbow for Africa garantisce la cura, l’ASGI (Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazopme) è disponibile per chiarire situazioni legali, permessi di soggiorno ecc.

«Da qualche settimana il flusso al rifugio è cambiato e sono tornati a frequentarlo anche ragazzi di provenienza africana. I numeri dell’altra sera erano cresciuti. Quarantuno in tutto. Facciamo il possibile. Poco distante sulla strada per Claviere c’è un altro rifugio alla Casa Cantoniera: con questi ragazzi ci aiutiamo, se hanno bisogno di qualche pacco di pasta lo portiamo». Fatbardha precisa: «Mio marito immigrato aiuta i migranti. Chi non le ha vissute forse non può capire tante cose. Adesso sono trent’anni che siamo qui. All’inizio pensavo in albanese e traducevo in italiano. Adesso penso in italiano e traduco in albanese. A volte (congiunge le mani) sono alla pari, non capisco più quale lingua prevale».

da qui


martedì 29 dicembre 2020

Dino e il respiro del mondo - Annamaria Rivera

Frisullo, insieme con l’egualmente rimpianto Eugenio Melandri, ex-missionario saveriano e a suo tempo europarlamentare per Democrazia Proletaria, ha voluto dedicare uno dei suoi seminari di formazione per il Servizio Civile, al ruolo di Dino rispetto al movimento antirazzista italiano. Ne riporto la mia relazione introduttiva, integrata e ampliata.

Per essere quanto più sintetica possibile, mi soffermerò solo su alcuni tratti della personalità politica di Dino e su alcuni passaggi importanti della storia del movimento antirazzista in Italia, in particolare sulla Rete Antirazzista nazionale. 

Molto si è scritto della figura politica di Dino, del suo impegno militante senza limiti e freni, totale e assoluto, generoso quasi fino all’autodistruzione: una “folle staffetta mozzafiato”, così Dino parlava di sé nella sua poesia-testamento. Poco, invece, si è detto delle qualità personali che ingentilivano quell’impegno, sottraendolo alla durezza e al settarismo: la mitezza e la tolleranza, ma anche il profondo amore “per le moschee di Gerusalemme e gli ulivi di Puglia e per ogni roccia, pianta, finestra, stella, che i miei occhi hanno accarezzato nel cammino”, com’egli scriveva nella medesima poesia; ma anche − potremmo aggiungere − per le albe e i tramonti, e per ogni cucciolo, umano e non umano, in cui egli s’imbattesse.

Conviene aggiungere che a rendere la sua figura politica alquanto peculiare v’era, fra l’altro, l’attitudine di Dino a non dissipare, anzi a coltivare il patrimonio di cultura e conoscenza che buoni studi e una famiglia colta gli avevano lasciato in eredità; e a esercitare  la scrittura in tutte le sue forme, con un’ammirevole capacità di passare, con la medesima padronanza, dal registro del volantino a quello della poesia, dal racconto letterario all’articolo politico.

Uno dei tanti, grandi meriti di Dino fu l’aver colto perfettamente che il senso della “grande storia” può essere colto attraverso le “piccole storie” (solo in apparenza tali) di dominazione, oppressione, discriminazione, umiliazione di una popolazione, di una minoranza, di un gruppo di migranti o rifugiati/e, ma anche nell’infelicità e nei drammi di ciascuno/a dei suoi membri, di ogni migrante, di ogni oppresso/a, di ogni umiliato/a: la vicenda “minore” (si fa per dire) di un profugo o di una profuga, mort* annegat* o soffocat* nella stiva di una nave, può dirci del mondo attuale più di un freddo saggio di geopolitica. Conferire senso e valore politico generale a queste “storie minori”, solo in apparenza tali, equivale, insomma, a cogliere il significato più profondo del presente, dei processi di globalizzazione e di sfruttamento, del neocolonialismo e del razzismo.

Insomma, a caratterizzare Dino era anche, forse soprattutto, la capacità d’immedesimarsi nell’altro/a assumendo lo sguardo della persona palestinese, curda, migrante, profuga, rom…

Così il suo impegno politico assoluto si è sempre intrecciato con la pietas ed è per questo che egli è stato tanto spietato con te stesso, fino alla dissipazione.

Per Dino l’impegno militante era inseparabile dalla sfera esistenziale, la razionalità si sposava con il sentimento e così il linguaggio poetico spesso prendeva il posto del prosaico linguaggio della politica: tante volte, di fronte a eventi drammatici (una strage di profughi, un sopruso poliziesco, un crimine razzista), in luogo del comunicato o del volantino che ci aspettavamo ci accadeva di ricevere da Dino una poesia o un racconto.

 

Io ho avuto la fortuna di conoscere Dino fin dagli anni ’70, quando entrambi vivevamo a Bari, entrambi impegnati nella Nuova Sinistra, sia pure in gruppi diversi: lui in Avanguardia operaia, poi divenuta Democrazia proletaria. E a Bari egli fu anche tra i fondatori dell’associazione Italia-Palestina.

Così io potei constatare da vicino fino a qual punto il suo impegno politico (che era anche solidarietà attiva) fosse tutt’uno con la sua sfera esistenziale e con l’intransigenza etica. Ricordo quando, ancora a Bari, egli fece di tutto per farsi licenziare dalla Biblioteca Nazionale − un posto di lavoro ambitissimo − per il fatto che esso sottraeva troppo tempo al suo impegno politico.

Ma, per soffermarci sul tema centrale, conviene anzitutto ricordare che in Italia un movimento antirazzista in senso proprio si delinea dopo l’assassinio, a Villa Literno, in provincia di Caserta, del bracciante sudafricano Jerry Essan Masslo, ucciso il 20 agosto 1989: in realtà un profugo che, pur fuggito dal Sudafrica dell’apartheid, per la legislazione dell’epoca non aveva diritto all’asilo. Il suo omicidio suscitò grande emozione e indignazione, sicché il 7 ottobre successivo ebbe luogo a Roma una grande manifestazione nazionale antirazzista, cui parteciparono almeno 200mila persone. Il che portò alla riforma della legislazione sull’asilo, fino allora riservato ai cittadini dei Paesi dell’Est.

Il 1989 fu anche l’anno della nascita dell’Associazione SenzaConfine, grazie all’impegno dello stesso Dino e del già citato Eugenio Melandri. D’allora in poi l’impegno antirazzista di Dino fu senza limiti. E SenzaConfine si rinnovò profondamente allorché, nel 1992, entrò in contatto con l’esperienza dell’ex-Pantanella, la fabbrica che fu occupata e autogestita per un anno da migliaia di persone immigrate, fino a duemilacinquecento, sembra.

