È bastato un emendamento alla finanziaria per un'imposta sui patrimoni sopra i 500 mila euro per scatenare l'allarme in difesa del «ceto medio». La tassa toccherebbe il 6% della popolazione che detiene il 45% della ricchezza.
Ealla fine arrivò la
patrimoniale. In un annus horribilis non
poteva mancare il fantasma più terrificante. Galeotto un emendamento
alla finanziaria che, assieme ai parlamentari del gruppo di
Liberi e Uguali registra firme «pesanti» di diversi esponenti del Partito
democratico, tra cui l’ex presidente e compagno di Playstation di Renzi, Matteo
Orfini.
Ispirata alle misure
annunciate dal governo spagnolo pochi mesi fa, la proposta
è riuscita a compattare contro di sé non solo tutto il resto della maggioranza,
ma anche le opposizioni. Chissà com’è, basta la vaga idea di spostare appena il
peso fiscale dalle spalle dei lavoratori a quelle dei più ricchi per
ricompattare quasi tutto l’arco parlamentare. Dal segretario Dem un tempo
tacciato di «corbynismo» (che chiarisce
immediatamente si tratti di «una iniziativa libera ma
individuale di alcuni deputati del Pd, che però non impegna il gruppo»), alla
destra «populista», che dovrebbe rappresentare il «popolo» abbandonato dalla
«sinistra», passando ovviamente per il grande centro, dove si affollano Italia
Viva, un Di Maio desideroso
di meritarsi il bacio di
Brunetta, e Forza Italia, che per alcuni è già parte della
maggioranza.
La colonna sonora di questa commedia romantica è più
scontata della trama: la grande stampa italiana, come al solito monopolizzata
dai maître à penser del
liberismo de noantri, tuona all’unisono contro l’iniziativa. Se la Stampa sbatte Alessandro De
Nicola in prima pagina (Le mani dello Stato
sui nostri portafogli, fantasioso quasi come la Adam
Smith Society di cui è presidente, ben al di sotto dei picchi creativi
sfoggiati in difesa di Feltri jr.), il Corriere si concede la sciccheria di
includere nel suo inserto economico Alberto Mingardi. Senza parlare
direttamente della patrimoniale, il direttore generale dell’Istituto Bruno
Leoni (celebre per il «contatore del debito pubblico» italiano e per lo
sfacciato negazionismo
climatico) ci spiega che l’aumento delle disuguaglianze sarebbe
una mera «illusione ottica». In ossequio alla sua proverbiale eleganza,
Mingardi lo fa omettendo qualsiasi riferimento a dati, grafici, o altre
volgarità tipiche di noi sgraziati materialisti storici.
Del resto, chissà com’è, quando si arriva a parlare di
tassare i più ricchi, nel piccolo grande mondo dei «liberali» all’amatriciana,
i numeri si fanno merce rara. «Conoscere per deliberare» – ma quando mai! A
cosa servono i numeri, le statistiche, persino la lettura del testo
dell’emendamento, quando si può parlare per luoghi comuni? Ed ecco che
all’improvviso, i soliti «comunisti» vogliono mettere le mani nelle borse delle
vecchiette, tassare al 120% la fatina dei dentini, e dare la caccia alla più
minacciata delle specie in via di estinzione: il
ceto medio. Cosa sia questa bizzarra
creatura non è chiaro: qualcuno sostiene di averla vista
ereditare tre attici nel centro di Milano; qualcuno giura possieda migliaia di
euro in titoli azionari; ma c’è anche chi prega per i molti sfortunati che
ereditano multinazionali di famiglia.
Fatto sta che, di fronte a un provvedimento che aboliva «micropatrimoniali»
già esistenti – l’Imu sulle seconde case, l’imposta di bollo su conti correnti
e deposito titoli – per sostituirla con una imposta dallo 0.2 al 2% applicata
solo oltre i 500 mila euro di patrimonio, gli stessi che sostenevano suggestivi
patti tra competenti contro gli «opposti populismi» si ritrovano allineati a
Matteo Salvini nel «no a nuove tasse».
Chi
pagherebbe la tassa
Eppure, i numeri raccontano che un provvedimento come
quello proposto riguarderebbbe una quota decisamente minoritaria di italiani.
