martedì 21 maggio 2024

Sono morte le notizie, circondate dall’affetto dei loro cari - Gianluca Cicinelli

Sul numero che trovate oggi online di Diogene, di venerdì 17 oltretutto, abbiamo dedicato molto spazio alla libertà di stampa. Avviso subito che non apparteniamo alla schiera di coloro che vedono fascismo e dittatura dappertutto, ma è nostro dovere, proprio per la natura del nostro quotidiano e dell’agenzia stampa a esso collegata, denunciare la scomparsa dell’elemento principale del nostro lavoro: le notizie.

Ciò che accade è diverso dalla semplice censura. Censura è quando volontariamente si omettono informazioni. Ne sono protagonisti, ad esempio, i telegiornali nazionali, che hanno un concetto del diritto alla protesta molto preciso: non ne parlano. Anzi, senza timore per il ridicolo, è il governo, il governo non antifascista, per sua stessa definizione, che grida alla censura.

La scomparsa delle notizie è invece un problema culturale, geografico ed economico che va oltre quello politico. E forse è anche più difficile da affrontare. Su Diogene non trovate quasi mai le prime quattro o cinque notizie che hanno tutti i giornali. non avrebbe molto senso, a meno che non decidiamo di offrire una nostra lettura particolare su di un fatto relativo al nostro ambito d’interesse, ovvero la povertà.

In compenso la nostra giornata inizia con la lettura di un centinaio di giornali da tutto il mondo e di una decina di agenzie internazionali. Provate a discutere di premierato in italia sapendo quanto accade in Nuova Caledonia, per esempio. Magari pensando che il colonialismo sia un frutto del novecento, mentre una delle democrazie più avanzate in Europa è in realtà ancora oggi una potenza coloniale.

Che la Nuova Caledonia sia “una proprietà extratteritoriale francese” (“collettività francese d’oltremare sui generis”, la definisce Wikipedia) non è molto chiaro dai giornali. Come non è molto chiaro che in un paese dove vige il semipresidenzialismo, che in qualche modo assomiglia al confuso progetto di Giorgia Meloni e del suo Gran Consiglio, il “capo”, in questo caso il presidente, può inviare sull’isola le forze armate per sedare la ribellione senza consultare il Parlamento. Potrebbe farlo in italia se passasse il progetto Meloni?

Sarebbe uno spunto interessante per parlare di politica. Invece no. Perchè nelle redazioni hanno appreso dell’esistenza della Nuova Caledonia dalle agenzie stampa. Si generalizza naturalmente, e non è giusto, naturalmente, ma aprite i sei quotidiani principali italiani e provate a trovare qualche ragionamento che vada oltre la violenza della protesta.

Soltanto in rete sono reperibili centinaia di giornali da ogni parte del mondo. Di notizie, che renderebbero diversi e caratterizzati i giornali italiani e con un pubblico più largo, che significa soldi, ce ne sono migliaia. Ma passano sotto gli occhi di redattori e caporedattori come se il resto del mondo non esistesse.

Così come per un Assange che finisce dietro le sbarre ci sono altri cento Assange in tutto il mondo che sono abbandonati a se stessi sempre per la pigrizia di non cercare le notizie. Oggi su Diogene parliamo del caso di David McBride finito in una galera australiana per aver rivelato i crimini commessi in Afghanistan dall’esercito di Canberra. Perchè se Assange è il simbolo di una lotta più generale, sono proprio gli Assange che nessuno conosce quelli da far conoscere e tutelare all’opinione pubblica.

Difficile, ad esempio, immaginare che nell’ex democratica Inghilterra diventi reato criticare la sentenza di un processo penale. Ne abbiamo parlato in un articolo dove raccontiamo l’incredibile vicenda del servizio dello statunitense, nonchè prestigioso, New Yorker, che ha sollevato dubbi su un processo recente, con il risultato che quella pagina non è più consultabile dal Regno Unito perchè la legge lo permette. Nella patria di John Locke.

Se queste due notizie, due tra tante, ci ricordano quanto si stia stringendo intorno al collo dei giornalisti il cappio del controllo della politica e della magistratura sul loro lavoro, e non soltanto in Italia come abbiamo visto, dovremmo essere incentivati ancora di più a guardarci intorno e a raccontare ciò che vediamo.

Ma nelle redazioni impera oggi, al di là delle scelte degli editori, una tipologia di stronzetti che confonde il marketing con il giornalismo, e soprattutto confonde la propria limitata conoscenza del condominio in cui vive con il mondo. Il layout è più importante delle notizie. L’articolo deve essere breve. Sulla pagina devono esserci le stesse notizie del quotidiano concorrente. Rapporti confidenziali con le Procure a parte.

La povertà fa tristezza e la omettono, tranne per il barbone che vince la lotteria e fa simpatia, ci redime. L’informazione scientifica viene sempre più usata a scopo terroristico e non di conoscenza. Ma soprattutto, riprendendo il tema portante del ragionamento, cercando di piegare le notizie a un piccolo angolo di terra anzichè rapportarle al mondo.

Te lo insegnano appena entri in una scuola di giornalismo, che un morto occidentale ne vale almeno un centinaio nel sud-est asiatico. Il piccolo problema è che nel sud-est asiatico si sta riorganizzando l’intera produzione mondiale di beni e finanche di servizi, informatici e finanziari, e magari parlarne aiuterebbe a capire anche cosa accade a Corviale o a Tor Bella Monaca o al Giambellino o a Rogoredo.

Soluzioni non ne abbiamo, se non quella di fare ogni giorno Diogene, provando a dare un respiro globale ai problemi locali. Ma sarebbe onesto prima di parlare di censura del potere interrogarsi sull’autocensura dei sudditi, che porta alla mancanza di una dialettica che contrapponga le redazioni alle direzioni sui contenuti.

Il giornalista e partigiano Massimo Rendina, che ebbe nell’Anpi molti ruoli apicali, raccontava sempre che la prima cosa che facevano i partigiani quando entravano nelle città liberate era di aprire un giornale. Era quello secondo lui il segnale culturale di maggiore discontinuità con la dittatura. Oggi invece se ne chiudono sempre di più. Tirate voi le conclusioni.

da qui

lunedì 20 maggio 2024

Manifesto Arena di pace e giustizia, 18 maggio 2024

 Documento finale Arena di Pace 2024

1.Siamo persone, associazioni, movimenti, reti attive nella costruzione della pace in tutte le sue forme attraverso la nonviolenza. Da Arena 2024 desideriamo intraprendere un cammino verso obiettivi concreti di giustizia, democrazia e pace partendo dal nostro impegno quotidiano,  per formare alleanze che trasformino la realtà in Italia e nel mondo perché non può esserci la pace in un solo paese.

 

2 – Il nostro sguardo è rivolto all’ambiente, che ci ospita, e a tutte le vittime di guerre, violenze, soprusi, sfruttamento, violazioni dei diritti fondamentali, mafie, migrazioni forzate. La pace non è solo assenza di guerra è disarmo, democrazia, giustizia, diritti, cura della casa comune. La pace è uno stile di vita personale e collettivo.

