Tutti gli imperi – finché rimangono in vita – attraversano fasi di espansione, contrazione e razionalizzazione.
Non è infatti interamente vero l’assioma – sviluppato durante lo ius
publicum europeum – che la ragion di stato porti ogni nazione, o ogni
potere sovrano, a cercare di espandersi inesorabilmente, frenato solo dal
corrispondente desiderio di espansione di altri centri di potere. Quantomeno
nella sua interpretazione più stretta.
Talvolta un
impero può scegliere di non espandersi nonostante abbia la possibilità di
farlo, o addirittura di retrocedere dalle sue posizioni, per mettere al sicuro
e consolidare quanto ha già ottenuto in passato.
Quando
l’Imperatore Adriano costruì il suo famoso “vallo” nel secondo secolo d. C.,
stava facendo esattamente questo: Stava razionalizzando il suo impero. Lo
stesso fece l’Impero Britannico vittoriano nel diciannovesimo secolo quando,
usando le parole dello storico Guido Formigoni: “Barattò il controllo
informale di tutto il mondo per il controllo formale di 1/3 di esso“,
abbandonando progressivamente il sistema delle compagnie commerciali e la
promozione integralista del libero commercio in favore di una sovranità
esclusiva (delle altre potenze) su un vasto impero coloniale.
Le
amministrazioni americane Nixon e Ford – guidate in politica estera dal
Consigliere per la Sicurezza Nazionale e poi Segretario di Stato Henry
Kissinger – si trovarono, tra la fine degli anni ’60 e la metà degli anni ’70,
a gestire il processo di razionalizzazione dell’impero americano post seconda
guerra mondiale.
Le
amministrazioni Trump e Biden sono invece chiamate a gestire la
razionalizzazione dell’impero successiva alla vittoria della guerra fredda nel
1991.
In queste
due fasi storiche sono individuabili diversi, e importanti, parallelismi (al
netto delle ovvie differenze).
In entrambe
il nodo principale della razionalizzazione è il rapporto tra Washington e i
suoi protettorati europei, fulcro dell’influenza globale statunitense.
In entrambe
osserviamo la ritirata statunitense da un quadrante problematico che drena
risorse: Il Vietnam, l’Afghanistan.
In entrambe
uno shock economico precede uno shock bellico/politico:
La decisione di Nixon del 1971 sulla convertibilità in oro, la crisi economica
del covid 19.
In entrambe
il rapporto con l’Europa viene pesantemente ridefinito e chiarito con una
guerra culminante in una crisi energetica: Il conflitto arabo-israeliano tra il
1967 e il 1973, il conflitto russo-ucraino tra il
2014 e il 2022.
Appare
quindi molto importante, per capire quanto avviene e avverrà in Europa al
giorno d’oggi, studiare il periodo storico del detente USA-URSS,
della guerra del Kippur e della crisi energetica europea.
MUTAMENTO NEI RAPPORTI DI FORZA
Nella
seconda metà degli anni ’60 diventa chiaro come i rapporti di forza tra i due
blocchi delineatisi nella decade precedente, siano ormai drammaticamente
mutati. Gli USA sono chiamati ad adattare le loro politiche e dottrine alla
nuova realtà strategica, partendo da quella più importante: La dottrina
nucleare.
Con uno
sforzo immane, l’Unione Sovietica sta gradualmente raggiungendo la parità – che
arriverà ufficialmente nel 1971 – con gli Stati Uniti per quanto riguarda le
testate nucleari strategiche. La dottrina americana della “massive
retalation” nucleare in caso di attacco convenzionale sovietico in Europa
(o in altri quadranti eventualmente posti sotto l’ombrello nucleare americano)
basata sulla superiorità e sulla possibilità di poter vincere una guerra
nucleare, non è più attuabile.
Questo
permette all’Unione Sovietica di estrarre un’importante concessione agli Stati
Uniti, frenando una corsa agli armamenti a lungo andare economicamente
insostenibile: Il congelamento dello status quo nucleare. Il
Trattato di Non Proliferazione (1968) e lo Strategic Arms Limitation
Talks Agreement (1972) fissano due principi: Nessun’altra potenza può
acquisire armi nucleari, e le due superpotenze rifiutano di ottenere la
superiorità nucleare sull’altra.
Questi
mutamenti strategici, naturalmente, non vengono ignorati dall’Europa.
