OSSIGENO PER GAZA
La
solidarietà di tutti è necessaria, se possibile.
Questa la
richiesta ricevuta da Gaza ( Dal dottor Baseem Naim, precedente Ministro della
salute e ora coordinatore dell'informazione).
Hanno
esaurito i loro mezzi per far fronte a quello che è un continuo aumento di casi
di Covid Dal 12 nov , l'aumento è stato rapido e da 4 giorni i dati riportano
un aumento costante di molti nuovi casi al giorno. Con urgenza oggi il MOH ha
comunicato di non avere ossigeno o mezzi per produrlo e nessun test, né fondi
per acquistarlo. Se i fondi arrivano, l'OMS coordinerà il passaggio degli
elementi più urgenti, ma per farlo devono essere forniti fondi.
Medical aid
for Palestine, UK con cui da molti anni collaboriamo per le emergenze mi
conferma che possono fare loro la logistica
con la
causale
OXYGEN for
GAZA
potete
donare attraverso noi o direttamente a loro
- NWRG
(NewWeapons Research Group) ONLUS
IBAN:
IT59Y0501801400000011670924
- Medical
Aid for Gaza
IBAN: GB72
CPBK 08022865218196
GRAZIE -
FATE GIRARE
GAZA. L’incubo è realtà. Il Covid travolge il sistema sanitario – Nena News
E mentre la pandemia fa sempre più paura nella Striscia, un
rapporto dell’Unctad (Onu) spiega come il blocco israeliano sia costato oltre
16 miliardi di dollari ai suoi abitanti, di cui un milione ora vive al di sotto
della soglia di povertà
«Entro una
settimana non saremo in grado di occuparci dei casi critici causati dal
coronavirus». Non lascia spazio alle interpretazioni l’allarme lanciato nei
giorni scorsi da Abdelnaser Soboh, responsabile per l’Organizzazione mondiale della
sanità dell’emergenza Covid-19 nella Striscia di Gaza. Il
rischio tanto temuto a marzo, all’inizio della pandemia, è diventato una
drammatica realtà in questo lembo di terra palestinese martoriato negli ultimi
anni dalle offensive militari israeliane, penalizzato dalla scarsità di acqua
potabile e di energia elettrica e che fa i conti con la precarietà delle
infrastrutture civili. Il numero dei contagi è in rapido aumento e la percentuale di
tamponi positivi è oltre il 20%. «Molto presto la nostra
sanità non sarà in grado di assorbire un tale aumento dei casi e potrebbero
esserci malati che non troveranno posto nelle terapia intensiva», avverte da
parte sua Abdel Raouf Elmanama, membro della task force pandemica
di Gaza.
Fino a
qualche settimana fa le conseguenze della pandemia erano state relativamente
lievi a Gaza, dove vivono poco più di due milioni di palestinesi: 65 decessi
sui circa 15mila contagi. Numeri nettamente più bassi rispetto ad altre zone
del mondo. I casi gravi però ora aumentano rapidamente. Settantanove dei 100
respiratori disponibili sono già occupati. L’ospedale
«Europeo» di Khan Yunis, il principale centro Covid di Gaza, è saturo e ogni
giorno davanti ad esso decine di sospetti positivi fanno code di ore il tampone
ed essere assistiti.
Israele ha consentito nei mesi
scorsi l’ingresso a Gaza di 60 respiratori e di una decina dispositivi per i
tamponi. Il fabbisogno però è più alto. E i palestinesi
puntano il dito proprio contro il blocco israeliano che, denunciano, non ha
permesso di riorganizzare in modo più efficiente il sistema sanitario della
Striscia. Nei giorni scorsi il movimento islamico Hamas – che controlla Gaza
dal 2007 – attraverso gli egiziani ha avvertito Israele che la situazione sta
per «andare fuori controllo». Stando a fonti ben informate
citate dal quotidiano Al Akhbar, i recenti razzi lanciati da Gaza
verso il territorio israeliano non sono altro che un segnale di allarme.
«Servono subito una decina di macchinari per l’analisi dei tamponi e altri 40
respiratori per coprire le necessità delle prossime settimane. Altrimenti il
fallimento del piano di assistenza ai malati sarà inevitabile, con conseguenze
drammatiche», ci dice il giornalista Aziz Kahlout di Gaza city.
Il messaggio è giunto
dall’altra parte delle linee armistiziali. Il ministro della
difesa Benny Gantz ha
fatto sapere che Israele è pronto «ad arrivare a una soluzione e a contribuire
a migliorare le condizioni di coloro che vivono a Gaza». A patto, ha poi
aggiunto, che si raggiunga un’intesa che preveda, tra l’altro, il rilascio di
due cittadini israeliani e la restituzione delle salme di due soldati morti in
combattimento nel 2014. Hamas ripete che lo scambio dovrà prevedere
necessariamente la liberazione di un certo numero di prigionieri politici
palestinesi da parte di Israele. Due posizioni che non si sono avvicinate negli
ultimi anni e difficilmente lo faranno ora, anche di fronte al Covid, con
rischi seri di una escalation militare. Qualche mese fa il capo di Hamas a
Gaza, Yahya Sinwar (anche lui
risultato positivo al coronavirus qualche giorno fa), a
proposito del numero insufficiente di respiratori, aveva avvertito che «se Gaza non potrà respirare,
allora non respiranno anche gli altri» (gli israeliani).
Ad
appesantire il clima è il rapporto presentato dall’Unctad (Onu) nei giorni
scorsi che spiega come il blocco israeliano di Gaza sia costato oltre 16 miliardi di
dollari ai suoi abitanti – sei volte il valore del
prodotto interno lordo di Gaza nel 2018, o il 107% del PIL totale palestinese,
compresa la Cisgiordania – e come abbia spinto, tra il 2007 e il 2018, più di un milione di
palestinesi al di sotto della soglia di povertà.
Intanto i
numeri sempre più elevati del contagio nei Territori palestinesi occupati
hanno spinto il premier dell’Autorità Nazionale, Mohammad Shtayyeh, a imporre
il lockdown totale in Cisgiordania durante i fine settimana (venerdì e sabato)
e il coprifuoco notturno dalle 19 alle 6 del mattino.
Embargo Militare contro Israele
Dossier
a cura di BDS Italia con il sostegno di PeaceLink e la collaborazione del
Collettivo A Foras Postfazione di Giorgio Beretta
E’ uscito ieri il
nuovo dossier sull’apartheid israeliana in Palestina, a cura di BDS
Italia. Un dossier che, con il sostegno di Peacelink e la
collaborazione del Collettivo AForas, descrive e documenta le continue
violazioni di diritti umani e politici di migliaia di Palestinesi nel completo
silenzio internazionale, la consistenza della forza militare di Israele e lo
stretto legame che intercorre fra la politica, gli armamenti e le complicità
che permettono a Israele di godere di totale impunità.
Il popolo palestinese
da anni chiede l’embargo militare per Israele, e il sostegno della comunità
internazionale alla campagna di Boicottaggio Disinvestimento e Sanzioni per
mettere fine alle ingerenze militari e allo stato di apartheid portato avanti
da Israele.
Israele,
è bene ricordarlo, è l’ottavo maggiore esportatore militare al mondo.
Tra il 2015 e il
2019 le esportazioni del governo e delle società private israeliani si sono
attestate a livelli record, pari al 3% del totale delle esportazioni globali di
armi.
Ma è anche
notoriamente uno dei maggiori investitori nell’ambito delle tecnologie
informatiche in campo militare. Per le aziende private avere un rapporto con
l’apparato militare e della sicurezza di Israele è un punto di forza. Solo nel
2019, le società tecnologiche israeliane hanno raggiunto un record di 8,3
miliardi di dollari di finanziamenti in conto capitale.
La maggior parte
degli investimenti è andata alle società di intelligenza artificiale che hanno
raccolto 3,7 miliardi di dollari e alle società di sicurezza informatica (1,88
miliardi di dollari).
Uno stato che basa
la sua ricchezza sulla capacità di costruire ed esportare strumenti di guerra,
sull’occupazione illegittima di interi territori e sull’oppressione di un
popolo, deve essere condannato e fermato dalla comunità internazionale.
Il
dossier fa nomi e cognomi delle istituzioni, dei governi, degli enti di ricerca
e delle aziende private coinvolte
Oltre a spiegare e
dettagliare i vari aspetti dell’ingerenza israeliana, delle operazioni di
pulizia etnica ai “test di pratiche e strategie militari” sui palestinesi, nel
dossier si fanno nomi e cognomi delle istituzioni, dei governi, degli enti di
ricerca e delle aziende private che collaborano ai progetti criminali di
Israele.
Si fa il nome
anche dell’italiana Alenia Aermacchi (oggi Leonardo) che proprio mentre erano
in corso i bombardamenti su Gaza nel 2014 ha fornito due dei trenta
cacciabombardieri commissionati dallo stato ebraico.
Ma si ricorda
anche la Pizzarotti di Parma, che collabora alla costruzione della rete
stradale israeliana, i progetti di collaborazione nell’ambito dei sistemi di
sorveglianza sociale e cybersicurezza, e l’Accordo che il nostro MIUR ha
firmato con Israele nel 2000, per la collaborazione in ambito scientifico con
università e imprese in diversi settori scientifici.
Al volume hanno
collaborato diversi accademici, analisti ed attivisti pro palestina come Angelo
Baracca, Filippo Bianchetti, Rossana De Simone, Olivia Ferguglia, Ester Garau,
Ugo Giannangeli, Flavia Lepre, Antonio Mazzeo, Loretta Mussi, Charlotte Napoli,
Raffaele Spiga, Angelo Stefanini
E’ urgente attuare
l’embargo militare totale fino a quando Israele non riconoscerà uguali diritti
a tutti i cittadini che abitano la Palestina storica, si ritirerà da tutti i
territori arabi occupati, consentirà il ritorno dei profughi e libererà i
prigionieri politici.
A noi il compito
di diffondere questo dossier, e di sostenere la campagna BDS e il popolo
palestinese.
Il Comitato Nazionale Palestinese BDS risponde alla guerra
Trump-Netanyahu contro il movimento BDS.
È abbastanza ironico che l'amministrazione Trump,
sollecitata dal regime di apartheid di Israele, continui a permettere e ad
accettare come normale la supremazia bianca e l'antisemitismo negli Stati Uniti
e nel mondo, diffamando nello stesso tempo come "antisemita" il BDS,
un importante movimento per i diritti umani guidato dai palestinesi, e i suoi
milioni di sostenitori in tutto il mondo. Il BDS ha costantemente e
categoricamente rifiutato qualsiasi forma di razzismo, compreso il razzismo
antiebraico, per una questione di principio.
La fanatica alleanza Trump-Netanyahu sta intenzionalmente
metendo sullo stesso piano l'opposizione al regime israeliano di occupazione,
colonizzazione e apartheid contro i palestinesi e gli appelli per pressioni
nonviolente con lo scopo di porre fine a questo regime da un lato, con il
razzismo antiebraico dall'altro, al fine di sopprimere la difesa dei diritti
dei palestinesi nel quadro del diritto internazionale. Questa revisione
fraudolenta della definizione di antisemitismo è stata condannata da dozzine di
gruppi ebraici in tutto il mondo e da centinaia di importanti
studiosi ebrei e israeliani, comprese autorità mondiali
sull'antisemitismo e l'Olocausto.
Sulla base di questa definizione revisionista e
fraudolenta, perfino le organizzazioni per i diritti umani che non fanno parte
del movimento BDS, ma sostengono la messa al bando delle merci delle colonie,
ad esempio, così come il 22% degli ebrei americani
di età inferiore ai 40 anni, che sostengono il boicottaggio totale
di Israele secondo un recente sondaggio, sarebbero anche etichettati come
"antisemiti".
Il movimento BDS per la libertà, la giustizia e
l'uguaglianza dei palestinesi, sta a fianco di tutti coloro che lottano per un
mondo più dignitoso, giusto e bello. Con i nostri numerosi partner, resisteremo
a questi tentativi maccartisti di intimidire e costringere i difensori dei
diritti umani palestinesi, israeliani e internazionali ad accettare l'apartheid
israeliana e il colonialismo di insediamento come destino.
