[Riprendiamo dal blog del gruppo di ricerca “clinica della crisi” la trascrizione e traduzione italiana di un intervento di Achille Mbembe tenuto per il programma pubblico delle Diasporic Schools, organizzato dal Kunstenfestivaldesarts di Bruxelles, che preannuncia la direzione delle sue attuali ricerche. La trascrizione è di Fabrice Olivier Dubosc. Qui e qui è possibile ascoltare il video originale dell’intervento]
La terra
mondo in comune e l’eredità diasporica
«Quello
che vorrei fare è condividere con voi un insieme di riflessioni la maggior parte
delle quali derivano dal mio lavoro di ricerca attuale sui Futuri della vita e
sui Futuri della Terra e da quello che chiamo l’emergere di una coscienza
planetaria, un termine che vorrei ben distinguere dai vecchi concetti di
universalismo e anche di cosmopolitanismo.
La
riflessione su un mondo comune e su come farlo nascere è
da molto tempo in relazione alla questione diasporica perché
l’emergere delle comunità diasporiche è stato visto come una manifestazione di
quello che un mondo comune potrebbe essere, fondamentalmente grazie al
movimento delle persone, alla loro mobilità.
Suggerirei
che uno dei modi per pensare il fatto diasporico e l’idea di un mondo in comune
– che dopo tutto resta un’aspirazione – è di tornare a qualcosa che noi umani
tendiamo a dare per scontato e cioè il fatto della nostra esistenza sulla
Terra.
In realtà la
Terra è il terreno stesso della nostra esistenza. Noi viviamo sulla terra e da
nessun’altra parte, perché di tutti i pianeti la Terra è l’unico – almeno per
il momento – dove forme complesse di vita sono possibili.
Tutto ciò
potrebbe sembrare irrilevante ma non lo è – perché? Perché abbiamo ereditato un
modo tradizionale di pensare in cui la terra è prevalentemente considerata come
una ricchezza naturale che sta lì per esser conquistata e di cui impossessarsi.
E il risultato di questo processo di parcellizzazione della Terra viene
codificato come legge – il fine ultimo di questa
codifica è di determinare quale sia la propria parte, e
chi si debba appropriare di quale territorio. In altre parole la terra sta lì
per essere presa, per essere suddivisa, per essere posseduta e infine per
essere saccheggiata. Dopo aver preso possesso della nostra parte di terra
creiamo frontiere che devono segregare, dividere chi sta dentro e chi sta fuori
e di fatto questa è la storia della espansione e della colonizzazione Europea
dal quindicesimo secolo in poi.
Il mondo
esterno all’Europa è stato dunque considerato per tutti questi secoli come uno
spazio libero, a nel senso di un’area aperta all’occupazione europea
dove guerre di conquista, espropriazioni e se necessario sterminio potevano
accadere.
Vorrei
suggerire che se siamo davvero interessati a un’idea di un mondo comune o a un
mondo in comune dovremmo abbandonare questo genere di concezioni della terra.
Dovremmo
invece ripensare la Terra non come una massa di materia – certo è anche quello
– ma come una casa e un rifugio per tutti quelli che la abitano,
umani e non umani.
Quello che
dobbiamo fare è immaginare delle modalità di essere nel mondo e di abitare il
mondo in cui ci occupiamo consapevolmente della terra.
Ma cosa ha a
che fare tutto ciò con le comunità diasporiche?
Vorrei
condividere una serie di osservazioni riguardo alla più antica moderna diaspora
africana quella verso l’America. A causa dei lunghi secoli di schiavitù da
questo punto di vista la terra non è quasi mai stata considerata nel contesto
delle diaspore come quella vasta estensione che è – come quel
deposito di vita abbondante che la Terra di fatto è o in ogni caso dovrebbe
essere.
Invece a
causa di questi secoli di schiavitù la Terra è stata interpretata come uno
spazio di segregazione piuttosto che come uno spazio di rifugio e protezione.
Questo è
stato particolarmente vero negli Stati Uniti.
