giovedì 31 agosto 2017

Per una Roma antirazzista, antifascista e solidale - Christian Raimo



Questa non è la mia città.
Una città in cui alle sei di mattina i poliziotti fanno le cariche e buttano gli idranti contro i rifugiati, comprese donne incinte e bambini. Una città in cui da due anni la polizia interviene contro i migranti in transito sgomberando di notte i posti d’accoglienza.
Questa non è la mia città, indifferente contro i deboli, ostile contro gli stranieri. Che parla di legalità solo quando deve usare la violenza contro i poveri. Che riempie le strade di transenne, posti di blocco, camionette. Che umilia chi dorme per strada. Che disprezza chi non ha una casa. Che chiama sicurezza il peggior razzismo.
La mia città è aperta, solidale, attenta, si vergogna del suo passato coloniale e fascista, ed è fiera della sua storia di resistenza. La mia città è fatta dalle persone che si danno da fare ogni giorno per la dignità degli ultimi: gente comune che fa politica offrendo condivisione, accoglienza, educazione.
La mia città è di chi si batte per allargare i diritti, non per togliere a chi li ha.
La mia città è bellissima, anche se ogni giorno fate di tutto per farne un luogo di paura e tristezza.
Lo sgombero di 800 eritrei - bambini, donne, disabili, anziani - in piazza Indipendenza è solo l'ultimo di una serie di episodi di razzismo e intolleranza verso le persone che arrivano a Roma dopo aver superato guerre e dittature nei loro paesi d'origine, un viaggio estremo nel deserto, violenze e torture da parte dei trafficanti e l'attraversamento del Mediterraneo.
Come ha scritto Annalisa Camilli su Internazionale: "Perché nessun rappresentante delle istituzioni si è affacciato a piazza Indipendenza in questi giorni? Perché Roma da anni non riesce a varare un piano per l’accoglienza? La risposta è semplice nella sua brutalità: i migranti, i richiedenti asilo e i rifugiati che vivono nelle nostre città non sono considerati parte delle nostre comunità, anche se sono al nostro fianco e nelle nostre vite da anni".
Questo è un appello che ti chiedo di diffondere perché Roma torni a essere una città antirazzista, antifascista e solidale.

