Cosa prevede infatti il nuovo patto di stabilità? Torna in grande stile la gabbia del debito e delle politiche di austerità
“L’Europa è preoccupata? Se vinciamo noi è finita la pacchia!”. Così urlava
Giorgia Meloni all’ultimo comizio elettorale del settembre 2022. Siamo
nell’aprile 2024, Meloni ha vinto e l’Unione Europea ha approvato il “nuovo”
patto di stabilità dopo la sospensione triennale post pandemia. Guardando le
misure introdotte, si può dire che Meloni avesse ragione dal punto di vista
letterale, ma avendo invertito soggetti attivi e soggetti passivi
dell’affermazione. Perché la pacchia – peraltro mai pervenuta dalle parti delle
fasce deboli e medie della popolazione – è davvero finita e ritorna in
grande stile la gabbia del debito e delle politiche di austerità.
Cosa prevede infatti il nuovo patto di stabilità? Intanto
ripropone i numeri magici (60% rapporto debito/Pil e 3% rapporto deficit/Pil) i
cui stessi ideatori dichiararono a più riprese di averli letteralmente
inventati senza alcuna base scientifica. Su come raggiungerli e sulle procedure
d’infrazione nel caso di mancato risultato, i mass media e le élite politiche
si sbracciano per dire che c’è un allentamento rispetto alle misure previste in
passato. Ma il focus è ancora una volta sbagliato.
Vediamo i dettagli. Per quanto riguarda il rapporto debito/Pil, i Paesi
con un debito tra il 60% e il 90% del Pil dovranno ridurlo dello 0,5% ogni
anno, mentre i Paesi con un debito superiore al 90% del Pil (è il caso
dell’Italia) dovranno ridurlo dell’1% annuo. Se è vero che il patto di
stabilità precedente prevedeva un rientro del 5% all’anno, è altrettanto vero che
prima tutti i Paesi erano consapevoli della totale impossibilità di un rientro
così drastico, mentre ora il risultato è esigibile e quindi con conseguenze
reali in termini di impatto economico e sociale.
Per quanto riguarda il deficit, le nuove misure sono drasticamente
peggiorative, perché, pur mantenendo il 3% come tetto non soggetto a procedura
d’infrazione, spinge i Paesi ad arrivare all’1,5%, in modo da avere una più
cogente stabilità finanziaria che consenta di affrontare eventi straordinari
(vedi pandemia) senza mai superare il mitico 3%. E come si raggiunge questo
risultato? Con un miglioramento del saldo primario strutturale (entrate
maggiori delle uscite) del 0,4% annuo del Pil nel caso di un percorso di
aggiustamento di quattro anni o del 0,25% annuo del Pil nel caso il percorso
sia di sette anni.
Come riporta uno studio della Confederazione europea dei sindacati (Ces)
basato sui calcoli del centro studi Bruegel, si tratta per l’Italia di tagli al
bilancio di 25,4 mld/anno (percorso quadriennale) o di 13,5 mld/anno (percorso
settennale).
E se il buongiorno si vede dal mattino, segniamoci la data del 19 giugno
(post-elezioni) perché sarà allora che si aprirà la prima procedura
d’infrazione nei confronti dell’Italia per il deficit eccessivo registrato nel
2023.
Non di soli numeri si parla nel “nuovo” patto di stabilità, bensì anche
di democrazia. Già perché l’altra novità è che per i Paesi con
debito alto sarà direttamente Bruxelles “a indicare la traiettoria di
riferimento della spesa primaria netta”, ovvero a decidere quanti soldi
andranno alla sanità, all’istruzione, alla transizione ecologica, mentre un
occhio di riguardo nei conteggi sarà riservato per tutti gli investimenti che
riguardano il bilancio della Difesa e le spese militari.
Torna la gabbia, dunque, e la ridicola astensione al voto da parte della
maggioranza di governo di destra, così come quella del Pd, hanno il sapore
della foglia di fico pre-elettorale.
Oggi più che mai serve una vera Liberazione: contro il fascismo politico,
ma anche contro il fascismo dei mercati finanziari.
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