giovedì 30 settembre 2021

i sistemi di riconoscimento facciale stanno arrivando nelle città italiane - Isaia Invernizzi

 


raggiungere il centro di udine a piedi, partendo dalla stazione ferroviaria, è piuttosto semplice: google maps consiglia di camminare in via roma, una strada a senso unico con molti negozi, qualche dehors, e due file di magnolie che danno il nome al quartiere. come in tutte le zone vicino alle stazioni, anche nel quartiere delle magnolie si possono incontrare persone con problemi di alcol o senza una casa. negli ultimi anni ci sono stati alcuni arresti legati allo spaccio di droga e chi abita qui ha chiesto più volte al comune di intervenire per garantire più sicurezza.

la soluzione trovata coinvolgerà chiunque camminerà in via roma e in tante altre strade di udine: tutti saranno osservati, seguiti e identificati dalle telecamere per il riconoscimento facciale, che il comune vuole attivare nei prossimi mesi. potenzialmente si potranno acquisire i dati biometrici – le caratteristiche fisiche che consentono di identificare una faccia – di migliaia di persone ogni giorno: secondo il garante della privacy, che ha già fermato un progetto simile, questa tecnologia rappresenta una premessa per la sorveglianza di massa.

 

il caso di udine non è isolato, e secondo gli esperti del tema le modalità con cui progetti del genere sono stati proposti e valutati in diverse città italiane suggeriscono una generale sottovalutazione dei rischi della videosorveglianza e del riconoscimento facciale. il problema, segnalato da tempo da attivisti ed esperti di tecnologie, è che si tratta di sistemi estremamente invasivi in termini di privacy, eppure poco o niente regolati: si sa poco di come funzionano, di come vengono raccolti e usati i dati, di quali sono i limiti e gli obiettivi. sono strumenti potenti e più simili a quelli utilizzati dalle forze dell’ordine e della magistratura, che però vorrebbero essere gestiti in molti casi dalle amministrazioni pubbliche, che non hanno normalmente queste competenze e questi poteri.

dall’inizio degli anni duemila nei comuni italiani sono stati installati migliaia di sistemi di videosorveglianza controllati dalla polizia locale. dagli schermi, nelle nuove sale operative, si può spesso controllare quasi ogni angolo delle città grazie alle telecamere posizionate sui pali della luce e sulle facciate degli edifici. rispetto alle prime versioni, ingombranti e piuttosto visibili, le telecamere sono sempre più piccole, sofisticate, e sono sempre di più. per installarle sono stati spesi milioni di euro in nome della cosiddetta “sicurezza percepita”. nonostante gli investimenti non è cambiato molto, perché la percezione di insicurezza è qualcosa di soggettivo: gli appelli e le lamentele delle persone che abitano nelle zone considerate insicure non si sono fermati sia nelle grandi città come milano, sia in quelle più piccole.

ma seppure identiche nella forma, le telecamere di udine non sono come quelle a cui siamo abituati: sono dotate di una tecnologia che consente di acquisire, sempre e in tempo reale, i dati biometrici delle persone come la fisionomia del volto, il colore degli occhi, la distanza tra le pupille, la grandezza del naso e della bocca. si chiama riconoscimento facciale: un software analizza l’immagine della persona sotto forma di pixel, di dati, da cui trae un modello matematico che viene poi applicato ad altre immagini per trovare una corrispondenza. l’archivio delle immagini è essenziale per identificare una persona e viene alimentato dai dati di tutte le persone che camminano per strada, rilevate costantemente dalle telecamere. alcuni software evoluti sono in grado di identificare una persona anche analizzando la sua andatura.

gli algoritmi utilizzati dai sistemi di riconoscimento facciale sono molto efficienti. il problema sono i dati con cui vengono addestrati. secondo il nist, il national institute of standard and technology, un organo governativo americano che studia algoritmi di riconoscimento facciale, la maggior parte dei software tende a essere più accurata quando si tratta di riconoscere volti di maschi bianchi rispetto alle persone nere o alle donne. gli errori sono causati dai database di riferimento, che spesso sono costituiti da milioni di immagini pubblicamente disponibili attraverso i social network. a seconda della composizione del database, varia la precisione: un database che raccoglie soprattutto volti di maschi e di persone bianche renderà il software più allenato a riconoscere quelli.

una possibile conseguenza è che qualcuno sia fermato, arrestato o indagato ingiustamente a causa di uno scambio di persona, risultato di un errore dell’algoritmo solo apparentemente infallibile.

nella delibera del progetto del comune di udine, che costerà 673mila euro, si legge che le 67 nuove telecamere serviranno a «generare automaticamente allarmi e segnalare in tempo reale la presenza di eventuali individui segnalati» e anche a identificare la loro presenza a posteriori, grazie alle registrazioni. se posizionate a un’altezza di un metro e mezzo, negli arredi urbani come vasi o cestini, potranno identificare le persone «anche con occlusioni parziali del viso, occhiali, sciarpe, cappellini, cambiamenti di espressione, ombre, contrasti elevati e condizioni di luce estreme o scarse e sulle rotazioni moderate del volto». tra le altre cose, si legge che le telecamere verificheranno la presenza di «individui sospetti», senza chiarire per ora in base a quali caratteristiche verranno considerati tali.

l’assessore alla sicurezza, alessandro ciani, dice che i lavori di installazione inizieranno entro la fine dell’anno, spiegando che è un modo per dare una risposta agli abitanti del quartiere delle magnolie che chiedono più sicurezza. il riconoscimento facciale potrà essere utilizzato dalla polizia di stato, dai carabinieri e anche dalla polizia locale. i dati serviranno per le indagini di polizia giudiziaria e per il controllo del territorio in tempo reale, anche durante le manifestazioni. «perché dovrei preoccuparmi se una telecamera conosce il mio nome e cognome o se un agente della polizia di stato sa che sono passato a quell’ora e in quella via? chi viola la legge deve preoccuparsi, gli altri no», dice ciani al post. «mi auguro che i problemi di autorizzazione legati alla privacy siano risolti presto».

nei documenti del comune si trovano informazioni piuttosto dettagliate sulle telecamere, mentre non ci sono le specifiche del software che verrà utilizzato per analizzare i dati. questo perché al momento, in realtà, il riconoscimento facciale attraverso i sistemi di videosorveglianza pubblici è illegale dopo un provvedimento del garante della privacy che il 26 febbraio 2020 intervenne per fermare un progetto del comune di como. ciononostante, il comune di udine intende installare il sistema, in attesa che le cose cambino.

per contesto, modalità e obiettivi, il caso di como era identico a quello di udine: il comune aveva installato telecamere per il riconoscimento facciale nel parco di via tokamachi, vicino alla stazione. è una zona che nel 2016 aveva ospitato centinaia di migranti diretti verso il nord europa e bloccati a como dalla chiusura del confine con la svizzera.

il garante spiegò che l’acquisizione e il trattamento dei dati biometrici non aveva basi giuridiche valide, e quel parere è ancora valido. la sperimentazione di como, poi bloccata, venne svelata da un’inchiesta di laura carrer, riccardo coluccini e philip di salvo, tre giornalisti e attivisti dei diritti digitali che negli ultimi anni hanno monitorato le amministrazioni che investono fondi pubblici nei sistemi di riconoscimento facciale, spesso senza essere davvero consapevoli delle possibili conseguenze sulla vita delle persone.

è un tema che interessa anche la campagna elettorale delle elezioni amministrative in programma il 3 e il 4 ottobre. a roma, il candidato sindaco di azione carlo calenda ha proposto di installare seimila nuove telecamere nelle strade della capitale in aggiunta alle 1.300 già esistenti. in una lettera sul tema della sicurezza – l’intervento inizia dicendo che roma ha meno crimini di milano, torino, napoli, firenze e venezia in rapporto alla popolazione – calenda ha scritto di voler mettere a disposizione delle forze dell’ordine «i flussi video delle telecamere private e pubbliche» e di voler installare «telecamere intelligenti nei luoghi più sensibili della città».

a torino, invece, è già stato finanziato il progetto argo, che consiste nell’attivazione di dieci telecamere, che dovrebbero diventare 275, e che permetteranno di identificare in tempo reale le persone. secondo il comune, questo sistema sarà in grado di prevedere i comportamenti e gli spostamenti di gruppi di persone, come nel caso di manifestazioni o proteste.