a proposito di statue


Aiutiamoli iniziando da casa nostra - Francesco Gesualdi



Ci sono due modi di affrontare la questione immigrati: ponendoci l’obiettivo di toglierceli dai piedi o volendoli aiutare a vivere meglio. In un caso pensiamo solo per noi. Nell’altro ci preoccupiamo di loro. Ad oggi sembra prevalere l’egocentrismo.
A nostro favore c’è che da anni siamo porto di sbarco per centinaia di migliaia di profughi che tentano la traversata via mare. Ma il persistere di un impianto organizzativo improntato a criteri di provvisorietà denota che non siamo mai entrati nell’ordine di idee di voler fare accoglienza metodica e duratura. In realtà ci limitiamo a tamponare di mala voglia una situazione che ci dà solo fastidio. Eppure nel suo ultimo rapporto al Parlamento, Tito Boeri ci ha ricordato che degli immigrati non possiamo fare a meno. Se scomparissero, l’INPS perderebbe ogni anno 8 miliardi di euro con gravi problemi per il sistema previdenziale italiano. Ma la durezza di cuore continua a farla da padrona e anziché investire in formazione, occupazione e incontro culturale, elementi indispensabili per una serena convivenza, preferiamo spendere in altre direzioni.
Il rafforzamento delle frontiere, ad esempio, (fra il 2005 e il 2016 il bilancio di Frontex è aumentato del 3688% passando da 6,3 a 238,7 milioni di euro) e il sostegno ai governanti africani affinché impediscano ai migranti di raggiungere il Mediterraneo. Non importa se facendoli morire di fame e di sete nel deserto, o facendoli morire di sevizie nei carceri-lager. Come se non bastasse, abbiamo deciso di imbrigliare le organizzazioni non governative in un sistema di lacci e lacciuoli che rendono le loro operazioni di salvataggio più difficili e abbiamo deciso di inviare le nostre navi da guerra in acque libiche per bloccare i barconi in partenza. Il che mostra che il nostro obiettivo non è l’accoglienza bensì il respingimento.
Ma sotto sotto non ci sentiamo a posto e ci siamo fabbricati degli alibi per mettere a tacere la nostra coscienza. La prima giustificazione che ci siamo creati è che l’obbligo di accoglienza vale solo per i rifugiati politici, mentre abbiamo il diritto di respingere i migranti economici, coloro, cioè, che sono in cerca di migliori condizioni di vita. L’assurdo è che noi stessi siamo terra di emigranti e se questa regola venisse applicata nei nostri confronti dovremmo aspettarci l’espulsione di ben quattro milioni di connazionali. Nel solo 2015 gli italiani che sono andati all’estero per trovare una prospettiva di vita, sono stati 107mila, per il 36% giovani fra i 18 e i 34 anni. Per non parlare delle migrazioni interne: nel 2014 le persone che hanno cambiato il proprio comune di residenza sono state un milione e 300mila.
Da sempre abbiamo considerato la libertà di movimento un diritto inalienabile e se volessimo negarlo proprio oggi che abbiamo messo merci e capitali in totale libertà, dimostreremmo di tenere in maggior considerazione le cose delle persone. Ma forse il punto è proprio il sovvertimento dei valori: la ricchezza ci ha accecato a tal punto da avere inaridito la nostra umanità. L’attenzione tutta rivolta alla roba, abbiamo perso il senso del rispetto e della giustizia, la capacità di compassione, perfino di pietà. Posta la ricchezza al primo posto, è scomparso l’essere umano ed è rimasto solo il portafogli. Automaticamente abbiamo diviso l’umanità in chi ha e chi non ha. I primi li accogliamo a braccia aperte per avvantaggiarci dei loro denari. I secondi li mettiamo alla porta per paura di dover condividere con loro i nostri denari.
Ma non ci rendiamo conto che più sbarriamo le porte, più inneschiamo situazioni perverse che ci sfuggono di mano. Ci sarebbe un modo molto semplice per mettere fine al caos che abbiamo creato: aprire le nostre frontiere. I migranti che scelgono la via del deserto non sono né masochisti, né amanti dell’illegalità. Sono dei forzati alla clandestinità perché le vie di ingresso ufficiali sono precluse. Se potessero arrivare in aereo con regolare passaporto, sarebbero ben felici di farlo. E se in Italia non trovassero lavoro, non ci rimarrebbero. Se ne andrebbero dove il lavoro c’è, perché la loro vocazione non è né quella dell’accattonaggio, né del brigantaggio. Sono persone in cerca di un lavoro per mantenere le loro famiglie rimaste a casa.
Che le cose stiano così lo sappiamo molto bene anche noi, tant’è che il secondo alibi che ci siamo creati è che dobbiamo aiutarli a casa loro. E se lo diciamo è perché abbiamo ben chiaro che nessuno di loro affronta un viaggio così pericoloso per fare una passeggiata, ma per sfuggire a un destino crudele ora dovuto alle guerre, ora alla repressione politica, ora alla mancanza di prospettiva di vita. Ciò che non diciamo è che questa situazione l’abbiamo creata noi attraverso 500 anni di invasioni, massacri, ruberie. La storia, alla fine presenta sempre il suo conto. Per questo l’ “aiutiamoli a casa loro” è un alibi per farci sentire autorizzati ad attuare la repressione in nome di una carità che non risolverà niente. Per bene che vada, la carità tampona le emergenze, non risolve i problemi di fondo.
L’emigrazione africana non è figlia di una sciagura transitoria, ma di un sistema di saccheggio di cui siamo parte attiva, addirittura i suoi artefici.Per risolverla, dunque, è da qui che dobbiamo partire: dal nostro assetto produttivo e di consumo, dai nostri obiettivi economici, dai nostri rapporti commerciali, dal nostro assetto finanziario, dal nostro sostegno ai sistemi corruttivi e di rapina. Lo slogan giusto è “cambiamo le cose qui affinché cambino là”.Per partire dovremmo porre uno stop serio alla vendita di armi e subito dopo dovremmo avviare nuovi rapporti economici. Dovremmo stipulare accordi commerciali che garantiscono prezzi equi e stabili ai produttori, dovremmo imporre divieti alla finanza speculativa sulle materie prime, dovremmo smetterla con accordi che autorizzano le nostre imprese a razziare i loro mari e a prendersi le loro terre, dovremmo punire le nostre imprese che non garantiscono salari dignitosi nelle loro filiere globali, dovremmo smetterla di imporre accordi commerciali che favoriscono i nostri prodotti e distruggono le loro economie, dovremmo vigilare da vicino gli investimenti esteri delle nostre imprese per impedire comportamenti corruttivi a vantaggio di pochi capi locali che accumulano fortune nei paradisi fiscali.
Dei 181mila disperati sbarcati sulle nostre coste nel 2016, il 21% erano nigeriani. Eppure, grazie al petrolio, la Nigeria è una delle più grandi economie africane. Ma anche una delle più corrotte. Secondo Lamido Sanusi, ex-governatore della banca centrale nigeriana, nei soli anni 2012-2013 sono stati sottratti alle casse pubbliche 20 miliardi di dollari provenienti dalla vendita di petrolio.Soldi finiti sui conti cifrati aperti da personalità di governo in Svizzera, Londra, e altri paradisi fiscali. Con la complicità delle grandi banche internazionali. E non solo. Nel maggio di quest’anno i massimi dirigenti di ENI sono stati rinviati a giudizio con l’accusa di avere versato, assieme a Shell, una tangente da 2 miliardi dollari a politici nigeriani per ottenere lo sfruttamento di un giacimento petrolifero. Eppure in forma diretta e indiretta, l’ENI appartiene per il 30% allo stato italiano, che evidentemente non ha controllato. E’ proprio il caso di dire “aiutiamoli cominciando a cambiare a casa nostra”.