LA STRATEGIA EUROPEA
Le decisioni
sopracitate – prese senza consultare i satelliti europei – presentano diversi
problemi e motivi di ansia per i membri europei della NATO e i 9 della nascente
Comunità Europea.
La Mutually Assured Destruction in caso di guerra nucleare tra
le due superpotenze rende meno credibile il deterrente nucleare americano in
Europa. Non potendo più vincere una guerra in Europa con mezzi esclusivamente
nucleari, Washington quanto sarà disposta a rischiare e a spendere in una
guerra convenzionale per proteggere l’Europa Occidentale da un possibile
attacco sovietico? Inoltre, il detente tra URSS e USA –
un’affare squisitamente bilaterale – infonde sospetti negli europei,
storicamente avvezzi ad accordi di spartizione del mondo, dal Trattato di
Tordesillas del 1494 per la spartizione del “nuovo mondo” tra Portogallo e
Spagna, all’entente anglo-russo del 1907 successivo al “grande
gioco” centroasiatico e quello anglo-francese del 1904 a suggellare la
spartizione dell’Africa: Si teme (correttamente, in effetti) l’instaurazione di
un condominio soviet-americano sull’Europa, la cristallizzazione di due sfere
d’influenza all’interno delle quali ricadrà un’Europa inerme e in balia di due
poli.
La strategia
comunitaria (dei paesi della Comunità Europea) in risposta alla sfida del detente è
comprensibile, ma fallace: I 9 vogliono affermare un’identità europea distinta
da quella americana, vogliono portare avanti un detente
differenziato con l’Unione Sovietica, perseguire una politica
economica, diplomatica ed energetica indipendente… ma continuando a godere
dell’ombrello di sicurezza americano!
Questa
strategia si basa su un vecchio assioma gollista; che sostiene che gli
USA offrano protezione militare all’Europa Occidentale per il solo motivo di
non poter permettere che cada sotto l’influenza sovietica, e che questa
protezione quindi continuerebbe a prescindere da quanto la politica della
Comunità Europea possa divergere da quella di Washington. Nelle sue memorie, il sopracitato Henry Kissinger
affermerà che – per quanto questo calcolo sia razionale e veritiero dal punto
di vista strategico – non tenga conto delle passioni umane e dei fattori
politici destinati ad influenzare le decisioni. La sua analisi è essenzialmente
corretta: La sola minaccia da parte di Nixon di abbandonare militarmente
l’Europa porterà immediatamente ad un fuggi fuggi generale, ed
al crollo del castello di carte della strategia comunitaria, dimostrando
incontrovertibilmente (lezione totalmente ignorata dai paesi comunitari) come
il potere morbido (economico, diplomatico, politico,
culturale) non possa muoversi oltre certi limiti, senza un potere duro (militare,
strategico) a supporto.
Ironicamente,
in un desiderio speculare a quello europeo di avere la botte piena e la
moglie ubriaca ,gli Stati Uniti chiedono alla Comunità di riarmarsi per
sobbarcarsi una maggiore responsabilità nella difesa del confine orientale…
allo stesso tempo pretendendo una Comunità in linea con tutte le iniziative di
politica estera americane, anche nelle tematiche fuori area dell’Alleanza
Atlantica. Per fortuna di Washington, questo riarmo non avverrà mai.
La Comunità
non costruirà il
suo potere duro, e ne pagherà le dure conseguenze.
LA STRATEGIA STATUNITENSE
Visto dal
punto di vista americano, invece, il detente impone ed è
guidato da diverse necessità.
In primis
– non poter
più contare sulla sicurezza del proprio deterrente nucleare – implica un
nuovo focus sul bilanciamento di forze convenzionali, e
diventa quindi ancora più impellente la fine di una guerra d’attrito tanto
costosa per la macchina bellica americana, quanto demoralizzante per il fronte
interno USA: La Guerra del Vietnam.
Il pericolo
della mutually assured destruction rende inoltre più che mai
necessaria la riduzione dei possibili scenari di confronto armato tra le due
superpotenze, e quindi una stretta delimitazione delle aree di influenza in
Europa. Questo impegno non si limita al tracciare una linea sulla cartina, ma richiede
anche il rafforzamento della presa sulla propria area di influenza (in
parallelo lo stesso processo avviene per l’Unione Sovietica, che agisce secondo
la “Dottrina Brezhnev”) che non può in nessun modo mostrare ambiguità o
tendenze “secessioniste”, magari accentuate da momenti di debolezza del centro
imperiale, come quello vissuto durante il Watergate, che investe
lentamente ma inesorabilmente l’amministrazione Nixon (e la credibilità di
Washington) all’inizio degli anni ’70.