Ora come
sapete uno sviluppo cruciale negli Usa è stata la nascita nel 2012 dell’
organizzazione Black Lives Matter. Ciò è accaduto dopo la morte di Trayvon
Martin e Michael Brown Non sono stati gli unici a perdere la vita, la lista dei
morti è quasi infinita.
Il che solleva
la questione di perché alcune morti segnino l’epoca o la nostra immaginazione
più di altre. Ma questa è una cosa che potremmo discutere più tardi.
Quel che
voglio dire è he non c’è modo che la questione della Terra, della sua
abitabilità, o che la questione delle diaspore africane odierne possano essere
affrontate senza riferimento a Black Lives Matter, una organizzazione ombrello
che riunisce tutti quelli che vogliono protestare contro le uccisioni
arbitrarie di neri in America. Un fenomeno tra l’altro, quello dell’uccisone di
neri che non è assolutamente limitato agli Stati Uniti.
Ora devo
aggiungere che ci sono molti tipi diversi di diaspore. Diaspore
religiose, diaspore commerciali, diaspore intellettuali. La
specificità delle nostre è la storia di diaspore che nascono come conseguenza
del commercio di schiavi e dunque diaspore nate da traumi storici profondi,
nate sotto il segno di una delle forme più profonde di disumanizzazione, e
sterminio, nate cioè nel crogiuolo di due cose, il capitalismo e il
razzismo.
Potete
dunque vedere che anche solo col suo nome Black Lives Matter esprime la
preoccupazione per come vengono trattati gli afrodiscendenti americani.
Ma al di là
del caso specifico degli Usa, mi sembra che Black Lives Matter esprima anche
una preoccupazione sul modo in cui le nostre diaspore in particolare e le
persone nere in generale ovunque siano, incluso in Africa, siano deprivate di
dignità e di diritti umani fondamentali.
Ovunque
guardiamo, africani e afrodiscendenti devono far fronte a una
maggior vulnerabilità fisica all’arresto, alla
deportazione, all’incarcerazione, a essere fermati, a essere
immobilizzati e questa è una realtà di massa. C’è evidentemente un modo in cui
le vite sono maggiormente superflue – basti pensare alle sparatorie gratuite
della polizia, agli atti gratuiti di aggressione e insulto.
Aggiungerei
che tutto ciò è una caratteristica cruciale non solo del paesaggio americano contemporaneo,
ma anche del paesaggio nigeriano, keniota, camerunense, brasiliano, francese,
tedesco, belga, italiano – si tratta di una questione planetaria.
Storicamente
tutte queste caratteristiche sono caratteristiche delle società coloniali e
schiaviste. Sappiamo bene che in queste società i neri non venivano considerati
cittadini. Dal punto di vista giuridico erano governati da statuti speciali.
Per esempio con i cosiddetti “Black Codes” durante la schiavitù e i “Codes de
l’indigenat” durante il colonialismo.
Entrambi i
codici testimoniano che queste categorie di persone non avevano importanza –
lasciandoci in eredità la percezione che se un domani la loro
dignità e diritti umani fondamentali fossero anche riconosciuti potrebbero
essere molto facilmente ignorati.
Entrambi
questi testi giuridici – Black Codes e Native Codes – incorporarono nella legge
una precarietà fondamentale, istituzionalizzando l’ imprevedibilità delle vite…
per quale motivo? Si presumeva che [queste vite] appartenessero a una diversa
categoria di umani. Questa era una caratteristica cruciale delle
società schiaviste e coloniali… società in cui i linciaggi erano comuni, in cui
la giustizia dei vigilantes era la norma, specialmente nel XIX secolo:
Così, riflettere
sulle diaspore africane ci obbliga a riflettere sul genere di legame di
continuità che esiste tra il presente e il colonialismo e la schiavitù, ma con
questo legame di continuità intendo sottolineare una realtà onnipresente,
quella per cui in un solo istante, a causa della sola nerezza, la vita
possa essere drammaticamente minacciata o tolta, la realtà dunque di
ciò che può esporre a una morte prematura… è questo che intendo quando parlo di
un legame ininterrotto tra il momento presente e il colonialismo e la
schiavitù.