mercoledì 30 agosto 2017

il post di Christian Raimo rimosso da Facebook

Ieri sono andato come ospite in collegamento alla trasmissione "Dalla vostra parte" su Retequattro condotta da Maurizio Belpietro, insieme a me sempre in collegamento ma da Milano Alessandro Sallusti. 
È una trasmissione orripilante, che si compone essenzialmente di servizi, girati con i piedi, su neri che stuprano, neri che rubano, neri che minacciano bambini, neri che occupano le case degli italiani, neri che sono troppi, neri che se ne dovrebbero andare, neri che è già tanto che li sopportiamo e non li facciamo affogare tutti. 
Si può parlare di immigrati, di migranti, di rifugiati, di islamici, di terroristi, di maghrebini, di stranieri, ma in fondo si parla sempre di neri. Islamico uguale terrorista uguale rifugiato uguale potenziale stupratore uguale illegale uguale clandestino uguale nero. Non c'è un minuto a parte la pubblicità che non sia dedicato al racconto di un paese devastato dallo schifo prodotto dai neri. 
Io ero invitato a dire che ne pensavo, la domanda che mi ha fatto Belpietro era: “Perché c'è tanta informazione politicamente corretta? Perché non si può dire che chi stupra è immigrato? Che chi delinque è nero?”
Io gli ho risposto che si può dire, anzi che mi sarei aspettato ancora altri servizi sui neri che torturano i bambini, che sputano sui preti, che fanno abigeato. Avrei voluto proprio una trasmissione che non si intitolasse "Dalla vostra parte" ma proprio “Negri cattivi” con solo servizi sulle malefatte vere e minacciate dai neri. 
Ma il razzismo, il razzismo elementare, ottocentesco, di Belpietro e Sallusti, non è il solo problema di “Dalla parte vostra”, trasmissione serale di una rete nazionale. Il problema è l'assoluta incapacità giornalistica, la povertà assoluta dal punto di vista del mestiere. 
A un certo, visto che si parlava di occupazioni, ho chiesto a Belpietro, se si era preparato qualche dato sull'emergenza abitativa. Ha balbettato che glieli fornissi io. Gli ho detto: “Ma come hai fatto un pezzo di trasmissione su questo e non c'hai manco un dato?”, e poi glieli ho detti io. 
Ho detto a Sallusti che tutto ciò che stava dicendo su immigrazione e occupazioni non aveva nessuna base dal punto di vista dell'informazione. Mi ha risposto che è vero è d'accordo anche lui che i giornali dovrebbero fare più inchieste; gli ho detto che gli basterebbe leggere mezzo libro, o qualche giornale fatto appena decentemente, e ripetere quello che c'è scritto lì. 
Due giornalisti della redazione mi hanno telefonato poi complimentandosi con me e ridacchiando perché avevo sputtanato Belpietro in diretta. Mi dispiace per loro che certo devono lavorare e devono portare uno stipendio a casa, ma quello che stanno facendo è semplicemente manovalanza sottopagata per il peggiore megafono del razzismo, sono complici e omertosi, non ci trovo nessuna giustificazione.
Oggi sulla mia bacheca ci sono commenti di insulti, minacce di stupro a donne che commentano, la feccia della feccia. Risponderò ad uno ad uno, appena avrò tempo. 
Ma gli risponderò con la stessa franca risata con cui, prima di andarmene a metà, ho opposto ieri a Sallusti che affermava che nel Corano c'è scritto di fare attentati terroristici. 
È una televisione che crea una paura che esiste solo nella loro pancia. 
È ridicolo ciò che dicono, è imbecille, è la peggiore ignoranza storica e contemporanea, è una parodia. Il fascismo è sempre una parodia. Riempie un vuoto, e lo fa comodamente, prevedibilmente, stancamente, l'autobiografia infantile di una nazione. 
Sta a noi di sinistra, semplicemente democratici, antifascisti, pensanti, fare argine a questo. Tocca a noi, in ogni momento, e sarà sempre peggio nei prossimi mesi. 
Come scriveva In una delle ultime interviste prima di morire Roberto Bolaño, alla domanda su quali fossero le cose che lo annoiavano di più. 
“Il discorso vuoto della sinistra, il discorso vuoto della destra lo do per scontato”.

Il fallimento dello ius sanguinis - Lucia Pepe



Io ho due care amiche: una è bionda con gli occhi azzurri, l’altra bruna con gli occhi castani. Una delle due è italiana e l’altra no, una rinnova il permesso di soggiorno e l’altra no, una può votare e l’altra no.

Una è nata in Italia ed ha studiato all’estero, l’altra è nata in un altro Paese ed ha svolto i suoi studi in Italia. Entrambe oggi sono psicologhe e lavorano a Palermo.
Spesso Yodit deve correggere Anna: la questione è che Anna non ha soltanto un accento nord europeo, ma di fatto l’italiano è la sua seconda lingua!
Trasferitasi a Palermo, inizialmente, Anna ha avuto non pochi problemi prima di riuscire ad ottenere un prezzo non-da-turista dai commercianti del mercato di Ballarò. Yodit l’ho sempre vista camminare, per le vie di quello stesso mercato, salutata calorosamente da tanta gente che da anni è sua vicina di casa.
Yodit non ha il passaporto italiano eppure è proprio grazie a lei che Anna si è pian piano integrata (sì, uso il termine provocatoriamente). Yodit non ha la cittadinanza, ma se non fosse per lei Anna non conoscerebbe Mike Bongiorno e Pippo Baudo. Per le vie del centro storico capita anche che entrambe siano identificate come straniere: ad Anna propongono un giro in carrozza e danno informazioni in un inglese stentato, a Yodit parlano in un italiano elementare e fanno proposte indecenti….

Voglio molto bene ad entrambe. Voglio bene ad Anna: diversamente italiana, sempre curiosa di scoprire questa nuova parte di italianità, ritrovata nella parte opposta di Italia rispetto a dove è nata. Voglio bene a Yodit, che conserva orgogliosamente un’altra nazionalità, mostrando tutta la ricchezza del poter essere anche italiana.
Insieme esprimono il fallimento dello ius sanguinis, e la prova evidente che la cittadinanza non scorre nelle vene, né si tramanda, bensì si vive e si costruisce quotidianamente.
Io ho due care amiche: una è bionda con gli occhi azzurri, l’altra bruna con gli occhi castani. Gli occhi di entrambe sono profondi, sinceri e combattivi.

martedì 29 agosto 2017

Tanti modi per uccidere un negro... - intervista a James Baldwin (1967)

«Se questo Paese si perde anch’io mi perdo»: un’intervista italiana – del 1967 ma impressionante a leggerla oggi- a James Baldwin