Il mondo dove viviamo

3 – Viviamo in un contesto mondiale multipolare, caratterizzato da un sistema economico che genera disuguaglianze e oligarchie perché prevalgono profitto, sfruttamento, finanza rapace, mafie. Interi settori sociali e popoli sono emarginati e discriminati a causa di patriarcato, razzismo e neocolonialismo. La democrazia è distorta da gruppi di interesse e prevalgono tendenze autoritarie. La libertà e i diritti fondamentali sono violati e la loro universalità è messa in discussione, in particolare nei confronti delle donne e delle persone Lgbt+. Ci sono istituzioni complici dei disastri ambientali e del cambiamento climatico. Nel sud del mondo milioni di persone sono costrette alla fuga da condizioni socio-ambientali inaccettabili. Le iniquità rafforzano i fondamentalismi e le religioni sono strumentalizzate per giustificare guerre e limitazioni dei diritti.

4 – A tutte queste crisi si risponde con la guerra, di cui il mondo è diventato un unico teatro, che alimenta nuove crisi. La spesa militare cresce a dismisura, il disarmo è diventato un tabù e l’arma nucleare è considerata un’opzione realmente possibile.

5 – In Italia il sistema politico-economico non garantisce lavoro dignitoso e sicuro, né inclusione sociale; i diritti inalienabili, sanciti dalla Costituzione, sono privilegi per pochi. Il soddisfacimento dei bisogni essenziali è sempre più demandato ad apparati privati, come nel caso della sanità. L’istruzione pubblica ha risorse insufficienti anche per l’inclusione, è sempre meno orientata alla formazione integrale della persona, all’educazione ai valori e all’impegno civile. Si impongono limiti alle libertà civili, mentre la partecipazione è ostacolata da una classe politica autoreferenziale, dalla corruzione, dal linguaggio tendenzioso e violento di esponenti del mondo politico. La democrazia è minacciata da modifiche costituzionali in senso verticistico e di differenziazione dei territori e dall’attacco all’indipendenza della magistratura.

6 – Le risorse necessarie al benessere personale e collettivo sono investite nel riarmo, si intende favorire l’opacità del commercio delle armi e dei suoi finanziatori, ci si propone di rinforzare il potenziale militare anche reintroducendo la leva obbligatoria. La propaganda militare entra nelle istituzioni scolastiche d’ogni ordine e grado con pretese “educative”. Proteggere l’ambiente e
contrastare il cambiamento climatico sono visti come ostacoli ad interessi particolari. Nei confronti delle persone migranti o profughe si applicano leggi che mettono a repentaglio la loro vita, le costringono all’irregolarità e a nuove forme di schiavitù, alimentando un senso di insicurezza che avalla politiche securitarie e discriminatorie.

7 – Da questo sistema vogliamo uscire e sentiamo l’urgenza di farlo oggi.

Le nostre speranze

8 – Siamo di fronte a sfide che si possono affrontare davvero solo insieme, per realizzare il cambiamento che crediamo possibile. Quindi, pur mantenendo le nostre specifiche attività, desideriamo unire le nostre forze in linee d’impegno chiare, essenziali, per essere efficaci, come dimostrano i risultati ottenuti in tante occasioni.

9 – Ci ispirano le testimonianze di persone, anche giovanissime, che col loro entusiasmo mantengono viva la volontà di pace, giustizia, democrazia, solidarietà e difesa dell’ambiente.

I nostri impegni

10 – Abbiamo lavorato in cinque Tavoli tematici, che hanno prodotto documenti in cui si esprime forte consapevolezza dell’urgenza di linee d’impegno comuni per un cambiamento personale, della cultura e delle istituzioni.

11 – Formazione – Ci battiamo innanzitutto per una formazione che educhi alla cultura della pace: al rispetto reciproco e al dialogo, alla dignità del lavoro e alla giustizia, ai diritti e alla democrazia, alla nonviolenza e alla cittadinanza globale, alla conversione in chiave ecologica. Essa esige un’informazione libera e corretta.

12 – Pace e Disarmo – Ripudiamo la guerra e chiediamo il cessate il fuoco per tutte le guerre. Pratichiamo la nonviolenza. Vogliamo la riduzione delle spese militari e la riconversione dell’industria militare, la rimozione delle armi nucleari dall’Italia e l’adesione al Trattato che le proibisce, il controllo e la trasparenza sul commercio delle armi, la costituzione di corpi civili di pace per una difesa civile. Sosteniamo l’obiezione alla guerra, la diplomazia anche dal basso, le pratiche di riconciliazione, il dialogo interreligioso, il rinnovamento dell’Onu, un’Europa attivamente neutrale.

13 – Democrazia – La difesa della democrazia richiede il rispetto dei principi costituzionali e dei diritti fondamentali a partire dalla libertà di esprimere e manifestare il dissenso e dal rifiuto di istituzioni verticistiche ed autoritarie, i cittadini e le cittadine devono poter scegliere i propri rappresentanti nelle istituzioni. Le libertà e i diritti costituzionali devono essere riconosciuti e garantiti in modo universale ed egualitario ad ogni persona sul piano sociale e territoriale.

14 – Economia e lavoro – Chiediamo all’UE di assumere un efficace ruolo pubblico, con fiscalità e bilancio propri, per investimenti su transizione ecologica, spesa sociale, beni comuni. Analogamente deve agire il nostro Paese; vogliamo un fisco giusto e progressivo, che promuova buona occupazione e universalità dei diritti sociali; un sistema produttivo orientato al bene comune, finalizzato alla cura e alla riproduzione sociale. Serve dare valore economico e giuridico al lavoro perché le persone siano protagoniste come singoli e collettivamente e affinché vi si affermino democrazia, sicurezza, qualità, diritti e salari adeguati. Chiediamo siano sostenute tutte le pratiche e le azioni sociali a ciò orientate.

 

15 – Ecologia – Dalle istituzioni pretendiamo che mettano in atto un programma di uscita dalle fonti fossili a partire da gennaio 2025, per noi singoli l’invito ad un cambio di rotta, volto a scoprire il valore delle alterità che ci circondano, attraverso le “buone pratiche” ma è alla collettività che ci rivolgiamo con urgenza per l’impatto che il suo agire può significare. Superando, infatti, l’indifferenza e agendo sempre per i “beni comuni” tra cui difesa dei suoli, degli altri esseri viventi e dell’acqua, diventeremo quindi capaci di indicare, in modo costruttivo, alle istituzioni il percorso da intraprendere per una conversione ecologica integrale.

16 – Migrazioni – Chiediamo un governo mondiale dei fenomeni migratori che tuteli i diritti umani delle persone migranti, oggi violati in diverse parti del mondo. All’Unione Europea chiediamo di garantire il diritto di asilo mettendo fine alle politiche di “esternalizzazione” delle frontiere. All’Italia chiediamo di superare la “Bossi-Fini” prevedendo norme che rendano realmente possibili gli ingressi per chi ricerca lavoro, di non ostacolare il soccorso dei migranti, di attivare politiche efficaci per l’accoglienza e l’inclusione dei richiedenti asilo, di mettere in pratica politiche per il contrasto alle discriminazioni (in particolare nell’accesso alla casa) e la promozione delle pari opportunità per gli immigrati e per i loro figli.

“Un mondo altro per costruire la Pace”

 

 

 

Commento di Alfonso Navarra – Disarmisti esigenti

L’evento di Verona ha confermato l’impegno scomodo dell’attuale Pontefice contro le armi e contro la guerra. Ed è significativo che Francesco abbia sorretto la bandiera della pace insieme a Padre Alex Zanotelli, riconoscendone una particolare responsabilità nel promuovere ed animare il nuovo movimento popolare“ che dovrà cambiare il mondo per costruire la pace”.