 

negli ultimi anni associazioni come privacy network e il centro hermes hanno organizzato diverse campagne per sensibilizzare le persone sui rischi del riconoscimento facciale e hanno chiesto alle istituzioni europee e italiane di vietare la sorveglianza di massa attraverso sistemi come la videosorveglianza nelle città. privacy network si è occupata anche del progetto di udine attraverso diverse richieste di accesso ai documenti del comune. «non c’è nessuna garanzia sulla custodia dei dati biometrici, non c’è una valutazione sull’uso dei dati dei cittadini, non c’è una valutazione d’impatto che giustifichi l’uso di questi dati», dice matteo navacci, attivista di privacy network. «il sindaco e gli assessori hanno detto che questa rete servirà ad aumentare la percezione della sicurezza, sottovalutando quanto sia invasivo questo sistema».

secondo diletta huyskes, responsabile del dipartimento advocacy di privacy network, un altro grande limite dei progetti di videosorveglianza delle città è la mancanza di un consenso e di consapevolezza da parte delle persone. huyskes spiega che spesso a udine, come era già successo a como e in altre parti del mondo, queste telecamere vengono installate senza spiegare ai cittadini che verranno schedati e che i loro dati potranno essere utilizzati anche in futuro. «una volta che vengono archiviati rimangono in un database e possono essere usati anche per scopi diversi», dice. «in nome della sicurezza, e senza la certezza che questi strumenti siano davvero affidabili, si sottovalutano gli enormi rischi per la privacy: ne vale davvero la pena?»

le associazioni per i diritti digitali sostengono che il riconoscimento facciale sia assimilabile alle intercettazioni per la specificità della sorveglianza: la legge italiana ha disciplinato l’uso delle intercettazioni, autorizzate solo se ci sono gravi indizi di reato o se sono assolutamente indispensabili per le indagini della magistratura. la sorveglianza biometrica invece è preventiva, e consente di monitorare chiunque: persone che non sono indagate e anche chi sta esercitando il diritto di manifestare. il riconoscimento facciale, per esempio, è stato usato per sopprimere le proteste di hong kong tra il 2019 e il 2020.

i principi che muovono queste associazioni sono piuttosto simili: la privacy è intesa come diritto alla riservatezza, e considerata uno spazio senza il quale non possono essere garantite davvero le libertà fondamentali, dalla libertà di espressione a quella di movimento.

il garante della privacy la pensa allo stesso modo. durante un seminario organizzato a inizio giugno dall’associazione privacy italia, agostino ghiglia, componente del collegio del garante della privacy, ha spiegato che il riconoscimento facciale può essere uno «strumento di indagine o di persecuzione». griglia ha detto che le telecamere di nuova generazione sono in grado di interpretare qualsiasi movimento del volto o una piccola alterazione della pupilla, che i sistemi consentono di seguire costantemente una persona e archiviare tutti i suoi movimenti: «è la base della sorveglianza di massa».

 

il garante della privacy ha già bloccato il progetto della videosorveglianza a como ed è intenzionato a fermare gli altri tentativi di attivare il riconoscimento facciale nelle città. i comuni, in particolare, dovrebbero secondo il garante considerare con attenzione il principio di proporzionalità tra il potere della videosorveglianza e gli obiettivi di un’amministrazione. «ognuno deve fare il suo mestiere: la magistratura ha un compito, le forze di sicurezza un altro, i comuni un altro ancora. un comune non può avere poteri paragonabili a quelli della magistratura, non può fare indagini», ha detto ghiglia. «questo deve essere chiaro, altrimenti si apre una voragine».

lo scorso marzo il garante della privacy ha dato un parere negativo sulla funzione “real time” del sistema chiamato sari enterprise, utilizzato dalle forze dell’ordine italiane per identificare una persona confrontando i suoi dati biometrici con le immagini di tutti gli individui già fotosegnalati. di sari “real time” si sa poco: non si sa come funziona l’algoritmo e cosa decide. nel parere negativo si legge che questo sistema «oltre ad essere privo di una base giuridica che legittimi il trattamento automatizzato dei dati biometrici per il riconoscimento facciale a fini di sicurezza, realizzerebbe per come è progettato una forma di sorveglianza indiscriminata/di massa».

 

in aprile è stata pubblicata la bozza di regolamento per l’intelligenza artificiale proposta dalla commissione europea. tra le altre cose, dice che il riconoscimento facciale negli spazi pubblici è proibito, ma lascia aperte alcune possibilità: può essere utilizzato per la ricerca di vittime di un reato o nel caso della ricerca di bambini scomparsi, per prevenire attacchi terroristici e per individuare i criminali, senza però spiegare con precisione quali siano i limiti di utilizzo da parte delle forze dell’ordine. in italia, il deputato del partito democratico filippo sensi ha proposto una moratoria temporanea, fino al 31 dicembre 2021, per vietare l’utilizzo dei sistemi di videosorveglianza biometrici nei luoghi pubblici in attesa che il parlamento discuta una legge.

è difficile prevedere quando il regolamento europeo sarà approvato e soprattutto come verrà applicato dai singoli stati dell’unione europea. secondo molti esperti, queste regole non bastano: il 21 giugno il comitato europeo per la protezione dei dati (edpb) e il garante europeo della protezione dei dati (edps) hanno chiesto alla commissione europea di vietare qualsiasi uso delle sorveglianze biometriche negli spazi pubblici, sostenendo che mettono a rischio i diritti e le libertà.

la stessa richiesta era stata presentata dalla campagna reclaim your face, organizzata da molte associazioni europee tra cui il centro hermes. al momento sono state raccolte 60mila firme in tutta europa. laura carrer, giornalista e attivista dei diritti digitali, dice che vietare il riconoscimento facciale è un obiettivo molto ambizioso, perché quello dell’intelligenza artificiale è un mercato potente e in evoluzione, da cui l’europa difficilmente sarà esclusa. anche secondo carrer la regole previste nella bozza del regolamento europeo non bastano. «è importante rendere consapevoli le persone dei rischi di questa tecnologia: le regole ci sono, ma con diverse eccezioni», spiega. «chi ci dice come la polizia utilizzerà la sorveglianza biometrica? non ci sono garanzie: purtroppo manca un processo di trasparenza nei confronti dei cittadini su come viene utilizzato il riconoscimento facciale e per cosa viene utilizzato».

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Lucano è un delinquente, Formigoni un santo

 Uccidete Mimmo Lucano e l’accoglienza - Gianluca Cicinelli


Condannato a oltre 13 anni di galera, il doppio di quanto chiesto dall’accusa, non li danno quasi più neanche per omicidio. Mimmo Lucano è stato condannato dal tribunale di Locri per associazione a delinquere finalizzata al favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, truffa, peculato e abuso d’ufficio. Si dice sempre che le sentenze vanno rispettate ma si possono e si devono commentare. E l’unico commento possibile è che in questo Paese, nella china di degrado sociale che ha preso, la magistratura si è sostituita alla politica per uccidere le politiche di accoglienza ai migranti.

Certo, si dovranno leggere le motivazioni, ma nel corso del dibattimento è emersa con chiarezza intanto l’assoluta onestà personale di Mimmo Lucano, il cui conto in banca non è cresciuto nemmeno di un euro nel periodo in cui da sindaco di Riace ha portato avanti l’utopia, perchè dopo questa sentenza diventa un’utopia, di creare una rete non soltanto formale di vita sociale e produttiva per chi scappando da fame e guerre è approdato nel nostro Paese. Come ha spiegato il difensore di Lucano, l’avvocato Pisapia, “Un sindaco non può non preoccuparsi anche del bene della sua comunità nel momento in cui accoglie. Per questo, coniugare accoglienza e sviluppo locale ha significato lavorare per la pace del suo paese, dove in effetti i nuovi arrivati sono stati non ospiti, ma parte integrante del riscatto del paese intero”. L’accoglienza di rifugiati e migranti ha rappresentato un’emergenza improvvisa e le condizioni di emergenza rendono spesso inapplicabili le norme. Ma nell’indeterminatezza propria della legislazione sull’accoglienza, il Comune di Riace è stato anche investito di compiti e responsabilità che spettavano all’autorità centrale, che ha avuto paura di prendere decisioni a carattere umanitario, preferendo giocare sulla pelle dei migranti una partita elettorale cinica e omicida. L’accusa ha puntato il dito sulle misure di welfare locale in cui sono state investite le “economie” distratte dai fondi pubblici destinati ad accoglienza e integrazione, nell’intento, sostiene l’accusa, di condizionare il voto a sostegno di Lucano. Ma non può esserci distrazione senza appropriazione a proprio profitto e non c’è prova dell’appropriazione; né regge l’ipotesi che la distrazione di fondi mirasse all’arricchimento patrimoniale dell’associazione Città Futura. L’assurdità di questa sentenza, la sua incongruità anche rispetto ai reati contestati, lascia ben sperare nel ricorso in appello. Per il momento però non soltanto la più grande delle ingiustizie è stata compiuta, ma è stato lanciato un avvertimento trasversale a chiunque si occupi di immigrazione con spirito d’umanità e accoglienza, nel caos e nelle contraddizioni delle norme esistenti. Il messaggio è chiaro: gli immigrati sono soltanto carne da macello per uno scontro politico da cui devono restare fuori gli uomini e le donne che come Mimmo Lucano hanno dedicato persino il loro corpo e tutte le ore della giornata ad aiutarli. Mai, mai, mai come in questo caso dobbiamo dire che ribellarsi è giusto. Se questa è la legge bisogna lottare contro la legge. Lo dobbiamo a Mimmo Lucano, a Riace, alle migliaia di persone che scappano dalla morte nei loro Paesi.