LO SHOCK ECONOMICO DEL 1971
Il primo
vettore lungo il quale Washington rafforza il suo controllo sulla Comunità
Europea è quello economico.
Per capire
le problematiche americane su questo frangente ci viene nuovamente in
aiuto il secondo volume delle memorie di Henry Kissinger, Years
of Upheaval:
“L’impatto
della ritrovata assertività della Comunità Europea veniva portato
quotidianamente all’attenzione dell’Ufficio Ovale da parte dei nostri
dipartimenti economici.
C’era la lamentela sul fatto che le nazioni europee mantenessero accordi
commerciali preferenziali con le loro ex colonie, restringendo il nostro
accesso a quei mercati. C’era una crescente rete di legami speciali tra la
Comunità Europea e le altre nazioni dell’Europa e del Litorale Mediterraneo.
C’era la perenne controversia sulla Politica Agricola Comune della Comunità
Europea.“
La necessità
immediata è quella di impedire che la Comunità sorpassi economicamente gli
Stati Uniti, cosa che stava minacciando di fare: Il boom ecoomico
europeo degli anni ’60 e l’apertura doganale degli USA nei “Dillon” e
“Kennedy” Rounds, portano Washington ad essere per la prima volta
in deficit commerciale nel 1971.
Per fare
ciò, è necessaria un'”azione di forza” (sic).
Il 15 agosto
1971, Richard Nixon annuncia drammaticamente davanti alla stampa la fine della
convertibilità in oro del dollaro, l’imposizione di nuove tariffe doganali e un
pacchetto di aiuti di stato all’economia statunitense.
Senza
nessuna consultazione con gli “alleati” – che hanno in pancia decine di
miliardi di dollari – il Presidente americano mette fine al regime dei cambi
fissi di Bretton Woods ed apre le porte alla svalutazione del dollaro,
infliggendo un duro colpo all’economia europea e – insieme alle nuove barriere
doganali – riportando in attivo la bilancia commerciale statunitense fino al
1976.
LA STRATEGIA DELLA TENSIONE
Il secondo
vettore, invece, è prettamente militare.
A partire dalla fine degli anni ’60, una serie di azioni concrete, avvertimenti
e azioni “parziali” contribuirà notevolmente al processo di delimitazione del
perimetro della politica interna europeo-occidentale.
In Italia la
prima “bomba non rivendicata” esplode nel 1969 in Piazza Fontana, a
Milano.
Le indagini giudiziarie non chiariscono mai completamente la vicenda, ma le
sentenze in Cassazione (1987 e 2005) stabiliscono almeno due punti fermi: La
condanna per depistaggio di due agenti dei servizi segreti
(accusati, tra le altre cose, di aver favorito la fuga in Francia di un altro
agente del SID collegato con “Avanguardia Nazionale“) e la
responsabilità dell’organizzazione neofascista “Ordine Nuovo“.
“Ordine
Nuovo” il cui fondatore – Pino Rauti – partecipa nel 1965 al “Convegno del
Parco dei Principi”, una riunione atta ad elaborare una strategia di
controguerriglia golpista in Italia, a cui partecipano – oltre ad alcuni
esponenti di “Avanguardia Nazionale” – Ivan Lombardo, asset dell’IRD
britannico, Renato Mieli, fondatore di ANSA ed ex Colonnello dello Psychological
Warfare Branch dell’AMGOT, Pio Filippani Ronconi, ex tenente
delle SS.