Fonte: BNC
Traduzione
di BDS Italia
Un
appello dall’attore e regista Mohammad Bakri
Salve, sono
Mohammad Bakri.
Oggi vi rivolgo
una richiesta insolita, che normalmente non faccio. Voglio che facciate una
donazione, ma non a me. Voglio attirare la vostra attenzione su una delle ONG
più coraggiose della nostra cerchia, che sta attualmente avviando una campagna
di raccolta fondi. Sto parlando di Zochrot.
Io sono nato nel
villaggio di al-Bi’na in Galilea. Nel 1948, alcuni dei suoi abitanti furono
costretti a fuggire a causa di un attacco israeliano. Nonostante il villaggio
fosse stato occupato senza resistenza e sebbene la guerra fosse finita, Israele
non permise ai profughi di al-Bi’na di tornare alle loro case. Lo stesso fece
per le centinaia di migliaia di profughi palestinesi sradicati e costretti a
lasciare le loro case in quello stesso 1948. Quell’anno, centinaia di città e
villaggi palestinesi si spopolarono completamente, per poi essere distrutti
negli anni successivi dallo Stato di Israele.
Zochrot,
pioniere straordinario, lavora per far conoscere questo disastro palestinese,
la Nakba. Informa l’opinione pubblica israeliana sulla Nakba e sul destino dei
Palestinesi in questo paese, chiedendo che vengano riconosciute le ingiustizie
perpetrate contro il popolo palestinese da parte di Israele. Zochrot si impegna
affinché gli Israeliani si assumano la responsabilità della violenta espulsione
di oltre 750.000 persone dalla loro terra natale, trasformando loro –e i loro
discendenti– in rifugiati, dopo aver demolito le loro case e cancellato le loro
comunità. Riconoscere il diritto al ritorno è un passo necessario per un futuro
di pace e uguaglianza in questo paese.
Il pubblico di
destinazione di Zochrot sono gli Ebrei israeliani. Questo è a dir poco
sorprendente. Unico a farlo, la sua attività sfida e intacca le abituali
percezioni sioniste e israeliane. Rivela ciò che è nascosto alla vista di
Israele, portando alla luce coloro che sono oppressi, evocando ciò che molti
preferirebbero negare.
Zochrot è stata
la prima associazione ad organizzare, per gli Israeliani, tour educativi nelle
comunità palestinesi distrutte. Zochrot ha raccontato la loro storia, la vita
prima della Nakba e le circostanze dello sradicamento dei Palestinesi, aprendo gli
occhi a migliaia di Israeliani sulle storie che stanno dietro alle molteplici
rovine (in)visibili in tutto il paese, spesso non lontano dalle case dei
partecipanti al tour. Questo è un tipo di protesta politica profonda che
accresce la consapevolezza della realtà.
Zochrot offre
varie attività. Ha un ricco sito web trilingue con ampio materiale sulla Nakba,
i rifugiati, le comunità distrutte e il diritto al ritorno. Ha pubblicato la
mappa della Nakba con i nomi cancellati delle città e dei villaggi palestinesi
distrutti ed ha anche lanciato l’app iNakba. Provala. Offre un’esperienza
straordinaria. Include ricche informazioni in tre lingue su ogni comunità
distrutta, ma può anche essere utilizzata come programma di navigazione, un GPS
che ti porta direttamente in ogni comunità palestinese cancellata. È l’unica
applicazione al mondo che può portarti in un luogo che non c’è più, in una
comunità che vorremmo ricostruire.
Ho avuto l’onore
di partecipare personalmente più di una volta alle attività di Zochrot. Come
regista e attore, la ONG ha ospitato me e i film che ho interpretato o diretto
nel suo 48mm Film Festival Dalla Nakba al Ritorno,
un’iniziativa eccezionale per promuovere attraverso il cinema il discorso sulla
Nakba e il ritorno.
Plaudo di tutto
cuore a Zochrot e al suo attivismo. Vi invito a sostenerlo e a fare la vostra
parte nel rafforzare questa voce di verità, per il bene di tutti noi. Anche se
affronta questioni difficili –crimini, torti e violazioni dei diritti umani–
ciò che Zochrot ci offre è un messaggio di speranza.
Otto attivisti per il
clima arrestati durante la protesta contro una nuova zona industriale in
Cisgiordania - Oren
Ziv
Attivisti per la giustizia
climatica e i diritti umani si incatenano all’ingresso di una cava
israeliana per protestare contro il furto della terra palestinese e la
distruzione dell’ecosistema locale.
Dozzine di attivisti per la giustizia
climatica e per i diritti umani hanno bloccato domenica mattina l’ingresso a
una cava israeliana nella Cisgiordania occupata per protestare contro il
progetto di costruzione di una nuova zona industriale nell’area. Secondo i
manifestanti, il piano di espansione della HeidelbergCement Quarry, che
includerà anche la costruzione di un nuovo cimitero israeliano, distruggerà il
corridoio ecologico del centro del Paese ed amplierà l’annessione della
Cisgiordania.
Gli attivisti, che fanno parte del
gruppo “One Climate”, si sono incatenati all’ingresso della cava e hanno
dispiegato un gigantesco cartello con la scritta “Stop the Destruction”,
impedendo l’entrata e l’uscita dei camion che trasportano cemento attraverso il
Paese. L’azione ha causato un grande ingorgo di camion fuori dalla cava, con un
autista che ha stimato che la protesta ha causato oltre 100.000 NIS di
perdita per l’azienda.
Nel frattempo, altri attivisti hanno
distribuito volantini ai passanti, compresi i camionisti palestinesi che si
sono schierati in solidarietà con i manifestanti. Dopo tre ore di protesta, gli
agenti di polizia giunti sul posto hanno chiesto ai lavoratori della cava di
tagliare le catene dei manifestanti. Otto sono stati arrestati.
Il progetto per espandere la cava
di HeidelbergCement e costruire una zona industriale collegherebbe gli
insediamenti israeliani di Elkana e Oranit (situati a est della cava) con la
città israeliana di Rosh HaAyin (a ovest della cava e all’interno della linea
verde ), creando così una contiguità territoriale tra Israele e la
Cisgiordania. La cava esistente – che è di proprietà e gestita da Hanson, una
filiale israeliana della società tedesca HeidelbergCement, il secondo più
grande produttore di cemento al mondo – è costruita su terreni appartenenti ai
villaggi palestinesi di Deir Balut e al-Zawiya, espropriati dall’esercito
israeliano negli anni ’80.
Poiché la cava si trova sul lato
“israeliano” del muro di separazione, di fronte a un checkpoint dell’IDF sulla
Route 5, gli attivisti palestinesi della Cisgiordania non hanno potuto prendere
parte alla protesta.
“Siamo
qui per fermare i responsabili dell’occupazione e della crisi climatica. Siamo
qui per chiedere giustizia climatica per tutti coloro che vivono in questa
terra, uomini e animali, palestinesi e israeliani, donne e uomini, dI ogni
gruppo, dI ogni identità “, ha detto Ya’ara Peretz, uno dei leader dell’azione.
Il piano di ampliamento della cava è in
attesa di approvazione da parte della commissione urbanistica del governo
militare nei territori occupati, sotto l’egida del ministro della Difesa Benny
Gantz.
I manifestanti hanno denunciato che il
furto di risorse naturali dal territorio occupato e il loro trasferimento in
territorio israeliano viola il diritto internazionale. “Queste colline
appartengono anche ai villaggi che si trovano ad est del muro di separazione”,
ha detto Peretz. “Secondo il diritto internazionale, le risorse qui
appartengono ai palestinesi, non a Israele. Quello che stiamo vedendo qui è un
doppio furto. Furto della natura e dell’ambiente e furto della [terra]
palestinese “. ha detto Peretz.
“Siamo qui per fermare la
distruzione, per stabilire il collegamento tra occupazione, annessione e
clima”, ha detto Mor Gilboa, uno dei leader di One Climate, che si è incatenato
all’ingresso della cava. “Il piano per espandere la cava non viene portato
avanti solo per ragioni economiche, ma anche per creare contiguità
dall’insediamento di Elkana a Rosh HaAyin”, ha detto.
I manifestanti hanno aggiunto che le
colline su cui si trova la cava fanno parte di un corridoio ecologico nel
centro del paese che si estende dalla Cisgiordania alla pianura costiera e
ospita molti animali tra cui cervi, iene, sciacalli e cinghiali selvatici .
Diverse organizzazioni ambientaliste israeliane, inclusa la Società per la
protezione della natura in Israele, si oppongono al piano.
Oren Ziv è fotoreporter, uno dei
membri fondatori del collettivo fotografico Activestills e scrittrice per
Local Call. Dal 2003, ha documentato una serie di questioni sociali e politiche
in Israele e nei territori palestinesi occupati con un’enfasi sulle comunità di
attivisti e le loro lotte. Il suo reportage si è concentrato sulle proteste
popolari contro il muro e gli insediamenti, alloggi a prezzi accessibili e
altre questioni socio-economiche, lotte contro il razzismo e la discriminazione
e la lotta per liberare gli animali.
Trad: Grazia Parolari “contro ogni
specismo, contro ogni schiavitù” –Invictapalestina.org
Israele fornirà per 5
anni i sistemi di sicurezza alla missione dell’ONU in Mali - Antonio Mazzeo
Saranno i grandi gruppi
industriali-militari israeliani a fornire i sistemi di sicurezza e
d’intelligence per la “difesa” delle installazioni militari della missione
delle Nazioni Unite di stabiliIizzazione politica del Mali. Secondo un rapporto
pubblicato dal sito specializzato Africa Intelligence, IAI –
Israel Aerospace Industries, attraverso la controllata Advanced Technology
Systems con sede in Belgio, ha firmato un contratto con l’ONU per assicurare la
protezione esterna delle numerose basi utilizzate dalle forze di polizia e dai
reparti militari assegnati alla missione internazionale MINUSMA (Multidimensional
Integrated Stabilization Mission in Mali). La durata prevista del
contratto è di cinque anni.
IAI è il principale gruppo
industriale aerospaziale e missilistico israeliano. Con più di 15.000
dipendenti e un fatturato annuo superiore ai 3.300 milioni di dollari, IAI ha
il suo quartier generale nella città di Lod, a una quindicina di km. a sud-est
di Tel Aviv. Specie nell’ultima decade le Israel Aerospace Industries hanno
consolidato partnership strategiche con il colosso aerospaziale europeo Airbus
e con le statunitensi Boeing, Lockheed Martin, General Dynamics e
Raytheon. Tra le componenti belliche prodotte compaiono soprattutto i
recentissimi sistemi di difesa aerea “Iron Dome” e i sistemi
anti-missile a corto e medio raggio “David’s Sling”, “Arrow-2” e “Arrow-3”, ma
soprattutto i velivoli aerei a pilotaggio remoto “Heron”, in grado di
sorvolare i teatri operativi per lunghi periodi di tempo ad altitudini
medie. Con funzioni di sorveglianza, monitoraggio, rilevamento e assistenza
alle operazioni di combattimento, gli “Heron” sono stati utilizzati dalle forze
armate israeliane nelle operazioni d’attacco a Gaza, Libiano e Siria. Alcuni
velivoli sono stati acquistati anche dalle forze aeree di Australia,
Canada, Francia, India, Germania e Turchia; le agenzie europee Frontex ed EMSA
a cui è affidato il controllo e la “sicurezza” della frontiere esterne UE, si
sono affidate ai droni di IAI per le operazioni di “contenimento” dei flussi
migratori nel Mediterraneo.
