«Quando vedo arrivare delle famiglie nel rifugio di Oulx,
voluto fortemente da don Luigi Chiampo, responsabile della Fondazione Talità
Kum, il mio pensiero va sempre a noi, a quando siamo partiti lasciando
l’Albania». A raccontare è Lavdosh Maliquj, uno dei volontari che si danno il
cambio in alta valle di Susa, al Rifugio Fraternità Massi, messo in
piedi nel settembre del 2018 grazie a un accordo in comodato gratuito con una
struttura dei Salesiani. «Per partire e lasciare casa nostra ci abbiamo
messo cinque minuti – sottolinea la moglie Fatbardha Zeka – Ho
messo in borsa un cambio per i nostri due figli di quattro e sette anni, per
noi niente, avevamo solo quello che indossavamo».
La famiglia Maliqui ha lasciato l’Albania il 4 marzo del 1991. Hanno chiuso
la porta di casa senza sapere se ci sarebbero tornati. Hanno lasciato
ricordi, parenti, tutto e sono saliti sulla nave. Lavdosh lavorava in una
fabbrica, aveva un diploma, gli studi lo avevano portato a coprire un posto di
responsabilità: dirigeva circa quattrocento operai e fra questi anche Bardha,
in seguito diventata sua moglie. «Non eravamo ricchi ma neppure poveri, una
fascia media. Il problema non erano i soldi – interviene Lavdosh – ma il
mangiare, dovevamo alzarci all’alba per metterci in fila per sei uova e
un po’ di farina, mancava tutto».
Al porto c’erano grandi navi in partenza, non si pagava un biglietto,
niente. Lavdosh si è convinto che ci fosse un accordo fra Italia e Albania,
perché era tutto molto strano. L’accoglienza a Brindisi, lo ricordano
come straordinaria, sia da parte dello Stato Italiano sia dai semplici
cittadini, che si erano fatti in quattro per aiutare. Venticinquemila
persone sbarcate in Puglia. Una breve permanenza in una scuola, poi organizzate
in gruppi su dei pullman e dirette in una regione sconosciuta. A loro era
toccato il Piemonte, la Valle di Susa, la caserma degli alpini di Susa (da
tempo dismessa). Dopo poco tempo hanno avuto dei documenti e un lavoro: Lavdosh
ha accettato di tutto, compreso lavorare con il «pich e la pala»,
lo dice in piemontese. «In tre mesi eravamo autonomi, avevamo una casa,
pagavamo l’affitto, lavoravamo. Certo, abbiamo avuto l’aiuto da parte
di tutti, per questo non dimentico».
Sono trascorsi trent’anni, hanno acquistato la casa dove ora vivono, a
Bussoleno (Torino), i figli sono sistemati, i nipoti rappresentano il futuro,
ma Lavdosh ha deciso di mettersi a servizio per quel rifugio di Oulx. Una
restituzione. Il turno dal tardo pomeriggio alla mattina del giorno dopo. Una trentina
di posti letto, la possibilità di fare una doccia, di mangiare un piatto caldo,
pastasciutta o riso in grandi quantità perché la fame è sempre tanta. Per
cucinare si alternano i volontari.
Bardha si intromette nel racconto per ricordare, ridendo, che a casa il
marito non si è mai occupato della cucina. «Forniamo qualche indumento per
coprirsi, soprattutto scarpe perché quelle da ginnastica non sono adatte sulla
neve. Il giorno dopo si rimettono in viaggio. Vogliono proseguire, andare
in Francia in altri paesi d’Europa. Ultimamente arrivano pachistani, afghani,
iracheni, siriani, dalla “rotta balcanica”. Arrivano in tutti i modi, in treno,
in auto, con i camion. Proprio l’altra sera un gruppo di dodici
persone, iracheni, avevano fatto il viaggio nascosti in un camion fino a
Trieste ed erano stremati; hanno pagato cinquemila euro a persona rischiando di
morire asfissiati, ma ce l’hanno fatta. Alcune volte vediamo i segni delle
violenze della polizia».
In Croazia, paese aderente all’Unione Europea, non vanno leggeri, come più volte
denunciato dai media (in ultimo, ripetutamente, dall’Avvenire) e da
Amnesty International. «La norma è trovare piaghe nei piedi semi congelati e
piaghe non curate infette. Spesso arrivano da noi ragazzi respinti dalla
Francia. Si riposano un poco, poi qualcuno decide di ritentare, altri tornano
dalle città da dove son partiti». La presenza del personale di Rainbow for
Africa garantisce la cura, l’ASGI (Associazione per gli Studi Giuridici
sull’Immigrazopme) è disponibile per chiarire situazioni legali, permessi di
soggiorno ecc.
«Da qualche settimana il flusso al rifugio è cambiato e sono tornati a
frequentarlo anche ragazzi di provenienza africana. I numeri dell’altra
sera erano cresciuti. Quarantuno in tutto. Facciamo il possibile. Poco distante
sulla strada per Claviere c’è un altro rifugio alla Casa Cantoniera: con questi
ragazzi ci aiutiamo, se hanno bisogno di qualche pacco di pasta lo portiamo».
Fatbardha precisa: «Mio marito immigrato aiuta i migranti. Chi non le ha
vissute forse non può capire tante cose. Adesso sono trent’anni che siamo qui.
All’inizio pensavo in albanese e traducevo in italiano. Adesso penso in
italiano e traduco in albanese. A volte (congiunge le mani)
sono alla pari, non capisco più quale lingua prevale».
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