Noi sosteniamo con autonomia critica di “laici” il Papa pacifista; abbiamo fiducia in Padre Alex Zanotelli come riferimento per l’attuazione del “Manifesto per la pace” emerso dall’Arena di Verona.

Papa Francesco, nel concludere “Arena di pace”, ha invitato a cercare l’unità invece che l’uniformità” perché la società che ha paura della pluralità è psicologicamente avviata al suicidio”.

Bene, prendendolo in parola, staremo molto attenti a distinguere anche all’interno delle Chiese e delle religioni, organismi complessi, ambigui e contraddittori, i sinceri “artigiani della pace” dai “Ponzi Pilati”: la loro indifferenza e compromissione con i poteri temporali prestano il fianco alle strumentalizzazioni di Dio che caratterizzano troppe guerre combattute oggi (a cominciare da quelle in Ucraina e nel Medio Oriente!).

Con questo spirito costruttivo, riproponiamo la lettera che abbiamo inviato a Sergio Paronetto, responsabile del Gruppo Disarmo all’interno dell’Arena di Pace.

All’utile base di priorità per i movimenti di base, emerse dal Gruppo, noi, Disarmisti esigenti, proponiamo di aggiungere delle specificazioni, che rispondono ad una idea di nonviolenza come forza non solo etica ma politica, collegata alla “terrestrità”: un altro nome possibile per l’ecologia integrale e sociale, per la quale non è l’Umanità la padrona della Terra, ma è una parte organica di un ecosistema vivente (“Creato”) che ha la responsabilità di custodire.

Ci preme anche sottolineare che esiste un antimilitarismo nonviolento di natura laica, incarnato da organizzazioni centenarie (come, ad esempio, la War Resisters’ International): non possono essere sottovalutate se non addirittura ignorate nella loro tradizione e nel loro spessore autonomo.

Sarebbe opportuno che questa dimensione laica del pacifismo venisse coltivata e interloquita, non in contrapposizione all’area cattolica (o cristiana, o religiosa in genere); ma anche come presa d’atto che la gran parte del popolo, che oggi dobbiamo servire e unire contro la guerra, è per lo più secolarizzato e laico, in virtù dei profondi cambiamenti sociali e culturali intervenuti nelle società contemporanee.

 

 


Sabato all’Arena di Verona: “facciamo finire le guerre”

Sabato a Verona 12.500 persone manifestano per la pace

Su una idea iniziale di padre Zanotelli e poi con il sostegno di molte associazioni per la pace italiane si è realizzata “Arena di pace” con una grande partecipazione.

All’Arena di Verona si è scritto un piccolo capitolo di storia di quest’epoca contemporanea lacerata dai conflitti quando nell’antico anfiteatro romano sono riecheggiate le parole di Maoz Inon, israeliano, a cui Hamas ha ucciso i genitori il 7 ottobre, e Aziz Sarah, a cui la guerra ha strappato il fratello, assassinato dai soldati israeliani.

Due imprenditori, due rappresentanti del tavolo sull’economia di lavoro ma soprattutto di due popolazioni ora in guerra, che, l’uno accanto all’altro, hanno voluto condividere la loro testimonianza con le 12.500 persone che hanno partecipato all’incontro “Giustizia e Pace si baceranno”, culmine dell’intera visita del Papa a Verona.

Si sono abbracciati alla fine, poi hanno abbracciato pure Francesco, mandando al mondo un segnale di quanto siano vere le parole del Papa, a volte anche contestate, che un terreno per rincontrarsi come fratelli c’è ed è proprio la comune sofferenza.

La sofferenza di due popoli, una testimonianza di pace dalla Terra Santa

“È un grande onore essere qui, lei è un leader della pace, siamo qui con 12 mila costruttori di pace, vi portiamo una testimonianza di pace dalla Terra Santa”, hanno esordito.
“Papa Francesco, sono Maoz Inon, vengo da Israele e i miei genitori sono stati uccisi da Hamas…
Papa Francesco, mi chiamo Aziz Sarah, vengo dalla Palestina e questa guerra, i soldati israeliani mi hanno strappato mio fratello”, hanno detto.
“Il nostro dolore, la nostra sofferenza ci ha riavvicinati per creare un futuro migliore”.

Standing ovation nell’Arena di Verona

L’intera Arena si alzata in piedi nel sentire queste parole.
Bandiere della pace e fazzoletti bianchi hanno sventolato e i due uomini si sono stretti le mani sollevandole in alto.
Ancora abbracciati, affiancati da Roberto Romano del gruppo di lavoro sull’economia, hanno proseguito: “Siamo imprenditori… Non ci può essere pace senza un’economia di pace. Un’economia che non uccide. Un’economia basata sulla giustizia. E chiediamo: i giovani come possono essere imprenditori di pace quando i luoghi di formazione sono spesso influenzati dal paradigma tecnocratico e dalla cultura del profitto ad ogni costo?”.

L’abbraccio col Papa

Francesco ha ascoltato rapito il loro intervento e subito si è alzato in piedi quando ha visto i due uomini dirigersi verso di lui.
Un abbraccio, due abbracci, un abbraccio di gruppo, con la testa del Pontefice che affondava sulle spalle di Maoz e Aziz. Poi una stretta di mano fortissima: “Grazie fratelli!”.

Volontà di pace, progetto per il futuro

Tutto intorno, urla e applausi, interrotti quando il Papa ha preso la parola e, a braccio, ha voluto commentare il momento appena vissuto.
“La sofferenza di questi due fratelli è la sofferenza di due popoli”, ha scandito. “Non si può dire nulla, non si può dire nulla… Loro hanno avuto il coraggio di abbracciarsi – ha aggiunto indicandoli con la mano – e questo non solo è coraggio e testimonianza di voler la pace, ma anche un progetto di futuro”.

Abbracciarsi. Ambedue hanno perso i famigliari, la famiglia si è rotta per questa guerra

“A che serve la guerra?”, ha domandato Francesco. “Per favore facciamo un piccolo spazio di silenzio, per sentire. E guardando l’abbraccio di loro due ognuno dal suo cuore preghi il Signore per la pace e prenda una decisione interiore di fare qualcosa per finire con le guerre”. L’ovazione si è tramutata in silenzio.

Il pensiero ai bambini

Francesco ha ripreso la parola: “Pensiamo ai bambini, questa guerra, le tante guerre, quale futuro avranno?”. Il pensiero, come sempre, è andato ai bambini: quelli ucraini che “non sanno sorridere”, che “con la guerra perdono il sorriso”. “Pensiamo ai vecchi – ha aggiunto il Papa – che hanno lavorato tutta la vita per portare avanti questi due Paesi e adesso una sconfitta”.
Una sconfitta storica è una sconfitta di tutti noi. Preghiamo per la pace e diciamo a questi due fratelli che portino questo desiderio nostro e la volontà di lavorare per la pace al loro popolo.

La voce delle donne israeliani e palestinesi

Le lacerazioni che vive il Medio Oriente sono risuonate nell’Arena di Verona anche attraverso le testimonianze di alcune donne israeliane e palestinesi. Madri, mogli, giovani, anziane, che hanno presentato al Papa il dolore per “le tragedie” vissute nei mesi di guerra e anche il lavoro, attraverso movimenti e organizzazioni da loro stesse fondate, “per porre fine a questo conflitto”.