«Dov’è che finisce un bianco, e dove comincia il negro?» si chiede James Baldwin, e aggiunge: «Se l’America si perde, mi perdo anch’io». Queste due frasi rappresentano i limiti del dibattito appassionato in cui Baldwin mette a nudo il suo cuore. Mentre a New York, nelle periferie e nei ghetti degli Stati Uniti volano i mattoni delle sommosse estive, James Baldwin, ci parla di questa lunga tragedia che continua a ripetersi. La rabbia di Newark, l’esasperazione di una popolazione negra umiliata che comincia ad aver coscienza di se stessa trovano in questa intervista una voce appassionata ma razionale. Ascoltiamola…    
Com’è il pubblico dello scrittore negro americano?
è difficile da definire; se per lo scrittore afro-americano esiste un certo pubblico, il rapporto che si stabilisce non è tanto con lo scrittore, quanto in funzione della ricerca di un’identità. L’utilità  di uno scrittore consiste precisamente nel contributo che egli fornisce agli altri per aiutarli a trovare la loro identità. Il pubblico dello scrittore negro americano? Qualche bianco che si sente colpevole e pieno di rimorsi, qualche società, l’FBI, la CIA, e qualche individuo che conosce abbastanza la vita da capire perchè gli altri scrivono. In ogni caso qualunque scrittore, quale che sia la sua reputazione o il numero dei suoi libri, ha un pubblico molto ristretto. Non si può parlare, in America, di analfabetismo nel senso stretto del termine, ma di una specie di analfabetismo che l’America stessa ha inventato. Credo che nel mondo esistano due tipi di analfabetismo, il primo è ben conosciuto: si tratta del problema delle masse contadine che non sanno leggere né scrivere; questo è l’analfabetismo reale, e per i paesi dov’esso si riscontra il problema più importante è di sapere cosa leggerà  il popolo, quando potrà  leggere. Ma il problema dell’analfabetismo degli americani è molto più grave; si può insegnare a leggere al contadino turco, ma che cosa si può fare quando ci si trova davanti a un uomo che per tutta la sua vita ha letto soltanto il Reader’s Digest e Life Magazine? Si tratta di un analfabetismo ben diverso…
Quali sono le reazioni, le resistenze che ha incontrato per i suoi libri, per i temi che lei ha affrontato?
Per tanto tempo ho subito tante pressioni che mi è difficile parlarne. Non leggo più la mia corrispondenza: lo fa mia sorella, che è anche la mia segretaria. Ricevo lettere che minacciano: «Ti prenderemo». Mia madre ha dovuto cambiar casa due volte, prima che io gliene comprassi una; ho dovuto far cancellare il suo numero telefonico dall’elenco perché le telefonavano continuamente per dirle quel che avrebbero fatto a suo figlio se gli avessero messo le mani addosso…
Queste sono le minacce più brutali, al più basso livello. Vi sono altri tipi di minacce… più sottili e subdole, ma non per questo meno inquietanti.
Ricordo sempre quel che m’è capitato ad un cocktail molto mondano, molto “liberal”, cinque o sei anni fa. C’erano persone “celebri”, delle quali non voglio fare i nomi. Non è per amarezza che dico quanto è difficile (e pochi se ne rendono conto) essere uno scrittore negro. E’ difficile essere un negro famoso perchè si entra a far parte di un gruppo che vi considera come una minaccia per i suoi interessi. Da una parte, c’è gente che guadagna molto danaro con il vostro lavoro, dall’altra però questa gente sa che se dovesse applicare in concreto quel che si scrive, i loro “affari” andrebbero alla malora. Dunque, io ero stato invitato a quel cocktail nella mia qualità  di “scrittore negro”. Quello stesso giorno avevo avuto un incidente con un conducente di tassì che aveva insultato i miei fratelli. Ero perciò arrivato al cocktail piuttosto arrabbiato e non mi sentivo per niente disposto a farmi appiccicare l’etichetta di “scrittore negro”, con tutto quel che significa negli USA una definizione del genere. Un’ora o due dopo, qualcuno fece un’osservazione; non ricordo più cosa disse, e non ricordo che cosa gli risposi. Comunque, mi ricordo che gli parlai con astio, vendicandomi su di lui per l’insulto che il tassista aveva fatto ai miei fratelli; e le mie parole risentivano di questo fatto, io ne avevo fatto una questione personale. In ogni modo non seppi esprimermi diversamente. Allora il mio interlocutore mi fece osservare: «Perché te la prendi, Jimmy? Tanto tu sei arrivato». Gli ho voltato le spalle. Ecco un esempio delle resistenze di cui ho parlato. «Arrivato». Ma a che cosa, santo Dio?
 In che modo lei ha trasposto nella sua opera di romanziere queste reazioni e queste resistenze?
In Gridalo forte (la mia prima opera pubblicata; il titolo originale era Go tell it on the mountain) ho cercato di affrontare le cose che mi ferivano di più. A quello stadio della mia vita ero alle prese con l’immagine di mio padre, l’immagine ambivalente di tutti i padri modellati dall’eredità  storica afro-americana. Volevo bene a mio padre – e l’odiavo. Mio padre mi voleva bene – e mi odiava. Per me era il simbolo dell’ostacolo che dovevo imparare ad affrontare prima di poter fare qualcos’altro. Non sono mai stato contento di questo libro, come del resto neppure degli altri libri che ho scritto. Ma quel libro mi ha permesso di scoprirmi; ero in uno stato di rabbia furiosa e, costasse quel che costasse, dovevo trovare il modo di esprimermi e quindi di liberarmi. Era come se avessi avuto in mano una bomba che poteva farmi saltare in aria da un momento all’altro se avessi imparato a servirmene. Quindi dovevo mettermi a scrivere. Siccome bollivo, dovevo costringermi a esser freddo. Dovevo sforzarmi a comporre una frase, ad esprimere quello che si agitava dentro di me, che mi veniva dai miei antenati…