E fu lui il primo a denunciare e a documentare rigorosamente la vicenda del naufragio di Portopalo, accaduto la notte di  Natale del 1996 e per molto tempo denegato, in cui persero la vita ben 283 migranti. Fu lo stesso Dino, insieme a molt* di noi, a svelare e additare le gravi responsabilità italiane nell’affondamento della nave Katër i Radës, proveniente dall’Albania, il cui speronamento, il 28 marzo del 1997,  da parte di una corvetta della Marina Militare italiana, provocò 108 vittime.  

Una delle cosiddette carrette del mare arrivata a Brindisi con il nome di Dino, scritto in modo impreciso probabilmente dai profughi kurdi, sulla fiancata. La testimonianza esemplare di una speranza di accoglienza fraterna che da decenni viene tradita.

Inoltre, fu anche grazie a Dino se riuscimmo a creare la Rete Antirazzista nazionale, che, per quanto di breve durata (1995-1998), resterà l’unica esperienza, in Italia, di coordinamento fra un gran numero di associazioni di dimensione regionale, provinciale, cittadina, in svariate parti d’Italia.

Ne eravamo portavoce Dino, io e Udo Enwereuzor (che sarebbe stato poi sostituito da Andrea Morniroli). Inizialmente alla Rete aderirono perfino grandi organizzazioni quali la Cgil e l’Arci, le quali, prevedibilmente, se ne allontanarono allorché il “governo amico” (il Prodi-uno) si apprestava a varare la famigerata legge, detta Turco-Napolitano (la n. 40 del 6 marzo 1998) che, tra l’altro, con i CPTA (nominati, con un assurdo eufemismo, Centri di permanenza temporanea e assistenza),  istituiva, per la prima volta in Italia, la detenzione amministrativa per persone immigrate “non regolari”: quale strumentoordinario, non convalidato dall’autorità giudiziaria, dunque, in aperta violazione della Costituzione.

Sin dalla loro apertura i CPT  avrebbero ucciso i loro “ospiti”. A partire dalla notte di Natale del 1999, ne morirono sette in tre giorni, tutti cittadini tunisini: uno, Mohamed Ben Said nel CPT  di Ponte Galeria, dove non avrebbe dovuto essere internato; gli altri arsi vivi nel corso di un incendio  nel CPT   “Serraino Vulpitta”, a Trapani.

Già due anni prima, nel 1997, la Rete antirazzista, prevedendo che la Turco-Napolitano non sarebbe stata quella meraviglia di cui si favoleggiava, elaborò tre proposte di legge d’iniziativa popolare, il cui contenuto ancor oggi appare assai avanzato. Ne elenco sinteticamente i punti essenziali: il trasferimento ai Comuni delle competenze in materia di soggiorno; il riconoscimento del diritto di voto a tutti/e i/le cittadini/e stranieri/e residenti in Italia da almeno cinque anni; la riforma del regime giuridico relativo alla cittadinanza italiana.

Quest’ultima era così concepita: “È cittadino italiano per nascita chi è nato nel territorio italiano, anche se figlio di genitori ignoti, apolidi o stranieri, senza distinzione tra comunitari ed extracomunitari”; “Può acquisire la cittadinanza italiana l’apolide o lo straniero, comunitario o extracomunitario, che risieda ininterrottamente da 5 anni nel territorio italiano”; “Chi ottiene la cittadinanza italiana può conservare quella d’origine'”.

Inutile dirlo: anche grazie alla defezione degli amici/che del “governo amico” (Arci e Cgil, ma anche Rifondazione comunista fu alquanto tiepida) non riuscimmo a raccogliere le firme necessarie; e dunque a impedire il varo di una legge che avrebbe aperto la strada alle aberrazioni della Bossi-Fini.

Dino, intanto, fra i molti impegni politici, aveva sposato anche la causa della liberazione del popolo curdo. A tal punto che quando, tra il 1996 e il 1997, cominciarono ad arrivare sulle coste del Sud d’Italia barconi pieni di profughi curdi, due di essi riportavano sulle fiancate il suo cognome, sia pure scritto in modo impreciso.

Sicché, da membro e fondatore di Azad e di SenzaConfinenel 1998 fu arrestato in Turchia allorché si apprestava a festeggiare con i curdi la festa nazionale del Newroz: cosa che era loro fermamente proibita.

Nelle pagine dedicate al proprio coinvolgimento nelle vicende curde, Dino parla di se stesso in terza persona, usando un tono distaccato, uno stile neutro e oggettivo: “Dino Frisullo è rinchiuso nel carcere speciale di Diyarbakir. Dopo quattro giorni d’isolamento, l’italiano ottiene d’essere trasferito nell’unica grande cella dei detenuti ‘comuni’, comunque tutti kurdi. Ma nonostante due settimane di sciopero della fame non gli sarà consentito di entrare nelle celle che da vent’anni seppelliscono vivi i detenuti politici”.

Incredibilmente (o indegnamente, sarebbe più giusto dire), nel 1998, giusto mentre Dino era recluso nel carcere speciale di Diyarbakir, con l’imputazione di “istigazione alla rivolta per motivi linguistici, religiosi o etnici”, alcun* della Rete Antirazzista pensarono bene di convocarne un’assemblea nazionale: stranamente a Lecco, nel profondo Nord leghista. E lì l’assemblea decise a maggioranza lo scioglimento dell’unico coordinamento antirazzista ampio e unitario che vi sia mai stato in Italia. Il quale aveva praticato un antirazzismo colto, radicale e militante, che riuscì a unificare il massimo di ciò che poteva essere unito, che anticipò di molti anni temi che solo oggi qualcuno scopre come fossero novità assoluta: i migranti quali soggetti esemplari del nostro tempo e la cittadinanza transnazionale, solo per fare un paio di esempi.

Nonostante questo, Dino (con non pochi/e di noi della defunta Rete Antirazzista), tornato in Italia, avrebbe ripreso, con la pervicacia e la generosità di sempre, la sua militanza antirazzista. Il 25 aprile 2003 − poco prima della sua morte, che sarebbe sopraggiunta  il 5 giugno del 2003 − da un letto d’ospedale scriveva un documento contro i CPT, soffermandosi in particolare sull’ignobile vicenda del Regina Pacis, diretto da don Cesare Lodeserto, lui e altri indagati dalla magistratura pugliese per malversazioni e lesioni. Tra gli altri orrori Dino ricorda

quando apprendemmo con orrore che nell’agosto 2001 dodici kurdi erano stati riconsegnati dal Regina Pacis, via Malpensa, ai loro torturatori turchi. Nella primavera successiva riuscimmo a fermare il rimpatrio di altri cento kurdi, ma non di sessanta srilankesi respinti nell’inferno della guerra civile. Ma quant’altre vite sono passate dai centri di Lecce, Foggia, Bari e Brindisi per essere aggregate in un charter o su un traghetto e rispedite indietro, in violazione di leggi e convenzioni e spesso nel totale disprezzo del diritto alla vita?