Yael Admi, co-fondatrice del movimento israeliano Women Wage Peace, ha chiesto di sostenere l’Appello delle Madri che domanda la “fine del terribile ciclo di spargimenti di sangue con un’azione politica responsabile e coraggiosa”.

Reem Al-Hajajrah, venuta dal campo profughi di al-Duheisha di Betlemme, “città della pace”, fondatrice del movimento Women of the Sun, si è fatta portavoce delle “madri palestinesi che reclamano una vita migliore per loro stesse e per i loro figli perché non voglio altra morte”. “Con il Suo sostegno, possiamo ricostruire le nostre vite, le nostre case e proteggere la libertà e la dignità del popolo palestinese”, ha detto a Francesco. “Abbiamo bisogno della pace come dell’acqua e dell’aria”.

Ancora Hiam Tannous, cristiana israelo-palestinese, appartenente al popolo palestinese e residente nello Stato di Israele: “Il mio cuore soffre e sanguina, perché il mio popolo è in guerra con il mio Stato. È una sensazione terribile, sconosciuta agli altri arabi”, ha detto. E ha chiesto aiuto al Papa “per realizzare l’impossibile, attuare il cambiamento storico che tutti aspettiamo: riportare la pace in Terra Santa”.

Da parte sua, Nivine Sandouka, palestinese, direttore regionale dell’Alleanza per la pace in Medio Oriente (ALLMEP), la più grande rete di costruttori di pace israeliani e palestinesi nella regione, si è appellata invece al G7 e alla comunità internazionale affinché “supportino un processo di pace dall’alto verso il basso multilaterale abbinato ad un approccio dal basso verso l’alto che metta la società civile, in particolare gli operatori di pace israeliani e palestinesi, al centro di questo processo”.

Tessitrici di dialogo in Terra Santa

Impressionato dalla testimonianza di queste donne, definite “coraggiose costruttrici di ponti”, Papa Francesco ha esortato a guardare proprio a loro per trovare la pace. E alle donne stesse, il Vescovo di Roma ha detto: “Voi, però, tessitrici e tessitori di dialogo in Terra Santa, chiedete ai leader mondiali di ascoltare la vostra voce, di coinvolgervi nei processi negoziali, perché gli accordi nascano dalla realtà e non da ideologie”.
Le ideologie non hanno piedi per camminare, non hanno mani per curare le ferite, non hanno occhi per vedere le sofferenze dell’altro. La pace si fa con i piedi, le mani e gli occhi dei popoli coinvolti.

Non seminare morte, distruzione e paura

Da qui un preciso mandato: “Non diventate spettatori della guerra cosiddetta ‘inevitabile’”.
Non seminiamo morte, distruzione, paura. Seminiamo speranza! È quello che state facendo anche voi, in questa Arena di Pace. Non smettete. Non scoraggiatevi.

A conclusione di questo appello, Bergoglio ha fatto suo l’indimenticabile invito di don Tonino Bello: “In piedi costruttori di pace!”.
E tutta l’Arena di Verona si è effettivamente alzata in piedi.

da qui

Critica il ministro Valditara, provvedimento disciplinare per Christian Raimo

Aveva criticato il ministro Valditara, per questo avrebbe violato il nuovo codice etico dei dipendenti pubblici: Christian Raimo il 21 maggio dovrà comparire nella sede dell’ufficio scolastico regionale del Lazio, essendogli stato notificato un provvedimento disciplinare. Scrittore e docente ha racconta quanto avvenuto in un lungo post sui social in cui chiede: «Si può criticare un ministro?». E ancora: «Purtroppo sanzioni, querele, provvedimenti disciplinari sono il modus operandi di un governo sempre più illiberale e antidemocratico», facendo riferimento anche alla professoressa Donatella Di Cesare, prosciolta dopo essere stata querelata dal ministro Lollobrigida, e alla professoressa dell’Aria che nel 2019, durante le celebrazioni della giornata della memoria, aveva fatto fare un lavoro agli studenti in power point, accostando le leggi razziali del 1938 al decreto sicurezza sull’immigrazione dell’allora ministro dell’Interno Salvini ricevendo una sanzione poi annullata dal Tribunale di Palermo perché illegittima.

A Raimo gli viene contestato il contenuto di un post su Facebook in cui scriveva: «Un ministro dovrebbe difendere tout-court un docente minacciato da gruppi neonazisti invece di avviare un approfondimento interno, e invece finisce proprio per accodarsi agli striscioni intimidatori, e lasciare che gli uffici scolastici regionali vengano usati in modo esattamente contrario alla loro funzione; non prendere parola invece quando davvero la violenza fisica viene esercitata sulla comunità scolastica, come è accaduto a Pisa poco più di un mese fa». E ancora: «Nel merito. Non so quale costituzione abbiano come riferimento Valditara o altri rappresentanti di governo. Quella per cui insegno è nata dalla lotta di partigiane e partigiani che hanno combattuto fascismi e nazismi. A scuola spero di educare alla libertà (art.2) e alla giustizia (art.3); non al merito, non all’assimilazione o all’umiliazione, che sembrano l’orizzonte pedagogico del ministro Valditara».

Per le dichiarazioni che ho fatto in trasmissione (sulla questione Salis, ndr) e non a scuola, ovviamente, ho ricevuto violente dichiarazioni minatorie di parlamentari leghisti e di Fratelli d’Italia. E striscioni di minacce di gruppi ultras neonazisti e gruppi di studenti di organizzazioni neofasciste con altri striscioni sotto scuola, tutti a volto coperto. Un ministro dovrebbe difendere un docente minacciato da gruppi neonazisti invece di avviare un approfondimento interno, e invece finisce proprio per accodarsi agli striscioni intimidatori».

In questa vicenda si legge con nitidezza tutta la pericolosità della deriva politica reazionaria che stiamo vivendo.

da qui

domenica 19 maggio 2024

Il Giorno X per Julian Assange, più volte rinviato, arriva il 20 maggio - Vincenzo Vita

 

“SOS! SOS! SOS!  Lanciamo l’allarme per il 20 maggio, data della nuova udienza per Julian Assange.” Così ha postato su Instagram Stella Assange, moglie del giornalista ed editore australiano, chiedendo ai suoi sostenitori nel mondo di raggiungerla davanti all’Alta Corte britannica a Londra la mattina del 20, oppure di manifestare ognuno nella propria città.  Le autorità britanniche devono capire, ha spiegato la quarantenne avvocata sudafricana, che il mondo li sta guardando mentre decidono se accogliere o meno l’appello di Assange contro la sua estradizione negli Stati Uniti dove rischia fino a 175 anni di carcere.  La decisione doveva avvenire il 21 febbraio, il primo fatidico “Giorno X”, ma, a causa della richiesta della Corte di acquisire ulteriori documenti, è stata rinviata al 26 marzo e adesso al 20 maggio.  Questa volta sembra quella buona.

A Napoli ci sarà un presidio la vigilia, domenica 19 maggio dalle 10.30 alle 13.30, in piazza Dante.  Mentre un attivista spiegherà ai passanti la posta in gioco a Londra – non soltanto la libertà di Julian ma la libertà di stampa e di espressione per i giornalisti e per i comuni cittadini in tutto il mondo – un altro attivista, indossando la maschera di Assange, rimarrà seduto in una cella disegnata col gesso sul pavimento, grande (anzi, piccola: 3m x 2m) quanto quella londinese in cui il fondatore di WikiLeaks si trova imprigionato da oltre cinque anni, pur senza condanna.