Avevo già  scritto vari saggi. La mia prima raccolta di saggi è stata pubblicata nell’intervallo fra il primo e il secondo romanzo. Dovevo però risolvere un altro problema, il più intimo. I miei rapporti con me stesso, con i miei fratelli, le mie sorelle, i miei rapporti con gli uomini e le donne, il sesso, che rimane un problema fintanto che ci si rifiuta di affrontarlo. Perché è difficile esser allo stesso tempo bianco e negro, maschio e femmina, in un senso che va oltre la biologia. Nel senso in cui l’artista è maschio come è femmina. E’ una cosa di cui si deve tener conto, ma nel contesto culturale che mi definisce, praticamente mi è impossibile assumere questa realtà . Perciò ho scritto La stanza di Giovanni. Dovevo affrontare il tema dell’omosessualità. Io non considero La stanza di Giovanni come un vero e proprio romanzo; ma è il mio preferito perché è stato il più difficile e il più pericoloso da fare, per quel che mi riguarda. Tutti mi dicevano: «Guarda che comprometti la tua carriera. Sei uno scrittore e hai bisogno di un certo tipo di pubblico, non devi alienartelo. Non pubblicando questo libro, noi ti facciamo un favore». Infatti in un primo tempo avevano rifiutato di pubblicarmelo, ho dovuto costringerli. La verità  è che La stanza di  Giovanni mi ha messo in crisi: per di più lo stesso anno tornai in America e per la prima volta andai nel Sud degli Stati Uniti. Tutto questo spiega che a quell’epoca ero un tipo tormentato, tormentato a causa della carriera e a causa di me stesso: allora deliberatamente feci cadere la finzione, e scrissi un’autobiografia intitolata Nessuno sa il mio nome; nello stesso tempo lavoravo per il teatro con Elia Kazan. Nessuno sa il mio nome è stato un’altra pietra miliare della mia vita: fino a un certo punto questo libro ha contribuito a combattere il clima morale che allora regnava nel paese.
Mi aspetto tante conseguenze, sul piano sociale, dall’atto di scrivere! Non si scrive per esibirsi; si scrive perchè si deve, perchè bisogna registrare e tradurre quel che si vede. Così ho terminato Un altro paese (in Italia: Un altro mondo), che mi ha gettato su un’altra isola deserta… Diventai allora quel che si chiama un uomo celebre, una personalità  in vista, con tutto quel che segue. Ma non ero più molto giovane; leggendo le biografie degli scrittori americani constatai che quasi tutti son morti intorno ai quarant’anni. Mi chiesi allora che cosa sarei diventato, perchè allora avevo eccellenti ragioni per partecipare più risolutamente che mai alla lotta per i diritti civili, inquadrato com’ero nell’obbiettivo dell’attualità . C’era una ragione molto semplice: con mia grande meraviglia avevo scoperto che si potevano raccogliere fondi servendosi del mio nome. Se il vostro nome può servire al successo di una colletta o a far liberare dei bambini prigionieri, voi non avete più il diritto di dire no, vero?
Mi misi a scrivere Blues per Mr. Charlie, cosa che mi salvò: infatti provocò un grandissimo scandalo. Perfino quella comunità  liberale che si vantava di avermi nutrito e “lanciato" mi voltò le spalle. Fu quella la cosa migliore che potesse capitarmi. Poi fui ricoverato in ospedale. E anche così si può ammazzare un uomo; naturalmente parlavano di super-affaticamento, di stanchezza mentale…
L’eroe di Blues è l’assassino bianco, il mio assassino. Volevo dimostrare che il mio atteggiamento nei confronti del governatore Wallace, di Lurleen Wallace, di Jim Clark, di Hoover o di Reagan non è indotto dai dati sociali che mi determinano. Queste persone non credono di essere degli oppressori o dei criminali. Come me essi sono soltanto il prodotto di una situazione storica! L’uomo che ha ucciso Emmett Till è una vittima della Storia come il ragazzo che ha ucciso. E’ facile dire che Jim Clark è uno psicopatico: in effetti lui lavora per conservare la società  americana. La vecchia immagine del caposquadra della piantagione e il governatore Wallace sono la stessa cosa: tutti e due sono degli assassini, allo stesso modo.
La nostra responsabilità? E’ di prender coscienza del fatto che questi crimini vengono commessi a nostro nome. Voi siete colpevoli, e noi pure siamo colpevoli, bianchi e neri insieme. La divisione tra bianchi e negri non significa niente.
Come interpreta lei l’evoluzione di Martin Luther King e le sue dichiarazioni circa la sua presa di posizione nei confronti della guerra vietnamita?
Ho visto giovani incolleriti, disperati, diseredati. Ho detto loro che le bottiglie Molotov e i fucili non avrebbero risolto i loro problemi, perchè ero convinto che il mutamento sociale si sarebbe verificato solo attraverso la non-violenza. Ma loro mi hanno chiesto, e avevano ragione: e il Vietnam? Mi chiedevano se la società  stessa non impiegava massicce dosi di violenza per risolvere i suoi problemi e promuovere i mutamenti che desiderava.
Le loro domande mi hanno sconvolto, e so che non potrò mai più levar la voce contro la violenza degli oppressi del ghetto senza prima rivolgermi esplicitamente a quello che è il più grande istigatore alla violenza che ci sia al mondo…
 Lei che cosa ne pensa?
Io non posso spiegare questo cambiamento. Il meglio che posso fare è di avvalermi della mia stessa esperienza. Martin è mio amico, io lo ammiro e lo rispetto malgrado le tante divergenze che ci sono fra noi. C’è stata un’epoca abbastanza recente in cui la gente al potere – voglio proprio parlare del governo americano (non tagli quel che sto per dire), del Pentagono, di tutti quei generali senescenti, di McNamara, di quegli uomini d’affari e dei milionari, di tutti quei bianchi incolti – un’epoca in cui speravano di servirsi di persone come Martin Luther King o me per controllare gli altri negri. Ma oggi questo non è più possibile. Comprare la gente non serve a niente.
Un esempio: quando Martin Luther King è andato a Chicago dopo la Marcia su Washington (si deve ricordare che su scala nazionale la prima reazione a questa marcia è stato l’attentato contro una chiesa di Birmingham, in cui morirono quattro bambine negre) un tizio gli ha detto: «Voi avete bisogno di fucili, non di sogni». Ed è vero. E scriva anche questo: la popolazione negra d’America, che fino ad ora è stata soltanto manodopera a buon mercato, è diventata oggi un’eccedenza economica: non si sa più cosa farne né come assorbirla. Essendo il nostro popolo quello che è, l’amministrazione – essendo quello che è – preferisce sterminarlo. Questa – e nessuno può dimostrare il contrario – è la storia del negro americano. E’ questo quel che si vuol dire quando si parla di un “cattivo negro”. Tutti i “cattivi negri” che si facevano prendere erano ammazzati. Ora una massa di “cattivi negri” viene arrestata, e nessuno può far nulla, si tratti di Martin Luther King o di chiunque altro. E’ lo sviluppo degli avvenimenti. Anche prima della Marcia su Washington, erano venuti a trovarmi dei politicanti… erano venuti da me, che non son mai stato quel che si dice un capo del movimento per i diritti civili, per chiedermi di bloccare la faccenda. Ho risposto: «Se potessi lo farei, ma la questione non è di volere, è di potere. Come voi, anch’io sono impotente».