Utilizzando i dati più facilmente accessibili – quelli dell’indagine campionaria della Banca d’Italia,
liberamente scaricabili online – veniamo a sapere che il patrimonio netto della
famiglia «mediana» italiana è di 126 mila euro. Visto che la ricchezza
finanziaria è appannaggio quasi esclusivo dei più ricchi, per l’italiano
«mediano» questa cifra è fatta quasi interamente di immobili: anche
considerando solo le città sopra i 500 mila abitanti, il valore delle case
possedute dalla famiglia mediana è di 170 mila euro. Per superare la soglia dei
500 mila euro di ricchezza familiare complessiva (al netto di debiti e mutui),
bisogna entrare dentro l’ultimo decile. Dunque, secondo i dati di Banca
d’Italia, nemmeno una famiglia su dieci verrebbe toccata, a fronte di quelle
che smetterebbero di pagare Imu e imposte di bollo. Tra i pochi «sfortunati»
c’è solo il 2% degli operai, poco più del 7% degli impiegati (compresi quelli
pubblici, su cui molti autorevoli commentatori cercano di attirare l’invidia
sociale), e circa un pensionato su 10 – a fronte di un quarto
dei dirigenti e un po’ meno di un terzo degli imprenditori.
Certo, come tutte le rilevazioni statistiche, anche quella
della Banca d’Italia è imperfetta. L’indagine si basa sulle famiglie (mentre
l’imposta si applicherebbe ai singoli contribuenti), e sovrastima il valore
degli immobili – riportandone i prezzi d’acquisto, tendenzialmente molto più
elevati dei valori catastali su cui dovrebbe applicarsi l’imposta. Vale la pena
sottolineare che proprio chi accusa la sinistra di rappresentare le «ZTL» delle
grandi città, consideri «normale» ereditare immobili con valore catastale
superiore al mezzo milione di euro – dato che rende evidente quanto il
dibattito italiano sia arretrato e schiavo di pregiudizi, come rilevato da Andrea Roventini
sul manifesto.
Consultando i dati sulle successioni, sulla base delle
quali Paolo Acciari (Mef) e Salvatore Morelli (Roma 3) stanno proponendo misure più
accurate della ricchezza dei «paperoni» italiani, viene
fuori che a «piangere» sarebbero ancora di meno: circa il 6% dei contribuenti.
Un piccolo gruppo, che difficilmente andrebbe in rovina per le lievi aliquote
proposte, visto da solo si gode circa il 45% della ricchezza complessiva. Dai
dati di Acciari e Morelli emerge anche come il rapporto medio tra valori di
mercato e catastali sia superiore a 3 (e proprio nei centri storici delle città
questo valore è ancora più alto): senza una riforma del catasto, per rientrare
nella patrimoniale bisognerebbe dunque ereditare una casa dal valore di mercato
di almeno un milione e mezzo. Altro punto importante sollevato da Morelli, è
che la ricchezza non è solo frutto di «merito» individuale, ma ancor più del
reddito riflette spesso gli investimenti della collettività: pensiamo proprio
all’aumento di valore degli appartamenti nelle aree gentrificate delle grandi
città.
Cos’è
davvero una patrimoniale
C’è da dire che nemmeno i più ottimisti dei promotori
potevano sperare che bastasse buttar lì un emendamento per portare a casa una
simile misura – non la panacea di tutti i mali, ma certo in netta
controtendenza rispetto al clima politico degli ultimi anni, tanto più in una
legislatura iniziata nel segno della flat
tax. Ancor più improbabile nel contesto di un governo che va in pezzi
parlando di plastic tax, e messo
sempre più in difficoltà dalla seconda ondata,
e che continua a rinviare in modo grottesco i dossier economici. Nelle parole
di Orfini riportate da Domani, al
massimo si poteva «provare almeno a discuterne ‘laicamente’».
In questo senso, va riconosciuto che la proposta, ponendo
al primo comma l’abolizione di Imu e imposta di bollo, cercava di superare
l’impasse generata nel dibattito italiano dal termine «patrimoniale». Quella
che infatti, per gli ultimi reduci della sinistra, rappresenta la messianica
quanto vaga promessa di «far pagare i ricchi», genera in altri pensieri più
cupi. Che sia frutto della confusione dei proponenti, o della sistematica
mistificazione mediatica, è un fatto che in Italia qualsiasi proposta di
prelievo progressivo sui più ricchi – anche sui redditi, come quella spuntata
in modo poco meno estemporaneo lo scorso
aprile – venga impropriamente definita «patrimoniale».
Eppure in italiano, come dovrebbe chiarire l’etimologia, il termine indica un
prelievo basato sul patrimonio – cioè sul complesso dei beni posseduti (case, risparmi,
titoli, e così via) – e non sul reddito guadagnato
(sia composto di salario, rendite immobiliari o finanziarie). Questo a
prescindere dalla sua progressività – e cioè che chi è più ricco paghi di più
non solo in termini assoluti, ma in proporzione alla capacità
contributiva.