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scrive Mediterranea Saving Humans

 

Il tribunale di Locri ha condannato #MimmoLucano a 13 anni di galera.

Tutti sanno che questo era ed è un processo politico. E che Mimmo è un ostaggio politico nelle mani di una cricca composta da un pugno di magistrati, giornalisti, carabinieri e agenti dei servizi. Ma loro sono gli esecutori di questo che si configura come il più grave attacco repressivo nei confronti della cultura e della pratica della solidarietà nel nostro paese. I mandanti siedono in parlamento. Sono coloro che hanno ideato il "sistema Libia", che ha al suo attivo migliaia di vittime innocenti in mare e in terra. Costoro si dicono "democratici".

Hanno dato il via a questo delirio aberrante sul piano giuridico e sociale per distruggere una delle poche esperienze concrete di municipalismo solidale, che dimostrava con i fatti che accogliere, convivere, crescere insieme è non solo possibile in questo mondo dell'esclusione e dell'indifferenza, ma anche assolutamente doveroso se non vogliamo ritrovarci nel disastro tutti quanti.

Mimmo Lucano ha fatto il sindaco delle persone, non degli apparati. Ha avuto il coraggio di mettere al centro la dignità umana e non gli interessi. L'hanno coperto di menzogne, incarcerato, e ora lo vogliono in galera per questo. Si dice che la legge è uguale per tutti, ma non è vero. Chi è povero o migrante deve subire ogni violenza, e chi lo aiuta è considerato un criminale. Quale sarebbe la legittimità di questo tribunale? Quella che deriva dall'essere al servizio di un sistema che finanzia torturatori e assassini?

A volte nel corso della Storia, bisogna riconoscere come non sia più possibile accettare ed obbedire. A volte bisogna rispondere alle ingiustizie organizzando e difendendo con ogni mezzo necessario il mondo diverso che in tanti sogniamo e di cui tutti avrebbero bisogno.

Siamo al fianco di Mimmo Lucano, ci stringiamo a lui, e a tutti e tutte coloro che pagano caro per aver scelto di stare dalla parte degli ultimi. Ma non basta. Siamo a disposizione, ognuno di noi in carne e ossa e noi collettivamente come Mediterranea, per proteggere un fratello sotto attacco e ciò che rappresenta.

Non accettiamo e non obbediremo.

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QUANDO NOI “ITALIANI BRAVA GENTE” STERMINAMMO MIGLIAIA DI PERSONE AFFETTE DA DISTURBI PSICHIATRICI - MATTIA MADONIA

Vite indegne di essere vissute: è con questa frase che la Germania nazista giustificava la soppressione di individui affetti da malattie mentali o disturbi genetici, portando avanti le proprie teorie di eugenetica attraverso il programma Aktion T4, che ha causato la morte di 200mila persone e la sterilizzazione di altre 400mila. In Italia non abbiamo mai raggiunto questi numeri, ma sotto il regime fascista abbiamo comunque assistito nel 1940 alla deportazione di quasi 300 ricoverati psichiatrici altoatesini con cittadinanza tedesca verso i campi di concentramento in Germania e tra il 1942 e il 1945 alla morte di migliaia di pazienti – tra i 24 e i 30mila – nei manicomi per semplice mancanza di cure e assistenza. Inoltre, il regime usava i manicomi con fini politici, condannando gli oppositori del fascismo a reclusioni forzate in condizioni terribili (che venivano costantemente riservate ai malati).

Fino al 1978 e alla legge Basaglia la regolamentazione sugli istituti manicomiali era regolata dalla legge Giolitti del 1904, che stabiliva i motivi dell’internamento riconducendoli alla pericolosità sociale e al pubblico scandalo. La legge non serviva per aiutare i cosiddetti “alienati”, ma per tenerli lontani dalla società attraverso una funzione detentiva e non curativa. Il malato psichiatrico non aveva alcun diritto né durante l’internamento né nei rari casi di rilascio, quando affidato a un tutore si vedeva comunque privato dei suoi diritti civili: il diritto a ereditare, a sposare, a comprare e a vendere, ad amministrare il proprio patrimonio, a votare, a essere genitore. Con l’ascesa del fascismo i manicomi si riempirono di dissidenti, nemici del regime, avversari scomodi e soggetti da silenziare.

 

Nel libro di Matteo Petracci I matti del duce. Manicomi e repressione politica nell’Italia fascista, viene spiegato come questa repressione sia stata poi sfruttata per la costruzione dello stato totalitario. Gli antifascisti venivano considerati anti italiani e portatori di idee malsane, dunque pazzi. Gli oppositori andavano controllati ed esclusi dalla società, e come motivazione per gli internamenti ci si appellava alla devianza sociale, termine generico che comprendeva anche il vagabondaggio, l’alcolismo e l’ozio. Il motto “ordine e disciplina” si traduceva in un controllo capillare dei comportamenti dei singoli cittadini, con il potere di scegliere chi eliminare dalla vita pubblica e come punirlo. A farne maggiormente le spese sono state le donne.

Attraverso gli schedari clinici abbiamo la testimonianza dei motivi per cui migliaia di donne sono state internate. Nel saggio di Annacarla Valeriano Malacarne sono spiegate con cura le dinamiche dei ricoveri coatti delle donne durante il fascismo, con la sintomatologia riportata nelle cartelle cliniche con voci che adesso appaiono inverosimili, ma che all’epoca erano indizio di devianza sociale: stravagante, loquace, capricciosa, erotica, smorfiosa, piacente, civettuola. Secondo il fascismo il ruolo della donna era quello di madre e moglie, come esposto da Mussolini nel discorso dell’ascensione del 1927: una figura sottomessa, costretta a rispettare i codici etici e morali di un regime che la voleva angelo del focolare. In caso contrario rischiavano di essere considerate improduttive o folli, con il conseguente internamento coatto.

Molte delle donne finite nei manicomi venivano considerate delle madri snaturate. Erano quelle donne che, in seguito a numerose gravidanze, non volevano più figli, o che lavoravano per ore nei campi e non erano in grado di stare dietro alla prole e ai lavori di casa. Venivano quindi definite contro natura, secondo la logica che riconduceva le donne alla sola funzione riproduttiva. Finivano nei manicomi anche le donne che mostravano “esuberanza sessuale”, e che quindi andavano rieducate e ricondotte all’ordine. Il sesso non era solo un tabù, ma motivo di stigma sociale: a eccezione delle prostitute, le donne non potevano parlarne in alcun modo. 

 

In quegli anni una persona fu contemporaneamente considerata donna instabile, madre snaturata e nemica di Mussolini: Ida Dalser. La sua storia è stata raccontata nel film di Marco Bellocchio Vincere, con Giovanna Mezzogiorno e Filippo Timi. Dalser ebbe nel 1915 una relazione con Mussolini – che dal 1910 conviveva con Rachele Guidi e che sposò nel 1915 –, dalla quale nacque il figlio Benito Albino. Dalser provò per anni a presentargli Benito Albino, ma non fu mai ricevuta. Una volta salito al potere, Mussolini impose delle misure restrittive per Ida Dalser, cercando di insabbiare una vicenda per lui scomoda. Dasler non si arrese, scrisse lettere ai giornali e provò a raggiungere più volte Mussolini, che decise dunque di farla internare in un manicomio. Benito Albino passò il resto della vita senza rivedere la madre, che morì in manicomio nel 1937. Anche a lui toccò la stessa sorte nel 1942, dopo essere stato rinchiuso in un istituto psichiatrico a Mombello di Limbiate, in provincia di Milano.