Che cosa pensa del titolo del prossimo libro di Martin Luther King “Dove andiamo? Verso la comunità  o verso il caos?”
Questa è l’unica domanda che valga la pena di porre… Le persone che ho nominato, le ho nominate deliberatamente. Lyndon Johnson ha tutto il diritto di essere quel che è. Siamo noi che non abbiamo alcun diritto di mettere tanto potere in mani di quel genere. Non è lui che bisogna biasimare, né Reagan, né Lurleen Wallace, né Maddox. Il responsabile è il popolo americano, i responsabili siamo noi.
E che cosa ne dice del movimento del Potere nero?
Black power” significa semplicemente una cosa che il resto del mondo non ha mai potuto concretizzare, pur vantandosi di farlo. Significa l’autodeterminazione dei popoli, né più né meno. E questo ci porta diritti al problema della riorganizzazione delle forze presenti nel mondo. Io sono incapace di condannare quelli che non possono far fronte a questa realtà. Eppure la realtà  esiste: l’Africa del Sud esiste ancora per eccellenti ragioni, non perché i sudafricani siano malvagi, ma perchè non avevano i mezzi per vivere in Europa dopo la rivoluzione industriale. E’ questo il significato del fatto coloniale. Quelli che possedevano le macchine andavano a cercare quelli che non le possedevano, e li sfruttavano. Parigi, Londra… tutte le capitali occidentali sono state costruite con questo sudore. Lo ha detto Winston Churchill, e lo ha detto Eisenhower…
 Il problema dell’autodeterminazione, come lo definisce lei, non si pone forse in termini più drammatici per la comunità  negra d’America?
Non c’è una comunità  negra d’America. C’è una cosiddetta comunità  negra, ma non si può usare il termine “negro” per definire qualcuno. La realtà  prima della vita americana è che nessuno sa a che punto finisca in lui il negro e cominci il bianco.
Ma il razzismo crea un muro?
Non è solo una questione di razzismo. C’è molto di più. La psicosi è questa: per esempio, io so che questa bambina negra seduta davanti a me è mia sorella o mia figlia – e, reciprocamente, lei sa che io sono suo fratello, o suo padre, o suo cugino – e malgrado questa consapevolezza, la relazione che c’è tra noi è quella che c’è tra padrone e schiavo; malgrado questa consapevolezza, noi ci linciamo l’un l’altro. E’ la storia di Faulkner, è la storia di Richard Wright.
 Qual è la situazione oggi? Ci sono nuove prospettive, malgrado le sommosse e le morti inevitabili?
Il tempo ha dato ad alcuni- forse però non a un’intera generazione – la tardiva certezza che essi sono uomini… Sì, parliamo della giovane generazione. Stokely Carmichael ha preso alla sprovvista i bianchi. Quanto a me, non può certo sorprendermi. Il conflitto si riassume come segue: esaminate una qualsiasi nazione, e scoprirete che si tratta di una struttura arbitraria creata da un processo storico.
Così la Francia: una nazione che comprende la Bretagna e Marsiglia e Nizza, acquistata così tardi, e deriva semplicemente dai conflitti fra regni feudali, né più né meno. Così è tutta la storia d’Europa. La nazione più arbitraria di tutte è stata quella di Bismarck: creata con un fiat lux, per decreto. E non parliamo della nazione americana. Poi, questi pretesi insiemi hanno contaminato il mondo intero con questo concetto. Così per la giovane generazione, il problema non si pone in termini di bianchi e negri.
Che cosa ne pensa della definizione data da Max Roach per il potere negro nell'arte: «La cultura negra ha invaso la società  bianca entrando dalla porta di servizio. I cantanti della “generazione beat” cantano negro senza saperlo»?
E come! e l’orrore massimo è che lo fanno senza rendersi conto. Non lo sanno. C’è un tizio che si guadagna la vita – e che vita – semplicemente imitando Bessie Smith. E l’orrore di questa mascherata non è tanto la ben nota atrocità  della sua morte, ma il fatto che si sfrutta freddamente una cosa che è stata creata con l’anima. Se quel tizio prendesse coscienza della truffa che commette, si ammazzerebbe. Tutta la repubblica americana si fonda su menzogne di questo genere. Ciò dimostra a tutto il mondo che non ci sono mai stati assassini, permette loro di aver la coscienza tranquilla e di dormire la notte. Ma se – come Malcolm X – si fa semplicemente notare che non c’era niente di bello nel lavoro di piantagione, e che la raccolta del cotone non si faceva per amore ma per vantaggio, che il negro cantava sì canzoni allegre, ma sotto la frusta… insomma se fate osservare tutto questo, voi colpite duramente la loro tranquillità , la loro comodità , il loro sonno.
Gli americani non possono affrontare le loro menzogne, ed è questa l’accusa più severa che si può rivolgere a un popolo. Noi siamo loro fratelli, loro sorelle, figli e figlie rinnegati; e, ancor peggio, siamo loro fratelli, sorelle, figli e figlie massacrati… e loro non hanno il coraggio di riconoscerlo.
Abbey Lincoln parlava delle stesse cose quando parlava delle donne negre alle quali davano bambini bianchi da allattare …
Quei bambini bianchi che bevevano il latte di quelle donne negre sono cresciuti. E hanno linciato e violentato i figli negri delle loro nutrici negre. Ecco l’ironia. Se rifiuteranno di riconoscerlo periranno, sono dei condannati in potenza. Essendo io quel che sono, anch’io sono condannato. Ma almeno io ho il vantaggio di saperlo.
Lei negro crede veramente d’essere un condannato?
 Io sono un americano; non andrei a Pechino, non andrei a Mosca. Non vi è una seconda nascita. Potrei andare in questi posti, temporaneamente, per lavorare o insegnare. Ma resto americano. Non abbandonerei l’America… non potrei concepire il ripudio, né l’abdicazione. Perchè l’America non è ancora fatta, ed anch’io voglio farla. Perchè il padre del padre di mio padre ha vissuto qui e qui è morto. Questo paese mi appartiene e io gli appartengo. E io non cercherò di uscirne. E se questo paese si perde anch’io mi perdo. Almeno questa è una cosa della quale io sono persuaso.