Alcuni paesi (soprattutto nord-europei) vantano una lunga
tradizione di imposte sulla ricchezza detenuta da persone e famiglie (imposte
simili sono in vigore in Norvegia e Svizzera; un quadro recente
l’ha fornito l’Ocse). In Italia invece, se si escludono alcuni
provvedimenti straordinari presi a cavallo delle
due guerre mondiali, si ricordano due principali casi: le
imposte sugli immobili, che in una girandola di esenzioni e acronimi hanno
animato la seconda Repubblica, ma soprattutto, il leggendario prelievo forzoso
del sei per mille imposto dal governo Amato nel 1992.
Questo atto, oggettivamente con pochi precedenti (e spesso visto, ex post, come
primo «sacrificio di sangue» versato sull’altare dei vincoli europei)
traumatizzò un’intera generazione di contribuenti. Ma anche Imu e Ici non
godono di buona fama, colpendo quella parte della ricchezza che è più diffusa
in un paese dove i proprietari di casa sono più numerosi che altrove (seppur
secondo l‘Agenzia delle
Entrate, almeno un quarto delle famiglie non possiede la casa
dove abita). La stessa imposta di successione (quella sulla ricchezza
ereditata), decisamente difendibile da posizioni moderatamente liberali, in Italia è stata abolita ben due volte,
senza che chi lo ha fatto ne pagasse grandi conseguenze. Ancora oggi, le
aliquote italiane sono tra le più basse, nonostante i dati mostrino l’aumento
preoccupante e con pochi precedenti della ricchezza ereditata (non
esattamente un sintomo di economia dinamica e «competitiva», e con effetti
drammatici sui già preoccupanti livelli di mobilità sociale
del belpaese).
Per queste ragioni, un gruppo di professori delle
università piemontesi ha definito la loro recente proposta di prelievo
progressivo sulla ricchezza finanziaria Paperoniale (per un
confronto con la «patrimoniale» appena proposta si veda qui).
È infatti gioco facile, per la larghissima coalizione che si oppone alla
progressività fiscale e alla redistribuzione di redditi e ricchezze, parlare di
patrimoniale per scatenare l’opposizione di chi nulla ha da temere da simili
provvedimenti; questo nonostante, come si è visto, andrebbe a toccare una
sparuta minoranza che può permettersi e magari è anche disposta a dare qualcosa
in più. In effetti, fuori dalla cerchia di addetti ai lavori della politica e
dei giornali, i giudizi sembrano essere più favorevoli di quanto era lecito
aspettarsi. Paolo Graziano e
Matteo Jessoula su Altreconomia riportano
i risultati di un sondaggio Swg secondo cui oltre il 60% degli intervistati è
«abbastanza» o «molto favorevole» a un «contributo straordinario di
solidarietà nazionale pari al 5% della ricchezza soltanto per il 10% più ricco
per finanziare interventi volti a rafforzare i sistemi sanitario, di contrasto
alla povertà e pensionistico». Una misura più drastica (per aliquote e soggetti
coinvolti) di quella in discussione, tanto che per Graziano e Jessoula potrebbe
fruttare circa 117 miliardi. Oltre il 70% sarebbe favorevole a un prelievo
sopra il milione di euro (la soglia di applicazione della proposta
spagnola).
Serve
un’alternativa radicale di politica economica
Nonostante l’opposizione quasi totale di politica e stampa
(e l’assenza di soggetti credibili a sostenerlo), l’emendamento ci segnala,
dunque, che una riforma fiscale, capace di riequilibrare il peso delle imposte
a favore dei molti, potrebbe rappresentare una vasta maggioranza sociale. Senza
riporre troppe speranze nella periodica riproposizione estemporanea di
«patrimoniali», sarebbe ora di riprendere seriamente l’iniziativa politica su
questi temi. È allora utile, più che chiosare sui dettagli della proposta,
appuntarsi alcuni principi generali che è bene tenere presenti.
In primo luogo, il fisco in Italia è un tema delicato, che
merita proposte serie e sistematiche: se le paure evocate nel «ceto medio»
dalle «patrimoniali» sono create ad arte, non lo è il peso delle imposte,
opprimente per chi le tasse le paga – lavoratori dipendenti, ma anche la
maggioranza onesta dei lavoratori autonomi. Bisogna allora porsi il tema di una
riconfigurazione complessiva del sistema fiscale. In un paese in cui la quota
dei profitti sul reddito nazionale è in costante crescita, e le eredità e la
ricchezza pesano sempre di
più, al sacrosanto principio della progressività deve
affiancarsi uno spostamento del peso del fisco dal lavoro alle rendite e alla
proprietà.