Così per
ripensare la modernità diasporica da una prospettiva africana o nera dobbiamo
riconoscere questa insicurezza fondativa a cui le persone di origine africana
devono far fronte – e non importa dove siano – per la loro sicurezza fisica e
per difendere la loro integrità corporea e psichica e le condizioni che sono
costretti a sposare in contesti resi sempre inospitali e inabitabili.
Questa è la
prima serie di considerazioni che volevo condividere rispetto al tema di un
globalismo riparativo.
Il razzismo
come disordine relazionale fondante che tenta di sopprimere la colpa e la
possibilità di riparare
«Lasciatemi
ora passare a una seconda serie di osservazioni:
Qui devo
dire che ripensare la moderna diaspora africana e ripensare da questa
prospettiva l’idea di un mondo comune o di un mondo in comune significa una
seconda cosa: se, come sostengo, le logiche di
inospitalità e inabitabilità sono state così centrali nella nostra esperienza
del mondo , nella nostra esperienza come abitanti della terra, è anche vero che
le diaspore e le comunità africane non si sono rassegnate a questo stato di
fatto.
Voglio dire
che innumerevoli lotte politiche dei neri o a favore dei neri in generale hanno
certamente tentato di garantire i diritti civili e politici fondamentali. E
nella maggior parte dei casi – anche se non in tutte – queste lotte sono state
vinte. Ma come è dolorosamente evidente, la schiavitù e il colonialismo possono
anche essere stati aboliti formalmente, dovrei aggiungere l’apartheid a questa
trinità, ma il razzismo non è stato eliminato – nemmeno in Sud Africa il paese
dove i neri sono maggioranza e governano su un numero significativo di bianchi
molto potenti, potenti in termini di capitale economico, finanziario,
materiale, culturale e intellettuale.
Potenti
anche nei termini delle dense connessioni con cui controllano i luoghi centrali
della forza lavoro. Ora il razzismo non solo non è stato eliminato ma aumenta
ovunque nel mondo. Questa è una questione che dobbiamo affrontare con la
massima urgenza se siamo seri nel desiderio di costruire un mondo in comune o
un mondo comune.
La questione
che non possiamo più rimandare è di chiederci perché il
razzismo, in questo caso il razzismo bianco contro i neri ha
acquisito il genere di durata che ha oggi, una durata che sembra resistere ad
ogni molteplice evidenza, scoperta o qualifica comprese quelle addotte dalla
scienza e dalla stessa ragione. Chiederci perché – con forse la sola eccezione
della casta – solo il razzismo – per utilizzare un termine coniato dal mio
amico Arjun Appadurai – chiederci perché il razzismo sia un tale mostro di
resilienza.
Quali sono i
meccanismi che mantengono in piedi il razzismo? Credo che Black Lives Matter ci
obblighi a ripensare le politiche diasporiche nella nostra epoca, le politiche
di una Terra futura, da questo punto di vista, dall’esperienza fondamentale
dell’insicurezza e della vulnerabilità. E’ chiaro che, per molti di noi, queste
preoccupazioni sono per così dire ontologicamente prioritarie rispetto a
qualsiasi politica di integrazione o di diritti civili. Perché queste
preoccupazioni descrivono una realtà politica più profonda dove l’integrità
corporea, fisica e psichica – non è mai del tutto sicura. Significa vivere con
la minaccia permanente che il tuo stesso corpo, che la tua integrità corporea e
psichica possano esserti sottratte in qualsiasi momento. Si tratta di
un’incertezza radicale che circonda la logica dell’ esistenza. E
questo mi fa dire che queste questioni ontologiche siano prioritarie rispetto a
ogni logica di integrazione e di lotta per i diritti civili. E di fatto a me
sembra che il lavoro che fa il razzismo nelle sue modalità più elementali e
primitive e nelle sue radici inconsce, il lavoro che fa è di costantemente
attivare, di costantemente aggiornare, di costantemente rieditare e
rimobilitare queste minacce, le minacce permanenti all’integrità fisica,
corporea e psichica. Il razzismo consiste proprio in questo, questo è il lavoro
che sente di dover mettere in atto.