Su Piazza
Fontana affermerà Aldo Moro nel suo memoriale: “È mia convinzione però, anche se non posso
portare il suffragio di alcuna prova, che l’interesse e l’intervento fossero
più esteri che nazionali. Il che naturalmente non vuol dire che anche italiani
non possano essere implicati“. Tornerà poi Bettino Craxi nel
1993, dopo la Strage di Via Fauro ad opera della “Falange Armata”, sostenendo:
“Oltre a una giustizia a orologeria politica, in Italia esistono bombe a
orologeria politica. Basta ritornare indietro nel tempo. Negli ultimi trent’anni
sono esplose bombe di cui non s’è mai saputo né chi le ha messe né chi erano i
mandanti… bombe alle quali sono state date cinquanta spiegazioni diverse, e
cioè nessuna“
Ma se questa
vicenda è poco chiara, ben più chiara è la vicenda del Golpe Borghese, il
progetto golpista del 1970 che – tramite la mediazione di un ufficiale dei
servizi segreti militari e dell’Obersturmbahnfuhrer delle SS Otto
Skorzeny – aveva ottenuto l’assenso statunitense a patto che il suo successo
militare e politico fosse realistico (condizioni che i golpisti non riuscirono
a raggiungere). Il golpe – pur sventato – servì a mostrare alla classe politica
italiana ed europea l’esistenza di una possibilità concreta di eliminazione
fisica.
Per approfondire:
La stessa
funzione ebbe indirettamente il golpe cileno, culminato con l’uccisione del
Presidente Allende nel 1973 e l’instaurazione di una giunta militare: Già nel
1970 – appena insediatosi il nuovo Presidente – la Commissione 40 (un
gruppo di lavoro speciale, guidato da Kissinger e partecipato da tutte le parti
interessate, tra cui CIA e Dipartimento di Stato) contatta i militari cileni
per esprimere il suo interesse verso un golpe, nell’ambito di quello che viene
chiamato “Processo Track II” (Il “Track I” prevedeva invece la
corruzione dei parlamentari cileni e il finanziamento occulto di media e
organizzazioni di opposizione) . Il primo tentativo nel 1970 fallirà, ma
l’aggravarsi della polarizzazione politica in Cile creerà le condizioni per il
successo nel 1973, quando i militari cileni si muoveranno senza informare
nuovamente gli americani, consci (correttamente) di averne già ricevuto
l’appoggio.
Il messaggio cileno giunge forte e chiaro in Europa: Enrico Berlinguer –
Segretario del Partito Comunista Italiano – dichiarerà di lì a poco, sul
Corriere della Sera, di “sentirsi più sicuro” sotto l’ombrello
dell’Alleanza Atlantica, in un drammatico dietrofront rispetto alla linea di
politica estera comunista successiva alla seconda guerra mondiale.
E’ un
messaggio che Kissinger stesso ammette che fosse necessario mandare, nel suo “Anni della Casa Bianca”: “Il successo di Allende avrebbe
avuto implicazioni per il futuro dei partiti comunisti dell’Europa Occidentale,
le cui politiche avrebbero minato l’Alleanza Atlantica quali che fossero le
loro credenziali di rispettabilità. Nessun Presidente responsabile avrebbe
potuto guardare all’ascesa al potere di Allende restando fermo“. Un
messaggio che fu mandato con successo.
L’ANNO DELL’EUROPA
La terza
direttrice su cui gli americani si muovono per rimodulare il rapporto tra
Washington e l’Europa è sicuramente più benevola e conciliatoria nei suoi
intenti.
L’idea di Nixon e Kissinger è di sfruttare l’occasione del ritiro dal Vietnam
per migliorare le relazioni con i paesi comunitari, da diversi anni alienati ed
infastiditi da una guerra le cui priorità strategiche non condividevano e
rispetto alla quale le popolazioni europee erano fortemente critiche. Il 1973
sarebbe dovuto essere l'”Anno dell’Europa”, un anno in cui si sarebbe firmata
una nuova dichiarazione atlantica, imbevuta delle nuove realtà strategiche e di
un nuovo, rinnovato, impegno per la difesa comune e la comune consultazione
nelle problematiche out of area (il problema di svolgere le
discussioni a livello NATO o Comunità Europea è solo procedurale, in quanto le
due organizzazioni si sovrappongono nei loro membri più importanti).
L’obiettivo è quindi quello di “istituzionalizzare” nuovamente il legame
atlantico e stabilire su base consensuale: “Quanta unità ci serve? Quanta
diversità possiamo tollerare?“
A lanciare
l’iniziativa è Henry Kissinger, in veste di consigliere per la sicurezza
nazionale, alla riunione degli editori dell’Associated Press, il 23
aprile 1973, al Waldorf Astoria di New York.
La risposta
da parte degli europei però è piuttosto fredda, come avevano anticipato le
consultazioni di Kissinger con vari leader europei prima di
tenere il discorso.