(*) ripresa da «www.pabuda.net» dove è presentata così: «da L’Astrolabio, numero 30, anno V, 23/7/1967, pagg. 31-34; sulla rivista non è indicato il nome dell’autore dell’intervista; in compenso, posso aggiungere che il direttore, all’epoca, era Ferruccio Parri».
da qui

Epifania! - Ali Smith


Epifania! Già da molto piccola sapevo cos’era, perché ho ricevuto un’educazione cattolica romana nella presbiteriana Scozia del nord. L’Epifania era una festa di precetto, cioè un giorno in cui si doveva andare a messa. Era una delle festività del periodo natalizio, anzi, era il giorno in cui si toglievano di mezzo le decorazioni, la Dodicesima Notte, il 6 gennaio, e stava quindi a significare che era tutto finito. Ma rappresentava anche, passati ormai il trambusto e il clamore del Natale e dell’ultimo dell’anno, una celebrazione dell’atto del donare, il suo perpetuarsi.
L’Epifania aveva anche un suo canto di Natale, con i tre re magi che, nella loro sapienza, attraversavano il mondo seguendo una stella ed entravano a far parte di una storia vecchia, vecchissima, gente che lascia il proprio paese e si mette in viaggio, niente posto alla locanda, un bambino così umile che era nato in una stalla ed era stato posato in una mangiatoia. Lo cantavamo alle elementari, nell’unica scuola cattolica nel raggio di chilometri, il che voleva dire che alla fine delle lezioni, davanti al cancello, c’era sempre qualcuno che si prendeva a cazzotti, le femmine come i maschi, con quelli delle altre scuole, perché noi eravamo diversi, oppure i diversi erano loro. Ma comunque, il 6 gennaio eravamo tutti seduti nella chiesa di St. Mary’s e intonavamo:
Siamo tre re, veniamo dall’Oriente
Portiamo doni, viaggiamo tra la gente
Tra campi e fonti, brughiere e monti
Seguendo sempre la stella lucente.
O stella della sera, stella preziosa
Cometa di regale bellezza luminosa
Che a ovest conduci, su di noi riluci
Guidaci verso la tua luce prodigiosa
Sapevamo cos’era l’oro e cosa poteva significare per un bambino povero, e il secondo re, nel suo verso, spiegava che il dono dell’incenso stava a significare la prossimità di un Dio. Ma la mirra, l’ultimo dono, era un regalo improbabile e oscuro da fare a un neonato, anche perché, secondo il re che la portava, la mirra «esala una vita di fitta tenebra / dolore, sospiri, sangue, morte / nel chiuso di una tomba gelida»
Ma tutto ciò conferiva un’aura di autenticità ai doni: doni che erano tutt’altro che frivoli, doni che non prendevano la vita sottogamba.
Ad ogni modo, una sera – avevo più o meno sette anni – ero in cucina e asciugavo i piatti insieme a una delle mie sorelle maggiori, che all’epoca ne aveva diciotto. Ero giù di corda per qualche motivo, probabilmente perché ero diversa, e lei, per tirarmi su, si mise a cantare questa canzoncina che aveva inventato lì per lì:
Siamo tre re, veniamo dall’oriente
Abbiamo una macchina che non vale niente,
Cerchiamo di salirci, ma siamo così grassi
Che dai e dai c’è il rischio che si scassi
Piccole piccole queste macchinette
Non puoi capire quanto sono strette
Cerchiamo di montarci, ma siamo così grassi
Rinunciamo e facciamo quattro passi.
Io mi buttai a terra, sul linoleum della cucina, e risi fino alle lacrime, fino a farmi venire il mal di pancia.
Ora so che quella sera mia sorella, regalandomi quei tre re, così più grandi e più grossi degli originali, ha avuto il ruolo di regina maga portatrice di doni. A modo suo aveva colto, a un livello molto profondo, qualcosa della mia natura, della natura della nostra famiglia, e della natura umana in genere: aveva preso una forma chiusa e l’aveva squadernata, creando una canzone nuova e facendo squadernare me dalle risate. Ora so che quel dono era il diritto di andare dove volevo. Era il dono della libertà di movimento, dell’adattabilità, della versatilità, della traduzione. In un certo senso, sì, rappresentava il superamento di un confine. E ora che ricordo questo episodio, per qualche istante attraverso tutta la mia vita a ritroso e torno ad essere quella bambina. Sono la me stessa bambina e la me stessa adulta, tutte e due insieme, e tutte e due siamo aperte più che mai non solo all’idea di essere vive, ma alla vita stessa. Epifania.
James Joyce ha pensato bene di rubare la parola epifania, e di porsela come ambizione ultima in ogni cosa che ha scritto. Per lui è l’attimo fatidico, quella frazione di secondo in cui il mondo, la parola e la nostra capacità di comprendere convergono fino a cancellare il tempo, facendoci entrare in uno stato che nella nostra lingua si indica con una parola che è sinonimo di dono, facendoci cioè entrare in un intenso tempo presente: la pura presentità, l’essere qui, l’essere questo. Virginia Woolf descriveva questo essere nel tempo e insieme al di là del tempo, questo essere pienamente noi stessi e allo stesso tempo di più, in quanto parte di qualcosa che è più grande di noi, «momenti d’essere».