Ricordo che, nel corso del tempo, almeno fino al 2005, Lodeserto è stato condannato, perfino arrestato, per violenza privata e lesioni aggravate, sequestro di persona e abuso dei mezzi di correzione nei confronti di persone immigrate, recluse in CPT pugliesi.  

Oggi, di fronte allo stillicidio quotidiano di esodi che hanno come epilogo la morte in mare di centinaia di profughi/e o il forzato ritorno alle tragedie e alle persecuzioni da cui hanno tentato la fuga, ci  sorprendiamo a pensare: certo, il frenetico attivismo di Dino non riuscirebbe, da solo, ad aver ragione della nostra debolezza politica e della rozza e feroce arroganza degli imprenditori politici del razzismo.

Eppure quanto ci mancano e quanto ci sarebbero preziosi, proprio in questo momento, i suoi dieci comunicati al giorno e i suoi tanti articoli che arrivavano in ogni redazione e in ogni angolo d’Italia, la sua inflessibile e irritante caparbietà cui nessuno riusciva a sfuggire, il suo ostinato lavoro da vecchia talpa che scova, porta alla luce e denuncia ingiustizie e crimini contro i dannati della terra, la sua capacità di opporre dati, cifre, fatti alle pataccate degli specialisti della xenofobia. Insomma, ciò che può dire chi ha frequentato Dino e con lui ha vissuto fertili stagioni di lotta è che la sua assenza brilla, definitiva e spietata, come un terribile sole senza tramonto, per parafrasare una poesia di Jorge Luis Borges.

 

“Se morissi adesso o fra due giorni o un anno, ecco il mio testamento, il testamento di un comunista.

Avido di conoscenza e d’amore, vissuto e morto povero e curioso.

Lascio tutto il mio disprezzo a chi mi ha usato.

Lascio tutto il mio odio a chi mi ha dato un mondo senza gioia, da attraversare a denti e pugni stretti.

Lascio la nostalgia per le moschee di Gerusalemme e gli ulivi di Puglia ed ogni roccia, pianta, finestra, stella, che i miei occhi hanno accarezzato nel cammino

Lascio fiumi di dolcezza alle donne che ho amato.

Lascio fiumi di parole dette e scritte spesso con rabbia, raramente con saggezza, in malafede mai, un mare di parole che già evapora al vento rovente del tempo.

Lascio a chi vorrà raccoglierlo, il testimone del mio entusiasmo, nella folle staffetta mozzafiato -volgendomi indietro dopo vent’anni non so più se ho corso da solo.

Lascio il mio sorriso a chi sa ancora sorridere

E le mie lacrime a chi sa piangere ancora.

Non è poco. In cambio, voglio essere sepolto senza cippi e lapidi fra le radici di un albero grande in piena nuda terra rossa e grassa perchè il mondo con me respiri ancora e si nutra con me di ogni mia fibra.

Con me (non vi sembri retorica) solo una bandiera rossa

E la nave del Ritorno intagliata con le unghie nella pietra di un prigioniero assetato di vita nel deserto del Neghev”.

da qui






Zorro: un dossier

 

articoli di Fabio Troncarelli, Francesco Masala e Maria Teresa Messidoro per il “giustiziere” che da un secolo ci fa compagnia nelle pagine e negli schermi della cultura popolare

 

Z: 100 anni (almeno) ben portati

di Fabio Troncarelli

Ufficialmente Zorro nasce il 9 agosto 1919 con la comparsa della prima puntata di The Curse of Capistrano (La maledizione di Capistrano) in «All-Story Weekly», una rivista popolare, specializzata in romanzi di avventura, della catena di Frank Munsey cui apparteneva il più celebre dei pulp-magazines, «Argosy». La quarta e ultima puntata dell’opera apparve nello stesso settimanale il 6 settembre dello stesso anno. L’autore del romanzo si chiamava Johnston McCulley ed era un collaboratore assiduo delle pubblicazioni di Munsey. Un anno dopo, il 28 settembre 1920, fu proiettato per la prima volta il film che Douglas Fairbanks e Frank Niblo avevano ricavato dalla storia di McCulley: The Mark of Zorro (Il segno di Zorro). Fu un successo senza precedenti: nel Capital Theater di New York, all’epoca il più grande cinema del mondo, entrarono 19.547 spettatori e prima dell’ultimo spettacolo dovette intervenire la polizia per disperdere la folla che si accalcava davanti al botteghino. L’incasso fu di 11.708 dollari: il più alto guadagno in un giorno dal tempo dei Fratelli Lumières.

Da dove avea tratto ispirazione McCulley?

Per capirlo dobbiamo fare un salto indietro nel tempo, precisamente fino al XVII secolo.

Nel passato si era pensato che il personaggio di Zorro fosse ispirato a vecchi fuorilegge californiani: Domingo Hernández, Salomon Pico, Tiburcio Vázquez, Joaquín Murieta, Jack Powers. Nessuno di questi banditi feroci e violenti è però simile all’onesto e leale Zorro. L’eroe era un gentiluomo e non viveva alla macchia: non può essere confuso con un brigante, anche se nella fantasia popolare il fuorilegge può avere un carattere idealizzato. Neppure va confuso Zorro con un personaggio come la Primula Rossa, profondamente reazionario, perchè il nostro eroe è animato da ideali democratici ed è soprattutto, in embrione, un capo rivoluzionario come Zapata, pur essendo di origini aristocratiche.