Gli “Heron” israeliani sono pure
ben conosciuti in Mali: dall’1 novembre 2016 sono utilizzati infatti
dall’esercito tedesco per il supporto aereo alla missione MINUSMA. Sino ad
oggi questi droni hanno svolto nel martoriato paese africano più di 1.200
interventi con oltre 11.500 ore di volo. Qualche mese fa le forze armate della
Germania hanno rinnovato sino al giugno 2021 (con un’opzione per un altro anno
ancora) il contratto di servizio per i sistemi a pilotaggio remoto; il
contractor è Airbus Defence and Space, rappresentante in Europa del gruppo IAI.
Sempre secondo Africa
Intelligence, il contratto per la protezione delle installazioni militari
in Mali è stato preceduto nel mese di giugno da un accordo delle Nazioni Unite
con altre due importanti aziende militari israeliane, Elbit Systems e MER
Group, per la fornitura di sofisticati sistemi di individuazione ed
identificazione delle “minacce”, video-camere, apparecchiature di
telerilevamento e droni, più relativi servizi di manutenzione e formazione del
personale MINUSMA.
Elbit Systems, interamente in mano
alla finanza privata, è una delle maggiori aziende internazionali produttrici
di centri di telecomunicazione, sistemi di comando e controllo, tecnologie
di sorveglianza e per le guerre elettroniche e cyber. Uno dei “gioielli” di
morte più noto è il drone-spia e killer “Hermes”, utilizzato dall’esercito
israeliano durante il conflitto in Libano nel 2006 e contro obiettivi civili
palestinesi a Gaza e Cisgiordania tra il 2008 e il 2014. MER Group è
invece un’affermata azienda produttrice di sistemi d’intelligence con sede a
Holon e filiali e uffici di rappresentanza in mezzo mondo (ben quindici nel
continente africano).
La missione MINUSMA ha preso il via
a seguito della Risoluzione n. 2100 del 25 aprile 2013 del Consiglio di
Sicurezza dell’ONU per sostenere il processo politico di transizione e aiutare
la stabilizzazione del Mali. Con la successiva Risoluzione n. 2164 del 25
giugno 2014, le Nazioni Unite hanno ampliato i compiti della missione
internazionale alla ricostruzione e stabilizzazione della sicurezza e alla
protezione dei civili; al sostegno del dialogo politico e della riconciliazione
nazionale; all’assistenza al ristabilimento dell’autorità statale e alla
“promozione e protezione dei diritti umani nel paese”.
Alla forza MINUSMA contribuiscono
con proprie unità militari e di polizia 57 Paesi, schierati nelle principali
città del Mali tra cui Kidal, Gao, Tomboctu, Mopti e la capitale
Bamako. Alla data del 20 ottobre 2020 erano schierati nel paese africano
1.421 civili, 25 “esperti”, 1.695 poliziotti, 443 ufficiali, 12.956 membri di
forze armate e 176 “volontari UN”, più 7 velivoli aerei (con e sena pilota) e
24 elicotteri. I paesi che più stanno contribuendo a MINUSMA in termini di
personale sono il Bangladesh 1.601; la Guinea (1.512); il Ciad (1.456); il
Burkina Faso: (1.255); l’ Egitto (1.208); il Togo (1.206); il Senegal (999); il
Niger (867); la Costa d’Avorio (816); la Germania (429). L’Italia, invece,
assegna annualmente alla missione internazionale sette ufficiali
dell’Esercito, impiegati quale personale di staff nel Quartier Generale
militare a Bamako.
(Articolo
pubblicato in Africa ExPress il
26 novembre 2020)
Facciamo
come Hallel - Tonio
Dell'Olio
Nella
giornata di riflessione sulla violenza sulle donne mi piace accendere una luce
sulla "nonviolenza delle donne". Ci sono gesti di coraggio e prese di
posizione determinate, che solo le donne riescono a compiere. Nei giorni scorsi
è stata scarcerata dopo 56 giorni di detenzione in un programma di rieducazione
Hallel Rabin, una ragazza di 19 anni che per motivi di coscienza si è rifiutata
al servizio militare in Israele. Col suo gesto chiede che il suo Paese metta
fine alle violenze quotidiane perpetrate ai danni delle popolazioni palestinesi
e riconosca il diritto al servizio alternativo a quello militare per le
obiettrici e gli obiettori di coscienza. Nella lettera di motivazioni inviata a
suo tempo alle autorità israeliane scrive tra l'altro: "L'uccisione, la
violenza e la distruzione sono diventate così comuni che il cuore si indurisce
e lo ignora. (…) Il male è diventato per noi parte della famiglia, lo
difendiamo e lo giustifichiamo o chiudiamo gli occhi di fronte ad esso ed
evitiamo la responsabilità. (…) Non sono preparata a mantenere e alimentare una
realtà violenta. Non sono preparata a far parte di un esercito soggetto alla
politica di un governo che va contro i miei valori (…)". Digitate il nome
di questa ragazza in YouTube e troverete qualche video che vale una meditazione
sul significato di sicurezza, difesa, rispetto e, soprattutto, nonviolenza.
Hallel è cresciuta nel Kibbutz di Harduf e i suoi genitori sono fieri di lei.
Anche noi.
I cineasti boicottano
il pinkwashing israeliano del TLVFest - Tamara Nassar
Più di una dozzina di registi hanno
sostenuto l’appello palestinese volto a boicottare il TLVFest, il Festival
Internazionale del Film LGBTQ di Tel Aviv sostenuto dal governo.
Sei dei registi si sono anche uniti a
170 altri artisti da tutto il mondo che hanno firmato un impegno lanciato
all’inizio di quest’anno per boicottare il festival.
Il TLVFest, che si terrà nel mese
corrente, quest’anno ha rafforzato il suo abbraccio al governo israeliano di
estrema destra, in particolare al ministero degli affari strategici.
Il ministero è l’agenzia principale
nello sforzo globale di Israele per diffamare e sabotare il movimento per i
diritti dei palestinesi nel mondo.
Il TLVFest è una pietra angolare della
strategia di propaganda israeliana nota come pinkwashing.
Questo schiera la presunta apertura di Israele verso le questioni LGBTQ
per deviare le critiche dai suoi abusi dei diritti umani e dai crimini di
guerra contro i palestinesi.
Il pinkwashing mira anche a presentare
falsamente Tel Aviv come un luogo sicuro per i palestinesi che cercano
relazioni omosessuali, mentre esagerano o mentono sui pericoli che essi devono
affrontare nella loro stessa società.
La strategia è tipicamente rivolta al
pubblico liberale occidentale.
Sponsorizzazione del Ministero
Il multimilionario Ministero degli
Affari Strategici è uno dei principali sponsor del Festival.
Gestito da ufficiali delle agenzie di
spionaggio israeliane, intraprende una guerra globale contro il BDS – il
movimento per il Boicottaggio, il Disinvestimento e le Sanzioni.
Quando i primi registi hanno iniziato a
ritirarsi, il TLVFest ha cercato di nascondere la sua partnership con il
Ministero oscurando il suo logo sul sito web del Festival.
“Ha prima sostituito la versione
inglese del logo del ministero con una versione ebraica, poi l’ha rimossa del
tutto solo per sostituirla di nuovo con un logo senza marchio”, ha detto la
Palestinian Campaign for the Academic and Cultural Boycott of Israel (PACBI).
Ma il sostegno del Ministero al
festival è ancora in corso, nonostante gli sforzi per nasconderlo.
Il ministero, ad esempio, sta ancora
caricando video teaser del festival sul suo canale YouTube.
Partnership
Diversi governi europei stanno
sponsorizzando il Festival.
Le ambasciate europee solitamente
partecipano anche all’altro grande evento di pinkwashing di Israele, l’annuale
Pride Parade di Tel Aviv.
TLVFest collabora anche con Creative
Community for Peace, un gruppo di facciata dell’organizzazione di lobby
israeliana di estrema destra StandWithUs.
Il suo scopo è minare l’appello della
società civile palestinese al BDS, soprattutto tra coloro che si identificano
come LGBTQ.
In un’e-mail vista da The Electronic
Intifada, Creative Community for Peace ringrazia i registi rimasti nel
Festival.
Il direttore del gruppo, Ari Ingel,
sostiene che il movimento BDS “sta diffondendo bugie su di noi”.
“Posso assicurarvi che non siamo
allineati con nessuna di quelle organizzazioni citate”, ha aggiunto Ingel,
senza nominare le organizzazioni a cui si riferiva.
“Siamo più che felici di chattare e
rispondere a qualsiasi domanda voi possiate avere”, ha detto Ingel agli
artisti.
Tuttavia, questo atteggiamento
amichevole non viene mostrato agli artisti che si sono ritirati dal Festival.
Gli organizzatori del TLVFest si sono
rifiutati di onorare le richieste di sette registi che hanno chiesto il ritiro
dei loro film.
L’email di Ingel menziona che un film
che il festival sta proiettando è The Polygraph, realizzato da Samira Saraya,
una cittadina palestinese di Israele.
Non è la prima volta che Saraya
partecipa al TLVFest e ad altri festival cinematografici israeliani.
Così Saraya ha descritto se stessa:
“una palestinese-israeliana che vive in un luogo che nega la mia esistenza, e
una donna lesbica araba in una società conservatrice e omofobica”.
Saraya contribuisce alla falsa
narrativa israeliana secondo cui la società palestinese è intollerante nei
confronti delle relazioni omosessuali o LGBT, mentre la società israeliana non
lo è.
Al di fuori della presunta Tel Aviv
liberale, gran parte della società ebraica israeliana considera l’omosessualità
un tabù. Essa è condannata anche da rabbini israeliani di alto livello.
Anche la comunità LGBTQ di Israele è
stata bersaglio di attacchi violenti.
Nel 2014, i riservisti della famigerata
unità militare di sorveglianza 8200 di Israele hanno ammesso di aver utilizzato
i dati privati più intimi dei palestinesi, comprese le informazioni sulle
loro attività sessuali, per ricattarli e farli diventare informatori di
conoscenti e familiari ricercati da Israele.
È anche degno di nota il fatto che la
stragrande maggioranza dei palestinesi e degli arabi che intrattengono
relazioni omosessuali non si identifichi secondo il binario euro-americano
omosessuale-eterosessuale, come ha ampiamente scritto il professore della
Columbia University Joseph Massad.
Inoltre, i rapporti sessuali tra
persone dello stesso sesso non sono illegali secondo la legge palestinese.
Trad: Lorenzo Poli “siamo realisti,
esigiamo l’impossibile” – Invictapalestina.org
Morire di Covid o di fame: il terribile
dilemma nell'inferno di Gaza - Umberto De Giovannangeli
Morire di Covid o morire di fame. E’ l’inferno di
Gaza. Una prigione a cielo aperto, isolata dal mondo per l’assedio israeliano
che dura da oltre tredici anni. E ora anche una prigione “infetta”. La
Striscia di Gaza ha subito un numero record di nuovi casi di coronavirus ogni
giorno, e il ministero della Salute di Gaza del governo di Hamas, ha
dichiarato che sabato ci sono stati 891 nuovi casi nell'ultimo giorno.
Il numero di casi è salito a 5.036, con 332 in ospedale e 78
in gravi condizioni, e i decessi sono saliti a 62, la maggior parte negli
ultimi due mesi. Il ministero non pubblica i dati sul numero di pazienti che
utilizzano i ventilatori, ma secondo stime non ufficiali, tra il 40 e il 50 per
cento dei ventilatori è utilizzato.
"Stiamo raggiungendo una situazione critica e non c'è
dubbio che la Striscia avrà bisogno di un intervento esterno sul fronte medico
e umanitario", ha detto ad Haaretz un membro del
sistema sanitario di Gaza. La fonte ha aggiunto che gli operatori sanitari e i politici non erano d'accordo
su questioni chiave, mentre le autorità erano in ritardo nell'imporre un
blocco. Nel frattempo, la stragrande maggioranza dei residenti di Gaza viveva
con un reddito di poche decine di shekel al giorno, quindi un isolamento
significherebbe una fame diffusa. “Immaginate che un padre
di sette o otto figli non possa permettersi nemmeno le maschere per i suoi
figli, e le maschere costino uno shekel a testa", dice.