Comunque, qui, ora, tra un momento, condividerò con voi un paio di quei milioni – letteralmente milioni – di momenti d’essere epifanici che ho vissuto, leggendo, nel corso delle ultime due settimane. Ne viviamo a migliaia ogni giorno, se ce ne concediamo l’opportunità. Io sono una scrittrice perché leggo, e per me leggere è tutto, che si tratti di libri, delle parole sul fianco delle penne e delle matite che usiamo, o sulle confezioni di cibo che compriamo, o delle parole che vediamo sullo schermo davanti al quale stiamo appiccicati o che illumina dall’interno la tasca della nostra giacca; in fatto di linguaggio, siamo creature porose, siamo come spugne, assorbiamo tutto, spesso senza rendercene conto, ed è per questo che una cosa scritta è in grado di farci provare letteralmente qualunque cosa: dal benessere al malessere, anche fisico. Vale la pena di ricordare, per esempio, che se un presidente scrive un tweet che, mettiamo, ha l’effetto di far sentire il mondo piccolo, insignificante, sminuito, diviso, inferiore, lo fa consapevolmente, perché far sentire il mondo più piccolo è una dimostrazione di potere.
Ma anche la lettura è potere. Quando leggiamo siamo più informati, più saggi e aperti, e soprattutto più flessibili e attenti nella nostra lettura del mondo; in realtà il mondo e il linguaggio, quando convergono – che la cosa avvenga in un tweet o in un libro di mille pagine poco importa – diventano enormi, diventano cornucopie, e lo stesso vale per noi, perché ognuno di noi è un’opera di infinito potenziale immaginativo, e – man mano che procediamo con la nostra lettura del mondo – tra i compagni più comunicativi, complessi e generosi che abbiamo c’è la grande e ramificata famiglia delle lingue. Se vivere ha un senso questo senso sta nell’energia, nella vita che prende forma quando una lingua e una persona, un momento, un’arte, un Paese, una molecola, una parola, incontrano un proprio simile e ci entrano dentro.
Sono i libri, e non gli scrittori, a produrre libri. I libri producono tutti i libri che verranno dopo di loro. I libri generano libri, e sono i libri e la lettura a fare di noi ciò che siamo, perché se è vero che noi creiamo forme, è anche vero che le forme creano noi, e tutte le arti s’impollinano a vicenda, è sempre stato così e sempre lo sarà, e mi viene da dire che se il ventesimo secolo, un secolo così disordinato, orribile, agitato, magnifico, meraviglioso, ci ha regalato qualcosa – se il ventesimo secolo, travestito da re magio, montasse in groppa a un cammello e attraversasse il mondo e andasse a far visita a ogni singolo neonato per portargli in dono qualcosa di utile – il suo dono sarebbe la scoperta del DNA, in altre parole, il dono della consapevolezza che siamo tutti – tutti noi esseri umani – una sola famiglia.
Ecco cinque cose che di recente mi hanno fatto accendere una lampadina sopra la testa, nel senso che mi hanno dato l’energia necessaria, grazie alla loro natura di epifanie: una vita da vivere, uno spirito da riconoscere, l’accettazione di certe verità, oscure o luminose che siano.
Essere umani è la cosa più importante di tutte. Significa saper essere risoluti, lucidi, e allegri, sì, allegri a dispetto di qualunque cosa, perché lagnarsi è da deboli. Essere umani significa lanciare con gioia tutta la nostra vita sulla grande bilancia del destino, se così deve essere, e allo stesso tempo esultare per lo splendore di ogni nuovo giorno e per la bellezza di ogni nuvola.
Rosa Luxemburg era in prigione quando scrisse queste parole.
Un passaporto è un libretto con dentro dei timbri. In pratica, serve a dimostrare che siamo vivi. Se lo perdi, per il resto del mondo è come se fossi morto. Non hai il permesso di andare in altri Paesi. Sei obbligato a lasciare il Paese in cui ti trovi, ma non hai il permesso di entrare in un altro. Purtroppo, Dio ci ha fatti creature di terra. E ora io prego di nascosto ogni sera che in futuro la gente possa essere in grado di sopravvivere galleggiando in acqua per anni e anni, o di muoversi volando nel cielo. Quando ero piccola, mia madre mi leggeva la Bibbia. Nella Bibbia c’è scritto che Dio ha creato il mondo, ma non si parla di confini.
Questa è Irmgard Keun, nel 1938.
Ma alla fine è tutta una questione di traduzione, e le cose da tradurre sono tantissime. Perché la verità è che non lavoriamo in uno spazio vuoto, ma lavoriamo dentro la vita. La traduzione è un atteggiamento a lungo termine nei confronti della vita. E questa lingua universale dell’artista… l’arte è praticamente l’unica lingua che le nazioni riescono a parlare tutte insieme senza litigare.
Questa è Barbara Hepworth, dopo la seconda guerra mondiale.
MYSTIC ERASER [«GOMMA DA CANCELLARE MISTICA», n.d.t.]
Parole scritte su una gomma da matita che ho trovato in cartoleria.
E infine:
Ultimamente sto riflettendo sul fatto che chi racconta storie ha la responsabilità di essere ospitale.
John Berger, due anni fa.
Epifania. Una volta James Joyce ha detto una cosa che io trent’anni fa scrissi su una cartolina con una foto di lui giovane e sbarazzino. La tengo sulla mia scrivania, perché mi dà la forza di andare avanti nei momenti di paura, di stallo o di abbattimento. A forza di scrivere, le cose buone arrivano.
La mia versione è questa: A forza di leggere, le cose buone arrivano.
Mettete a frutto questo dono. Leggete. Scrivete. Ricambiate il dono. Metteteci tutti voi stessi.

(traduzione di Federica Aceto)