Il modello per l’eroe mascherato di McCulley è stato in realtà William Lamport, un avventuriero irlandese che si fece chiamare Guillén Lombardo, la cui storia è stata scoperta solo recentemente (fabio Troncarelli, La spada e la croce. Guillén Lombardo e l’Inquisizione in Messico, Roma, ed. Salerno, 1999). Lamport nacque in Irlanda, a Wexford, intorno al 1615. Coltissimo, esuberante, spregiudicato, dopo una vita avventurosa fra i campi di battaglia e le alcove delle dame della nobiltà, emigrò in Messico. Arrestato nel 1642 e processato dall’Inquisizione per stregoneria e per aver ordito una congiura “per divenire re del Messico”. Con l’aiuto di cinquecento armati, Lombardo voleva impadronirsi del potere e affermava di voler liberare tutti gli schiavi neri e gli indios dall’oppressone degli spagnoli e di voler liberalizzare i commerci con tutte le nazioni, rompendo con il protezionismo imposto dalla Spagna. Il progetto non era impossibile: il Portogallo si era reso indipendente dalla Spagna nel 1640 e anche le colonie come il Brasile si staccarono dalla Spagna. Lamport fu lasciato per molti anni in prigione senza una sentenza. I testimoni del processo lo descrivevano come un avventuriero ambizioso, dedito all’astrologia e alla magia, avido di apprendere i segreti del peyote dagli stregoni indios. Lamport a sua volta si proclamava di nobile origine e innocente. Nel 1650 riuscì a evadere con una fuga spettacolare. Invece di andare lontano, l’uomo rimase a Città del Messico e inondò la città di “pasquinate” contro l’Inquisizione, che vennero affisse nottetempo sulla porta della cattedrale e sui muri delle strade. Lo scandalo fu enorme anche perché era la prima volta che venivano svelate pubblicamente le malefatte del tribunale avvolte deliberatamente nel più minaccioso mistero. Tradito da un suo complice, Lamport fu ripreso. La sua prigionia fu orribile. E tuttavia, nonostante le torture fisiche e psicologiche e i tentativi di assassinio, Lamport riuscì a scrivere, di nascosto, usando il nerofumo della candela sciolto in acqua come inchiostro; lenzuola, bende, cartine per preparare i sigari come carta. Compose magnifici Salmi, in latino e altrettanto magnifiche orazioni contro l’Inquisizione in spagnolo e latino, quasi follemente convinto di poter far conoscere al mondo intero le sue opere. Al contrario di quello che avvenne a Campanella che fu liberato dopo una lunga prigionia e pubblicò i libri che aveva scritto in carcere, Lamport fu alla fine portato al patibolo e le sue opere furono gelosamente “custodite” dagli Inquisitori.

Ma l’avventurierio irlandese riuscì lo stesso a sopravvivere. I suoi versi, i suoi scritti parlano in suo nome e ci rivelano un uomo a dir poco straordinario, una sorta di Giordano Bruno emigrato in Messico, che descrive con grande vigore visioni, lancia anatemi, profezie contro i potenti e afferma, scandalosamente, che i popoli sono liberi di scegliere da soli il loro re, che la Spagna non ha mai avuto diritto di assoggettare gli indios, che l’Inquisizione è il regno di Satana.

La sua storia, mormorata di nascosto, di bocca in bocca attraversò i secoli. Il personaggio divenne leggendario: un vendicatore degli oppressi che operava in segreto e beffava l’Inquisizione. Nella fantasia popolare Guillén Lombard era l’eroe che colpiva nelle tenebre, che sfidava e ridicolizzava l’Inquisizione e che voleva proclamarsi re per liberare gli indios e gli schiavi negri.

Vicente Riva Palacio

Il Generale Vicente Riva Palacio conobbe da bambino, intorno al 1840, la storia di William Lamport. Cercò di conoscere i dettagli ma non riuscì a sapere molto di più di tradizioni leggendarie. Dopo aver combattuto con successo contro Massimiliano, occupata Città del Messico, il Generale si impadronì dei registri dell’Inquisizione. In essi trovò gli atti di processi celebri e l’ispirazione per novelle e racconti: grande ammiratore di Alessandro Dumas, scrisse romanzi-fiume che aveano per protagonisti eroi picareschi e coraggiosi che sfidavano l’Inquisizione. Uno di loro, svelto di mano e di spada, re dei travestimenti e delle burle, è Martin Garatuza detto el Zorro, la volpe.

Scartabellando le carte in suo possesso il Generale scoprì con viva trepidazione di avere trovato quello che aveva cercato tutta la vita: il processo di William Lamport. Nel 1872 scrisse il suo migliore romanzo e in seguito – affascinato dalla ricchezza della storia rispetto alle invenzioni della fantasia – gettò alle ortiche la narrativa e cominciò a scrivere libri di storia, in cui narrò l’epopea millenaria del suo Messico.

Nelle Memorie di un impostore Lamport, chiamato Lampart, è un uomo dalla doppia vita che di giorno fa il gentiluomo e di notte frequenta una società segreta per sconfiggere l’Inquisizione. Il miglior amico di Lampart si chiama don Diego e anche lui ha una doppia vita. I due lavorano in coppia e quando si scatenano nessuno riesce a frenarli.

Il romanzo segue da vicino la storia di Lamport-Lampart, introducendo a volte brani autentici del processo nel corso della narrazione. Tuttavia l’insieme è frutto della fantasia dell’autore, che fa del suo personaggio un rivoluzionario in cerca della libertà ma anche una specie di Don Juan alla ricerca dell’amore puro.

Lampart è un eroe illuminista e romantico al tempo stesso: un massone che sembrerebbe vittima dell’oscurantismo della Chiesa e un giovane che sembrerebbe vittima dell’aridità del cuore, se non riuscisse, con un ultimo guizzo, a salvarsi come Faust dalla dannazione, riscoprendo la parte più profonda di sè.

La salvezza sta nel saper trovare il principio vitale, la scintilla divina che c’è in noi, che nessuna forza può estirpare. Questa soluzione è anticipata da un evento che assume carattere simbolico: l’eroe fugge dalla prigione piegando il corpo a forma di “Z” per adattarsi alla apertura di una finestra dalla forma veramente strana. La scelta della Z come simbolo di salvezza non è casuale. Riva Palacio era massone e per i massoni la Z – abbreviazione della forma semitica “Ziza”(splendente) – è simbolo della energia vitale. La Z iscritta nella stella fiammeggiante o Pentagramma è per i massoni il simbolo del genio capace di innalzare gli uomini a nobili e grandi imprese.

E’ questo il messaggio più profondo dell’opera. Anche se alla fine l’eroe muore in una romantica aura di dannazione, il suo cuore non morirà e sarà sempre vivo nei cuori degli uomini.

Il romanzo del massone Palacio arrivò al masssone Johnston McCulley, appassionato di storia e di romanzi storici sin da bambino e specializzato in letture sull’epoca coloniale messicana. E’ verosimile che McCulley conoscesse la storia di Lamport anche da due altre fonti pubblicate nel 1908: dal libro di González Obregon sulle rivolte degli indios e dal volume di Lea sull’Inquisizione coloniale, che ebbe molto successo a New York, dove lo scrittore aveva fatto il giornalista e dove Lea era stato propretario di molti autorevoli giornali. Tuttavia il romanzo di Riva Palacio era il modello più famoso e aveva buone speranze di essere portato sullo schermo visto che Enrique Castilla e Ladislao Cortés avevano realizzato negli anni dieci in Messico un film molto applaudito, tratto proprio da una storia di Riva Palacio, che raccontava la fosca vicenda di un diabolico spadaccino vissuto negli stessi anni di Lamport, Don Juan Manuel (1919).