Direi che
questo fa del razzismo una forma di disordine relazionale – un disordine
relazionale nel senso di una prospettiva che non riesce a riconoscere i neri o
le persone di discendenza africana, di riconoscerle come esseri umani singolari
per quello che sono e non come emanazione di bisogni bianchi, di desideri
bianchi, di fantasie bianche.
Questo è il
primo motivo per cui sostengo che il razzismo, il razzismo contro i neri in
particolare sia una forma di disordine relazionale. l razzismo nella sua
tenacia e apparente intrattabilità dev’essere confrontato in questo modo.
Perché il razzismo non è solo una costruzione sociale, certamente è anche
quello, ma non solo, come dicono alcuni è come quella crepa nella Liberty Bell
(famosa campana simbolo del movimento abolizionista che ha effettivamente
una crepa mNdT).
Il razzismo
è fondativo per il tipo di ordine mondiale reso possibile ed ereditato dalla
schiavitù e dal colonialismo. Il razzismo non solo abita le menti ma ha anche
una realtà psichica propria, le proprie regole e logiche. Ma ancor più
importante, i meccanismi che potrebbero allentarlo restano segregati
nell’inconscio. Ciò che testimoniamo è un’insaziabile domanda di razzismo nel
nostro mondo contemporaneo. Per quale motivo le cose vanno così? Se non perché
il razzismo serve a sopprimere la colpa? Perché soffoca la possibilità di
identificazione empatica e da questo punto di vista il razzismo è un
apparato psichico cruciale nell’assicurare – per esempio nel caso degli Usa
– che non venga messa in discussione quella idea di una nazione
suprematista bianca che esclude ogni idea di riparazione.
Quando parlo
di una domanda insaziabile di razzismo nel mondo oggi, a cosa alludo
se non alla possibilità di non sentirsi in colpa, di essere razzisti in modo
del tutto impenitente.
Il divenir
nero del mondo – disarmare l’appartenenza
Vorrei ora
affrontare una terza serie di considerazioni prima di passare alla
discussione. All’inizio parlavo dell’esperienza diasporica africana.
il fatto è che con le politiche anti musulmane, con le politiche anti
migratorie quello che stiamo sempre più testimoniando dappertutto è il
dispiegamento ovunque di una straordinaria crudeltà contro popolazioni
minoritarie a prescindere dal colore, dal colore della pelle. E’ ciò che ho
definito nella mia ‘critica della ragion nera’ come la potenziale
universalizzazione della condizione nera. Il modo in cui i neri venivano
trattati si applica sempre più a persone che da un punto di vista fisico e
visibile non sono considerate nere. Mi sembra che qui si rinnovi la vecchia
questione di determinare chi appartenga e chi non appartenga a un dato
contesto.
Per alcuni
solo quelli di un medesimo ceppo vi appartengono. Per altri quelli che
appartengono sono quelli a cui è stato concesso un documento ufficiale dallo
stato. E da quel documento scorrerebbero diritti e vita.
Quello che
stiamo testimoniando è un modo di armare l’appartenenza.
E tutto ciò
non accade nel vuoto accade in un momento in cui innumerevoli regimi
antidemocratici vanno al potere ricevendo una sorta di investitura democratica,
accade in un tempo i n cui lo stato si prende il potere assoluto di definire
l’affiliazione, l’appartenenza, e l’esistenza legale, e questo
processo si sta sviluppando a un ritmo senza precedenti.
Per rendere
tutto ciò possibile, è necessario uno sforzo sistematico che prenda di mira
alcune categorie della popolazione…
Lo stato
diventa lo sponsor di ogni sorta di violenze nel prendere di mira i leader di
alcune comunità, le loro istituzioni, imponendo la loro segregazione in
nome della pace e della sicurezza. In altre parole numerosi stati stanno
sperimentando l’organizzazione di orde, mobilitando dispositivi legali e
burocratici polizieschi e militari, nell’intento di ridurre numerosi strati
della popolazione a esseri a malapena umani.
Questo
accade anche in un momento in cui proliferano i conflitti. E tuttavia la
possibilità di accordarsi sulla legittimità o illegittimità dei conflitti
stessi si sta erodendo. Il numero di confitti che possono esseri contenuti
all’interno di un processo politico, quel numero sta diminuendo ovunque molto
rapidamente. Di conseguenza posizioni opposte non possono più coesistere
all’interno di un ordine discorsivo e istituzionale e ancor meno all’interno di
uno spazio simbolico condiviso.