All’interno dei manicomi i metodi per portare “sulla retta via” i malati erano delle terapie violente e lesive anche a livello fisico. Non esistendo ancora gli psicofarmaci, ci si affidava principalmente alla malarioterapia, inoculando la malaria per provocare uno shock nel malato, che pativa i sintomi della malattia con febbre fino a 42 gradi, delirio e debilitazione fisica. Dal 1938 venne usato anche l’elettroshock, ma quell’anno passò alla storia per le leggi razziali, che coinvolsero direttamente la Società Italiana di Psichiatria.

La Società Italiana di Psichiatria prima del 1932 si chiamava Società Italiana di Freniatria, e nel 1925 l’allora presidente Enrico Morselli fu uno dei firmatari del Manifesto degli intellettuali fascisti. Il suo successore, Arturo Donaggio, nel 1938 firmò il Manifesto degli scienziati razzisti, nel quale viene innalzata la figura della razza ariana, che includeva anche quella italiana, e descriveva come inferiori tutte le altre. Fu una svolta anche nella psichiatria italiana, perché molti tra i suoi principali esponenti dei decenni passati erano ebrei, come Cesare Lombroso, tra i fondatori proprio della Società Italiana di Freniatria. Gli italiani ebrei furono privati dei loro titoli professionali, e così avvenne anche per molti psichiatri, come Giuseppe Muggia, direttore dell’ospedale psichiatrico di Bergamo che venne arrestato e deportato ad Auschwitz nel 1944, dove fu ucciso.

Durante la Seconda guerra mondiale iniziarono i prelevamenti di pazienti ebrei negli ospedali psichiatrici italiani, soprattutto nel Nord Est ancora occupato dalle forze nazifasciste dopo l’8 settembre del 1943. Con la complicità delle istituzioni e della Società Italiana di Psichiatria, si svolsero dei veri e propri rastrellamenti nei manicomi da parte delle Ss. Sono state ritrovate delle cartelle cliniche dell’ospedale psichiatrico di Trieste dove alla voce “dimissione” è segnato: “Il dì 28 marzo 1944, prelevato manu militari da una formazione delle Ss, parte per destinazione ignota”. Si è poi scoperto che la destinazione era Auschwitz, e che tutti i 39 pazienti prelevati, tranne uno, furono uccisi.

Nei manicomi di tutta Italia, i malati che non venivano prelevati pativano la fame e altri stenti. Il tasso di mortalità nelle strutture era molto più elevato rispetto a quello della popolazione generale, perché ai ricoverati non era garantita un’adeguata assistenza. Mancavano riscaldamento, cibo e medicine, i malati erano ammassati in stanzoni uno accanto all’altro, in mezzo alla sporcizia. Si stima che tra le 24 e le 30mila persone ricoverate nei manicomi persero la vita. Venivano considerate come persone sacrificabili, indegne di essere salvate, e furono lasciate morire.

Soltanto nel 2017 la Società Italiana di Psichiatria si è ufficialmente scusata per le posizioni assunte durante il ventennio fascista. Con una lettera del presidente Claudio Mencacci è stato spiegato che “le vicende della psichiatria in quegli anni è stato uno dei capitoli bui. La Sip si lasciò corrompere e invece di curare ha discriminato, perdemmo la consapevolezza dei nostri obblighi verso la dignità, verso gli individui, di qualunque etnia facessero parte”. La lettera si chiude così: “Di quanto è accaduto ci vergogniamo profondamente. Chiediamo ammenda e ci scusiamo per aver aderito a ideologie che calpestano la dignità dell’uomo giudicandolo sul suo valore della vita. Ci scusiamo con la Comunità ebraica; ci scusiamo per aver contribuito alla stigmatizzazione della nostra disciplina; condanniamo i comportamenti e le scelte dell’allora Presidente Arturo Donaggio e dei membri del Consiglio direttivo”.

Anche se con 79 anni di ritardo, è stato un gesto dovuto e rilevante per ricordare quelle vittime dimenticate, abbandonate a se stesse in nome di ideologie distruttive. La legge Basaglia del 1978 ha stabilito un punto di partenza per ridare dignità a persone un tempo considerate irrecuperabili e socialmente pericolose, rivoluzionando l’organizzazione degli ospedali psichiatrici. È però giusto ricordare un pezzo della nostra storia, quando la dignità dell’individuo veniva calpestata e certe vite per le istituzioni contavano meno, perché “indegne di essere vissute”.

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mercoledì 29 settembre 2021

La rinnegata - Valeria Usala

piccole storie ignobili, a Lolai, un paese sardo così bene inventato che sembra vero. 

ci sono i proprietari terrieri, che hanno le terre e anche le anime che le abitano, sono una loro proprietà, mutatis mutandis come nella Russia zarista, tutto il mondo era paese (chissà se lo è ancora).

ognuno deve stare al suo posto, la mobilità sociale praticamente non esiste, si passa in pochi decenni dalla storia immobile in saecula saeculorum al capitalismo di rapina, l’accumulazione primaria di terre e risorse naturali.

Maria e Teresa, in modi diversi, sono vittime di un mondo nel quale la parola femminismo non esisteva ancora neanche nei cruciverba, e dignità e libertà erano parole per pochi.

il presente ha radici nel passato, e fare i conti col passato, o anche soltanto ricordarlo, è necessario.

Valeria Usala lo fa, scrivendo, come si deve.

 

 

 

Mentre seguiamo questa storia, osserviamo accanto alla protagonista gli sguardi degli altri, dei compaesani, che si stringono addosso a Teresa, la giudicano, provano a spogliarla della sua fierezza, per invidia delle sue ricchezze e della sua bellezza, ma forse anche e soprattutto della sua forza d'animo. Presagiamo il dramma e al tempo stesso vorremmo arrivare a scoprire che cosa avviene e rimandare il più possibile questo momento. Commozione e rabbia si mescolano in questa lettura, ma a questi si aggiunge una prepotente ammirazione per la capacità di Valeria Usala di portarci lontano nel tempo e nello spazio, dentro sentimenti atavici, ma anche dentro parole, usi e costumi locali. Se è indubbio l'omaggio alla Sardegna (e alla sua letteratura), in La rinnegata distinguiamo uno stile autonomo, che ora sa farsi lirico ora più realistico e duro, ora testimonia il passo delle grandi storie di un popolo. E ringraziamo che, proprio come la sua protagonista, Valeria Usala ha vacillato, considerando che «l'esistenza, in fin dei conti, è solo un ricordo sbiadito dentro i cuori altrui» (p. 25), perché così ha trovato la forza per trasferire sulla carta una storia che sopravvivrà al tempo e che, speriamo, possa far conoscere l'autrice nel panorama letterario.

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La rinnegata è la storia di Teresa, giovane donna sposata con Bruno. Rimasta orfana da piccolina, cresce in casa dei signori Collu, una ricca famiglia sarda benestante. Le sue origini sono povere, ma con fatica e tanto impegno riesce ad aprirsi un emporio e una taverna e a vivere serenamente. Le malelingue, però, sono sempre in agguato e non accettano che una donna forte e determinata riesca a risollevare le sue sorti con ingegno e duro lavoro. Ecco che Teresa dovrà combattere contro tutto il paese, tutti tranne Maria, la strana bruja che vive isolata e con un ingombrante passato sulle spalle. La bellezza e l’intraprendenza per una donna sono insieme dolcezza e condanna, soprattutto se attirano invidia tra le donne e incutono timore negli uomini…

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…La protagonista de La rinnegata di Valeria Usala (Garzanti, 2021) è una “bruja”. In un piccolo paese della Sardegna, dove lo sguardo degli uomini può diventare invadente e quello delle donne s’insinua spesso malevolo, Teresa, bellissima e fiera cammina lungo il selciato a testa alta, sfrontata e indifferente all’opinione altrui. Ma se la voglia di libertà non ha una terra promessa, l’arroganza che conferisce un fascino impenetrabile e oscuro, provoca, indispettisce e avvelena. Maria, altra figura importante è “bruja” anch’essa, è l’inizio e la fine di una storia travolgente, profumata di mirto.

Valeria Usala disegna uno splendido affresco della sua terra e lo fa con garbo, eleganza e poesia: rime bellissime all’inizio e alla fine di questo romanzo abbracciano una scrittura suggestiva che libera il suono dell’acqua che scorre, fluida e travolgente come la storia raccontata.