McCulley saccheggiò senza complimenti i romanzi storici di Palacio, ripescando il soprannome di Zorro dal Martín Garatuza ma ispirandosi fondamentalmente alle Memorias de un impostor. Ridusse i complicati intrighi del messicano ai meccanismi più elementari del romanzo d’azione. Spostò l’ambientazione da Città del Messico del XVII secolo alla California spagnola del XVIII-XIX secolo. Sfrondò i dialoghi e le descrizioni. Ma comprese il significato del simbolo della massoneria e ne fece la chiave di volta di tutta l’attività del suo eroe. Il fine ultimo del cavaliere dalla doppia vita è imprimere la “Z” su tutte le cose. Il lettore pensa che sia l’iniziale del nome. Ma l’iniziato ai misteri sa che è il simbolo della Luce che sconfigge le Tenebre.

Johston Mc Culley

McCulley era venuto su dal nulla o quasi, visto che i suoi unici titoli di merito erano avere fatto il free-lance a New York, l’inviato speciale per chi pagava meglio e il reporter per una rivista popolare ai limiti del Canard, specializzata in orribili delitti e oscuri rapimenti, la Police Magazine. Nel 1908 aveva avuto il coraggio di dare un calcio a tutto e buttarsi nella narrativa con The Land of the last hopes apparso proprio su «All-Weekly» del provvidenziale, frugale, geniale, munifico Munsey, l’uomo che aveva lanciato Tarzan e i racconti marziani di Edgar Rice Burroughs. Ottenuto il successo e il primo contratto serio della sua vita, decise di dedicarsi full-time alla narrativa pulp, sfornando un racconto dopo l’altro e svariando, con disinvoltura pari all’incoscienza, dalla detective story al romanzo in costume.

McCulley era un uomo diviso da un aspro conflitto e in fondo somigliava a Burroughs, il creatore di Tarzan: aveva un cuore primitivo, romantico, ribelle, sepolto vivo, scorticato vivo dalla brutalità dei Tempi Moderni. Come per Stevenson con Il Dottor Jekill e Mister Hyde o Mary Shelley con il dottor Frankestein e il Mostro, il conflitto interiore si materializzava all’esterno nello scontro selvaggio fra due individui, l’uno l’opposto dell’altro, l’uno la metà dell’altro, l’uno lo specchio dell’altro. Continuamente nei romanzi di questo autore che finge di essere uno scrittore di evasione affiora il tema del sosia, del doppio, dell’alter ego inquietante e inafferrabile che muore, risorge e si moltiplica in un duello senza fine con la sua ombra. Questa presenza diabolica, pur derivando da Poe e Hawthorne e dalla letteratura tardo-romantica, si colora di una sfumatura personale quando McCulley trova il coraggio e la forza di rivelare la propria angoscia e di confessare che il conflitto lo spinge ai limiti della follia. In uno dei suoi romanzi più intensi, Captain Fly-by-Night (1915) il protagonista, scambiato a torto con il suo doppio malvagio, subisce una particolare punizione: nessuno gli parla più e tutti fingono di non vederlo. Invisibile, muto, sordo l’uomo vaga per la città in preda a uno sgomento senza nome, incerto se la sua è un’allucinazione o un incubo, un incubo espressionista. La forza vitale, tutta americana, di McCulley trasformerà quest’esperienza drammatica da bruciante sconfitta in trionfo: la giustizia viene ripristinata e il doppio malvagio viene punito per aver cercato di usurpare l’identità dell’eroe

Tra riformismo e rivoluzione

McCulley è il poeta della rivincita e i suoi personaggi sono spesso individui simili a Zorro. Uno stesso tipo di eroe dalla doppia personalità è il protagonista di Captain-Fly-by-Night, romanzo che ebbe un grande successo nel 1915. Nel corso della vicenda si fronteggiano due personaggi che sono l’uno l’opposto dell’altro: da una parte vi è un avventuriero che ha preparato la rivolta degli indios contro bianchi della California; dall’altra vi è un gentiluomo, leale al governatore della California e pronto a battersi contro gli eccessi dei rivoltosi. Con uno spettacolare colpo di scena si scoprirà solo alla fine che l’avventuriero era in realtà il gentiluomo, travestitosi per smascherare i ribelli e che il gentiluomo era l’avventuriero, travestitosi a sua volta per cogliere di sorpresa i suoi avversari e farsi proclamare re dagli indios. L’esito finale è ovviamente a favore del gentiluomo, che salva la sua bella dalle grinfie dell’avventuriero e la California dagli artigli dei rivoltosi. Ma questo happy end in ossequio alle convenzioni del genere non riesce a dissipare i dubbi angosciosi che hanno assalito il lettore.

Il primo dubbio è che la società dei bianchi sia in realtà crudele, dispotica, tirannica e pronta a condannare alla morte civile chiunque non rientri nei suoi schemi: il povero gentiluomo, nei panni dell’avventuriero, rischia la vita per colpa dei pregiudizi e dell’ottusità di coloro che difende lealmente. Anche se non lo dice espressamente, viene il fondato sospetto che pensi: “Gente simile non vale la pena aiutarla!”.

Il secondo dubbio, che scaturisce dal primo, è che la rivolta degli indios in fondo non sia del tutto sbagliata. McCulley dà voce ai reietti che narrano con parole accorate i maltrattamenti e le crudeltà dei bianchi e la loro spietata gestione del potere: queste parole sono così convincenti che per un attimo il lettore è preso da un sentimento di sacrosanta indignazione, piuttosto inconsueto per il romanzo di avventure e certamente estraneo ai canoni della letteratura western del tempo, nella quale gli indiani devono solo cadere come birilli sotto i colpi della colt o del winchester. Gli indios di McCulley hanno una fierezza paragonabile a quella dei Mohicani di Fenimore Cooper, ma anche qualcosa di più del suo romanticismo oleografico. Simili al cane del Richiamo della foresta di Jack London, essi sono l’incarnazione di un’energia primordiale che i bianchi non possono frenare, figli di nessuno, senza nome e senza dignità, che contrappongono la forza bruta a una sedicente civiltà fondata sulla violenza. La loro rivolta è destinata al fallimento perchè è la ribellione degli angeli, che non potranno mai riscattarsi: tuttavia, nella loro cupa, selvaggia, solitaria spinta all’annientamento vi è una grandezza prometeica che non può essere dimenticata.