Anche a Roma ci sarà un presidio la vigilia (19/5), dalle ore 17 alle ore 19, davanti al Pantheon in piazza della Rotonda.  E anche qui verrà allestita una cella 3m x 2m: ma, in questo caso, si tratterà di una gigante tela dell’artista Chiara Bettella raffigurante Julian, dapprima imprigionato e poi liberato; i passanti potranno apporre le loro firme sulla tela.  Poi, il giorno dopo (lunedì, 20/5), dalle 15 alle 16.30, Free Assange Italia e Free Assange Roma terranno una conferenza stampa presso la Federazione Nazionale della Stampa Italia, nella sua sede di via delle Botteghe Oscure 54 (primo piano), per poter commentare a caldo il verdetto.  Vincenzo Vita, garante dell’Articolo 21, modererà. Un Livestream sul canale youtube.com/@StellaAssange consentirà ai giornalisti presenti in Sala di sentire in tempo reale anche le reazioni di Stella Assange, all’uscita dal tribunale.

Diversi altri presidi in Italia sono stati annunciati per il 19 maggio, allo scopo di richiamare l’attenzione del pubblico italiano sull’importante udienza londinese: a Bologna in piazza del Nettuno dalle 16.30 alle 19, organizzato dal Gruppo Assange Bologna; a Genova in Largo Pertini, dalle 17 alle 19; a Padova dalle 17 alle 19, in Piazzetta della Garzeria; a Catania dalle 17.30 alle 19.30 alla Prefettura di via Etnea; a Torino dalle 17 alle 19 in piazza Castello. A Bari, invece, il presidio si terrà il 18 maggio, ore 18.30, in Via Sparano (angolo libreria Laterza).  Questi ultimi cinque presidi sono promossi da Free Assange Italia.  Altri presidi ancora, ad esempio a Ferrara, sono in via di definizione.

A Milano, per il 20 maggio, il Comitato per la Liberazione di Julian Assange – Italia aveva previsto l’installazione, nel Parco Sempione, della statua Anything to Say di Davide Dormino, un monumento che raffigura Julian Assange accanto ad Edward Snowden e Chelsea Manning. Ma all’ultimo momento il Comune ha negato l’uso del suolo pubblico.  Gli attivisti milanesi stanno lavorando a soluzioni alternative che appariranno su https://linktr.ee/assangeitalia .

Tornando all’SOS di soccorso lanciato da Stella Assange in questi giorni, la sua supplica di restare vigili durante l’udienza londinese trova una giustificazione obiettiva nel poderoso documento rilasciato da Amnesty International lo scorso 3 maggio, intitolato: “Gli impedimenti all’accesso all’udienza di Julian Assange gettano un’ombra sulla trasparenza della giustizia britannica.”  L’ONG, impegnata nella difesa dei diritti umani, ha rilevato infatti una serie di abusi avvenuti nelle udienze precedenti, augurando che non si ripeteranno questa volta.  

“Amnesty International è profondamente amareggiata,” recita l’introduzione del documento, “a causa dei notevoli ostacoli che il suo team e altri osservatori hanno incontrato nel tentativo di monitorare le udienze nei tribunali del Regno Unito nel caso di Julian Assange. Tali impedimenti comprendono ostacoli all’accesso ai posti in aula o in tribunale; l’esclusione dalla visione dei procedimenti online tramite livestream; difficoltà tecniche con la qualità dell’audio durante l’intero procedimento; istruzioni confuse e contraddittorie da parte dell’amministrazione giudiziaria; personale di sicurezza ostile e aule di giustizia di dimensioni insufficienti per un caso di tale rilevanza internazionale.” Il documento poi sottolinea “l’incapacità assoluta” delle autorità britanniche “di riconoscere il ruolo vitale che svolgono gli osservatori giudiziari” nei processi. 

Amnesty conclude chiedendo all’amministrazione giudiziaria del Regno Unito di “garantire che gli osservatori abbiano accesso di persona o online ai procedimenti dell’Alta Corte il prossimo 20 maggio” e di “agevolare gli osservatori delle ONG e gli altri esperti, in linea con la norma internazionale emergente che riconosce il ruolo vitale di tali osservatori nell’interesse di una giustizia aperta.”


Ma quali sono i punti che i giudici Victoria Sharp e Jeremy Johnson devono dirimere il 20 maggio?  

Essenzialmente, per entrambi i magistrati, Assange potrà essere estradato negli Stati Uniti senza pregiudizio per i suoi diritti umani a condizione che il governo statunitense fornisca due garanzie: 

(1.)  che Assange non rischierà una condanna alla pena capitale – e il Dipartimento di Giustizia USA potrà facilmente asserire che una pena massima di 175 anni non è la pena di morte e nemmeno, tecnicamente parlando, un ergastolo; 

(2.) che Assange potrà avvalersi di tutti i diritti processuali di cui godono i cittadini oltre atlantico, ivi compreso il ricorso al Primo Emendamento della Costituzione statunitense. E qui casca l’asino.

Infatti, questo emendamento, che tutela la libertà di espressione, è proprio quello invocato dalla Corte Suprema statunitense nel 1971 per assolvere un imputato (l’editore del New York Times) che, come Assange, aveva rivelato sulla stampa – per tutelare il diritto di sapere del pubblico – documenti governativi segretati.  Ora il Dipartimento di Giustizia USA sta cercando di aggirare quella decisione della Corte Suprema incriminando Assange nei termini dell’Espionage Act del 1917 che, equiparandolo ad una spia e non ad un giornalista, non gli consente di invocare il primo emendamento per giustificare una fuga di notizie, anche se tale fuga sarebbe nell’interesse comune.

Tutto si gioca, dunque, sull’applicabilità o meno del Primo Emendamento.  Se gli Stati Uniti forniscono “rassicurazioni” che Assange potrà comunque invocare quella tutela, nonostante i divieti dell’Espionage Act e nonostante il fatto che egli non sia cittadino statunitense, non ci sarà violazione dei suoi diritti umani, la richiesta di fare appello avanzata dagli avvocati di Julian sarà rigettata e il governo britannico avrà la facoltà di estradare Julian seduta stante.  Gli Stati Uniti hanno avuto fino al 16 aprile per fornire alla Corte le loro rassicurazioni e hanno rispettato i termini.

Se invece le rassicurazioni fornite alla Corte vengono considerate insufficienti – e Stella Assange, che ha potuto leggerle, le ha definite del tutto evasive (“weasel words”) – la corte ha la facoltà di respingerle e contestualmente di accogliere la richiesta di Julian di riaprire il suo caso. Ciò comporterebbe la sospensione della richiesta di estradizione.  Da un lato, sarebbe una vittoria, perché Julian sarebbe (momentaneamente) salvato dalle grinfie della giustizia a stelle e strisce; dall’altro, però, egli rimarrebbe incarcerato in un minuscolo buco nero per non si sa quanto tempo ancora.  A quel punto, gli attivisti che il 18, 19 e 20 maggio si riuniranno nelle principali piazze del mondo, dovrebbero cominciare a chiedere per Assange la detenzione domiciliare. Ciò gli permetterebbe almeno di uscire dall’isolamento carcerario totale e di riunirsi con la sua famiglia in attesa che il nuovo processo d’appello si concluda.