Quello che
sto sottolineando è che nella nostra epoca le fondamenta normative minime
condivise per una vita democratica stanno evaporando e insieme ad esse le
soglie di coerenza minima e di accuratezza empirica – nel senso che non siamo
più d’accordo su ciò che è vero e su ciò che è falso , su cosa sia finto e… non
che fossimo d’accordo su tutto in passato, ma vi erano determinati meccanismi
attraverso i quali quel genere di disaccordi potevano essere regolati.
La novità è
che punti di vista antagonisti e quasi inconciliabili sulla realtà sociale
tendono a prevalere, e le democrazie liberali parlano sempre meno nel
linguaggio della negoziazione e sempre più in quello della soppressione. Cosa
che mi porta a farmi delle domande sul futuro della dimensione politica, e,
potremmo aggiungere, delle politiche.
Sembrerebbe
che abbiamo ereditato due concezioni cruciali della dimensione politica. Nella
prima accezione, la politica includeva la dimensione conflittuale che era
considerata intrinseca alle relazioni umane, coinvolgeva decisioni che
comportavano o di raggiungere un consenso o di arrivare a una scelta tra
alternative.
Ora ci sono
sempre più conflitti per i quali non esistono soluzioni razionali o per i quali
non può essere raggiunto un consenso razionale. Le alternative stesse non sono
semplicemente conflittuali – sono inconciliabili
Questo era
il primo concetto del politico, ereditato dalla modernità. Ce n’era un altro in
cui il compito della dimensione politica era quello di organizzare una
coesistenza pacifica, di renderla possibile. E la coesistenza pacifica era resa
possibile nella consapevolezza che le condizioni che la rendevano possibile
erano sempre instabili, e che il ritorno della conflittualità, se
volete, era sempre possibile.
Oggi, simili
ordini politici e sociali, apparentemente
stabili, affrontano la possibilità di cader preda di spirali di
violenza alcune delle quali sono inconciliabili e allo stesso tempo
ineliminabili. Mi sembra che in tal modo le democrazie liberali
finiscano in un vicolo cieco a meno che non riescano a rigenerarsi e uscire dal
dilemma mortale tra inconciliabilità e ineliminabilità.
Per sfuggire
a questo dilemma abbiamo bisogno di impegni minimi condivisi – forme di vita se
preferite o schemi concettuali. Dobbiamo concordare che una serie di credenze
collettive non sono accettabili come nel caso del razzismo, e ce ne sono molte
altre a partire dal sessismo e così via.
Credo anche
che ci tocchi re-immaginare una sorta di impulso a riparare. Se avessi tempo,
potrei condividere con voi l’esempio del Sudafrica non perché sia un successo –
non lo è – ma perché ha proposto un’immagine di abitabilità e coesistenza che
sarebbe un errore trascurare.
Lasciatemi
concludere brevemente – abbiamo assolutamente bisogno di costruire un mondo
comune e un mondo in comune… quel mondo in comune, quella
comunanza, dev’essere composta, dev’essere messa
insieme, elemento su elemento, attraverso molte prove e
conflitti – e non dovrebbe essere limitata agli umani ma dovrebbe includere
tutti gli elementi o entità ritenute parte di questa composizione di un mondo
comune. Solo così sopravviveremo sulla Terra e prolungheremo la nostra storia
in questa parte dell’universo.»
***
Ecologie
della cura e della riparazione–aggiustare ciò che è rotto
Domanda:
«Hai detto altre volte che dobbiamo fare simultaneamente un lavoro di critica e
di proposta – in questo contesto della costruzione di un mondo in comune quali
proposte intravedi? Recentemente hai parlato del “diritto universale
al respiro” – possiamo connettere questa cosa allo slogan di Black
Lives Matters “I can’t breathe” ed estenderlo alla biosfera…?»