La politica
europea del 1973 è decisamente fuori fase con quella statunitense, ed è lungi
dall’essere inebriata da una rinnovata passione per le relazioni atlantiche.
Quella che Kissinger si trova davanti, invero, è forse l’Europa Occidentale più
ostile verso gli Stati Uniti che ci sia mai stata dal secondo dopoguerra ad
oggi.
La Comunità
Europea sta prendendo forma, e per prendere forma sente il bisogno di costruire
un’identità separata da Washington, senza voler dare l’immagine che la nascita
dell’Europa unita sia un mero sottoprodotto del legame atlantico.
Ma i
problemi principali sono con i governi dei tre principali interlocutori di
Washington: Regno Unito, Francia e Germania Ovest, tanto da creare quasi una
tempesta perfetta.
A Londra
siede forse l’unico Primo Ministro britannico – oltre John Major – ad aver mai
creduto nell’unità europea: Il conservatore Edward Heath. Il veto della Francia
all’entrata britannica nella Comunità è caduto da poco, ma il (fondato)
sospetto che – a causa della sua special relationship con Washington – Londra entri nella Comunità
per essere un cavallo di troia americano, è ancora lungi dall’essersi
dissipato. Il Regno Unito non può quindi guidare l’anno dell’Europa – o
mostrarsi troppo entusiasta a riguardo – anche per ragioni di immagine.
A Berlino il
cancelliere Willy Brandt – forse il più atlantista tra i capi di governo
continentali – è visto con sospetto dagli altri europei a causa della sua Ostpolitik nei
confronti del blocco orientale, e non è nella posizione di
esercitare l’influenza che servirebbe per creare un consenso europeo.
A Washington
non resta che puntare sulla Francia del gollista Pompidou: Parigi resta l’unica
capitale con il potere sia di costruire, che eventualmente di distruggere,
l’anno dell’Europa.
Quello che
seguirà per mesi sarà una metaforica partita a Go – l’antico
gioco da tavolo giapponese – tra Henry Kissinger e il ministro degli esteri
francese – l’antiamericano Jobert – che lentamente frustrerà e priverà di ogni
significato e vitalità l’iniziativa americana, attraverso una serie di tattiche
negoziali e aperte critiche, impedendo che prendesse forma qualsivoglia
dichiarazione.
L’anno
dell’Europa vedrà un epilogo – caduco e ormai privo di senso – solo nel 1974,
dopo la traumatica esperienza della Guerra dello Yom Kippur.
LA GUERRA DEL KIPPUR
Tutti i nodi
del rapporto tra USA e Comunità Europea vengono al pettine con la Guerra del
Kippur – nel 1973 – in concomitanza con l’anno dell’Europa.
E’ una
guerra molto particolare perché – 50 anni dopo, con una lettura storica –
appare quasi come un’azione coreografata, con un risultato finale già scritto e
solo dei dettagli contingenti da decidere sul campo di battaglia e al tavolo
delle conferenze.
In questa performance, il direttore d’orchestra è senza dubbio
il Presidente egiziano Anwar Al Sadat – da poco subentrato a Nasser – con il
Segretario di Stato americano Henry Kissinger, pur all’oscuro delle intenzioni egiziane,
in (quasi) totale controllo della situazione. Israeliani, siriani, giordani,
sovietici ed europei rimangono in balia delle onde e della regia
egizio-americana per tutta la durata della guerra.
La guerra si
apre con un attacco coordinato da parte di Egitto e Siria alle prime luci
dell’alba del 6 ottobre 1973, in un giorno di festa per la comunità ebraica.
Questo attacco prende di sorpresa veramente tutti; sia gli israeliani, che le
due superpotenze che si sfidano per procura nello scacchiere mediorientale.
Diventa però subito chiaro che sono gli americani ad avere in mano il pallino,
e che sarà Washington a condurre le trattative e a dettare i tempi della crisi,
per trarne vantaggio sia in Medio Oriente che in Europa. E che è stato Sadat a
manovrare per mettere gli USA in questa posizione.