Leggere questo libro è stato come osservare un’opera d’arte di Remo Branca; uno di quei quadri dai colori forti e un po’ cupi, ma che con immensa grazia disegnano uno sguardo incantevole e profondamente delicato, quello sguardo che parla e racconta la bellezza e il dolore, come allora e come oggi.

da qui

 

Il romanzo di Valeria Usala, ambientato in un passato non ben definito e in un’isola che è per sua stessa natura lontana, remota, distante, è di enorme attualitàTeresa e Maria sono le donne dissidenti di ogni tempo e di ogni luogo che rifiutano la storia scritta da altri per loro, che hanno il coraggio di guardare il mondo a testa alta e di darsi valore a prescindere dalla presenza di un uomo, quelle stesse donne che, come nel romanzo, dove le parole di condanna più crudeli hanno voce femminile, anche nella vita reale spesso incontrano l’opposizione più dura nelle parole, nel giudizio e nell’atteggiamento delle altre donne, quelle integrate, che non provano o hanno rinunciato ad immaginare un futuro a misura dei propri ideali, vittime di maschilismo interiorizzato che si trasformano in aguzzini e carnefici.
Un esordio splendido ed indimenticabile, un romanzo crudele e necessario, che non può lasciare indifferenti.

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29 settembre - Equipe 84

domenica 26 settembre 2021

Ragazze e ragazzi fanno i conti con l’ansia per la crisi climatica - Laurie Goering

 

              

A mano a mano che i cambiamenti climatici causano un aumento di disastri mortali – e con gli avvertimenti degli scienziati sul peggio che deve ancora arrivare – i giovani si trovano a fare i conti con una crescente ansia ecologica per il futuro del pianeta e delle loro vite. Lo affermano alcuni psicologi in uno studio pubblicato in preprint sulla rivista medica The Lancet.

I loro sentimenti di rabbia, paura e impotenza non derivano solo dai danni ambientali ma soprattutto dalla mancanza di volontà, da parte degli adulti, di fermarli. E questo nonostante le molte soluzioni disponibili e la schiacciante evidenza dei rischi esistenti, sostiene la ricerca.

“L’ansia ecologica è un segnale di salute mentale, una risposta decisamente appropriata a quel che sta accadendo”, dice Caroline Hickman, psicoterapeuta e principale autrice dello studio internazionale. Secondo Luisa Neubauer, un’attivista tedesca del movimento studentesco Fridays for future (che torneranno in piazza nelle città il 24 settembre), l’inerzia dei leader mondiali nei confronti del riscaldamento globale è un qualcosa di “troppo grande da gestire o da accettare. Che impatto ha sui giovani vedere il mondo sgretolarsi quando abbiamo delle soluzioni disponibili e sappiamo come fermare la crisi? Lo stato ci sta spingendo nel baratro”, afferma.

Ecco i risultati dello studio, condotto su diecimila bambine, bambini e adolescenti in dieci paesi del mondo.

 

Quanti giovani sono preoccupati e quanta paura hanno?

Più della metà delle persone intervistate – in paesi come India, Brasile, Nigeria, Regno Unito, Australia e Stati Uniti – ha dichiarato di temere per la sicurezza della loro famiglia e che l’ansia influenza la loro capacità di dormire, studiare, mangiare o giocare.

Quattro su dieci hanno dichiarato che la crisi climatica li rende incerti sull’avere dei figli, e oltre la metà di loro ha ammesso di ritenere che l’umanità sia “spacciata”.

“Siamo rimasti sconcertati di fronte a queste percentuali, alle proporzioni dell’angoscia”, racconta Hickman, che fa parte del comitato organizzativo della Climate psychology alliance nel Regno Unito.

Ragazze e ragazzi delle Filippine – colpiti da cicloni sempre più gravi – e del Brasile – un paese vittima della deforestazione – sono i più preoccupati: tra loro lo sono nove su dieci. Ma anche quelli che vivono in paesi più ricchi hanno segnalato alti livelli d’angoscia. “Penso che le persone siano sempre più consapevoli di quanto sia minaccioso, specialmente per una persona giovane, guardare alla vita che l’aspetta sapendo che trascorreremo ogni singolo anno in piena crisi climatica”, dice Neubauer.

 

Quanto sono frustrati e impauriti?

Le ricadute sulla quotidianità di questi livelli alti di ansia e la sensazione di tradimento “colpiranno inevitabilmente la salute mentale dei bambini e dei giovani”, sostiene lo studio.

Alcuni psicologi hanno suggerito che aiutare i giovani preoccupati a intraprendere azioni significative per affrontare la crisi climatica – dal partecipare a manifestazioni al mangiare meno carne – può ridurre i sentimenti d’impotenza e proteggere la loro salute mentale.

Ma Hickman sostiene che “curare l’ansia ecologica solo agendo in modo sostenibile non è sufficiente”. Secondo la psicoterapeuta è una “soluzione semplificata”, che non affronta il vero problema, e cioè la necessità che i governi agiscano in fretta.

Neubauer si aspetta che nel lungo termine queste pressioni sui giovani possano far impegnare ancora di più alcuni di loro, ma portare tanti altri a disimpegnarsi. “Di questi tempi è facile perdere la fiducia nello stato e nella politica, perché ci stanno deludendo”, dice. “Ma è anche facile finire per disinteressarsi totalmente, dirsi che la situazione è talmente difficile che è impossibile affrontarla, smettere di volersi informare. Vedremo persone che vorranno fuggire dalla crisi e dall’inerzia con cui viene affrontata”, prevede.

 

Lo studio può aiutare i giovani a proporre delle azioni legali sul clima?

Giovani attivisti, dal Portogallo alla Colombia, passando per gli Stati Uniti, sono all’origine di un numero crescente di petizioni e cause legali per chiedere un’azione più rapida sul cambiamento climatico, di solito per motivi che hanno a che fare la difesa dei diritti umani.

L’anno scorso, per esempio, sei bambini e giovani adulti portoghesi hanno chiesto alla Corte europea dei diritti dell’uomo d’intimare a 33 paesi di applicare tagli più decisi delle emissioni di CO2, spiegando che le risposte inadeguate dei governi mettono in pericolo il loro futuro.

La stessa Neubauer è stata la principale querelante in una causa nota, che ad aprile in Germania ha spinto la corte costituzionale a dichiarare “incompatibile con i diritti fondamentali” il piano climatico del paese, costringendo il governo ad aumentare i tagli alle emissioni. “La corte ci ha sorpreso, sposando davvero la nostra causa e dicendo che non agire oggi danneggerà la libertà e la sicurezza di domani”, due elementi garantiti dalla costituzione.

Secondo Hickman, più in generale “il disagio psicologico potrebbe essere considerato una violazione dei diritti umani. I nostri risultati ci mostrano che esiste un danno morale per i bambini e i giovani”.

 

Cosa potrebbe ridurre i rischi per la salute mentale dei giovani?

Quel che farà davvero la differenza sarà spingere molte più persone a considerare la crisi climatica come una questione che le riguarda da vicino e costringere effettivamente i governi al cambiamento, dice Neubauer. “Dobbiamo fare più pressione. Bisogna che più persone adulte capiscano che questo è anche un loro problema. Che lo è per tutti”.

In questo momento l’idea che i giovani da soli possano in qualche modo “risolvere” la crisi climatica è un fardello pesante da sostenere. “Non saremo noi a risolverla. Stiamo facendo tutto quello che possiamo, ma non sarà sufficiente. Abbiamo bisogno di tutti”.

Hickman concorda sul fatto che aumentare la pressione sui governi e su altre istituzioni che hanno il potere di portare avanti una vera azione contro la crisi climatica sia il modo più semplice per abbassare la pressione sulla salute mentale di bambini e adolescenti.

“Vogliamo ridurre l’ansia ecologica tra giovani e ragazzi, facendola crescere tra i ministri”, dice. “Dobbiamo dire ai governi: ‘Dov’è la vostra coscienza?’”.


(Traduzione di Federico Ferrone)

Questo articolo è stato pubblicato dalla [Thomson Reuters foundation](http://How climate inaction is driving a mental health crisis in children).

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Obbligati a immunizzarci - Enrico Euli

Com’era prevedibile, siamo arrivati all’obbligatorietà del Green pass. Va a sommarsi agli altri dispositivi di protezione (e non a sostituirli). E lo si vuole presentare come fonte e garanzia di libertà. Si conferma, e con ancor più rigidità, che la democrazia non può più consistere nella libertà, ma nella liberazione e, in primo luogo, proprio del “liberarsi della libertà”. Ormai infatti la “libertà” non è altro che la “salute”. E la salute non è altro che la capacità di produrre e consumare.