«Più che vere
e proprie proposte c’è un lavoro preliminare che va fatto per comprendere che
cosa sta davvero accadendo – cosa ci impedisce di immaginare un mondo in
comune? Dato che di questi tempi ovunque si guardi c’è una richiesta
insaziabile di razzismo e apartheid cioè di separazione e sopravvivenza,
dovremmo chiederci – Che forma prende e perché siamo giunti a questo punto
della nostra storia come umanità sulla terra? – perché in questo momento la
domanda di razzismo è così alta?
Questo
lavoro è essenziale e questo dovrebbe far parte del lavoro della critica.
L’altra
parte del lavoro della critica è la cura – le ecologie della cura a anche della
riparazione. Ci sono miriadi di piccoli esempi di comunità e di individui che
cercano di rimettere insieme quello che è stato rotto. Se viaggiamo nel
continente africano, quello che più mi colpisce quando sono a
Nairobi, a Lagos, a
Kinshasa, Abidjan, Dakar, Douala è il numero
di persone occupate a riparare qualcosa. Di fatto, una gran parte
del mondo per restare vivo deve riparare qualcosa, riparare delle
scarpe, una bicicletta una macchina, una
casa, un pezzo di stoffa certamente moltissima conoscenza deve
essere coinvolto in questo lavoro di riparazione, certamente un
diverso concetto di comunità e di coesistenza tra umani e oggetti deve essere
vivo in queste pratiche – mi sembra un immenso laboratorio e se lo esploriamo
con l’attenzione che merita cominceremo a vedere emergere modelli che ci
allontanano da quel dilemma perverso che il mondo sta sperimentando in questo
momento.»
La sfida
planetaria alle pragmatiche dell’identità
Domanda: «In
questa prospettiva in cui si ripensa l’agency come riparazione come vedi il
pensiero coloniale rispetto a un’ apertura non solo in termini di critica
dell’umanesimo o dell’universalismo europeo ma in
una prospettiva aperta sul futuro o come critica a un modello
unico di progresso?»
«Devo dire
innanzitutto che non mi considero un pensatore postcoloniale malgrado i miei
dinieghi molta gente mi considera tale – si vede che quando lo dico non mi
prendono sul serio …ma devo dirlo seriamente che non sono un
pensatore postcoloniale anche se non ho nulla contro il pensiero postcoloniale
o decoloniale anzi mi verrebbe da difenderlo, vedendolo assediato in
alcune sfere dell’opinione ideologica o politica europea, specialmente in quei
luoghi in cui è accusato di tutto e di nulla, come nel caso
dell’accusa poco misurata di complicità con l’antisemitismo … detto questo, il
pensiero postcoloniale ha passato troppo tempo a pensare alla differenza. E, di
fatto, ciò che mi distingue dal pensiero postcoloniale è che non sono così
interessato alla differenza e all’identità penso che per certi versi siamo
stati catturati dalla pragmatica dell’identità e della differenza e in questo momento
specifico della storia della terra del pianeta nell’era dell’Antropocene mi
sembra che il potenziale critico e politico che abbiamo debba essere diretto
verso ciò che è comune perché le sfide che abbiamo di fronte è di natura
planetaria – non è una sfida che si pone solo all’umanesimo è una sfida a
quello che chiamo in francese “le vivant” – il vivente – e se non
siamo in grado di ricalibrare il nostro pensiero in relazione al futuro della
vita o al futuro del vivente allora la nostra storia sulla terra potrebbe anche
aver fine – così se il pensiero postcoloniale vuole
mantenere la sua utilità dovrebbe fare questo passaggio dalle politiche
dell’identità e delle differenze alla politica di ciò che è in comune.»
Aprire
l’Africa a sé stessa
Domanda:
«Rispetto alle questioni diasporiche nel presente come metti in relazione il
momento presente con i momenti storici del passato come la negritude e
il movimento panafricano – quella storia può insegnarci qualcosa in termini di
politiche della diaspora?»