Nell’aprile
1972, si apre un canale di comunicazioni segreto tra Anwar Al Sadat ed Henry
Kissinger (ancora Consigliere e non Segretario di Stato) tramite un giornalista
del Cairo legato all’intelligence egiziana ed americana. Lo scopo
di questo canale – tra due paesi che non hanno relazioni diplomatiche ufficiali
– è quello di trovare un’uscita dallo stallo diplomatico successivo alla guerra
del 1967, che vede i paesi arabi (con supporto sovietico ed europeo) chiedere
la ritirata di Israele dai territori recentemente occupati, e Israele rifiutare
categoricamente (con supporto americano). Sadat si rende conto che Mosca –
nonostante un appoggio vocale, diplomatico e anche tecnico/militare – non abbia
realmente intenzione di supportare gli arabi, con ogni mezzo necessario, in una
“guerra di liberazione” contro Israele, minacciando una vitale alleanza
americana e rischiando di arrivare ad uno scontro tra superpotenze (peraltro,
in epoca di detente).
Sadat si rende conto però, di poter ottenere ciò che vuole da Washington, che –
svolgendo un ruolo di protezione irrinunciabile per Israele – sarà disposta a
mettere pressione su Tel Aviv per una sistemazione, se otterrà in cambio una
drastica riduzione dell’influenza sovietica in medioriente e l’entrata de
facto dell’Egitto nella sua sfera d’influenza, inclusa la non
belligeranza nel vitale Canale di Suez.
L’espulsione
di quindicimila “istruttori” sovietici dall’Egitto, e lo scambio epistolare che
seguirà tra Sadat e Kissinger, danno forma a qualcosa di simile ai patti
Mussolini-Laval che portarono all’invasione italiana dell’Etiopia: Non si
parlerà mai di guerra ad Israele, ma diventa estremamente chiaro a Sadat che
gli americani siano disposti a mutare radicalmente le loro posizioni riguardo
il confine israeliano. A questo punto possono iniziare i preparativi di guerra,
lontano dagli occhi degli (ex) ospiti sovietici.
I
combattimenti veri e propri dureranno meno di un mese, e si svolgeranno
all’interno di uno stretto “recinto” non dichiarato: Un’eccessiva avanzata
araba è resa impossibile dal deterrente nucleare israeliano (di cui Kissinger
non fa menzione, ma che – completato nel 1967 – è messo in stato di allerta per
paura di uno sfondamento siriano nel Golan) e dalle lente forniture sovietiche,
regolate da Mosca in modo da non causare uno scontro tra superpotenze; mentre
un eccessivo contrattacco israeliano è reso impossibile da un vero e proprio
veto americano (reso invalicabile dalla totale dipendenza di Tel Aviv sulle forniture
belliche USA), nonché dalla “deterrenza strategica” imposta dallo squilibrio
demografico tra paesi arabi ed Israele, che rende un’occupazione militare
protratta (di territori abitati, a differenza del Sinai) da parte di
quest’ultima praticamente impossibile.
E’
estremamente significativo notare che le linee di armistizio – a fine ottobre –
vedano una (seppur piccola) cessione di territorio amministrato da parte di
Israele su ambo i fronti, nonostante una controffensiva in Siria arrivata a
30km da Damasco, e un’intera armata egiziana circondata aldilà del Canale di
Suez. Questo è indice della pressione americana, l’unica in grado di estorcere
concessioni così dolorose ad Israele.
La strategia egiziana paga: Con una tacita cooperazione americana, l’Egitto
riesce a lavare via l’umiliazione del 1967 oltrepassando con le sue forze
militari il Canale di Suez e infliggendo un duro colpo alle forze armate
israeliane, precedentemente ritenute invincibili. Questo permette a Sadat di
sedersi al tavolo delle trattative, ottenendo ciò che l’Egitto desiderava da
anni – il Sinai, perso 6 anni prima – offrendo in cambio ciò che Israele
desiderava dalla sua nascita, ciò che una nazione sconfitta non avrebbe potuto
offrire: La pace e il reciproco riconoscimento.
Washington
ne esce con un’influenza in Vicino Oriente drasticamente aumentata. Persino in
Siria – il più oltranzista e filosovietico dei paesi arabi – che durante le
trattative per l’armistizio ignora in maniera umiliante il ministro degli
esteri sovietico Gromyko, per permettere a Kissinger di svolgere indisturbato
la sua shuttle diplomacy tra Israele e Damasco, e disegnare
quello che è ancora oggi il confine siriano.
La
“razionalizzazione” nel Vicino Oriente è poi prodromica a quella in Europa: Nel
1975 vengono fissati ad Helsinki i confini dei due blocchi, ora ufficialmente
immutabili.