Il Green pass non ha alcun valore sanitario (per questo sarebbe stata sufficiente una certificazione vaccinale): il suo compito è ricattare chi non si sarebbe vaccinato, di controllare chi si è vaccinato, di “tenere aperti” i luoghi della produzione e del consumo, compresi quelli dell’industria culturale, scuola e spettacoli. Con la consueta lucidità, Alessandro Baricco ha delineato la situazione attuale: La chiglia che abbiamo costruito. Personalmente, il mio punto di resistenza di cui lui parla, non è sui vaccini. Anche se resto critico su varie questioni (Big Pharma e brevetti, monocultura vaccinale a discapito di altri tipi di cure, disinvestimenti sulla sanità territoriale). Per me, la fine di ogni società aperta (anche soltanto liberale, alla Popper) risiede nella digitalizzazione totalitaria e, in particolare, nella diffusione di devices orientati alla socializzazione virtuale e alla gamificazione del mondo. Il Covid ha soltanto accelerato il processo, e il Green pass – ben più pericoloso del vaccino – giunge nel bel mezzo di un processo già in corso da tempo, e a cui – mi pare – ben pochi si sottraggano, compresi gli stessi cosiddetti no-vax. Questo è per me incomprensibile e mi allontana dalle loro proteste.

Anche perché, nel tentativo, destinato al fallimento, di evitare il fascismo delle èlites finanziarie, apriranno proprio ad esse la strada dei nuovi governi guidati da partiti esplicitamente (e non più solo implicitamente, come oggi) di destra. Così come già accadde nei primi decenni del secolo scorso.

Ci troviamo quindi schiacciati tra due possibili neofascismi, senza una terza possibilità. Nella società immunizzata, caratterizzata dall’esonero e dall’esenzione rispetto agli obblighi etici e sociali (soprattutto per coloro che ci dominano), veniamo ulteriormente colpiti da obblighi da cui non possiamo esentarci, pena la perdita del lavoro, del denaro e dell’inclusione. Solo pochi eroi o pochi eremiti si stanno rifiutando apertamente, a costo dei loro interessi. Tutti gli altri stanno silenti o cercano di limitare i danni, chiedendo limitazioni o ripensamenti. O proseguono a protestare nelle piazze e sui social. Ovviamente, senza alcun risultato. La decisione è presa, e non si torna indietro. I tempi delle mediazioni e delle argomentazioni sono trascorsi da tempo. Le democrazie liberali lasciano il passo, definitivamente, alle postdemocrazie liberiste. È un segnale chiaro sul nostro prossimo futuro.

Come prepararsi alla conversione ecologica - Guido Viale

 

 


      Sleepy Mario (Draghi), su impulso di Sleepy Joe (Biden), si è svegliato accorgendosi finalmente della crisi climatica. Non ne sa nulla; non ne ha mai parlato nel corso della sua carriera; non ci ha mai neppure pensato. Per adempiere ai doveri che lo hanno fatto amministratore dei programmi NextGenerationEU e Fitfor55 (un sacco di soldi, ma anche un sacco di cose da fare), si è affidato a un «uomo di relazioni», esperto (forse) in robotica, che di transizione ecologica (il suo ministero) non si era mai occupato. E che in sette mesi di governo non ha fatto che diffondere sciocchezze sulla fusione nucleare, la fissione senza scorie, l’idrogeno grigio-blu, il metano, il CCS, gli inceneritori, le automobili di lusso, i «bagni di sangue» e altro ancora, qualificandosi come il peggior nemico della transizione di cui dovrebbe occuparsi. Insieme, peraltro, a un collega incaricato di sperperare, in nome della «mobilità sostenibile», una montagna di denaro in autostrade, alta velocità, ponti, gallerie e quant’altro può contribuire ad aumentare le emissioni climalteranti invece di ridurle. Se è questo lo staff che deve incamminarci sulla strada della conversione ecologica siamo fritti.

No problem – dicono e non dicono, ma pensano – l’Italia conta per l’1 per cento delle emissioni; l’Europa per il 9. Impossibile che nel frattempo tutti gli altri rispettino l’accordo di Parigi. Quindi l’impatto delle nostre inadempienze sarà minimo. Ma non è così: le vere misure di conversione ecologica non servono solo a mitigare i cambiamenti climatici; servono soprattutto all’adattamento alle condizioni in cui si troveranno a vivere le next generation.

L’energia generata localmente da fonti rinnovabili e gestita da comunità energetiche ci renderà indipendenti dalle turbolenze del mercato dei fossili (di cui abbiamo un pallido esempio nell’aumento del prezzo del metano); l’agricoltura, convertita al biologico, alla piccola taglia, alla multicoltura e alla prossimità, fornirà una base sicura a un’alimentazione sempre più esposta alla crisi climatica e della biodiversità; la mobilità, affidata a sistemi di trasporto condivisi e flessibili (di massa e a domanda) garantirà, insieme alla trasformazione delle aree urbane in «città dei 15 minuti», una mobilità che l’auto privata ostacola già oggi e che la rottura delle forniture (oggi i microchip, domani il litio e altro ancora) metterà in forse; un’edilizia sostenibile – affidata alla valorizzazione del già costruito, senza più consumo di suolo, e a interventi capillari di efficientamento energetico – contribuirà all’autonomia e alla vivibilità della vita urbana.

Bisognerà chiudere molti impianti nocivi o destinati a produzioni incompatibili con la salvaguardia del pianeta – a partire dalle fabbriche di armi – ma bisognerà aprirne o riconvertirne molti altri per produrre i mezzi necessari alla conversione: non è detto che il conto in termini di occupazione sia in pareggio ovunque, perché la riconversione non riguarda singole fabbriche ma intere filiere. Per questo ogni comunità dovrà garantire che nessuno resti senza reddito.

È un orizzonte del tutto estraneo all’establishment che oggi controlla il mondo, ma anche alla maggior parte degli abitanti che governa. Cingolani, come tutti i suoi colleghi degli altri paesi, non si è mai preoccupato di far sapere che il tempo stringe, che il cambiamento dei nostri stili di vita deve essere radicale, che bisogna rivedere gran parte dell’apparato produttivo, a partire dai nostri rapporti con la vita sulla Terra, che il vero «bagno di sangue» avverrà se non si assumono le misure indispensabili. Chi mai ci avvierà, allora, su questa strada? Solo un processo di autoformazione svolto in forma collettiva e finalizzato alla individuazione e alla messa a punto delle soluzioni da adottare – impianto per impianto, azienda per azienda, filiera per filiera, territorio per territorio – sottoponendole alla verifica delle forze attive di ogni comunità; a partire, ovviamente, dai punti di maggior crisi. In incontri che mettano a confronto tecnici, maestranze, cittadinanza, amministrazioni locali, associazioni, studenti e quant’altro.

Si tratta di indire molte «conferenze di produzione» come quelle promosse un tempo dal Partito comunista italiano per competere con il padronato nella promozione dello «sviluppo». Oggi però la prospettiva è completamente diversa: non si tratta di spingere la crescita, ma di imboccare le vie per riconciliarsi con i cicli vitali della Terra. La conversione ecologica non può che scaturire da un concorso di contributi, personali e collettivi, per valorizzare ciò che ogni territorio può mettere in campo. Poi, e solo poi, si potrà imporre anche ai governi un vero cambio di rotta.


Pubblicato su il manifesto del 23 settembre

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venerdì 24 settembre 2021

La mia biblioteca. Chiacchierata sul collezionismo - Walter Benjamin (1931)

 

La mia biblioteca. Chiaccherata sul collezionismo - Walter Benjamin (1931)

 

 


Disimballo la mia biblioteca. Già. Non è ancora sulle scansie, avulsa ancora dalla lieve noia dell'ordine. Non posso percorrerne le file, per passarle in rassegna ante benevoli lettori (ciò non avete da temere). Bensì devo pregarvi di trasferirvi con me nel disordine di casse disserrate, nell'aria satura di polvere di legno, sul pavimento ricoperto di carte strappate, fra i mucchi di volumi riportati alla luce del giorno dopo due anni di oscurità, per condividere un po' del senso di anticipazione (anziché elegiaco) che i libri destano in un autentico collezionista. Infatti tale è chi vi parla e parla, perlopiù, solo di sé. Non sarebbe guasco (millantando finte spassionatezza e oggettività) enumerarvi qui i pezzi migliori o le sezioni principali di una biblioteca, o spiegarvi la storia della sua formazione nonché come giovi allo scrittore? Invece io miro a un che di più evidente, di più tangibile; ciò-che-mi-sta-a-cuore è darvi un'idea del nesso fra un collezionista & sua raccolta, un'idea del collezionismo anziché di una particolare collezione. Che lo spunto siano i diversi modi di procurarsi libri è affatto arbitrario. Tale svolgimento del discorso è (come tutti) solo un argine contro l'alta marea dei ricordi che ricopre ogni collezionista che contempli i suoi beni. Ogni passione confina col caos, ma la passione del collezionista confina col caos dei ricordi. Di più: caso e destino (che per me colorano il passato) ricorrono insieme, in modo sensibile, nel consueto disordine di tali libri. Cosa infatti è tale possesso se non un disordine con cui la consuetudine si è così familiarizzata da poter apparire come un ordine? Sono note persone ammalatesi per la perdita dei propri libri o altre che ne hanno acquisiti con delitto. Proprio in tali ambiti, ogni ordine è solo uno stato di precarietà assoluta. Anatole France dice:

«Esiste un solo sapere esatto: l'anno di pubblicazione e il formato dei libri».