Queste idee sono sintetizzate in un altro romanzo di struttura assai simile, The Caballero (1936) scritto alcuni anni dopo, che ha come protagonisti il nobile Don Fernando e il Coguaro, bandito indio dall’animo buono e pronto alla lotta. La violenza dei bianchi potrebbe scatenare una rivolta dei peones e degli indiani, ma le sue conseguenze sarebbero funeste anche perchè il capo dei rivoltosi è un uomo crudele. Don Fernando, che un tempo era un nobile superbo e che una giusta espiazione ha reso più umano e consapevole, diviene un “doppio rinnegato” contro la sua classe e contro i rivoltosi. Prendendosi la sua responsabilità, l’uomo riesce a sedare una ribellione che porterebbe solo distruzione, pur restando amico dei ribelli di cui sa comprendere le ragioni. «La rivolta – dice Don Fernando – sarebbe sbagliata… un male! Per punire pochi uomini ingiusti si dovrebbe fare la guerra a tutti. E’ stato già tentato altre volte e il risultato è sempre stato un fallimento. La cosa migliore è che i buoni e i giusti si uniscano e rendano migliore la vita dei peones e degli indiani e questo avverrà presto. Se ci fosse una rivolta adesso tutti direbbero che i peones e gli indiani non sono pronti per essere trattati da uomini civili…». Il Coguaro comprende il senso delle parole del suo amico e dice con tristezza: «Così noi continueremo a rimanere nelle nostre sofferenze … E’ una cosa penosa, amigo, rinunciare a ogni speranza». Ma il “doppio rinnegato” lo consola: «No, Coguaro, non si deve rinunciare alla speranza! Le condizioni possono cambiare. Con il tempo. Cambiare per il meglio. Senza bisogno di fare guerra, di spargere sangue…».

La soluzione giusta sono le rifome sociali e l’egualitarismo della vera democrazia che consentono di imbrigliare la rivolta e dare uno sbocco costruttivo alla rabbia distruttiva che fa morire Sansone con tutti i Filistei. Ma perchè un simile progetto possa attuarsi, perchè possa esserci convivenza tra bianchi e indios, fra poveri e ricchi, bisogna comprendere dal di dentro le ragioni morali della rivolta e non avere paura della fame di giustizia dei diseredati. Non a caso il personaggio “negativo” dell’avventuriero che guida la rivolta degli indios in Captain-Fly-By-Night verrà ripreso in chiave “positiva” da McCulleuy trasformandosi in Zorro: ambedue hanno alle spalle la figura ambigua e affascinante dell’avventuriero William Lamport, che nel XVII secolo cercò di divenire re del Messico e liberare gli indios e gli schiavi neri dalla tirannia della Spagna.

Questa ripresa dello stesso modello per descrivere personaggi opposti ci introduce al problema sollevato dal terzo dubbio che attanaglia il lettore di Captain-Fly-By-Night: viene da chiedesi se l’avventuriero e il gentiluomo – così diabolicamente abili nell’essere ognuno l’opposto di sè stesso – non siano in fondo due facce della stessa persona. In definitiva è solo il colpo di scena finale che trasforma uno di due nel “buono” e l’altro nel “cattivo” ma durante tutto il romanzo le loro qualità sono state così abilmente dissimulate da non risultare affatto visibili. Questo pezzo di bravura dello scrittore non è solo un efficace espediente per tenere desta l’attenzione di chi legge: più o meno incosciamente, avvertiamo la difficoltà di identificarci con un solo protagonista e la labilità del confine tra bene e male nel cuore del singolo, così come avevamo avvertito la labilità fra civilizzazione e barbarie nella collettività.

McCulley è un appassionato idealista mascherato da bruto, com’era un grande idealista Bourroughs e come in fondo lo era colui che pubblicava i suoi libri, il grande editore Munsey. Schivo e autoritario è stato descritto da molti come un uomo di ghiaccio, un affarista, un cinico giocatore interessato solo al denaro e al successo. Invece questo puritano solitario e silenzioso, che aveva appoggiato prima la lotta contro i monopoli dei repubblicani di Roosevelt e poi addirittura i democratici se volevano la giustizia e non si accontentavano delle idee astratte di Wilson, aveva consacrato la sua esistenza a un ideale e solo quello: il culto del pubblico, il rispetto per i milioni di americani senza averi e senza dignità, che avevano diritto alla felicità, uno per uno, come avevano detto solennemente i padri della patria. Contro la tirannia dei grandi proprietari, questo chierico laico, “milionario proletario” aveva concepito il suo lavoro come un sacerdozio contro l’aristocrazia. Anche il cow boy doveva leggere. Anche l’operaio aveva il diritto di sentirsi protagonista di un’avventura L’uomo comune aveva il diritto di sognare.

Un simile ideale comportava la lotta contro la logica brutale del capitalismo selvaggio e contro il suo cinismo; ma ciò significava attaccare i propri pari e il sistema stesso che aveva permesso a un outsider come Munsey di emergere.

Il segno di Zorro

A suo tempo William Lamport suscitò speranze messianiche nel popolo. Ma anche in seguito. Il Lampart di Riva Palacio vuole restaurre il mitico regno di Anáhuac (V. Riva Palacio, Memorias de un impostor, México, Porrúa, 1994, pagina 131). Lo Zorro di McCulley fa nascere negli oppressi la speranza di una rivoluzione che somiglia a quella di Zapata (J. McCulley, La Maschera di Zorro, Milano, Mondadori, 1998, pag 197: «Verrà il giorno in cui le persecuzioni finiranno…Verrà il giorno in cui chi ha fondato queste missioni raccoglierà il frutto del lavoro e del coraggio, invece di vederseli rubare dai politici corrotti… Verrà il giorno in cui ci saranno mille uomini come Zorro e anche più»).

Questo filone “rivoluzionario” coesiste, sin dalle prime apparizioni di Zorro nella letteratura con un filone “riformista”.

Tanto il Lampart di Riva Palacio che lo Zorro di McCulley sono, in accordo con la migliore tradizione massonica, in sostanza due illuministi sotto mentite spoglie, emuli di Salomone, il maestro di sapienza che nella tradizione massonica lotta contro le tenebre dell’ignoranza edificando il nuovo Tempio di Gerusalemme, il mondo nuovo dove la Giustizia e la ragione trionferanno per sempre. Il nome di Zorro, che senza dubbio significa volpe in spagnolo, può essere letto anche in un’altra chiave, pronunciandolo all’americana “Zoro”, come diminutivo di Zorobabel, il restauratore del tempio di Salomone dopo l’esilio di Babilonia: non a caso è così che lo chiamò lo stesso McCulley nel titolo del romanzo successivo alla Maledizione di Capistrano, che al momento della sua pubblicazione su «All Weekly» s’intitolava The further adventures of Zoro (poi cambiato dall’autore in Zorro). Questo personaggio ha una grande importanza nella massoneria di rito scozzese: è colui che sopraintende alla costruzione simbolica del Tempio ed è patrono nel rito per conseguire il Quindicesimo Grado dell’iniziazione, quando si diviene Cavaliere della Spada , colui che oltre agli strumenti di lavoro del muratore stringe in pugno anche la spada per combattere i nemici. Invocando il nome di Zorro, il cavaliere con la spada, si evoca anche quello di Zorobabel, il costruttore del Tempio e protettore del Cavaliere con la Spada massonico: cioé colui che cerca di realizzare un mondo ideale e perfetto, nel quale siano banditi ignoranza e pregiudizio e trionfino la ragione e la cultura. Nonostante l’apparenza, Zorro non è un semplice uomo d’armi e d’azione: ma un eroe che ricorre alla forza e alla spada per affermare la cultura e la saggezza. E del resto Don Diego e La Vega non si lamenta di continuo perchè, in un’epoca di turbamento, nessuno ascolta più la musica o legge i poeti ?