Senza speranza
Il Centro Al Mezan per i diritti umani di Gaza ha riferito
che migliaia di lavoratori giornalieri della Striscia hanno perso il lavoro
negli ultimi mesi a causa del peggioramento dell'economia, e che l'80 per cento
delle famiglie riceve aiuti per poter sfamare i propri figli. I funzionari
della sicurezza di Gaza stanno cercando di imporre restrizioni per impedire gli
incontri, soprattutto la sera. Cercano anche di assicurare che le persone
indossino le maschere nei grandi centri commerciali, ma durante il giorno la
maggior parte dei cittadini di Gaza non indossa maschere.
Inferno in terra
La situazione nella Striscia è molto grave, sia a causa
dell’embargo imposto da Israele fin dal 2007, sia per i conflitti combattuti
negli ultimi anni tra le forze israeliane e i gruppi palestinesi. La chiusura
della centrale elettrica sta peggiorando ulteriormente le cose, soprattutto in
un momento in cui questi territori stavano già soffrendo frequenti e diffusi
blackout. Mohammed Thabet, uno dei portavoce della compagnia di distribuzione
dell’elettricità di Gaza, ha detto all’Associated Press che
“molti servizi rischiano il collasso, se la crisi non verrà risolta», mentre il
ministro della Salute della Striscia ha parlato di «pericolose conseguenze per
i pazienti che si trovano nei reparti di terapia intensiva”. Oggi le uniche
linee che forniscono elettricità nella Striscia sono quelle che partono da
Israele. Il 97% di tutta l'acqua di Gaza non è adatta al consumo umano,
secondo l'Oms (Organizzazione mondiale della sanità), il che pone un
interrogativo estremamente urgente: come potrebbero gli ospedali di Gaza
affrontare l'epidemia di Coronavirus quando, in alcuni casi, l'acqua pulita non
è nemmeno disponibile allo Al-Shifa, l’ospedale più grande di Gaza? Anche
nei casi in cui l’acqua è disponibile, i medici, gli infermieri ed il personale
sanitario non sono in grado di sterilizzare le mani a causa della pessima
qualità di quest’ultima. Il gel disinfettante per le mani è sempre stato
quasi introvabile; le norme igieniche basilari sono spesso disattese per cause
di forza maggiore; l’elevatissima densità di popolazione e le abitudini sociali
quali ad esempio le frequenti strette di mano rendono Gaza un luogo nel quale
il virus si diffonderebbe in maniera incontrollata nel giro di un paio di
settimane.
Il sovraffollamento degli ospedali, la carenza di macchinari
per la ventilazione meccanica e di posti letto in terapia intensiva,
l’inquinamento e le conseguenti patologie che affliggono una gran parte della
popolazione gazawa che risulta malata ed immunodepressa, porterebbero ad una
mortalità esponenzialmente più elevata rispetto al resto del mondo. A questo si
aggiunge un sistema fognario del tutto inadeguato con oltre un terzo delle
famiglie che non è connesso al sistema delle acque reflue. Una situazione di
carenza idrica di cui fanno le spese soprattutto donne e bambini, che in molti
casi sono costretti a lavarsi, bere e cucinare con acqua contaminata e si
trovano esposti così al rischio di diarrea, vomito e disidratazione.
Gli effetti del blocco israeliano nella vita di tutti i
giorni: commercio praticamente inesistente, famiglie divise e persone che non
possono muoversi per curarsi, studiare o lavorare. Siamo all’annientamento di
una popolazione: oltre il 65% degli studenti delle scuole gestite dall’Unrwa
(l’Agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi) a Gaza non riescono a trovare lavoro
a causa delle dure condizioni di vita, dell’aumento della povertà e dei tassi
di disoccupazione.
Bambini, le prime vittime
In un documentato report, Save the Children, chiede a Israele
di interrompere subito il blocco di Gaza, dove quasi la metà della popolazione
non ha lavoro e l’80% sopravvive solo grazie agli aiuti umanitari, e chiede
alle autorità palestinesi e israeliane di fornire i servizi di base
indispensabili agli abitanti dell’area. I 13 anni di isolamento hanno ridotto
progressivamente la disponibilità di energia elettrica per le case che ora si
limita a due ore al giorno o è totalmente assente per troppe persone. La
mancanza di energia elettrica sta penalizzando un’infrastruttura già
paralizzata dal blocco e dal conflitto, costringendo a frequenti e lunghe
sospensioni del trattamento delle acque reflue che hanno causato l’inquinamento
e la contaminazione di più del 96% delle falde acquifere, non sono più
utilizzabili dall’uomo, e del 60% del mare di fronte a Gaza. Ogni giorno si
riversano infatti nel mare 108 milioni di litri di acque reflue non trattate,
l’equivalente del contenuto di 40 piscine olimpioniche. “I bambini di Gaza
sono tristemente prigionieri del conflitto più politicizzato del mondo e la
comunità internazionale non ha saputo reagire adeguatamente alle loro
sofferenze. L’occupazione da parte di Israele e le divisioni nella leadership
palestinese stanno rendendo la vita impossibile. Se hai 10 anni e vivi a Gaza
hai già subito tre terribili escalation del conflitto. I bambini di
Gaza hanno già sofferto 13 anni di blocco e di minacce continue a causa del
conflitto. Vivere senza accesso ai servizi indispensabili come l’elettricità ha
conseguenze gravi sulla loro salute mentale e sulle loro famiglie. Stiamo
assistendo ogni giorno ad un aumento del livello di ansia e aggressività,”
rimarca Jennifer Moorehead, Direttore di Save the Children nei Territori
Palestinesi Occupati.
La mancanza di energia elettrica ha un grave impatto
sulla vita dei bambini di Gaza, che non possono avere accesso ad acqua potabile
sufficiente o nutrirsi di cibi freschi, essere assistiti dai servizi sanitari e
di emergenza quando servono o mantenere un livello minimo di igiene per
mancanza di acqua corrente. Non possono dormire sufficientemente durante la notte
per il troppo caldo ed essere quindi riposati per studiare a scuola, o fare i
compiti o giocare a causa dell’oscurità. “Qui è diverso dagli altri paesi che
hanno l’energia elettrica per tutto il giorno, la nostra vita non è come la
loro. Il mio sogno più grande è poter essere come gli altri bambini che vivono
in pace, in sicurezza e hanno l’elettricità,” dice agli operatori di Save the
Children Rania che ha 13 anni e vive a Gaza.
Rania e i bambini di Gaza hanno conosciuto solo la guerra. E
le sue conseguenze che segnano l’esistenza fin dalla più giovane età. Il primo
dato emerso da uno studio dell’Unicef successivo alla guerra di Gaza
dell’estate 2014, indica che il 97% dei minori interpellati aveva visto
cadaveri o corpi feriti, e che il 47% di questi aveva assistito direttamente
all'uccisione di persone. I sintomi rilevati durante lo studio includevano:
continui incubi e flashback; paura di uscire in pubblico, di rimanere soli, o
di dormire con le finestre chiuse, nonostante il freddo; più nello specifico, i
disturbi fisici più frequenti erano disturbi del sonno, dolori corporei,
digrigno dei denti, alterazioni dell’appetito, pianto continuo, stordimento e
stati confusionali; quelli emotivi includevano rabbia, nervosismo eccessivo,
difficoltà di concentrazione e affaticamento mentale, insicurezza e senso di
colpa, paura della morte, della solitudine e dei suoni forti. La conseguenza
più diffusa era il Disturbo post-traumatico da stress (Dpts), ovvero
l’insieme dei disagi psicologici che possono essere una possibile risposta
dell’individuo a eventi traumatici o violenti. Si tratta di sintomi frequenti
in qualunque territorio martoriato da una guerra ma, nel caso dei bambini di
Gaza, la situazione diventa ancora più insostenibile, sia per l’alta percentuale
di minorenni nella Striscia (circa la metà della popolazione, in un territorio
tra i più popolati al mondo, con 4.365 persone per chilometro quadrato), sia
perché Gaza è una striscia di terra, isolata e circondata da Israele e dal mare
perennemente sorvegliato dalla marina dello Stato ebraico.
Fuga nella morte
Le guerre, l'assedio israeliano e lo scisma politico hanno
apparentemente normalizzato la morte, dice Samah Jaber, direttore dell'unità di
salute mentale del Ministero della Salute palestinese. La morte è diventata
così naturale agli occhi di molti che ora vale più della vita stessa, che ha
perso ogni valore, ha detto Jaber in un rapporto di Al Jazeera del
9 luglio sull'ondata di suicidi che sta investendo Gaza, e che riguarda
soprattutto i giovani.
Nelle ultime settimane, diverse persone che in passato
avevano tentato il suicidio hanno raccontato ai giornalisti le loro
motivazioni: difficoltà economiche causate dalla perdita di un reddito
regolare, l'accumulo di debiti, pegni e persino l'arresto per essere rimasto
indietro con i pagamenti bancari.
La Banca Mondiale prevede che il 64% delle famiglie di Gaza
vivrà al di sotto della soglia di povertà (rispetto al 53% prima della
pandemia). Anche la disoccupazione (42 per cento nell'enclave alla fine del
2019) dovrebbe aumentare. Tra i giovani, ha già da tempo superato il 50 per
cento.
Alcune delle organizzazioni non governative che lavorano nel
settore sanitario a Gaza hanno scelto di non essere coinvolte nella recente
discussione sui suicidi, per non dare l'impressione che ci sia stato un aumento
significativo del loro numero. Il suicidio è ancora considerato tabù e
socialmente vergognoso nella società musulmana palestinese.
Diversi siti di notizie hanno pubblicato le statistiche dei
suicidi e dei tentativi di suicidio nella Striscia di Gaza negli ultimi anni.
Secondo Al-Araby Al-Jadeed, nel 2015, su 553 tentativi di
suicidio, 10 si sono conclusi con la morte; nel 2016, sono stati 16 su 626
tentativi. Le cifre per il 2017 sono state 566 e 23; per il 2018, 504 e 20; e
nel 2019 ci sono stati 133 tentativi, di cui 22 "riusciti". Come già
notato, nei primi sette mesi di quest'anno, 12 palestinesi della Striscia si
sono suicidati, e l'87 per cento di loro aveva meno di 30 anni. Poco più della
metà dei tentativi di suicidio sono stati compiuti da donne, ma tra le persone
che si sono suicidate, gli uomini sono la maggioranza.
Questa è la “normalità” a Gaza. Una tragedia che si consuma
nel silenzio della comunità internazionale. Un silenzio assordante. Colpevole.
Un silenzio di morte.
(ha collaborato Hosama Hamdan)
“Un’estetica provocatoria”: il
marchio di moda palestinese che rifiuta gli stereotipi - Samar Hazboun
Il termine “moda” evoca solitamente
immagini di stoffe srotolate su tavoli da taglio, matassine
di filato, aghi, fili e, naturalmente, modelle. Ma in un mondo in cui
l’accessibilità e gli spostamenti sono determinati da una forza occupante,
il fashion design assume una nuova forma.
Un nuovo collettivo di moda palestinese
chiamato tRASHY cerca di sfidare questi limiti trasformando gli atteggiamenti
culturali, sia all’interno della società palestinese che nel modo in cui
l’Occidente interagisce con le comunità di lingua araba. I suoi fondatori,
quattro palestinesi sulla ventina sparsi in tutto il Medio Oriente, vogliono
capovolgere la narrazione, a cominciare dal modo in cui il marchio viene
scritto.
Dalla sua fondazione, avvenuta tre anni
fa, tRASHY è diventato molto di più di un marchio di moda; è un microcosmo
delle molte sfide che i giovani palestinesi devono affrontare in Palestina e
nel mondo, e una piattaforma per coloro che per generazioni sono stati
svantaggiati politicamente, economicamente e socialmente.
Nell’estate del 2017, il membro
fondatore e regista Shukri Lawrence iniziò a disegnare t-shirt che
mescolavano caratteri arabi con loghi internazionali, “per mostrare
all’Occidente qualcosa che è abituato a vedere, ma non dalla Palestina”, dice.