In effetti all'assenza di regole di una biblioteca corrisponde la conformità a regole del suo catalogo.

Così l'esistenza del collezionista è una tensione dialettica fra i poli dell'ordine e del disordine.

Beninteso: è legata pure a tante altre cose. Ha un rapporto assai enigmatico con la proprietà (su cui dovrò tornare); e un rapporto con le cose che (slegato dal valore funzionale: la loro utilità, adoperabilità) le studia e le ama come la scena, il teatro del loro destino. È l'incantesimo più profondo del collezionista serrare il singolo oggetto in un cerchio magico in cui esso s'irrigidisce, mentre l'ultimo brivido (il brivido del venir acquistato) tosto lo lascia. Tutto ciò che è ricordato, pensato, saputo muta in basamento, cornice, piedistallo, sigillo della sua proprietà. Epoca, luogo, fabbrica, proprietario precedente: tutte tali cose insite ogni singolo oggetto della sua proprietà, per il vero collezionista, si fondono in una magica enciclopedia la cui essenza è il destino dell'oggetto. In tale ristretto ambito si può presagire come i grandi fisiognomici (e i collezionisti sono fisiognomici del mondo delle cose) diventino interpreti del destino. Basti osservare come un collezionista maneggi gli oggetti della sua vetrina. Tostoché li afferri, pare guardare ispirato attraverso di loro, nel loro passato remoto. Tanto potrei dire del lato magico del collezionista, della sua figura di vegliardo.

La frase Habent sua fata libelli forse riguarda i libri in sé. Libri quali la Divina Commedia o l'Etica di Spinoza o L'origine delle specie hanno il loro destino. Ma il collezionista interpreta diversamente tale detto latino: ad avere un destino sono le COPIE anziché i libri. E per lui il destino più importante di ogni copia è l'aver incontrato lui e la sua collezione. Non esagero: per l'autentico bibliomane acquistar un vecchio libro significa resuscitarlo. Proprio qui sta il tratto infantile che nel collezionista si compenetra con quello del vegliardo. Infatti i bambini hanno la capacità di rinnovare l'esistenza in centinaia di modi infallibili. Per i bambini collezionare è un metodo di rinnovamento fra tanti (come dipingere gli oggetti, ritagliare, metter adesivi; insomma l'intera sfera dei modi infantili di acquisizione: dal toccare al denominare). Rinnovare il mondo antico: ecco il profondo desiderio del collezionista quando ha l'impulso d'acquisir cose nuove. Indi il collezionista di libri antichi è più vicino all'origine del collezionare di chi compra edizioni di lusso.

Ora serve spiegare: come i libri varcano la soglia di una collezione e divengono proprietà di un collezionista? Qual è la storia del loro acquisto?

Tra tutti i modi di procurarsi dei libri, si stima il più lodevole scriverseli da sé. Ciò farà volentieri ricordare la grande biblioteca che Wuz (il povero maestrino di scuola di Jean Paul) si procurò col tempo scrivendosi da sé tutte le opere i cui titoli nel catalogo della Fiera lo avevano interessato ma non poteva permettersi. Invero gli scrittori non scrivono libri per povertà, bensì perché scontenti di quelli che potrebbero comprare ma non gli piacciono. Parrà questa una definizione svitata di scrittore. Ma è svitato tutto ciò che si dice dal punto di vista di un vero collezionista. Tra i modi usuali d'acquisto, il più abile per il collezionista sarebbe prenderli in prestito senza restituirli. Chi prenda in prestito libroni (come ce li immaginiamo) risulta un incallito bibliomane più per il fatto che i libri non li legge che per il fervore con cui custodisce il tesoro arraffato e per la sordità con cui accoglie gli avvisi della banale quotidianità della vita giuridica. So per esperienza che qualcuno mi abbia riportato un libro dato in prestito senza leggerlo. Mi chiederete: sarebbe una caratteristica del collezionista non leggere libri? Che novità. No. Gli esperti provano che è cosa antichissima. Mi basta citare la risposta che di nuovo France dava al borghesuccio che ammirava la sua biblioteca, per concludere poi con la domanda obbligata:

«E li ha letti tutti, signor France? – Manco un decimo. O forse lei mangia tutti i giorni col suo servizio di Sèvres?».

La legittimità di un tale atteggiamento ho verificata io stesso. Per anni (almeno per il primo terzo della sua esistenza finora) la mia biblioteca constò di non più di due o tre file che crescevano solo di pochi centimetri all'anno. Questa era la sua epoca marziale, vietante l'accesso ad ogni libro senza garanzia di averlo letto. Così mai sarei giunto alle dimensioni di una biblioteca, senza l'inflazione che (tosto spostato l'enfasi delle cose) mutò i libri in valori materiali, assai difficili da acquistare. Così almeno parse in Svizzera. E da lì feci in extremis i miei primi ordini di libri, riuscendo a salvare cose insostituibili come Il cavaliere azzurro o Il mito di Tanaquilla di Bachofen (allora ancora disponibili appo l'editore).

Dopo tanti giri in lungo e in largo, si dirà, dovremmo infine arrivare sulla strada maestra dell'acquisizione dei libri: l'acquisto. È una strada sì ampia, ma scomoda. L'acquisto del bibliomane ha poco in comune con quelli fatti in libreria dallo studente che si procura un manuale, dal signore di mondo che fa un regalo alla sua dama o dall'uomo d'affari che vuol alleviar la durata del prossimo viaggio in treno. I miei acquisti più memorabili li ho fatti in viaggio, da turista. Proprietà e possesso esigono una loro tattica. I collezionisti sono persone con un istinto tattico; secondo la loro esperienza, quando assaltano una città straniera, la più piccola bottega di un antiquario sta per un fortino e la più sperduta cartoleria per un posto nevralgico. Tante città mi si sono rivelate durante le mie marce a caccia di libri.

EEppure solo una parte degli acquisti più importanti avviene in negozio. Un ruolo più importante spetta ai cataloghi. E benché l'acquirente conosca un libro ordinato da un catalogo, il singolo esemplare resta sempre una sorpresa e l'ordine un azzardo: accanto a delusioni cocenti stanno felici ritrovamenti. Ricordo che un giorno ordinai un libro con illustrazioni a colori per la mia vecchia raccolta di libri per l'infanzia solo perché conteneva fiabe di Albert Ludwig Grimm e il suo luogo di pubblicazione era Grimma (in Turingia). Ebbene: di Grimma era originario un altro libro di favole (curato sempre da codesto Albert Ludwig Grimm) la cui copia in mio possesso era con le sue sedici illustrazioni l'unica testimonianza degli esordi del grande illustratore tedesco Lyser (vissuto ad Amburgo nella metà del secolo scorso). Bene, la mia attenzione all'assonanza dei nomi fu giusta. Riscoprii così i lavori di Lyser, specie un'opera (Linas Märchenbuch [Il libro di fiabe di Lina]), ignota a tutti i suoi bibliografi, e degna di una trattazione più dettagliata di questo mio primo accenno.

L'acquisizione di libri non è solo questione di denaro o competenza. Neppur insieme bastano per creare una vera biblioteca, che ha sempre un che di inafferrabile e di unico. Chi compri tramite i cataloghi (nonché le qualità menzionate) deve aver fiuto. Date, nomi di luoghi, formati, precedenti proprietari, rilegature ecc., tutto deve dirgli qualcosa, in modo armonioso, non sfuso; dal nitore di tale armonia deve capir se un libro fa per lui o no. Un'asta esige dal collezionista capacità ulteriori. Al lettore del catalogo parla solo il libro e, se la provenienza della copia è certa, tuttalpiù il precedente proprietario. Chi partecipi a un'asta deve tener altrettanto in cale il libro e i concorrenti, nonché mantenere i nervi saldi per non accanirsi nella lotta. Capita spesso di ritrovarsi costretti a un pagamento eccessivo per aver offerto più di tutti, non tanto per acquistare il libro quanto per vincere l'avversario. Invece è fra i ricordi più belli del collezionista l'attimo in cui comprò un libro (a cui in vita sua mai aveva rivolto un pensiero o un desiderio), solo perché stava abbandonato a sé stesso in balia del mercato, per donargli la libertà come il principe fa con una bella schiava ne Le mille e una notte. Infatti per il bibliomane la libertà di tutti i libri sta dovechessia sulle sue scansie.