Al di là delle connotazioni politiche, il mito di Zorro ha una valenza antropologica che non possiamo trascurare.

L’attrattiva di Zorro per il lettore e per lo spettatore dipende dal fatto che pur essendo un cavaliere senza macchia e senza paura al di fuori del mondo moderno, un personaggio “arcaico” come Robin Hood, presenta invece aspetti decisamente moderni come la scissione fra due parti della stessa personalità e una violenta carica antiistituzionale che si trasforma, alla prova dei fatti, in un atteggiamento egualitario e democratico. Queste componenti moderne non permetterebbero all’eroe di avere successo e anzi sarebbero addirittura ostacoli contro nemici troppo forti. Ma Zorro riesce a ritrovare un’unità proprio perchè non cerca di sanare sbrigativamente le sue scissioni, non pretende di essere un duro e si comporta con intelligenza trasformando la debolezza in forza: anzi, per essere più precisi, la forza di Zorro sta proprio nella sua debolezza. Come Ulisse di fronte al Ciclope, egli riesce finalmente a essere qualcuno perchè il suo nome è “nessuno”. Psicoanaliticamente si potrebbe dire che accettando l’esistenza di parti scisse, senza pretendere di riunirle forzatamente, l’eroe riesce a trovare una unità psicologica altrimenti precaria: il suo destino è di essere l’eroe della complessità e non un individuo tutto d’un pezzo, l’uomo senza qualità che trova l’armonia nella disarmonia.

Per merito dello stesso processo mentale anche la sua carica violenta e distruttiva riesce a incanalarsi e a divenire costruttiva. Saper accettare la propria doppiezza: questo il segreto di Zorro e questa la profonda ragione del suo fascino.

 

 

Il mio Zorro su piccolo (e grande) schermo

di Francesco Masala

Per me Zorro e il sergente Garcia (e Bernardo, naturalmente) sono quelli delle decine e decine di telefilm che la televisione trasmetteva dal 1966 (QUI un episodio) con un po’ di anni di ritardo rispetto alla versione originale: il primo amore non si dimentica mai.

Noi bambini interrompevamo qualsiasi gioco, come una tregua, e tutti ci fermavamo a guardare le avventure di Zorro, magari insieme a casa di qualcuno, non tutti avevano la televisione.

Ascoltare la canzone della sigle iniziale – QUI la sigla in italiano (e QUI la sigla in inglese) – era un’emozione indescrivibile, che ci portava in un mondo altro, dove il nostro eroe vinceva sempre.

Poi ho saputo che ci sono state una serie televisiva statunitense del 1990 (qui) e una serie animata francese (QUI un episodio, su Rai Gulp dal 2016) ma non so niente di queste: so di non sapere.

Al cinema, invece, tra i film che si trovano in rete, possiamo citare, del 1920, “Il segno di Zorro” (The Mark of Zorro) è un film muto con Douglas Fairbanks 

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ma anche il successivo (1940) “Il segno di Zorro” di Rouben Mamoulian, con Tyrone Power, il più famoso di tutti i film su Zorro

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e il bellissimo – almeno per chi l’ha visto da bambino – “I nipoti di Zorro” con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia

QUI

 

 

Zorro latino americano

di Maria Teresa Messidoro (*)

Conoscere il personaggio attraverso gli occhi dei latinoamericani, possibilmente donne. E anche il cinema cambia occhiali, creando uno Zorro femminile.


Partiamo dall’inizio, da un evento senza il quale Diego de la Vega non sarebbe mai nato. Tutto cominciò in Alta California, nella missione di San Gabriel, nell’anno 1790 di Nostro Signore. A quel tempo la missione era guidata da padre Mendoza, un francescano con spalle da boscaiolo e un aspetto più giovanile dei suoi quarant’anni ben spesi, energico e autoritario, per il quale la parte più impegnativa del ministero era mettere in pratica la lezione di umiltà e bontà di san Francesco d’Assisi. …”

 

Comincia così Zorro, L’inizio della leggenda di Isabel Allende (1).

Il romanzo si inserisce nel filone del realismo magico, tipico della Allende, presentandosi come il racconto dell’antefatto degli eventi comunemente conosciuti della storia di Zorro, sia cartacei che attraverso le pellicole cinematografiche.

Innanzitutto – per la Allende – Zorro è un meticcio, figlio di un capitano delle Asturie e di una guerriera amerindia Toypurnia. Inviato a Barcellona dal padre per completare la sua educazione, Diego De la Vega, nella città occupata dall’esercito francese napoleonico, agli inizi del 1800, scopre l’amore e la sua innata repulsione delle ingiustizie.

Dopo la sconfitta francese, De la Vega ritorna in California, deciso a combattere contro il tiranno Don Rafael Moncada, in difesa dei californiani, contro i soprusi dei nobili, padroni delle terre. Per fare questo, utilizzando quanto appreso durante il suo soggiorno in Spagna, diventerà Zorro, sempre aiutato dal fedele amico d’infanzia Bernardo, divenuto muto dopo aver assistito alle violenze contro la madre, terminate con il suo assassinio, e da Tornado, il fido cavallo.

Desidero che Zorro sia il fondamento della mia vita, Bernardo. Mi dedicherò a combattere per la giustizia e ti invito ad accompagnarmi. Insieme ci moltiplicheremo per mille, confondendo i nostri nemici. Ci saranno due Zorro, tu ed io, ma nessuno li vedrà ma insieme.”

Originale il personaggio della nonna di Zorro, Civetta Bianca, una sciamana, guida spirituale della sua tribù; grazie a lei Diego De la Vega scoprirà che il suo totem, il guardiano spirituale, sarà la volpe.

«Lo zorro, la tua volpe, ti ha salvato. E’ il tuo animale totemico, la tua guida spirituale» spiegò. «Devi sviluppare la sua abilità, la sua astuzia e la sua intelligenza. La luna è tua madre e le grotte sono la tua casa. Come la volpe, avrai il compito di scoprire ciò che si cela nell’oscurità, dissimulare, nascondendoti di giorno e agendo di notte»”

Come sostiene Chiara Nicolazzo nella sua recensione al libro della Allende, l’autrice riesce a dare una prospettiva più ampia al personaggio Zorro, “… regalando al lettore la possibilità di capirlo per davvero, di entrare nel suo cuore e di condividere le sue azioni. Leggendo delle sue origini, questo eroe diventa, in qualche modo, necessario” (2).