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La prigione più grande del mondo. Storia dei territori occupati - Ilan Pappe

  

Proprio questi giorni Ilan Pappe è stato fermato e interrogato dall’FBI, all’aeroporto di Chicago(leggi qui).

A lui è andata meglio che a Robert Fico, Ilan Pappe è uscito dall’aeroporto camminando sulle sue gambe.

 

Ho letto recentemente La prigione più grande del mondo. Storia dei territori occupati, pubblicato qualche anno fa.

Leggerlo durante il genocidio di Gaza, dopo il 7 ottobre 2023, è un’esperienza a tratti insostenibile, quando si avvera tutto quello che lo storico aveva già previsto e scritto.

È Ilan Pappe che parla di genocidio incrementale, Lo stato d’Israele nasce con lo scopo della pulizia etnica nel suo DNA, ma i palestinesi sono testardi, non se ne vanno, e allora Israele ruba quante più terre palestinesi, possibili, giorno dopo giorno. I territori occupati diventano la più grande prigione a cielo aperto del mondo, senza trascurare di costruire e riempire prigioni di tortura dove mettere gli ostaggi palestinesi, molti per uno sguardo, un’idea, una pietra, uno slogan.

Nel libro si spiegano le strategie di pulizia etnica, colonizzazione, genocidio incrementale; essendo lo stato d'Israele uno stato razzista e coloniale la miglior strategia da usare dal 1948 in poi è quella degli odiati (un po’)/amati (molto) britannici, che di colonialismo e razzismo sono maledetti maestri. La strategia è quella di asfissiare i palestinesi, togliergli l’acqua (non solo in senso metaforico), dividerli, trattarli peggio degli schiavi, senza nessun diritto civile, uccidendo (o rendendo inoffensivo) qualsiasi Spartaco appaia all’orizzonte.

E poi c’è l’istituto coloniale della detenzione amministrativa, di segno anglo-sionista, una misura al di fuori della decenza umana, ma va bene per distruggere i palestinesi.

“Non ci sono civili innocenti a Gaza", ha detto il 13 ottobre 2024 il presidente di Israele, Isaac Herzog, ecco la sintesi del genocidio, di un paese guidato da assassini senza pietà.

Per quanto doloroso, non si può fare a meno di leggere il libro di Ilan Pappe.




L’importanza delle parole: il ‘genocidio incrementale’ dei palestinesi continua - Ilan Pappé

Sto scrivendo questo editoriale il 10 marzo, 2023. In questo giorno, settantacinque anni fa, il comando militare sionista divulgò il Piano Dalet – o Piano D – che, tra le altre disposizioni, istruiva le forze sioniste, che erano in procinto di occupare centinaia di villaggi palestinesi e diverse città e quartieri della Palestina storica, a:

“ Distruggere i villaggi (dandoli alle fiamme, facendoli saltare in aria e, poi, piazzando mine sotto le macerie), soprattutto in quei centri abitati che sono difficili da controllare in modo permanente.

“Organizzare operazioni di setacciamento e controllo attenendosi alle seguenti disposizioni: si accerchia il villaggio e si fanno perquisizioni al suo interno. In caso di resistenza, le milizie armate dovranno essere eliminate e la popolazione espulsa al di fuori dei confini dello Stato”.

Disposizioni simili furono fornite anche per le operazioni condotte nei centri urbani, anche se si trattava di una versione più morbida rispetto agli ordini veri e propri che venivano impartiti alle unità sul campo. Ecco un esempio di un ordine inviato a un’unità incaricata di occupare tre grandi villaggi della Galilea occidentale, nell’ambito degli ordini previsti dal Piano D:

“La nostra missione è di aggredire allo scopo di occupare… uccidere gli uomini, distruggere e dare alle fiamme Kabri, Umm al-Faraj e An-Nahr”.

Il neo-ministro delle finanze di Israele, Bezalel Smotrich, dunque, non sta dicendo nulla di nuovo quando chiede che il villaggio di Huwwara venga cancellato. Si è scusato perché un commento del genere doveva rimanere in ebraico, dimenticando però che siamo nel 2023, e le sue parole sono state tempestivamente tradotte in inglese. Smotrich si è scusato perché (il suo commento) è stato tradotto, non per averlo pronunciato.

Gli studiosi palestinesi hanno prontamente capito che la narrazione sionista ad uso e consumo domestico è molto diversa da quella che viene presentata all’esterno. Su una traiettoria storica che dal Piano D conduce alle attuali uccisioni quotidiane di cittadini palestinesi, alla demolizione delle loro abitazioni, e agli incendi appiccati alle loro attività commerciali, sono stati in grado di rintracciare, qua e là, espressioni simili, se non peggiori.

Walid Khalidi portò il Piano Dalet all’attenzione dei lettori inglesi, ed Edward Said – nel suo libro seminale “La questione palestinese” – catalizzò la nostra attenzione su un’intervista, pubblicata nel 1978 su un quotidiano israeliano locale, con l’allora capo di stato maggiore israeliano Mordechai Gur. L’intervista fu condotta all’indomani della prima – e perlopiù passata inosservata- invasione israeliana del Libano di quell’anno. Il capo dell’esercito israeliano dichiarò:

“Non sono (una) di quelle persone dalla memoria selettiva. Crede che finga di non sapere cosa abbiamo fatto in tutti questi anni? Cosa abbiamo fatto lungo tutto il Canale di Suez? Un milione e mezzo di rifugiati!… Abbiamo bombardato Ismailia, Suez, Porto Said e Porto Fuad”.

Sono sicuro che pochissimi dei nostri lettori sanno che, a seguito della guerra di giugno, Israele creò un milione e mezzo di rifugiati egiziani.

E poi, a Gur è stato chiesto se ha operato una distinzione tra popolazione civile e combattenti:

“Sia serio, per favore. Non lo sapeva che, dopo la guerra d’attrito [con la Giordania], l’intera valle del Giordano è stata svuotata dai suoi abitanti?”

Il giornalista ha proseguito con una domanda: “Allora lei afferma che la popolazione civile dovrebbe essere punita?”

“Ovviamente. E non ho mai avuto dubbi su questo… Sono passati ormai 30 anni da quando abbiamo conquistato la nostra indipendenza combattendo contro la popolazione civile [araba] che abitava i villaggi e le città…”

Questo avveniva nel 1978 e, come sappiamo, questa politica continua tutt’oggi passando attraverso alcune atroci pietre miliari che includono [i massacri] di Sabra e Shatila, di Kafar Qana in Libano, di Jenin e nella Striscia di Gaza. Eppure, esaminando quelle atrocità – sia io che altri – le abbiamo definite, con una certa equidistanza, pulizia etnica; o, come fece Edward Said, un progetto di accumulazione (di terra e potere) e dislocamento (di persone, della loro identità e della loro storia).

Ho esitato a utilizzare il termine “genocidio” per indicare tutti questi capitoli bui. L’ho usato solo una volta quando, per descrivere la politica israeliana nella Striscia di Gaza a partire dal 2006, ho utilizzato l’espressione genocidio incrementale. Ma la recente furia omicida che ha caratterizzato Israele dall’inizio dell’anno, unita al triste anniversario sopra citato, giustificano un utilizzo più ampio del termine, non solo in riferimento agli atroci attacchi di Israele nella Striscia di Gaza e al suo ermetico assedio.

