La sentenza dell'Alta Corte di Londra che permette a Julian Assange di appellarsi all'ordine di estradizione lo lascia languire in condizioni di salute precarie in un carcere di massima sicurezza. Questo è il punto.
La
decisione dell’Alta Corte di Londra di concedere a Julian Assange il diritto di
appellarsi all’ordine di estradizione verso gli Stati Uniti potrebbe rivelarsi
una vittoria di Pirro. Non significa che Julian sfuggirà all’estradizione. Non
significa che la corte abbia stabilito, come dovrebbe, che si tratta di un
giornalista il cui unico “crimine” era stato quello di fornire al pubblico le
prove dei crimini di guerra e delle menzogne del governo statunitense. Non
significa che sarà rilasciato dalla prigione di massima sicurezza HMS Belmarsh
dove, come ha detto Nils Melzer, il relatore speciale delle Nazioni Unite sulla
tortura, dopo aver visitato Julian, viene sottoposto ad una “esecuzione al rallentatore”.
Ciò
non significa che il giornalismo sia meno a rischio. I direttori e gli editori
di cinque media internazionali – New
York Times, Guardian, Le Monde, El Pais e DER
SPIEGEL – che avevano pubblicato articoli basati sui documenti
diffusi da WikiLeaks, hanno chiesto che le accuse degli Stati Uniti vengano
ritirate e che Julian venga rilasciato. Nessuno di questi dirigenti dei media è
stato accusato di spionaggio. Questo non elimina la ridicola manovra del
governo statunitense per estradare un cittadino australiano, la cui società
editrice non aveva la sede negli Stati Uniti, e accusarlo in base alla legge
[statunitense] sullo spionaggio. Continua la lunga farsa dickensiana che si fa
beffe dei più elementari concetti di giusto processo.
La sentenza si
basa sul fatto che il governo degli Stati Uniti non ha offerto sufficienti
garanzie che a Julian, nel caso finisse sotto processo negli USA, verrebbero
garantite le stesse tutele del Primo Emendamento concesse ad un cittadino
statunitense. Il processo di appello è un ulteriore ostacolo legale nella
persecuzione di un giornalista che non solo dovrebbe essere libero, ma anche
celebrato e onorato come il più coraggioso della nostra generazione.
Sì,
può presentare appello. Ma questo significa un altro anno, forse più, in
condizioni carcerarie difficili, mentre la sua salute fisica e psicologica si
deteriora. Ha trascorso più di cinque anni nella prigione di Belmarsh senza
accuse dirette a suo carico. Aveva trascorso sette anni nell’ambasciata
ecuadoriana perché i governi del Regno Unito e della Svezia si erano
rifiutati di garantire che non sarebbe stato estradato negli
Stati Uniti, anche se aveva accettato di tornare in Svezia per contribuire ad
un’indagine preliminare che, alla fine, era stata abbandonata.
Il
linciaggio giudiziario di Julian non ha mai riguardato la giustizia. Ricordiamo
la pletora di irregolarità legali, tra
cui la registrazione dei
suoi incontri con gli avvocati fatte dalla società di sicurezza spagnola UC
Global nei locali dell’ambasciata ecuadoriana per conto della CIA,
registrazione che, da sola, avrebbe dovuto vedere il caso buttato fuori dal
tribunale perché effettuata in palese violazione del privilegio
avvocato-cliente.
Gli
Stati Uniti hanno accusato Julian di 17 reati ai sensi della legge sullo
spionaggio e di uso improprio di computer, per una presunta cospirazione volta
a impossessarsi e poi pubblicare informazioni sulla difesa nazionale. Se verrà
giudicato colpevole di tutte queste accuse negli Stati Uniti, rischia 175 anni
di carcere.
La
richiesta di estradizione si basa sulla pubblicazione nel 2010 da parte di
WikiLeaks dei registri di guerra relativi all’Iraq e
all’Afghanistan –
centinaia di migliaia di documenti classificati, fatti trapelare da Chelsea Manning,
all’epoca analista dell’intelligence dell’esercito, che avevano rivelato
numerosi crimini di guerra degli Stati Uniti, tra cui le immagini video
dell’uccisione di due giornalisti della Reuters e di altri 10 civili disarmati
nel video Collateral Murder, la
tortura di routine dei prigionieri iracheni, l’insabbiamento di migliaia di
morti civili e l’uccisione di quasi 700 civili che si erano avvicinati troppo
ai posti di blocco statunitensi.
A
febbraio, gli avvocati di Julian avevano presentato nove richieste distinte per
un eventuale appello.
L’udienza
di due giorni a marzo, alla quale avevo partecipato, era stata l’ultima possibilità per Julian di
appellarsi contro la decisione di
estradizione presa nel 2022 da Priti Patel, allora Segretario di Stato per gli
Affari Interni britannico, e contro molte delle sentenze della giudice
distrettuale Baraitser del 2021.