Sei mesi dopo, i suoi amici di liceo Reem Kawasmi e Luai Al-Shuaibi si
unirono a lui e il gruppo ampliò i propri prodotti includendo
abiti, gioielli e altro ancora.
Avevo intenzione di incontrare Lawrence
a Gerusalemme Est, dove vive, e intervistarlo di persona. Ma era ad Amman a
prepararsi per una sfilata di moda quando a marzo è scoppiato il coronavirus e
da allora non è più potuto tornare.
Siamo quindi ricorsi a Zoom, una
pratica a cui Lawrence era abituato anche prima della pandemia. Le piattaforme
di chat online sono diventate l ‘”ufficio” del team, ha spiegato, poiché questo
è l’unico modo in cui possono riunirsi. Come molti palestinesi, i membri del
team vivono in luoghi differenti e hanno documenti diversi che
determinano dove possono viaggiare. Sebbene Kawasmi e Al-Shuaibi risiedano a
Gerusalemme est, il quarto membro, Omar Braika, vive ad Amman. Internet è
il luogo in cui possono sfuggire agli ostacoli imposti da Israeele come la
barriera di separazione, i posti di blocco e i controlli di sicurezza
arbitrari.
In un periodo di blocchi e
restrizioni di viaggio, è anche il modo in cui qualcuno come me, un fotografo
di Betlemme, ha potuto documentare la loro storia. Cercare di scattare
foto su un supporto virtuale è stata per me una nuova sfida: una buona
narrazione visiva spesso richiede la creazione di un rapporto di fiducia
di un senso di intimità. Ma questa modalità mi ha anche permesso di capire
meglio gli ostacoli che la squadra deve affrontare regolarmente. Progettare
capi di abbigliamento è un lavoro fisico che richiede di toccare, drappeggiare
e tagliare il tessuto; solo artisti determinati e fantasiosi possono svolgere
un tale compito comunicando solo digitalmente.
Oltre alle restrizioni di
movimento, il team deve affrontare difficoltà nel processo di produzione,
spiega Lawrence. Non tutti i tessuti sono prontamente disponibili in Palestina,
e i sarti con cui lavorano hanno sede principalmente nella Cisgiordania
occupata. Per raggiungerli, i progettisti devono attraversare i posti di
blocco.
L’estetica visiva di tRASHY è per lo
più ispirata a immagini apparse in Palestina, e talvolta in tutta la più ampia
regione di lingua araba, con l’introduzione di Internet negli anni ’90. Molte
di queste immagini kitsch vengono trovate in ambienti sha’bi, “folk” o
online. TRASHY le incorpora nelle sue creazioni utilizzando la satira, un
modo di rompere gli stereotipi, spiega Lawrence.
“Quello che chiamiamo kitsch, o
lowbrow, o sha’bi , è di solito solo un’altra parola per definire i poveri o la
classe operaia”, spiega lo stilista palestinese Omar Jospeh Nasser,
specializzato in tessuti storici rurali della Palestina. Alcuni marchi
feticizzano la povertà con il pretesto fuorviante di anti-moda, aggiunge. “Non
credo che questo sia lo scopo di TRASHY.”
“L’anti-moda è l’inflessione della moda;
rifiuta consapevolmente gli ideali di bellezza e di lusso fissati dalla moda e
abbraccia ciò che la moda non proporrebbe mai : gli abiti dei poveri e
dei diseredati “, continua Nasser. “L’estetica provocatoria di tRASHY è
decisamente palestinese, anche tradizionalmente; non capovolge ciò che
qualcuno pensa sia bello. Sappiamo di essere belli. ”
Secondo Lawrence, “TRASHY è
un’esperienza. Ogni collezione e sfilata di moda ha un messaggio “. Il marchio
mira ad affrontare argomenti come i diritti delle donne, i diritti delle
minoranze e il genere. Recentemente, tRASHY ha donato i proventi del proprio
lavoro a Rainbow Street, un’organizzazione LGBTQ con sede in Giordania,
per aiutare gli arabi queer in Medio Oriente durante la pandemia COVID-19.
“Per noi è molto importante
rappresentare tutti questi gruppi, non solo come palestinesi, ma come popolo
del Medio Oriente”, osserva Al-Shuaibi, studente del terzo anno di diritto
internazionale e criminologia presso l’Università ebraica di Gerusalemme, dove
è anche assistente didattico. “Vogliamo sfidare gli stereotipi secondo i
quali siamo accusati di essere motivati da ideologie radicali e mostrare chi
siamo e quanto siamo diversi”.
Questo viaggio ha incoraggiato il team
ad abbracciare le proprie identità individuali e le prospettive sociopolitiche,
spiega Kawasmi. È proprio questa aspirazione all’autoespressione, insieme
all’attenzione per le questioni di giustizia sociale, che ha unito il gruppo.
Quando si parla di Palestina, anche
l’arte e la moda diventano politiche. Con la costante cancellazione da parte
del comune di Gerusalemme dell’identità visiva della città – attraverso azioni
come la giudaizzazione dei nomi delle strade, la demolizione di case, la
costruzione di moderne strutture capitaliste (come il Mamilla Mall) al posto di
siti storici e di un programma scolastico che ignora la narrativa palestinese –
molte organizzazioni artistiche palestinesi della città si sentono obbligate a
sostenere soprattutto quegli artisti che lavorano per resistere a questa
cancellazione.
Di conseguenza, tuttavia, ci sono pochi
spazi per l’espressione artistica che cerca di spingersi oltre questo tema.
“L’arte palestinese spesso si isola e si fissa sul nostro rapporto con il
sionismo / colonialismo occidentale, e ignora la moltitudine di ingiustizie
intersezionali e di oppressione presenti anche nella nostra società e nel mondo
in generale”, spiega Nassar, l’esperto di moda. “La maggior parte
dell’espressione creativa palestinese è sicura, romantica, priva di autocritica
e rimane legata alla narrativa riduttiva di ‘loro’ e ‘noi’. Se siamo
davvero seri riguardo al nostro rifiuto del colonialismo, dell’occupazione, e
ingiustizia, dobbiamo andare oltre questa dicotomia. L’occupazione non può e
non deve diventare una comodità: un soggetto sicuro e una fonte infinita di
ispirazione “.
Con poche istituzioni disponibili
a supportare la visione e il lavoro di tRASHY, il team ha dovuto “far
accadere le cose da soli”, afferma Kawasmi. Ancora una volta, il collettivo si
è rivolto a Internet per raccogliere sostegno e diffondere i propri progetti.
Kawasmi non è ottimista, tuttavia, e
non crede che nella sua vita avverrà un cambiamento significativo. Ma
mantiene la speranza che ogni punto e ogni nuovo disegno possa creare
una nuova possibilità.
L’Alta
Corte conferma: tre mesi di lavori socialmente utili per l’omicidio di un
palestinese - Michele Giorgio
AGGIORNAMENTO
L’Alta
Corte di Giustizia israeliana nei giorni scorsi ha respinto la una petizione
che chiedeva la revoca del patteggiamento. Durante le indagini il
militare ha confessato di aver aperto il fuoco, da lontano, su entrambi
ritenendoli dei «terroristi» intenzionati a lanciare pietre contro auto
israeliane. Invece i due palestinesi erano coinvolti in un banale incidente
stradale. I giudici hanno accolto la tesi della «buona fede» del militare,
convinto di trovarsi di fronte al «pericolo di un attacco terroristico» e hanno
confermato la «pena».
Pubblichiamo
l’articolo scritto il mese scorso su questa vicenda da Michele Giorgio per il
quotidiano Il Manifesto
«Ahmad
aveva 22 anni quando è stato ucciso da quel soldato israeliano. Era il primo
dei miei figli. Dopo la sua nascita abbiamo aspettato qualche anno prima di
allargare la famiglia. Per questo gli altri miei figli lo consideravano un
secondo padre». Wafaa Manasrah, la mamma di Ahmad
Manasrah, ha la voce rotta dall’emozione mentre parla di quel
figlio che, ci ripete, gli aveva portato solo gioia e mai un dispiacere. «Si
mostrava quasi sempre felice, era socievole, a scuola non aveva mai avuto
difficoltà nello studio e nei rapporti con i compagni di classe. E si era
iscritto all’università, alla facoltà di economia e commercio, perché voleva
diventare un esperto di marketing…invece è stato ucciso, così, senza motivo. Mi
hanno strappato mio figlio senza motivo», aggiunge schiarendosi la voce.
La
vita di Ahmad Manasrah è terminata il 20 marzo del 2019, poco
dopo le 21, mentre tra risate e battute scherzose, con tre amici il giovane
rientrava in auto a Wadi Fukin. Indossava l’abito
buono perché nel pomeriggio a Betlemme aveva partecipato alla festa di nozze di
una coppia di amici. Nei pressi di un posto di blocco dell’esercito israeliano
a sud del villaggio di Al Khader, non lontano dall’insediamento
coloniale di Efrat, è stato colpito – al petto e alle braccia –
da tre dei sei proiettili sparati da un soldato. Del suo caso si parlò
parecchio l’anno scorso. Ed è ritornato di attualità nei giorni scorsi perché
il militare coinvolto, di cui non è nota l’identità, dopo essersi dichiarato
«addolorato» per l’accaduto, ha patteggiato la pena con la procura militare:
sarà condannato per «omicidio colposo» causato da «negligenza» ma riceverà una
pena detentiva di appena tre mesi, sospesa, che sconterà svolgendo lavori utili
in una caserma.
Il
procuratore non ha preso in considerazione il ferimento grave, causato dagli
spari dello stesso soldato, ad un altro palestinese, Alaa Raayada, 38 anni e
padre di due bambine. L’Alta Corte di giustizia, su
ricorso di Shlomo Lecker, avvocato della famiglia Manasrah, ha congelato per
ora l’accordo. Non è detto che questa azione preluda all’annullamento
dell’accordo. «Il giudice Noam Sohlberg ha accolto la richiesta della famiglia
di riesaminare il patteggiamento ma non è possibile fare previsione sulle sue
decisioni, potrebbe pronunciarsi contro l’accordo proposto dalla procura
militare o prendere la direzione opposta. Meglio non illudersi, quando di mezzo
c’è l’operato di soldati in servizio, ottenere giustizia per i
palestinesi è una impresa eccezionale», ci dice Roy
Yellin, di B’Tselem, ong israeliana per la difesa dei
diritti umani nei Territori occupati che sta seguendo la vicenda. Wafaa
Manasrah non riesce a farsene una ragione: «Per gli israeliani la vita dei
palestinesi non vale nulla, la vita di mio figlio vale tre mesi di lavori per
la comunità».
Quanto
accaduto la sera del 20 marzo dello scorso anno, non è un fatto
insolito nella Cisgiordania palestinese sotto occupazione. Tutto ebbe inizio
con un banale alterco tra due automobilisti. Alaa Raayada accostò a destra la
sua auto, con a bordo la moglie e le figlie. Voleva dirne quattro a un altro
automobilista palestinese dalla guida un po’ scorretta. A 50 metri di distanza
c’era il posto di blocco israeliano. L’altro automobilista invece non si fermò
e proseguì il suo tragitto. Quando Alaa fece per tornare al volante, da una
torre di sorveglianza del posto di blocco israeliano partirono alcuni colpi di
arma automatica. Uno lo raggiunse all’addome. Tra le grida di dolore dell’uomo,
la moglie chiese soccorso ai quattro giovani sull’auto dietro di loro. I
ragazzi chiamarono un’ambulanza. Poi di fronte all’abbondante sanguinamento del
ferito decisero di portarlo subito all’ospedale.