Il nesso tra le uccisioni che si verificano in un arco temporale di pochi mesi – quando “solo” poche persone vengono uccise su base quotidiana – e i massacri che si sono consumati in oltre 70 anni di storia non viene facilmente accettato come prova delle politiche di genocidio.

Eppure, quella storia rappresenta la genealogia del genocidio secondo l’articolo 2 della “Convenzione ONU per la prevenzione e la repressione del crimine di genocidio”, in cui si stabilisce che gli atti elencati di seguito sono da intendersi come genocidio se vengono commessi “con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso”:

1. uccidere membri del gruppo;
2. causare gravi lesioni fisiche o psicologiche ai membri del gruppo;
3. sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita tali da provocarne la distruzione fisica totale o parziale;
4. imporre misure volte a impedire le nascite all’interno del gruppo;
5. trasferire in maniera forzata i bambini del gruppo a un altro.

Sono sicuro che molti dei nostri lettori reagirebbero dicendo che sanno che si tratta di un genocidio. Ma nessuno di noi membri dello staff del Palestine Chronicle e, più generalmente, del movimento di solidarietà con il popolo palestinese, è qui per sfondare una porta aperta.

Abbiamo tutti preso parte allo sforzo collettivo – guidato dal movimento per il boicottaggio, il disinvestimento e le sanzioni (BDS) – per convincere la società civile internazionale a etichettare Israele come uno stato di apartheid. Questo non è un semplice risultato, anche se la maggior parte dei governi di tutto il mondo continua a rifiutarsi di farlo. Si tratta di un progetto di valore poiché, quando avrà successo, porterà a sanzioni significative.

Allo stesso modo, lo sviluppo lampante delle politiche genocide israeliane non solo nella Striscia di Gaza, ma anche in Cisgiordania, e non solo di recente, ma a partire dal 1948, potrebbe finalmente permetterci di far valere il diritto internazionale in Palestina – anche sulla base di prove fornite dagli stessi alti generali israeliani –. Per anni, le istituzioni e i tribunali principali hanno deluso il popolo palestinese, concedendo a Israele l’immunità, principalmente con il pretesto che il suo sistema giudiziario sia forte e indipendente.

Se questa affermazione risulta infondata nella migliore delle ipotesi, in questo preciso momento storico, considerate le ultime riforme legislative varate in Israele, risulta proprio ridicola.

Anche se il supporto delle istituzioni internazionali al popolo palestinese fosse stato più genuino, sarebbe stato comunque complesso processare i leader o i soldati israeliani sulla base delle accuse di pulizia etnica contro la popolazione palestinese. L’espressione “pulizia etnica” non è un termine giuridico, nel senso che i suoi esecutori non possono essere assicurati alla giustizia sulla base di questa specifica accusa; nella fattispecie, non si qualifica come crimine di diritto internazionale. Questo è ingiusto e potrebbe cambiare nel tempo, ma è la realtà con cui dobbiamo fare i conti al momento. Al contrario, il diritto internazionale qualifica il crimine di apartheid come un crimine contro l’umanità, e i suoi esecutori possono essere di fatto assicurati alla giustizia.

È importante prendere in considerazione l’utilizzo del termine anche per un altro motivo. Secondo il Sionismo liberale, quanto è avvenuto in Palestina è una piccola ingiustizia commessa per rimediare a una più orribile. Questa assurda giustificazione è stata recentemente arricchita dalle nuove definizioni operative di negazionismo dell’Olocausto adottate da molti paesi e università, che non ammettono alcun confronto tra l’Olocausto e la Nakba; un’equazione che verrebbe etichettata come antisemitismo.

Questi due presupposti sono sbagliati per due motivi. In primo luogo, questa “piccola” ingiustizia è ancora in corso; in fin dei conti, non conosciamo ancora quanto gravi saranno le sue conseguenze, ma sappiamo che non è affatto piccola e che rientra nella definizione di genocidio.

In secondo luogo, non si tratta di fare un confronto con l’Olocausto. Si tratta piuttosto di insistere sul fatto che si permette ancora di commettere un crimine contro l’umanità, ben definito nel diritto internazionale. E affinché’ si ponga fine a questo crimine, non è sufficiente parlare di apartheid e pulizia etnica.

Possiamo, e dobbiamo, usare un linguaggio più incisivo e preciso, alla luce dei fatti che vediamo accadere quotidianamente in Cisgiordania e a Gerusalemme, dove vengono uccisi soprattutto giovani uomini e bambini. Ciò è necessario anche alla luce del continuo processo di colpevolizzazione degli Arabi del 1948, nei cui villaggi e città le forze di sicurezza israeliane consentono a bande locali – purtroppo formate da cittadini Palestinesi – di uccidere per conto dello Stato.

(Traduzione di Rossella Tisci. Questo articolo è stato originariamente pubblicato sul Palestine Chronicle)

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Leggere Ilan Pappé è un’esperienza che affascina. Non solo per la lucidità dell’analisi, la ricchezza delle fonti e la scorrevolezza della prosa, ma anche – o soprattutto – per l’abitudine a rovesciare, di continuo, significati e significanti della storia scritta dai vincitori. Di questo controverso e acutissimo storico insomma si può ben dire, foucaultianamente, che all’annalistica del memorabile preferisce la memoria della contraddizione e del conflitto: alla costruzione di mitologie trionfali, il grido che ricorda come ogni ordine nasca dalla sopraffazione. Come nel rovescio della legge, talora, si nasconda l’abuso…

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Basandosi sulle fonti originarie si chiarisce quanto sia importante inquadrare la situazione israelo-palestinese secondo verità, ma per farlo serve coraggio, onestà intellettuale e, non ultimo, un certo grado di empatia verso il popolo vittima di una montagna di ingiustizia e di soprusi. E quest’empatia Pappé l’ha dichiarata, è nelle sue opinioni, ma non inficia minimamente la correttezza della ricerca storica su cui si basano i suoi lavori. La ricostruzione storica di tutto l’apparato politico, burocratico e militare mette in mostra la decisione di escludere Cisgiordania e Gaza da qualsiasi eventuale futuro negoziato di pace, decisione che smaschera il cosiddetto “processo di pace” che ha consentito a Israele di rosicchiare senza interruzione i Territori palestinesi occupati, sostituendo di fatto l’insediamento coloniale permanente all’occupazione che, solo verbalmente, veniva definita temporanea.  Un progetto che  in modo scientemente programmato, con un apparato burocratico enorme affiancato a quello militare, ha origine nel XX secolo, ma che i documenti esaminati mostrano essere già presente, almeno come obiettivo da raggiungere, nel lontano 1882.    Dagli archivi declassificati emerge la verità sulla guerra dei sei giorni, l’evento che ha permesso la realizzazione del progetto che avrebbe fatto di Cisgiordania e Gaza una prigione senza via d’uscita. Il criminale capolavoro di rendere i palestinesi dei detenuti in casa propria, una casa che si è fatta sempre più stretta grazie ai “cunei” ideati da Ygal Allon e all’espandersi degli insediamenti  coloniali fino a diventare  quasi delle città, non fu immediatamente compreso o non volle essere compreso dalle democrazie occidentali che osannavano (e osannano) Israele, così come non fu compresa la reale dinamica della guerra dei sei giorni grazie – anche – al lucido piano di contraffazione lessicale. In quasi 400 pagine, di cui nessuna superflua, Ilan Pappé spiega il meccanismo carcerario cui è sottoposto il popolo palestinese compreso lo stesso presidente dell’Anp, Mahmoud Abbas. Il sistema premi-punizioni, ove i premi sono soltanto un minor accanimento vessatorio e le punizioni sono veri e propri crimini di guerra e contro l’umanità è ciò che i palestinesi sono costretti a vivere e a cui una buona percentuale di loro si ribella pagando con l’arresto e, quasi quotidianamente, con la vita, la non accettazione delle leggi imposte dal loro carceriere…