A
marzo, i due giudici dell’Alta Corte, Dame Victoria Sharp e Justice Jeremy
Johnson, avevano respinto la
maggior parte delle argomentazioni del ricorso di Julian. Tra queste, come
sostenuto dai suoi avvocati, il trattato di estradizione tra Regno Unito e
Stati Uniti, che impedisce l’estradizione per reati politici; il fatto che la
richiesta di estradizione era stata presentata allo scopo di perseguirlo per le
sue opinioni politiche; che l’estradizione equivaleva a un’applicazione
retroattiva della legge (perché non era prevedibile che una legge sullo
spionaggio vecchia di un secolo sarebbe stata usata contro un editore
straniero) e, infine, che non avrebbe ricevuto un processo equo nel Distretto
orientale della Virginia. I giudici si erano anche rifiutati di ascoltare le
nuove prove, secondo cui la CIA avrebbe complottato per rapire e assassinare
Julian, concludendo – in modo perverso ed errato – che la CIA aveva preso in
considerazione queste opzioni solo perché riteneva che Julian stesse
progettando di fuggire in Russia.
Ma,
lunedi scorso, i due giudici hanno stabilito che è “discutibile” che un
tribunale statunitense non conceda a Julian la protezione del Primo
Emendamento, violando i suoi diritti alla libertà di parola sanciti dalla
Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo.
A
marzo i giudici avevano chiesto agli Stati Uniti di fornire garanzie scritte
che Julian sarebbe stato protetto dal Primo Emendamento e che sarebbe stato
esentato da un verdetto che comportasse la pena capitale. Gli Stati Uniti
avevano assicurato la corte che Julian non sarebbe stato sottoposto alla pena
di morte, cosa che gli avvocati di Julian avevano, alla fine, accettato. Ma il
Dipartimento di Giustizia non era stato in grado di fornire la garanzia che
Julian avrebbe potuto presentare una difesa in base al Primo Emendamento in un
tribunale statunitense. Una decisione del genere viene presa da un tribunale
federale statunitense, avevano spiegato gli avvocati.
Il
sostituto procuratore statunitense Gordon Kromberg, che sta perseguendo Julian,
aveva sostenuto che, nei tribunali degli Stati Uniti, i diritti del Primo
Emendamento sono garantiti solo ai cittadini statunitensi. Kromberg aveva
dichiarato che quanto pubblicato da Julian “non era di interesse pubblico” e
che gli Stati Uniti non stavano chiedendo la sua estradizione per motivi
politici.
La
libertà di parola è una questione fondamentale. Se a Julian verranno
riconosciuti i diritti del Primo Emendamento in un tribunale statunitense, sarà
molto difficile per gli Stati Uniti costruire un caso penale contro di lui, dal
momento che altre organizzazioni giornalistiche, tra cui il New York Times e il Guardian, avevano pubblicato il materiale
da lui diffuso.
La
richiesta di estradizione si basa sull’affermazione che Julian non è un
giornalista e non è protetto dal Primo Emendamento.
Gli
avvocati di Julian e quelli che rappresentano il governo degli Stati Uniti
hanno tempo fino al 24 maggio per presentare una bozza di ordinanza, che
determinerà la data dell’appello.
Julian
ha commesso il più grande peccato agli occhi dell’impero: l’ha smascherato come
un’impresa criminale. Ha documentato le sue menzogne, le violazioni dei diritti
umani, le uccisioni di civili innocenti, la corruzione dilagante e i crimini di
guerra. Repubblicano o Democratico, Conservatore o Laburista, Trump o Biden,
non importa. Chi gestisce l’impero usa lo stesso sporco manuale.
Negli
Stati Uniti la pubblicazione di documenti riservati non è un reato, ma, se
Julian verrà estradato e condannato, lo diventerà.
Julian
gode di una salute fisica e psicologica precaria. Il suo deterioramento fisico
e psicologico gli ha provocato un piccolo ictus, allucinazioni e depressione.
Assume farmaci antidepressivi e l’antipsicotico Quetiapina. È stato osservato
camminare nella sua cella fino a crollare, darsi pugni in faccia e sbattere la
testa contro il muro. Ha trascorso settimane nell’ala medica di Belmarsh,
soprannominata “ala infernale”. Le autorità carcerarie hanno trovato “metà di
una lama di rasoio” nascosta nei suoi calzini. Ha chiamato più volte la linea
diretta per i suicidi gestita dai Samaritani perché pensava di uccidersi “centinaia
di volte al giorno”.
Questi
carnefici al rallentatore non hanno ancora completato il loro lavoro. Toussaint L’Ouverture,
che aveva guidato il movimento per l’indipendenza di Haiti, l’unica rivolta di
schiavi riuscita nella storia dell’umanità, era stato distrutto fisicamente
nello stesso modo. Era stato rinchiuso dai
francesi in una cella non riscaldata e angusta e lasciato morire di stanchezza,
malnutrizione, apoplessia, polmonite e, probabilmente, tubercolosi.
Il
prolungamento della detenzione, che l’accoglimento di questo ricorso perpetua,
è il punto. I 12 anni di detenzione di Julian – sette nell’ambasciata
ecuadoriana a Londra e oltre cinque nel carcere di massima sicurezza di
Belmarsh – sono stati accompagnati dalla mancanza di luce solare e di esercizio
fisico, oltre che da minacce incessanti, pressioni, isolamento prolungato,
ansia e stress costante. L’obiettivo è distruggerlo.
Dobbiamo
liberare Julian. Dobbiamo tenerlo lontano dalle mani del governo americano.
Visto tutto quello che ha fatto per noi, gli dobbiamo una lotta senza
quartiere.
Se
non c’è libertà di parola per Julian, non ci sarà libertà di parola per noi.
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