Ahmad
Manasra restò con la moglie e le bambine di Raayada. Voleva mettere in moto
l’auto e portarle a casa. Dal posto di blocco spararono
ancora, tre colpi. Ahmad fu centrato in pieno petto. Inutile il tentativo di
rianimarlo effettuato dai sanitari giunti con l’ambulanza chiamata in
precedenza. Il giovane arrivò morto all’ospedale di Beit Jala. «Qualcuno ci
avvisò che Ahmad aveva avuto un problema, senza darci particolari», ricorda la
mamma «quando mio marito ed io arrivammo all’ospedale c’erano tante persone
davanti all’ingresso, ero confusa non sapevo che pensare. Poi qualcuno disse
‘lasciateli passare, c’è la mamma dello shahid’ (martire) mi si gelò il sangue
addosso, capii che Ahmad era morto. La fitta di dolore che provai in quel
momento resterà incisa nel mio cuore per sempre».
Il soldato
coinvolto, durante le indagini, ha dichiarato di aver sparato perché credeva
che «quei palestinesi stessero lanciando sassi contro automobili di cittadini
israeliani» e di aver esploso in aria in precedenza colpi
di avvertimento. Il portavoce dell’esercito ha aggiunto che quel giorno «era
stato diffuso l’allerta su un possibile attacco terroristico». Per i
palestinesi si tratta di motivazioni volte a giustificare in qualche modo
l’uccisione di Ahmad ed evitare al militare una condanna vera. Ricordano
il caso di Elor Azaria, un soldato israeliano che a Hebron
nel 2016 uccise a sangue freddo un accoltellatore palestinese a terra
gravemente ferito e non in condizione di nuocere. Condannato a 18 mesi di
detenzione, Azaria fu graziato dopo aver scontato metà della pena.
Questi
patteggiamenti però sono rari, sottolinea B’Tselem. In
quasi tutti i casi in cui i soldati uccidono palestinesi senza ragioni, le
indagini si chiudono senza un rinvio a giudizio. Solo
occasionalmente la procura incrimina i militari e, aggiunge l’ong, poi propone
dei patteggiamenti con pene irrisorie. Di fronte a ciò B’Tselem qualche anno fa
ha deciso di non seguire più queste indagini militari perché, ha spiegato, il
suo operato oltre a non produrre risultati utili per le famiglie delle vittime
palestinesi offriva indirettamente una sorta di copertura alle uccisioni.
Per lo Stato ebraico,
l’Olocausto è uno strumento da manipolare - Orly Noy
Qualcosa di straordinario è accaduto
nella stessa settimana in cui un comitato governativo israeliano interno ha
approvato la nomina di Effi Eitam, un ex generale delle Forze di Difesa
Israeliane e politico di estrema destra, a presidente dello Yad Vashem, il
museo israeliano dell’Olocausto. In un incontro con il primo ministro Benjamin
Netanyahu, il Segretario di Stato uscente degli Stati Uniti Mike Pompeo ha
annunciato che il presidente Donald Trump intende dichiarare antisemita il
Movimento di Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS).
La vicinanza tra i due annunci
simboleggia la fase finale della metamorfosi manipolativa che l’antisemitismo e
l’Olocausto hanno subito nelle mani del sionismo.
Effi Eitam, un falco di destra e un
dichiarato razzista, ha fatto le seguenti osservazioni nel 2006 durante il
servizio funebre per il tenente Amichai Merhavia, ucciso nella seconda guerra
del Libano:
“Dovremo fare tre cose:
espellere la maggior parte degli arabi di Giudea e Samaria (Cisgiordania) da
qui. È impossibile con tutti questi arabi ed è impossibile rinunciare al
territorio, perché abbiamo già visto quello che stanno facendo lì. Alcuni
possono essere in grado di rimanere in determinate condizioni, ma la maggior
parte dovrà andarsene. Dovremo prendere un’altra decisione, ovvero cacciare gli
arabi israeliani dal sistema politico. Anche qui le cose sono chiare come il
giorno: abbiamo creato una quinta colonna, un gruppo di traditori di primo
grado, quindi non possiamo continuare a consentire una presenza così ostile e
ampia nel sistema politico israeliano. Terzo, di fronte alla minaccia iraniana,
dovremo agire diversamente da come abbiamo fatto fino ad oggi. Queste sono tre
cose che richiederanno un cambiamento nella nostra etica di guerra”.
L’espulsione di un popolo nativo
occupato dalla propria terra da parte della forza occupante è un crimine di
guerra. Impedire la partecipazione dei cittadini al sistema politico basato
sull’appartenenza etnica o nazionale è simile al fascismo. Il nuovo presidente
dello Yad Vashem non ha esitato ad esprimere opinioni che equivalgono a crimini
di guerra al fine di promuovere le sue ambizioni politiche.
Trump, come ha scritto Libby Lenkinski
in queste pagine, è l’uomo che ha riportato in auge il classico antisemitismo
negli Stati Uniti mentre veniva calorosamente abbracciato dal primo ministro
dello Stato ebraico.
Anche la predilezione dello Yad Vashem
per i fascisti e i criminali di guerra non è un segreto. Da quando il primo
ministro dell’Apartheid sudafricano John Worster, membro di un’organizzazione
filo-nazista durante la seconda guerra mondiale, ha visitato lo Yad Vashem nel
1976, il museo ha ospitato anche una delegazione della giunta militare del
Myanmar responsabile di crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
Ha aperto le sue porte al presidente
brasiliano Jair Bolsonaro, l’uomo che ha lodato Hitler e sostiene apertamente
l’eliminazione fisica delle persone LGBTQ, della popolazione indigena del
Brasile e di una serie di altre atrocità, tra cui stupri, torture e dittatura
militare. Ha anche ospitato il primo ministro ungherese Viktor Orbán, che ha
espresso sostegno a Miklós Horthy, leader antisemita ungherese durante la
seconda guerra mondiale; e Anthony Lino Makana del Sud Sudan, un alto
funzionario di un governo responsabile di crimini di guerra e crimini contro l’umanità.
Se in precedenza il sionismo
giustificava i suoi crimini contro il popolo palestinese in nome
dell’Olocausto, oggi usa l’Olocausto come strumento per giustificare
l’antisemitismo stesso in cambio di profitto politico. Inoltre: permette ad un
antisemita di definire cos’è l’antisemitismo. Questa è l’amara verità che
affrontiamo oggi: per lo Stato ufficiale di Israele, il concetto di Olocausto e
antisemitismo sono mezzi puramente politici e come tali possono essere
manipolati, distorti e aggirati, proprio come qualsiasi altro strumento
politico.
Dopo aver espropriato i palestinesi con
il pretesto dell’Olocausto, i leader israeliani stanno ora adottando un
antisemita come Trump che perseguiterà i discendenti di quegli stessi
palestinesi espropriati in nome della lotta all’antisemitismo. E non solo loro,
ma anche gli innumerevoli ebrei che mostrano solidarietà per la lotta
palestinese per la giustizia. Tuttavia, finché ci saranno persone di coscienza
che rabbrividiranno alla vista di questo odioso sfruttamento della memoria
dell’Olocausto, sarà difficile farlo.
Questo è il motivo per cui Effi Eitam,
razzista e sostenitore dei crimini di guerra, è stato incaricato di custodire
la memoria della tragedia ebraica, in modo che l’Olocausto rimanga per sempre
soggetto a manipolazioni opportunistiche e politiche. È così che Israele onora
i morti nel 2020.
(Orly Noy è un editore di Local Call,
un’attivista politica e una traduttrice di poesia e prosa farsi. È membro del
consiglio esecutivo di B’Tselem e attivista del partito politico Balad. La sua
scrittura affronta le linee che intersecano e definiscono la sua identità di
Mizrahi, una donna di sinistra, una donna, una migrante temporanea che vive
all’interno di un immigrazione perpetua, e il dialogo costante tra loro)
Trad:
Beniamino Rocchetto – Invictapalestina.org
STATI UNITI: L’ATTACCO DEL DIPARTIMENTO DI
STATO AL MOVIMENTO BDS VIOLA LA LIBERTA’ D’ESPRESSIONE
In risposta
al Dipartimento di Stato statunitense che stamane ha definito il movimento per
il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni (BDS) antisemita, Bob Goodfellow,
direttore esecutivo ad interim di Amnesty International USA, ha detto:
“Questo è semplicemente l’ultimo di una
serie di attacchi da parte del governo statunitense, che rappresentano una
minaccia per l’universalità dei diritti umani e per la lotta globale contro
tutte le forme di razzismo e discriminazione, incluso l’antisemitismo.
Sostenere il movimento per il Boicottaggio, Disinvestimento e Sanzioni è una
forma di sostegno non violento e di libertà di espressione che va tutelata.
Definire antisemiti gruppi che usano mezzi pacifici- come il boicottaggio- per
chiedere di porre fine alle violazioni dei diritti umani contro i Palestinesi
viola la libertà di espressione, ed è un atteggiamento che va a favorire coloro
i quali intendono silenziare, minacciare, intimidire e opprimere i difensori
dei diritti umani nel mondo.
L’amministrazione statunitense sta seguendo l’approccio del governo israeliano
nel muovere accuse di antisemitismo infondate e dettate da motivazioni politici
contro attivisti pacifici – incluso difensori dei diritti umani- proteggendo
coloro che mettono in pericolo la vita di persone in Israele, Territori
Palestinesi Occupati e qui a casa dall’obbligo di rispondere delle loro azioni
illegali.
Il processo suona particolarmente ipocrita e poco onesto provenendo da
un’amministrazione che ha appoggiato i neo-Nazisti, suprematisti bianchi, e
altri gruppi che supportano la violenza e la discriminazione, dimostrando
una profonda non curanza verso il diritto internazionale, e favorendo le
politiche israeliane che si traducono in discriminazione
istituzionalizzata e violazione sistematica dei diritti umani di milioni di
Palestinesi.
Questo processo, promuovendo l’idea che Israele e l’Ebraismo siano la stessa
cosa e, mettendo sullo stesso piano le critiche contro le politiche del governo
israeliano e le pratiche di antisemitismo, rappresenta anche un insulto verso
gli stessi Ebrei. Rappresenta una minaccia verso il nostro lavoro di tutela dei
diritti delle minoranze religiose e altre minoranze in Medio-Oriente e
altre regioni.
Continueremo a sostenere i nostri colleghi israeliani e palestinesi, incluso
gli attivisti del BDS, che – in qualità di difensori dei diritti umani nel
mondo- si fanno sentire quando la giustizia, la libertà, la verità, e la
dignità vengono negate”.
La
visita all’insediamento
Stamattina Mike Pompeo ha visitato
l’insediamento israeliano di Psagot, e si tratta della prima visita nella
storia da parte di un Segretario di Stato statunitense in servizio a un
insediamento israeliano illegale.
Lo scorso Novembre gli Stati Uniti avevano dichiarato che non avrebbe considerato
illegali gli insediamenti israeliani in Cisgiordania, una dichiarazione che è
in netto contrasto con molte risoluzioni delle Nazioni Unite e la posizione di
quasi tutti gli altri governi del mondo.
Trad. Rossella Tisci –
Invictapalestina.org
Come l’uccisione di un
giovane palestinese è diventata un’opera teatrale recitata dagli afroamericani
- Nada Elia
Il mese scorso ha segnato il ventesimo anniversario
dell’uccisione da parte di Israele del diciassettenne Asel Asleh, un cittadino
palestinese di Israele il cui idealismo giovanile lo aveva spinto a
frequentare il campo organizzato da “Seeds of Peace” con
altri palestinesi, israeliani e americani.
Asleh era uno dei 13 palestinesi disarmati uccisi in
Israele dalle forze di sicurezza israeliane durante quel mese,
insieme a dozzine di altri palestinesi nella Cisgiordania occupata, a
Gerusalemme est e a Gaza, mentre le proteste scoppiavano nella storica
Palestina in quella che divenne poi nota come la Seconda Intifada. È morto
indossando ancora la sua maglietta verde dei “Semi di Pace”.
Marlowe utilizza la storia del suo
amico per lanciare un dibattito internazionale tra tutte le famiglie,
dalla Palestina agli Stati Uniti, che hanno perso i propri cari a causa della
violenza di Stato
Nel 2016, dopo anni di interviste con la sorella di
Asleh, Nardeen, e con altri, la drammaturga e attivista americana Jen Marlowe,
che era una consulente del campo “Seeds of Peace”, ha prodotto un’opera
teatrale intitolata “There is a Field” sull’omicidio del suo amico e sui
tentativi falliti della famiglia Asleh per ottenere giustizia.