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Per capire in che misura gli aspetti più discutibili della politica israeliana nei confronti del popolo palestinese siano l’esito logico dell’ideologia sionista, argomenta Pappé, occorre risalire allo spirito della “colonizzazione messianica” fra fine Ottocento e primo Novecento. È la visione di un ritorno ai tempi (e ai luoghi) biblici a rappresentare il fondamento del sionismo. Nato come ricerca di un rifugio sicuro contro l’antisemitismo e di un territorio che desse forma di nazione all’ebraismo, il sionismo non sarebbe andato incontro alle attuali degenerazioni se, per realizzare le sue legittime aspirazioni, non avesse scelto un territorio già abitato, il che lo ha inevitabilmente trasformato in un progetto colonialista (per inciso: in America e in Australia analoghi progetti hanno implicato lo sterminio sistematico delle popolazioni autoctone).

Realizzare il progetto significava ottenere il controllo sulla maggior parte della Palestina storica e ridurre drasticamente il numero dei palestinesi che ivi vivevano; l’obiettivo era insomma l‘edificazione di uno Stato ebraico “puro” dal punto di vista etnico-religioso, il desiderio (da alcuni nascosto, da altri dichiarato) era che nell’antica terra di Israele vi fossero solo ebrei. Di qui la pulizia etnica del 1948 resa possibile: 1) dalla decisione britannica di abbandonare i territori che governava da 30 anni; 2) dall’impatto dell’Olocausto sull’opinione pubblica occidentale; 3) dal marasma politico nel mondo arabo palestinese. Cogliendo l’opportunità una leadership sionista fortemente determinata espulse larga parte della popolazione nativa distruggendone i villaggi e le città, tanto che, in tempi brevissimi, l’80% della Palestina sotto mandato britannico era diventata lo Stato ebraico di Israele.

Passando alle decisioni draconiane sulla gestione dei Territori Occupati assunte dal governo che guidava il Paese durante la guerra del 67, Pappé sottolinea come esso comprendesse tutte le correnti ideologiche: laburisti, liberali laici, religiosi e ultra religiosi, rappresentando dunque il più ampio consenso sionista possibile. Sulla durezza di tali decisioni torneremo più avanti, ciò che importa sottolineare in primo luogo è l’assenza di differenze sostanziali fra destra e sinistra. Un’unità di intenti sancita dal fatto che nemmeno l’alternanza fra Laburisti (che governarono fino al 1977) e destre (il Likud dominò il decennio successivo, dal 77 all’87), produsse alcun cambiamento sostanziale se non nella “narrazione”: i Laburisti furono abili nell’ingannare il mondo sulle intenzioni di pace di Israele (Shimon Peres vi riuscì tanto bene da essere premiato con il Nobel) ma non cambiarono una virgola della strategia adottata nel 67; quanto al Likud, l’unica vera novità consistette nell’allacciare legami sempre più stretti con il movimento dei coloni (Gush Emunim). Nel decennio in questione gli ultra ortodossi vennero autorizzati a formare enclave teocratiche dotate di regole e procedure giuridiche diverse da quelle in vigore in Israele. Il fondamentalismo ebraico venne di fatto autorizzato a svolgere un ruolo di “militarizzazione” dei coloni, fino a creare squadre di vigilantes che eseguivano spedizioni punitive ctollerate dallo Stato (su 48 omicidi ad opera dei coloni violenti che agivano in bande organizzate, segnala Pappé, solo un colpevole venne incriminato e processato)…

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L'espressione La prigione più grande del mondo indica i territori occupati dallo stato sionista, di cui Ilan Pappé presenta la storia militare e politica.
La prefazione è incentrata sulla collina di descrive per sommi capi la situazione urbanistica di Givat Ram -un quartiere di Gerusalemme ricco di sedi istituzionali e universitarie edificato dopo il 1948 su terreni confiscati al villaggio palestinese di Sheikh al Badr- e ricorda come nel 1963 si sarebbe tenuto proprio in una sede universitaria un corso di preparazione destinato a personale militare da adibire al controllo della Cisgiordania come zona militare occupata. Ilan Pappé nota che quattro anni prima dell'effettiva occupazione lo stato sionista -nell'immediato timore di un crollo dell'assetto hashemita che avrebbe reso instabile la Giordania- avrebbe già iniziato a prepararsi a sovrintendere alla vita di un milione di palestinesi tramite le necessarie infrastrutture giudiziarie e amministrative. Secondo l'A. la élite militare e politica dello stato sionista era fin dal 1948 in cerca del momento storico opportuno per l'occupazione della Cisgiordania; il piano per la sua amministrazione si sarebbe chiamato "piano Shacham" e avrebbe previsto la divisione della Cisgiordania in otto distretti, sottoposti a un governo militare secondo la legge mandataria britannica, sottoposta agli aggiustamenti terminologici indispensabili, e secondo la vigente normativa giordana epurata dai provvedimenti in contrasto con gli obiettivi dello stato sionista. Un nuovo gruppo di allievi avrebbe seguito nel 1964 un analogo corso nella stessa località, e avrebbe imparato a reprimere gli "elementi ostili" e a comportarsi in modo da incoraggiare l'emergere di una leadership locale collaborazionista. Nei tre anni successivi lo stato sionista avrebbe approntato una squadra pronta a gestire una occupazione militare, e nel 1967 l'occupazione della Cisgiordania ebbe effettivamente luogo. L'A. scrive che al piano Shacham sarebbe stato a quel punto aggiunto un piano Granit, sua traduzione operativa. Ogni potenziale governatore militare e ogni consigliere avrebbe ricevuto nel maggio 1967 una serie di testi normativi; alcuni erano quelli in uso nella Germania occupata, ma vi figurava anche un testo di Gerhard von Glahn in cui si stabiliva che l'occupazione non cambia lo status de jure di un'area e che gli occupanti possono solo usare i beni presenti ma non entrarne in possesso. In pratica, anche per evitare fastidiose eccezioni da parte degli estimatori di von Glahn, l'occupazione sarebbe consistita nell'estensione alla Cisgiordania dell'autorità militare già imposta ai palestinesi entro lo stato sionista, attuata secondo i regolamenti di emergenza mandatari emessi a suo tempo dagli inglesi; norme che all'epoca della loro introduzione i sionisti avevano cosiderato degne di un paese nazionalsocialista. Un governatore militare avrebbe avuto controllo illimitato su ogni aspetto della vita degli individui e avrebbe potuto decretare espulsioni, convocare chiunque in una stazione di polizia, dichiarare "aree militari chiuse" le località oggetto di manifestazioni o pubbliche riunioni e praticare arresti amministrativi, ovvero detenzioni a tempo indeterminato senza motivazioni né processo. I tribunali chiamati ad applicare i regolamenti di emergenza mandatari sarebbero stati formati da militari non necessariamente in possesso di una formazione giuridica…

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