LA LENTA RESA EUROPEA
Tornando
alla nostra Europa però, a travolgere il continente e a influire pesantemente
sul rapporto euro-americano in fase di trasformazione – più delle linee
armistiziali tra Israele, Egitto e Siria – è l’enorme divergenza tra le
priorità delle capitali europee – legate ai paesi arabi produttori di petrolio e con opinioni pubbliche in
larga parte filopalestinesi – e quelle degli USA, forti di un’ingente
produzione domestica, impegnati nel confronto bipolare in medioriente, con
opinione pubblica filoisraeliana e invero desiderosi di ridurre l’indipendenza
politico-strategico-energetica dell’Europa, anche prolungando artificialmente
il dolore.
Il famoso
embargo e taglio di produzione dell’OPEC inizia il 17 ottobre ma –
contrariamente a ciò che afferma Kissinger – la politica europea adotta una
linea filoaraba dalle prime ore del conflitto (non come reazione supplicante
alla decisione araba) in continuità con quella tenuta dal 1967.
Allo scoppio
delle ostilità, le capitali europee (compresa l’ancora franchista Madrid)
notificano – in forma riservata o pubblica – a Washington l’impossibilità di
usare le basi americane e NATO sul loro territorio per funzioni in qualsiasi
modo collegate alla guerra nel Vicino Oriente, una problematica out of
area – esterna ai territori degli stati membri dell’Alleanza Atlantica
e all’Atlantico del Nord – in cui il sostegno americano ad Israele (gli europei
non sono a conoscenza della collusione americana con Sadat) è opposto alla
politica estera di quasi tutti i membri europei dell’Alleanza. Un ordine che
gli USA ignoreranno, arrivando addirittura a mettere in allerta le proprie
forze non solo convenzionali, ma anche nucleari, di stanza in Europa – in
risposta all’offerta sovietica all’Egitto di invio di un contingente di “peacekeeper“,
per liberare la terza armata, circondata da Israele successivamente ad un primo
cessate il fuoco – mettendo di fatto l’Europa nella condizione di subire un olocausto nucleare per una guerra nell’ambito
della quale non esisteva alcun dovere di solidarietà o azione comune.
Francia,
Italia, Spagna, Danimarca, Belgio e in seguito Germania arriveranno anche a
chiudere il proprio spazio aereo ai voli militari americani e i propri porti
alle spedizioni relative alla guerra arabo-israeliana, una prescrizione
anch’essa parzialmente ignorata.
La politica
comunitaria non riesce a modificare la condotta americana, ma riesce – forte
anche di una parallela scelta giapponese – ad ottenere esenzioni da alcuni
tagli di produzione dell’OPEC e dall’embargo totale, che invece viene imposto a
USA e Olanda (unico stato europeo-occidentale, insieme al Portogallo di
Salazar, a seguire la linea americana). Anche grazie al “dialogo euro-arabo”,
intavolato a sorpresa da Jobert durante un summit della
Comunità.
L’Europa
evita la devastazione totale e la deindustrializzazione, ma viene duramente
colpita da un taglio di produzione/embargo che durerà diversi altri mesi (con
nessuna fretta da parte americana affinché venisse tolto) e da una crisi energetica
che diventerà di fatto permanente e strisciante, indebolendo il continente in
maniera strutturale.
Come avevamo
scritto sopra, il legame atlantico viene messo in tensione da due poli che
vogliono tutti i vantaggi dell’alleanza senza sobbarcarsene alcun costo:
Americani che vogliono un’Europa forte ma servizievole, europei che vogliono
un’Europa demilitarizzata ma indipendente. Questo scontro non può che finire
(nella cornice di un ultimatum di Nixon, un discorso del 18
marzo in cui minaccia di ritirare le truppe statunitensi dall’Europa) con un
compromesso tra le due concezioni, nella fattispecie si ritorna ad una versione
leggermente modificata dell’Europa demilitarizzata e servizievole degli anni
’40 e ’50, impossibilitata a seguire una politica estera veramente indipendente
a causa della sua scelta di appoggiarsi agli USA per la difesa dei confini
esterni, sintomo di un continente umiliato dalle due guerre mondiali, ancora
incapace di pensare in termini di potenza (con forse l’eccezione della Francia)
mentre il resto del mondo non ha mai cessato di farlo.