Quest’anno, Marlowe ha completato un documentario basato
su quella commedia. È stato presentato per la prima volta in Palestina il 2
ottobre, l’anniversario dell’uccisione di Asleh, e negli Stati Uniti il
18 ottobre, con ulteriori proiezioni virtuali durante tutto il mese e dibattiti
con attivisti, organizzatori e membri della famiglia Asleh. La premiere
statunitense è stata caratterizzata da interventi potenti e
stimolanti tenuti, tra gli altri, dal fratello della vittima, Baraa Asleh, e da
Gwen Carr, la madre di Eric Garner, le cui ultime parole, “Non riesco a
respirare”, sono diventate un grido di battaglia contro la brutalità della
polizia.
Il documentario riprende una lettura dell’opera
teatrale, eseguita in New Mexico da organizzatori e attivisti di Black Lives
Matter, e intervallata da filmati d’archivio di quel fatidico giorno
dell’ottobre 2000 e delle sue conseguenze. Include commenti sulle molte
somiglianze tra la situazione dei cittadini palestinesi di Israele e i
neri americani, poiché entrambe le comunità affrontano il razzismo sistemico e
un apparato statale che li considera indesiderabili e “usa e getta”.
Questo non significa che il film, o i dibattiti sulle
forze dell’ordine, sulla violenza e sul razzismo sistemico, siano astrazioni
intellettuali. Marlowe eccelle nel dettagliare il personale, l’intimo, l’umano.
Il suo lavoro, in questo film e altrove, è una sottile critica al fatto che i
movimenti politici possono oscurare la tragedia personale ai fini di una
mobilitazione su larga scala: figli, fratelli e amici intimi assassinati
diventano spesso martiri simbolici appartenenti alla comunità, con poche
opportunità, per i loro parenti più stretti, di piangerli.
In una scena straziante, mentre la processione per il
funerale di Asleh attraversa il loro villaggio, la folla blocca la vista del
suo amato fratello a Nardeen, mentre Baraa non può nemmeno intravedere la bara
e deve invece guardare la processione in televisione.
Sistemi suprematisti
Marlowe usa questi dettagli privati per avviare
un dibattito tra gli attori-attivisti e il pubblico, in grado di
riconoscere, nella difficile situazione della famiglia Asleh, aspetti del
proprio dolore e della propria perdita, poiché anche loro devono confrontarsi
con un sistema suprematista deciso a eliminarli.
L’autrice utilizza la storia del suo amico per
lanciare un dibattito internazionale tra tutte le famiglie, dalla Palestina
agli Stati Uniti, che hanno perso i propri cari a causa della violenza di stato
e su tutte le persone le cui vite sono state sconvolte dal razzismo insensibile
e omicida e dall’indifferenza del sistema giudiziario rispetto alla loro
situazione.
Il film ci offre uno sguardo intimo su una famiglia in
lutto, umanizzando individui il cui dolore è regolarmente mascherato dai media
occidentali. Ma “There is a Field” è molto più di un documentario, più della
storia di un martire e della sua famiglia. È un ottimo esempio di “artivismo” –
arte per la giustizia sociale e per costruire la solidarietà attraverso la
narrazione.
Il commento degli attivisti Black Lives Matter è
toccante, poiché articolano le ragioni fondamentali della solidarietà
transnazionale e della lotta congiunta. Un attore lo ha espresso al meglio
quando ha spiegato che, da adolescente nera negli Stati Uniti, ha sempre
sentito di avere un bersaglio sulla schiena – e si è resa conto, attraverso la
storia di Asleh, che i palestinesi si sentono allo stesso modo.
“There is a Field” è stato prodotto da Donkeysaddle
Projects, che Marlowe ha fondato, e che – fino alla pandemia Covid-19 e al
conseguente blocco – aveva supportato una serie di rappresentazioni
e spettacoli comunitari intensivi basati sul teatro, utilizzando lo
spettacolo come cornice per un’educazione politica e per la costruzione del
movimento. Il sito web del progetto spiega che esso mira a “costruire la
solidarietà nero-palestinese e rafforzare l’organizzazione locale in
Palestina e la costruzione trasversale del movimento”.
Battaglie interconnesse
La storia di Asleh, raccontata da Marlowe, è subito
collegata alla lotta per la liberazione palestinese, alla sovranità indigena su
Turtle Island e al movimento Black Lives Matter. È una forte denuncia di quel
modello di giovani disarmati – neri, mulatti e arabi – uccisi impunemente da
una forza di polizia iper-militarizzata che li vede come minacce o criminali,
non come giovani idealisti o adolescenti che stanno semplicemente tornando a
casa.
Lo spettacolo critica anche Seeds of Peace e simili
programmi di incontro tra giovani palestinesi e israeliani. Il commento
frustrato di Nardeen al suo collega israeliano “non mi sono trasferita in
Israele, Israele si è trasferita da me” ricorda il colonialismo verso gli
indigeni del Nord America, così come l’affermazione di Malcolm X che “non
siamo atterrati su Plymouth Rock, Plymouth Rock è atterrato su di noi ”.
Le opinioni espresse in questo articolo appartengono
all’autore e non riflettono necessariamente la politica editoriale di Middle
East Eye.
Nada Elia è una scrittrice e commentatrice politica
palestinese della diaspora. Attualmente sta lavorando al suo secondo libro,
“Who You Callin ‘”Demographic Threat?” Notes from the Global Intifada” .
Professoressa di Gender and Global Studies (in pensione) è membro dello
Steering Collective della US Campaign for the Academic and Cultural Boycott of
Israel (USACBI)
Trad: Grazia Parolari “contro ogni specismo, contro ogni
schiavitù” – Invictapalestina.corg
L’ASSASSINIO «PREVENTIVO»
DI OGNI PACE – Alberto Negri
Trump-Netanyahu
. Il premier israeliano dovrà trattare con Biden, convincerlo a mantenere
le sanzioni a Teheran e vendergli il patto di Abramo con le monarchie dl Golfo,
esteso dal Medio Oriente al Mar Rosso, al Corno d’Africa, come il più grande
obiettivo strategico della coppia Usa-Israele per soffocare l’Iran, limitare la
Turchia e frenare l’espansione cinese tra Africa e Medio Oriente
Siamo ormai
arrivati all’assassinio «preventivo», con la solita licenza di uccidere
incorporata nel Mossad. L’anno si chiude – almeno per il momento – come si era
aperto, quando il 3 gennaio gli Usa ammazzarono a Baghdad con un drone il
generale iraniano Qassem Soleimani.
Con l’uccisione in Iran di Mohsen Fakhrizadeh, definito sui nostri media il
«padre dell’atomica iraniana» – una bomba che Teheran non ha mai avuto ma
Israele sì – in Occidente si incrociano pericolosamente false notizie come
questa, con la politica della terra bruciata intorno alla repubblica islamica
voluta da Trump e Netanyahu.
In realtà Trump ce lo
siamo meritato scrivendo scempiaggini che rischiano di fare apparire
giustificato un eventuale attacco diretto all’Iran. Ed ecco che Netanyahu e il
Mossad hanno anticipato Trump e dato il via libera a far fuori un altro
scienziato iraniano, antica specialità dei servizi israeliani. Colpire
direttamente l’Iran, come vorrebbe Trump per uscire dalla Casa Bianca da
effimero trionfatore e non da sconfitto qual è, potrebbe causare una reazione
troppo pericolosa anche per Israele.
Trump, che ha
riconosciuto Gerusalemme capitale, l’annessione del Golan e gli insediamenti
illegali in territorio palestinese con l’ultimo viaggio di Mike Pompeo, ha dato
molto a Israele ma una guerra aperta contro l’Iran è troppo anche per
Netanyahu: con dei processi sulle spalle e al governo in condominio con
l’ineffabile Gantz (per altro mai al corrente di nulla) non può permetterselo.
Il premier israeliano
dovrà trattare con Biden, convincerlo a mantenere le sanzioni a Teheran e
vendergli il patto di Abramo con le monarchie dl Golfo, esteso dal Medio
Oriente al Mar Rosso, al Corno d’Africa, come il più grande obiettivo
strategico della coppia Usa-Israele per soffocare l’Iran, limitare la Turchia e
frenare l’espansione cinese tra Africa e Medio Oriente.
È la vecchia
strategia del «doppio contenimento», un tempo applicata a Iran e Iraq, che fa
leva sui conflitti regionali. Ma con delle varianti. Tra i democratici di oggi
alla segreteria di Stato c’è Blinken, legato a filo doppio a Israele,
favorevole nel 2011 ai bombardamenti in Libia e Siria, uno dei complici del
disastri di Hillary Clinton, e che negli omicidi mirati troverà appoggio nella
nuova capa dei servizi, la signora Avril Haines, specialista in droni. Con loro
c’è pure Jake Sullivan, nuovo consigliere della sicurezza nazionale,
clintoniano e consulente di Obama sul nucleare iraniano. Questa è la prima
linea di Biden, definita dalla stampa Usa quella degli gli «interventisti
liberali»: sono loro che dirigeranno eventuali negoziati con Teheran.
Ma l’agenda di Biden
per la ripresa delle trattative sull’accordo abbandonato e stracciato da Trump
nel 2018 deve fare i conti con la tattica della terra bruciata e il pericoloso
avventurismo del presidente uscente, oltre che con la diffidenza dell’Iran dove
il presidente Hassan Rohani è alle strette con la Guida Suprema Ali Khamenei e
l’ala dura dei pasdaran. Trump è diventato un cane sciolto. Due settimane fa ha
fatto fuori il capo del Pentagono Mark Exper, contrario a uno «strike» contro
Teheran, mentre un portavoce della Difesa esprimeva la preoccupazione che il
presidente potesse avviare «operazioni coperte», espressione orwelliana per
dire che il presidente potrebbe colpire direttamente l’Iran.
Poi Washington ha
tirato fuori la notizia che il 9 agosto scorso agenti israeliani avrebbero
ucciso a Teheran Al Masri, storico capo di Al Qaeda: la «pistola fumante» che
l’Iran appoggia il terrorismo. Quindi Trump ha inviato in Medio Oriente Abram
Elliot, consigliere negli anni’80 dei governi massacratori del Salvador e del
Guatemala, per definire nuove sanzioni a Teheran e accordo con Israele e le
monarchie del Golfo. Sanzioni puntualmente arrivate con il viaggio del
segretario di stato Pompeo in Medio Oriente e che hanno colpito la Fondazione
degli Oppressi, il maggiore conglomerato economico che risponde direttamente
alla Guida Suprema.
A questo punto
l’assassinio di Mohsen Fakhrizadeh era già stato programmato. La testa dello
scienziato iraniano con ogni probabilità è stata gettata sul tavolo del
principe saudita Mohammed bin Salman (MBS) che a Noem sul Mar Rosso qualche
giorno fa ha incontrato Pompeo e Netanyahu accompagnato dal capo del Mossad
Yossi Cohen. Gli israeliani stanno facendo di tutto per invogliare Riad a
entrare nel Patto di Abramo con Emirati e Bahrain. Ma sia il principe che suo
padre, il declinante re Salman, si tengono stretta la carta della
normalizzazione con Israele per giocarsela con l’amministrazione Biden,
insistendo su un improbabile accordo di pace con palestinesi ma soprattutto
sulla fine delle pressioni negli ambienti liberali di Washington per una
democratizzazione del regno saudita che si è distinto per la repressione
brutale di ogni dissenso e il macabro assassinio del giornalista Jamal
Khashoggi. Ma, perdinci, 450 miliardi di dollari di commesse saudite di armi
agli Usa valgono pure qualche omicidio. Sarà Biden a rinunciarci?