«Da un certo
punto di vista credo che il compito che abbiamo – quelli di noi che si
definiscono africani – che si viva o no sul continente perché l’Africa è
ovunque e non scherzo quando dico che l’Africa è ovunque e che l’Africa è in
movimento – così il compito che abbiamo è di prendere sul serio una serie di
passaggi, innanzi tutto di prendere sul serio il fatto
che l’Africa è il suolo originario la prima casa dell’umanità… e lo
dico in un senso filosofico perché ci sono molti conseguenze importanti che
derivano da questa proposizione. L’umano, è qui che l’umano è apparso per la
prima volta e l’Africa dev’essere letta da questa prospettiva, nei
termini della nostra responsabilità – verso noi stessi naturalmente, cura di
noi stessi – ma anche come responsabilità verso la razza umana nel suo
complesso, le due cose vanno insieme e siamo in qualche misura
responsabili, essendo stati il luogo di nascita dell’umano siamo
responsabili per il destino di ciò che è umano, tanto che la svolta planetaria
della condizione africana mi sembra cruciale dal punto di vista intellettuale e
politico. La seconda cosa in relazione al panfricanismo e di tutti i
movimenti che hai menzionato, la seconda cosa è che nessun africano o persona
afrodiscendente assicurerà la sua integrità fisica, corporea
psichica in nessuna parte del mondo se il continente non diventa la
casa e il territorio e luogo di rifugio e protezione per il proprio popolo… se
continuiamo a brutalizzare il nostro stesso popolo sul continente ci
sarà ancora più brutalizzazione altrove senza alcuno scrupolo – così che
dobbiamo trasformare il nostro continente in un luogo di speranza, una
casa, un rifugio per chiunque stia fuggendo dall’oppressione a prescindere dal
luogo di provenienza o a prescindere da chi lui o lei. Così dobbiamo
fare questa inversione, dobbiamo avere un posto sulla terra dove essere neri
non sia uno svantaggio – e un modo di farlo sarebbe di abolire le
frontiere che abbiamo ereditato dal colonialismo e di trasformare il
continente in un vasto spazio di circolazione perché questa è stata la nostra
storia, una storia di mobilità forzata in cui ci siamo dovuti muovere su
percorsi obbligati e ora è giunto il momento di muoverci liberamente.
Così mi
sembra che il panafricanismo abbia posto un problema di liberazione
ed emancipazione umana – e dev’essere ricalibrato e ripensato a partire
dall’idea di aprire il continente a sé stesso.»
La vita
futura del pianeta – le basi di una convergenza cruciale
Domanda:
«quale discorso e quali pratiche sarebbero più efficaci nel creare un più ampia
alleanza antirazzista per un mondo in comune in questa epoca antropocenica al
contempo nazionalista e globalizzata?»
«Sono
d’accordo sulla necessità di creare convergenze e alleanze – se leggiamo di
fatto prospettive come quelle di Du Bois la maggior parte dei nostri
antenati, che erano implicati nella lotta globale contro il razzismo, nella
lotta abolizionista per l’abolizione della schiavitù, per l’abolizione
dell’apartheid, per l’abolizione della schiavitù – nella questione
dell’abolizionismo tutti coloro che erano coinvolti in quelle lotte insistevano
sulla necessità di alleanze – la morte di George Floyd ucciso su un marciapiede
in Minnesota ha portato a un grande scontento in cui i neri si sono mobilitati
a non solo i neri – e possiamo intravedere, a partire da questi
elementi ancora frammentari, l’embrione di una coscienza planetaria.
Affinché queste alleanze solidali possano essere ricostituite dovranno essere
costruite su un fondamento e questo fondamento deve avere a che fare con la
vita futura del pianeta in una sorta di convergenza tra le lotte globali contro
il razzismo e le lotte globali per il pianeta, perché di fatto le
due cose storicamente sono sempre state connesse. Di fatto il razzismo è sempre
stato storicamente per lo meno dalla nostra prospettiva storica una forma di
disastro ecologico – Così dobbiamo immaginare nuovi modi di nutrire questo
inizio di coscienza planetaria emergente che metterebbe insieme diverse forme
di lotte per la vita nella nostra epoca.»