Come ha spiegato sempre Morelli su Jacobin Italia, un simile
risultato passa, prima che da nuovi prelievi o da aliquote più elevate, dalla
ridefinizione dell’Irpef: quella che dovrebbe essere la principale imposta
«equalizzatrice», viene oggi pagata quasi solo da lavoratori e pensionati,
mentre rendite immobiliari e finanziarie sono tassate con tasse piatte, ad
aliquote ben inferiori (il 26% per molte rendite finanziarie, e ancora meno con
la «cedolare secca» sugli
affitti, al 21 o persino 10%, rispetto a un’Irpef che parte dal
23 e sopra i 15 mila euro è già al 27%). Il contrasto a questa erosione della
base imponibile, e al groviglio di esenzioni, deduzioni e detrazioni, oltre a
quello all’evasione vera e propria e ai paradisi fiscali (a partire da quelli dentro
l’Ue), richiede più lavoro e ripaga con meno visibilità. Ma
oltre a dribblare la propaganda reazionaria, offre prospettive concrete per
combattere le disuguaglianze migliorando le condizioni di chi sta peggio, oltre
che chiedendo di più ai ricchi.
Da questo punto di vista, va ripresa l’idea di una riforma
«a saldi invariati», che abolisce tasse piatte su singoli beni per sostituirle
con un’imposta progressiva sulla ricchezza degli individui. Un altro esempio è
la proposta di una «imposta sui
vantaggi ricevuti» avanzata dal Forum
Disuguaglianze: reintroducendo una tassazione progressiva della
componente per definizione meno «meritata» della ricchezza, la proposta si
applicherebbe a chi eredita più di mezzo milione, esentando tutti gli
altri.
È necessario tuttavia allargare il discorso all’intero
sistema fiscale: nel contesto di una riforma complessiva, che riduca il carico
fiscale su chi lavora, una nuova imposta di successione o una «patrimoniale
progressiva» devono servire a riequilibrare il peso delle imposte dal reddito
alla ricchezza, e dal lavoro a rendite e profitti. Se un argomento «storico» di
chi si oppone a queste misure è la «doppia tassazione» – un lavoratore che
compra un immobile lo fa dopo aver pagato l’Irpef sul suo stipendio – in
Italia, oltre ad avere patrimoni anche consistenti costruiti sull’evasione
fiscale, abbiamo una tassazione che penalizza chi lavora e non chi eredita una
fortuna.
In secondo luogo, se un fisco progressivo è cosa buona e
giusta, è bene dirci che non basta, senza chiarire a cosa ci serve. Torna
utile, dal libro appena
uscito di Emiliano Brancaccio, una citazione illuminante di
Mario Monti:
Io sono sempre molto
colpito negativamente quando vedo – l’abbiamo visto in Italia per lungo tempo e
lo vediamo anche oggi – partiti che si richiamano alla sinistra che però, forse
per dimostrare che non hanno niente a che fare con l’ascendenza socialista e
marxista, considerano terribile fare uso del sistema fiscale per uno scopo che
un capitalista americano accetterebbe pienamente: la ricostituzione di una
certa uguaglianza tra i punti di partenza, per esempio, con imposte altamente
progressive o con imposte sul patrimonio, che esistono in tanti paesi di vari
continenti.
Imposte altamente progressive e/o sul patrimonio sono una
questione di equità sociale, persino di efficienza economica; ma proprio per
questo, nonostante l’opposizione compatta di M5S, Forza Italia o Lega, non
stonano in bocca a Monti o al Fondo Monetario
Internazionale. Una sinistra d’alternativa dovrebbe non solo
indicare la finalità di un contributo d’emergenza nel finanziamento dei servizi
pubblici essenziali e pubblici (senza illudersi che se ne possano ricavare risorse infinite,
perché non usarli per stabilizzare i troppi «angeli» precari ed esternalizzati
che lavorano nei nostri ospedali?), ma anche offrire un’idea radicalmente
diversa della politica economica.
Senza un cambiamento radicale delle politiche economiche (a
partire da quelle
industriali), le patrimoniali rappresenteranno al più un mezzo
gaudio insufficiente a portarci fuori dalla nostra «crisi dei
trent’anni», e a risolvere il dramma di un lavoro sempre più
scarso, precario e povero. Nell’attuale congiuntura economica – una crisi
spaventosa che continua a colpire più duro giovani, donne, precari, e in cui,
mentre i tassi di interesse diventano quasi nulli, salta ogni vincolo alla
spesa pubblica – la sinistra non può identificarsi solo nella proposta di nuove
tasse, per giuste che siano, ma deve tornare a offrire la prospettiva di
un’alternativa radicale quanto praticabile.
*Giacomo Gabbuti è
dottorando di storia economica e sociale all’Università di Oxford.
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