Ecco a che servono
gli assassini preventivi: è l’eredità del duo Trump-Netanyahu, sono le «linee
guida» per la nuova amministrazione. Tutto questo aspettando Biden. O forse Godot.
tratto da: https://ilmanifesto.it/lassassinio-preventivo-di-ogni-pace
AMIRA HASS – LE ULTIME
NOVITÀ IN FATTO DI MORALITÀ ISRAELIANA: DEMOLIZIONE DI CASE, SFOLLAMENTI E
COSTRUZIONE DI NUOVI INSEDIAMENTI COLONICI
tratto da: Beniamino Benjio
Rocchetto
Mercoledì
scorso un’unità dell’Amministrazione Civile e delle Forze di Difesa Israeliane
ha distrutto una condotta idrica di 1,5 chilometri e così facendo ha estromesso
i villaggi di Mughayer al-Abid e Khirbet Al-Majaz nel Masafer Yatta, nel
distretto di Hebron, dal loro approvvigionamento idrico.
Gli esecutori hanno
ignorato il fatto che gli abitanti del villaggio di Masafer Yatta hanno
presentato un ricorso all’Alta Corte di giustizia contro i danni alle tubature
che portano loro l’acqua dalla condotta centrale nel villaggio di Al-Tawani.
L’udienza è prevista per marzo.
I discendenti dei
profeti sono convinti che i palestinesi non abbiano bisogno dell’acqua come noi
ebrei. I discendenti dei sopravvissuti hanno deciso che fornire acqua potabile
ai palestinesi nel 62% della Cisgiordania contraddice la legge e la tradizione
dei nostri antenati.
Masafer Yatta è
l’area storica di pascolo e coltivazione dei residenti del villaggio di Yatta
(oggi una città), in cui alcuni di loro si stabilirono e radicarono in comunità
separate anche prima della creazione dello Stato di Israele.
Israele afferma di avere
il diritto di espellere i residenti dai loro villaggi in modo che l’esercito
possa condurre esercitazioni di addestramento con fuoco vivo nell’area. Ecco
perché proibisce loro di collegarsi alle infrastrutture e distrugge le strade
che hanno ampliato e ripulito dalle rocce. Lo stato ebraico sa che non tutti
potranno continuare a vivere così e se ne andranno. In altre parole, gli
israeliani costringono i Palestinesi a fuggire facendo credere che sia una loro
libera scelta.
Nel 2001 a Masafer
Yatta è stato istituito l’avamposto illegale e non autorizzato di Avigayil. I
coloni israeliani si sono impossessati di due sorgenti che sono sempre state
utilizzate dai contadini e dai pastori palestinesi. L’avamposto sta subendo un
processo accelerato di regolarizzazione. È collegato alle infrastrutture
elettriche e idriche ed è servito da una strada asfaltata. Come gli altri
avamposti della regione e gli altri insediamenti.
Il 27 ottobre, una
forza dell’Amministrazione Civile scortata dall’esercito ha demolito una casa
in pietra appartenente a una famiglia di cinque persone (genitori e tre figli)
nella comunità di Birin a nord-est di Yatta. Le nostre forze hanno anche
distrutto la cisterna dell’acqua della famiglia. Non è una piattaforma
petrolifera o un tentativo di raggiungere le falde sotterranee. È una cisterna
per la raccolta dell’acqua piovana o per l’acqua acquistata e consegnata con le
autobotti.
Le scarse notizie
comunicate dall’emittente radiofonica Voce della Palestina (Voice of Palestine)
e le dichiarazioni di B’Tselem ai media, quasi quotidianamente, sono molto
simili tra loro. In quel momento un’unità dell’Amministrazione Civile arrivò
con l’esercito o una scorta della Polizia di Frontiera in questa o quella
comunità e demolì la residenza di una famiglia di cinque o sette persone, o
confiscò uno scavatore che spianava la strada a un frutteto, o ha emesso un
ordine di demolizione per una struttura adibita a scuola. Tali atti si ripetono
e stufano noi, gli scrittori, gli editori, e voi lettori. Ecco perché non
vengono titolati ogni giorno con: per la gloria della moralità israeliana.
Dal 2006 fino alla
fine di settembre 2020 Israele ha demolito almeno 1.623 strutture residenziali
palestinesi (solitamente tende, capanne, roulotte, ecc.) in Cisgiordania,
esclusa Gerusalemme Est, e 7.068 persone, inclusi 3.543 bambini, ridotti a
senzatetto. E il lavoro e il denaro che hanno investito sono andati perduti, e
con essi i loro sogni e speranze.
Israele ha demolito
più di una volta le misere case di almeno 1.100 palestinesi, inclusi 527
bambini, in comunità la cui esistenza ha deciso di non riconoscere.
Dal 2012 fino alla
fine di settembre di quest’anno, Israele ha demolito 1.804 strutture non
residenziali: come cisterne d’acqua, recinzioni, recinti per animali, magazzini
e così via.
Non sono incluse nei
calcoli tutte quelle case che dovrebbero essere edificate ma non vengono
costruite, a causa dei divieti israeliani e della paura delle conseguenze e dei
costi della demolizione.
Nei primi nove mesi
di quest’anno Israele ha demolito le residenze di 418 palestinesi in
Cisgiordania (esclusa Gerusalemme est), inclusi 208 bambini. Il numero più alto
dal 2016, secondo i calcoli di B’Tselem.
Il 2020 è stato un
anno da record, negli ultimi due decenni, per quanto riguarda lo sviluppo degli
insediamenti colonici. L’ONG Peace Now stima che il Consiglio Supremo di
Pianificazione dell’Amministrazione Civile abbia approvato quest’anno la
costruzione di 12.159 unità abitative per israeliani in Cisgiordania. Di
questi, 4.948 sono stati approvati il 14 e 15 ottobre.
Nei primi nove mesi
di quest’anno sono state demolite 100 abitazioni palestinesi a Gerusalemme Est
(68 sono state demolite dai loro proprietari, in modo che il comune della città
unita non li obbligasse a pagare le spese di demolizione). Vittime della
demolizione: 323 persone, di cui 167 bambini.
Dal 1967, Israele, il
rappresentante del popolo ebraico attraverso le generazioni, ha adottato una
politica di limitazione della costruzione per i palestinesi nell’area annessa a
Gerusalemme. Questo oltre ad una massiccia confisca di terra privata
palestinese e il suo trasferimento agli ebrei, cittadini di Israele e della
diaspora. Il popolo eletto.
Traduzione: Beniamino Rocchetto
Etichettare come ‘Made in Israel’ i
prodotti degli insediamenti significa approvare furti di terra e saccheggi - Hanan Ashrawi
La visita del Segretario degli Stati Uniti nella
Cisgiordania occupata è un ultimo disperato tentativo dell’amministrazione
statunitense uscente per rafforzare il suo modello di criminalità, illegalità e
complicità diretta nella colonizzazione della Palestina e nell’espropriazione
del nostro popolo. È anche un cinico sfruttamento da parte di Pompeo per
promuovere i propri obiettivi politici personali come nuovo volto degli
ideologi di estrema destra negli Stati Uniti.
Etichettare i
prodotti fabbricati all’interno degli insediamenti israeliani illegali come
“fatti in Israele” o “prodotti di Israele” è una politica oltraggiosa e
illegale che equivale di fatto al riconoscimento dell’annessione a Israele
della maggior parte della Cisgiordania. È un tentativo di legittimare il furto
della terra palestinese e il saccheggio delle risorse palestinesi che va contro
i principi fondamentali del diritto internazionale e del consenso globale.
Inoltre, la
dichiarazione di ostilità di Pompeo contro gli stati e le organizzazioni
internazionali che etichettano correttamente i prodotti degli insediamenti
israeliani è un affronto agli obblighi della comunità internazionale verso la
legge, inclusa la risoluzione 2334 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni
Unite. Questi prodotti sono il prodotto di un furto. Devono essere boicottati,
non supportati.
Aggiungendo la
beffa al danno, Pompeo ha anche annunciato il disaccoppiamento dei Territori
Palestinesi Occupati, etichettando i prodotti palestinesi dalla Cisgiordania e
da Gaza come entità separate. Questa è un’altra misura che conferma che
l’agenda di Trump è sempre stata la privazione dei diritti del popolo
palestinese e la sua sottomissione permanente al controllo illegale di Israele.
È anche in linea con l’agenda dell’amministrazione Trump che cerca di mantenere
i Palestinesi divisi e di mantenere la loro spaccatura interna.
Questa
amministrazione statunitense uscente ha speso grandi sforzi per normalizzare le
violazioni israeliane del diritto internazionale, combattendo i diritti più
elementari del popolo palestinese, oltre a intimidire e ricattare gli altri
paesi perché accettino questi crimini. Queste dichiarazioni di Pompeo sono
un’estensione di questa complicità e di questa conflittualità.
Misure dannose
di questo tipo hanno lo scopo di mettere all’angolo la prossima amministrazione
statunitense con una serie di misure legali e amministrative che mantengano
l’eredità distruttiva di Trump anche oltre il suo disgregante mandato. Queste politiche
non sono solo oltraggiose, ma hanno conseguenze molto reali sulla vita e sui
diritti dei Palestinesi e devono essere annullate.
Il mondo intero
ha bisogno di riprendersi dall’eredità di Trump e dal caos che ha creato. La
leadership palestinese attende con impazienza di lavorare con tutti gli Stati
responsabili, per forgiare un nuovo percorso verso la giustizia e la pace,
basato sul rispetto reciproco e sull’impegno per lo stato di diritto.
Hanan Ashrawi è membro del comitato esecutivo dell’Organizzazione per la
Liberazione della Palestina (OLP).
Traduzione di Donato Cioli –
AssopacePalestina
‘La Supremazia Bianca è un principio presente
in profondità nella società americana- e gli Ebrei ne sanno qualcosa’ - Noam
Chomsky
Noam Chomsky prima delle elezioni americane ha dichiarato
più volte che avrebbe votato per Joe Biden e che i progressisti americani
avrebbero dovuto fare lo stesso. In una intervista precedente al 3 di novembre
il leggendario intellettuale e linguista ha detto a Salon: “La mia posizione è votare contro [il Presidente
Donald] Trump. Nel nostro sistema bipartitico è un fatto tecnico per cui, se
vuoi votare contro Trump, devi schiacciare il pulsante per i Democratici.”
Concluse le
elezioni e con Biden nuovo
presidente eletto, Chomsky ha detto ad Haaretz la scorsa settimana che il
lavoro dei progressisti americani è solo all’inizio. In una intervista via
Zoom, Chomsky, che compie 92 anni il mese prossimo, sembra scettico sulla
possibilità che i democratici producano quel cambiamento che milioni di
americani sperano.
“Che cosa farà
Biden? Il Senato è nelle mani del leader della maggioranza Mitch McConnell, che
sa fare solo due cose: bloccare tutto ciò che i democratici cercano di fare e,
l’altra cosa, dare ai ricchi tutto quello che vogliono,” dice.
Chomsky
continua: “Biden è un contenitore vuoto. Non credo che abbia principi saldi. È
in conflitto con il DNC (Democratic National Committee) che gestisce il partito
ed rappresenta fondamentalmente l’ala di Wall Street. Se cercherà di fare
qualcosa di progressista, La Corte Suprema è lì pronta a fermarlo. Trump e
McConnell sono responsabili di aver riempito l’intero sistema giudiziario, da
cima a fondo, di giudici di estrema destra che possono bloccare qualsiasi
iniziativa progressista si presenti”, accusa.
Biden ha vinto
sia il voto popolare che quello elettorale, ma più di settanta milioni di
americani hanno votato per Trump (che ha rifiutato di accettare il risultato e
sta lanciando la falsa accusa che le elezioni siano state “rubate”). Questo
preoccupa Chomsky. “Nonostante Biden abbia vinto, Trump ha riportato un’enorme
affermazione. È incredibile che uno che ha appena ucciso centinaia di migliaia
di Americani possa anche solo concorrere per la presidenza. Il solo fatto che
le elezioni siano state contestate è una immensa vittoria repubblicana. Trump è un abile politico che capisce la
mentalità americana,” commenta Chomsky.
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