Secondo
Science gli elefanti sono cruciali per l’ecosistema africano dato che
trasportano semi per 65 chilometri
C’è spazio
per tutti
Domanda:
«quale può essere il ruolo di noi meticci in questo processo? una domanda dalla
Colombia»
«Guarda c’è
un ruolo per tutti non solo per neri bianchi per persone cosiddette miste – il
punto è uscire dalla gabbia di ferro delle identità razziali o della
razzializzazione che assegna alle persone una prigione dalla quale non possono
fuggire e se provano a fuggirne pagano un prezzo molto alto – la prospettiva
che cerco di coltivare è quella del deconfinamento l’abolizione di tutte le
frontiere comprese le frontiere identitarie e il recupero di una coscienza
planetaria che gli impulsi di riparazione possono contribuire a far
nascere Così in questo genere di processo c’è spazio per tutti.»
Attingere
all’archivio profondo – il ruolo dell’Africa
Domanda:
«cosa pensi dell’accelerazione dei capitali di investimento in Africa e come
metterli in relazione con la necessità di sviluppare un nuovo genere di
co-umanizzazione?»
«E’ una
grossa questione complicata Quello che credo veramente è he dobbiamo rimettere
sul piatto la possibilità di chiederci se esista un cammino per l’Africa un
cammino di uscita dalla povertà che non si fondi su ulteriori danni
all’ambiente – e credo che sia possibile. Credo che buona parte
dell’accelerazione dei capitali di investimento sul continente siano basati
sulla predazione ed estrazione delle ricchezze dei nostri suoli. Dobbiamo
istituire una rottura con quella modalità predatoria ed estrattivista e con
quel modello di abitare il mondo. Abbiamo già detto come immaginare un diverso
rapporto con la Terra basata sull’idea di cura, l’idea che possiamo essere custodi
della Terra non solo per noi stessi ma anche per le generazioni che verranno
dopo di noi. Un modello che poggia sull’idea di un equilibro tra umani e non
umani che di fatto era una grande parte della metafisica africana nel periodo
che precedette il colonialismo. Per dire che non entriamo nel merito di queste
questioni da sprovveduti. Abbiamo un archivio profondo che non abbiamo
sfruttato sufficientemente per dissotterrare un certo numero di proposizioni
cruciali non solo per noi ma per il mondo in generale…continuo a pensare a
quell’ingiunzione intellettuale che è anche artistica –
come fare cioè per offrire una via d’uscita dall’impasse
presente una via d’uscita per tutti che esprima anche la responsabilità per il
fatto che siamo i più anziani l’Africa esprime questa posizione di precedenza,
voglio rispondere così alla tua domanda.
Farsi carico
dei conflitti rifiutando l’ingiunzione a uccidere – rifornire le riserve
immaginative.
Un’ ultima
domanda: «dobbiamo liberare la nostra immaginazione e lo spazio
dell’immaginario liberandoci dalla coscienza vittimaria e persino nel modo di
immaginare tecniche e tecnologie oggi tecniche che a volte erano
anche preesistenti – qual è lo spazio dell’immaginario nell’arte cosa può fare
l’arte o la narrativa o pratiche di questo genere?»
Credo che
l’immaginazione – come dice sempre il mio amico Arjun Appadurai – sia una
delle risorse più rare e preziose specialmente oggigiorno.
Per
questo la politica della critica deve rifornire le riserve
immaginative perché esse sono severamente erose dalle forme contemporanee del
capitalismo e dalle forme contemporanee di brutalizzazione – le due cose vanno
insieme. Il razzismo è una delle forme di brutalizzazione – quello che fa il
razzismo è impoverire l’immaginazione perché si diventa prigionieri dei demoni
delle finzioni narrative e delle fantasie e delle ansietà e paure di qualcun
altro. In quel contesto le arti in genere devono svolgere un ruolo di riparazione
come ecologie della cura e della riparazione: l’arte dev’essere un ingrediente
fondamentale nella costituzione di quelle ecologie, il compito è quello di
liberarci dalle finzioni narrative di qualcun altro, smettere di
essere il prodotto della narrativa altrui e in quel senso mi sembra che
possiamo prendere in carico quel disordine relazionale di cui ho parlato, un
disordine relazionale – che significa andare nella direzione dell’altro e anche
di noi stessi in un processo di guarigione che non è romantico ma politico e si
fa carico del conflitto al di fuori dell’ingiunzione di uccidere
– la metterei in questi termini.
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