Sia chiaro:
Non c’è mai un momento in cui gli europei “cedono” alla linea americana per
imposizione di Washington; al contrario iniziano immediatamente dopo la guerra
a sviluppare legami energetici con l’Unione Sovietica. La strategia
europea viene semplicemente sconfitta sul campo, sconfitta da una realtà in
cui l’Europa occidentale è una mera unione doganale, un ricco “giardino” (per usare le parole di Borrell) – o una ricca “casa di riposo”,
per usare quelle di Zbigniew Brzezinski – incapace di plasmare a suo favore gli
eventi sullo scacchiere geopolitico, neanche in una regione così vicina – dove
riteneva fino a pochi anni prima un’influenza predominante – come quella del
conflitto arabo-israeliano, a causa della sua impotenza militare.
Un giardino destinato a cadere lentamente in decadenza, in balia di volta in
volta delle intemperie esterne o dei desideri del guardiano, che ha in mano le
chiavi.
2022: LA STORIA SI RIPETE
Questa
tendenza europea sembra riproporsi di nuovo in occasione della seconda
“razionalizzazione” dell’impero americano, resa necessaria dalla crisi del
2008, dall’ascesa di Cina e altre grandi/medie potenze e dalle lunghe guerre di
logoramento combattute dagli USA dall’inizio degli anni ‘2000.
Razionalizzazione che culmina con la lunga guerra in Ucraina e con la storia che si ripete,
questa volta come farsa.
Con un’Unione
Europea che si comporta da protettorato nonostante una minaccia militare
convenzionale ai suoi confini – rispetto agli anni ’70 – quantitativamente
risibile, nonostante i Trattati prevedano un patto di mutua difesa (più
stringente di quello Atlantico) le cui forze combinate sono perfettamente
adeguate a confrontarsi con la Russia ad armi pari, senza necessità di tutele
esterne (e lo sarebbero ancor di più con un minimo riarmo, ironicamente
osteggiato proprio dalle sinistre europee e dalle figure televisive più
critiche verso l’operato angloamericano in Europa). Che rinuncia finanche alle
limitate leve usate negli anni ’70 per affermare il suo interesse ad evitare
la deindustrializzazione. Che permette il bombardamento delle sue
infrastrutture strategiche senza colpo ferire.
Lacerata da
un conflitto interno tra “intermarium” (con sostegno anglofrancese e
americano) e asse Roma-Berlino–Budapest – che la retorica prova invano a
nascondere dietro l’immagine di un’Europa unita nella linea decisa dal blocco
favorito dai rapporti di forza del momento e dalla maggiore vitalità (e
indipendenza da centrali straniere) della sua leadership –
nonostante un’unità dal punto di vista burocratico e formale nettamente
maggiore di quella fornita dalla Comunità Europea nel 1973.
La ciliegina
sulla torta: La “Vecchia Europa” non potrà – come ha fatto negli anni ’70 –
“diversificare” le sue forniture energetiche sviluppando convenienti legami con
una superpotenza nucleare, tramite pipeline che attraversano
confini sicuri e recentemente stabilizzati come la cortina di ferro congelata
dagli Accordi di Helsinki.
Le nuove
forniture energetiche a cui in particolare l’Italia si affida – piagata al suo
interno, come la Germania, dall’opposizione al nucleare, su cui paesi come
Polonia e Francia invece giustamente puntano – arrivano dal rimland in
ebollizione del mondo multipolare, dove l’Europa – se anche avesse una volontà
unitaria – non avrebbe alcuna potenza reale da proiettare per influenzare gli
eventi: Dall’Algeria dove influenti testate come l’Economist “prevedono” un
cambio di regime, dall’Azerbaijan che combatte la sua piccola “Guerra del Kippur”, dalla Libia e l’Egitto dove l’instabilità
locale si fonde con la guerra per procura tra paesi
europei, dall'”equivoco” Qatar situato sulla linea di faglia della guerra
fredda mediorientale.
L’unica
fornitura stabile e sicura rimane, oltre a quella norvegese, via Polonia,
quella – proibitivamente costosa e letale per la competitività industriale –
proveniente dall’altra sponda dell’Atlantico.
Situazione che non cambierà con la corsa alle rinnovabili: La non-volontà di
estrarre almeno le terre rare presenti nel sottosuolo europeo, unita ancora una
volta ad una debole proiezione militare e ad un’assenza di direzione unitaria,
porterà l’approvvigionamento delle terre rare a sottostare alle stesse dinamiche
di quello di gas e petrolio.
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