 

Zorro è necessario, nella cultura latinoamericana, anche per riprendere alcuni personaggi realmente esistiti: Joaquín Murieta e Guillén Lombardo (3)

Joaquín Murieta diventa famoso suo malgrado.

Alla metà del 1800, precisamente nel 1848, gli Stati Uniti invadono il Messico, sottraendogli il 55% delle sue terre: Texas, California e New Messico vengono annessi al già potente paese nordamericano, che inizia lo sfruttamento delle risorse minerarie della zona.

Inizia l’epoca delle Febbre dell’Oro. Il giovane Murieta viveva come tanti in California, insieme a sua moglie, per trarre il massimo profitto dalla industria mineraria. Ma durante uno strano scontro armato vicino a casa sua, perde la vita la sua sposa, probabilmente vittima di una ondata di ostilità contro gli immigranti latini. Da quel momento, Murieta si trasforma, lanciandosi in una serie di attacchi e saccheggi per vendicarsi..

Inizia a trasformarsi per i messicani in una specie di Robin Hood, diventando un mito, che ancor oggi vive, considerato un simbolo della resistenza messicana contro l’invasore bianco.

Murieta darà vita a quella banda che passerà alla storia come la “Banda de los Joaquines”, composta da 5 suoi seguaci: Joaquín Botellier, Joaquín Carrillo, Joaquín Ocomoreña, Joaquín Valezuela, a cui si aggiungerà la sua ombra, Manuel García, Jack Tres Dedos.

Per sconfiggerli, il Congresso della California dovrà formare un corpo speciale, i California Ranger.

Ci riusciranno nel 1853, quando Murieta verrà assassinato.

 

Secondo alcuni, questo Joaquín ha ispirato il personaggio di Zorro a scrittori e cinematografi: resta il fatto che per i messicani, e per tutti latino americani, questo eroe popolare a cavallo non combatte contro la Corona spagnola ma contro gli odiati Stati Uniti.

E non è poco.

Guillén Lombardo, invece, era un irlandese giunto in Messico nel 1640, al tempo della Colonia. Probabilmente agente al servizio degli spagnoli, ad appena 25 anni, è già conosciuto come un valoroso spadaccino; coinvolto in una serie di scandali con alcune donne dell’alta società locale, attira su di sé l’attenzione dell’Inquisizione, che l’accusa di stregoneria, ma soprattutto di cospirazione.

Perché, secondo la leggenda, ben presto Lombardo si era lasciato sedurre dalle mire separatiste locali. Ed infatti, quando venne arrestato, tra i suoi effetti personali, l’Inquisizione troverà un libretto dal titolo inequivocabile: “Proclama por la liberación de la nueva España de la sujeción a la Corona de Castilla y sublevación de sus naturales”.

E sempre secondo la leggenda creatasi intorno al suo personaggio, durante gli anni di carcere, Lombardo si distinguerà per la sottigliezza dei suoi argomenti libertari, contro l’imposizione della Corona e per il riscatto dei messicani, e latinoamericani in genere.

Dopo un tentativo di fuga, viene ripreso e bruciato sul rogo nel 1659.

Quando nel 1870, lo scrittore messicano, Vicente Riva Palacio, riprende la sua storia, racconta che i suoi seguaci erano soliti collocare per terra il simbolo “Z”.

 

 

 

E soltanto alcuni mesi fa, lo scrittore messicano Gonmzalo Lizardo pubblica il romanzo storico “Memorias de un basilisco” (4)dedicato a questo poeta e rivoluzionario, ardente indipendentista, bruciato ingiustamente dalla terribile Inquisizione.

 

Lombardo non è più un estraneo, un irlandese al servizio della Corona.

E’ un messicano tra i tanti, paladino dei più deboli.

Come Zorro.

Anzi come il novello Zorro al femminile.

Perché indiscrezioni recenti ci parlano di una nuova serie cinematografica, diretta da Alfredo Barrios Junior, con i produttori Ben Silverman e Howard Owens, della Propagat, in cui apparirà una discendente di Zorro, Sola Dominguez, una artista underground dei giorni nostri, che lotta contro le ingiustizie ed è costantemente minacciata dalle varie organizzazioni criminali di cui sventa i piani.

Non sappiamo se questa scelta è frutto o meno del empoderamiento de las mujeres  – la riappropriazione del potere da parte delle donne (5) – ma resta il fatto che anche i difensori dei diritti umani vestono oggi da donna, come la realtà latinoamericana insegna.

Per piacere, non chiamiamola Zorra, saremmo attaccati di maschilismo. (6)

Note.

1.      Zorro, l’inizio di una leggenda, Isabel Allende, Feltrinelli, …..

2.      https://ilmiomondoinventato.com/2017/05/26/zorro-di-isabel-allende/

3.      http://ntd.la/la-verdadera-historia-de-el-zorro/

4.      Nei bestiari e nelle leggende greche ed europee, il basilisco è una creatura mitologica, detta anche re dei serpenti, che ha il potere di uccidere o pietrificare con un solo sguardo diretto negli occhi.

5.      Normalmente detta Women’s Empowerment, ma una latinoamericanista come sono io non può ricorrere alla lingua inglese, giammai.

6.      Zorro è un uomo astuto, zorra è invece una prostituta. Come fulano è un tizio qualsiasi, ma fulana è una donna di malaffare… Perché in spagnolo almeno 50 parole al maschile denotano qualità positive ed al femminile servono per indicare le prostitute..” Scriveva Calra Ferrero nel 2015 in questo articolo sul linguaggio sessista https://smoda.elpais.com/moda/por-que-ser-una-zorra-es-malo-y-ser-un-zorro-es-bueno-y-otros-ejemplos-del-lenguaje-sexista/

(*) Vicepresidente Associazione Lisangà culture in movimento, www.lisanga.org

DUE NOTICINE DELLA “BOTTEGA”

§  Anche in italiano «zorra» (o «zora») ha un significato dispregiativo. Ma su questo torneremo prossimamente … restate sintonizzati sulla “bottega”.

§  Come colonna sonora per questo dossier è vivamente consigliato «Zorro», il recente cd del Francesco Bearzatti Tinissima 4et: sono 37 minuti travolgenti con Bearzatti (sax, clarinetto, flauto indiano), Giovanni Falzone (trombe varie e flicorno), Danilo Gallo (basso e chitarre), Zeno De Rossi (batteria, fischio e percussioni). Per saperne di più: www.CamJazz.com

http://www.labottegadelbarbieri.org/zorro-un-dossier/