Monumento della mia esperienza più eccitante ad un'asta sta ancor oggi nella mia biblioteca, su lunghe file di volumi francesi, La pelle di zigrino di Balzac. Fu nel 1915 all'asta della collezione Rümann tenuta da Emil Hirsch, uno dei più grandi conoscitori di libri ed insieme uno dei commercianti più distinti. L'edizione in questione uscì nel 1838 a Parigi, place de la Bourse. Al prender in mano la mia copia, vedo (nonché il numero della collezione Rümann) l'etichetta della libreria in cui, oltre 90 anni fa, il primo acquirente lo comprò a circa un ottantesimo del suo valore attuale. Cè scritto “Cartoleria I. Flanneau”. Bei tempi, quando in una cartoleria si potevano ancora comprare opere così preziose; infatti le siderografie di tale libro sono state disegnate dal più gran disegnatore francese e realizzate dai più grandi incisori. Ma è la storia dell'acquisto che racconto. Ero andato da Emil Hirsch per una visita preliminare, mi ero fatto passare fra le mani quaranta o cinquanta volumi, questo però con l'acceso desiderio di non farmelo scappare. Venne il giorno dell'asta. Un caso volle che nell'ordine di licitazione apparisse (prima di questa copia di La pelle dì zigrino) la serie completa delle sue illustrazioni, in tiratura a parte su carta India. Gli offerenti sedevano a un lungo tavolo; in diagonale di fronte a me sedeva l'uomo che attirò su di sé tutti gli sguardi alla prima licitazione: il famoso collezionista monacense, barone Von Simolin. Teneva a quella serie, aveva concorrenti; in breve, si giunse a un'aspra lotta conclusasi con l'offerta più alta di tutta l'asta: più di 3000 marchi. Dal fremito fra i presenti pare che niuno si aspettava una somma sì alta. Emil Hirsch non ci fece caso e (per risparmiar tempo o per altre valutazioni) nell'indifferenza generale passò al numero successivo. Disse il prezzo e io (palpitante sapendo che nulla potevo contro i grandi collezionisti presenti) feci un'offerta poco più alta. Il banditore allora, senza forzare l'attenzione dell'assemblea, passò ad aggiudicare con la formula usuale «Più nessuno?» e i tre colpi di martello (la cui intermittenza mi parve interminabile). Per me, da studente, la somma era comunque eccessiva; ma la mattina successiva al monte di pietà non fa parte di questa storia. Anzi preferisco narrar un fatto che definirei l'aspetto negativo di un'asta. Fu a un'asta berlinese dell'anno scorso. Veniva offerta una serie di libri eterogenea per qualità e argomento, fra cui meritavano interesse solo certe opere rare di occultismo e di filosofia della natura. Feci offerte per diverse di esse, ma per ognuna c'era un signore delle file davanti in attesa di rilanciare e poi seguitare senza limiti. Avendo ripetuto abbastanza questa esperienza, persi la speranza di acquistare il libro che quel giorno mi stava più a cuore. Erano i Frammenti dell'opera postuma di un giovane fisico che Johann Wilhelm Ritter pubblicò in due volumi a Heidelberg nel 1810. L'opera mai è stata ristampata, ma ne stimo l'introduzione (ove il curatore fa un necrologio dell'anonimo autore, presentato come un amico defunto, e che non è altri che lui stesso) la più importante prosa autobiografica del romanticismo tedesco. Nell'attimo in cui fu annunciato il suo numero, mi venne un'illuminazione assai semplice: poiché la mia offerta aggiudicava infallibilmente il libro all'altro, bastava che non facessi alcuna. Mi trattenni; restai muto. Quanto avevo sperato successe: nessun interesse, nessuna offerta; il libro fu ritirato. Stimai saggio far passare qualche giorno. In effetti, quando mi presentai dopo una settimana, trovai il libro dall'antiquario; la mancanza d'interesse dimostratagli mi tornò utile nell'acquisto.

Quanti ricordi si affollano nella mente avvicinandomi alla montagna di casse per trarne i libri alla luce, anzi al buio notturno! Nulla potrebbe esporre il fascino di tale disfare più della difficoltà d'interromperlo. Avevo iniziato a mezzogiorno ed era già mezzanotte prima d'arrivar alle ultime casse. Al che mi finirono fra le mani due volumi rilegati in sbiadito cartone, a rigore non destinabili a una cassa di libri: due album di figurine che mia madre incollò da bambina, e che io ereditai. Sono i semi di una collezione di libri per l'infanzia che cresce ancor oggi, benché non più nel mio giardino. Non c'è biblioteca vivente che non ospiti un certo numero di creature libresche provenienti da aree di confine. Non devono essere album con figurine o album di famiglia, né manoscritti autografi o legature con pamphlet o con testi religiosi; alcuni saranno affezionati a volantini o a prospetti, altri a facsimili di manoscritti o a copie dattiloscritte di opere introvabili; e di certo le riviste possono costituir i bordi prismatici di una biblioteca. Ma per ritornar a quegli album: è proprio un'eredità il modo migliore di farsi una collezione. Infatti l'atteggiamento del collezionista verso gli oggetti della sua raccolta viene dal sentimento d'obbligazione che lega il proprietario alla sua proprietà. Cioè è l'atteggiamento dell'erede, nel senso più elevato. E la nota caratteristica di una collezione sarà sempre rappresentata dalla sua ereditabilità. Dicendo ciò, so (e dovete sapere) quanto il mio discorso sul modo di pensare proprio del collezionare rafforzerà in molti di voi la convinzione dell'inattualità di tale passione, la diffidenza verso il collezionista come tipo sociale. Nulla mi è più estraneo che scuotervi da tale convinzione e da tale diffidenza. Faccio solo notar una cosa: il fenomeno del collezionismo perde il suo senso al venir meno del suo soggetto. Se le collezioni pubbliche possono esser meno controverse dal punto di vista sociale e più utili da quello scientifico rispetto a quelle private allora gli oggetti ottengono i loro diritti. So che è in arrivo la fine pel tipo sociale del collezionista (di cui ho fatto un po' da rappresentante ufficiale). Ma come dice Hegel: la nottola di Minerva (la comprensione) spicca il volo solo di notte (a cose fatte).

Solo estinguendosi il collezionista può essere compreso.

La mezzanotte è passata da tempo e sto davanti l'ultima cassa mezza vuota. Mi vengono pensieri diversi da quelli di cui ho parlato finora. Non pensieri, ma immagini, ricordi. Ricordi delle città in cui ho fatto tante scoperte: Riga, Napoli, Monaco, Danzica, Mosca, Firenze, Basilea, Parigi; ricordi dei sontuosi locali di Rosenthal a Monaco, dello Stockturm di Danzica dove abitava il defunto Hans Rhaue, dell'intanfita cantina di libri di Süßengut a Berlino-Neukölln; ricordi delle stanze in cui tali libri sono stati: la mia camera da studente a Monaco, la mia stanza a Berna; ricordi della solitudine di Iseltwaid sul lago di Brienz e infine della mia camera di ragazzo, da cui provengono solo quattro o cinque delle diverse migliaia di libri stanno per torreggiare intorno a me. Felicità del collezionista, felicità dell'uomo privato! Da nessun altro ci si è aspettato di meno e nessuno è stato meglio di chi ha potuto seguitare a condurre la sua malfamata esistenza, sotto una maschera à la Spitzweg1. Perché nel suo intimo si sono insediati degli spiriti, o almeno degli spiritelli, che fanno sì che per il collezionista (quello autentico intendo, il collezionista come deve essere) il possesso sia il rapporto più profondo che in assoluto si possa avere con le cose. Non che le cose siano viventi in lui, bensì è lui che abita in loro. E io vi ho presentato una delle sue dimore, i mattoni della quale sono i libri; e ora, com'è giusto, egli vi si ritira.

 

Note

1.      Carl Spitzweg è pittore di quadretti di genere, piena espressione del Biedermeier. “À la Spitzweg” sta per l'immagine del buon borghese pacificamente ritirato nella quiete dell'ambiente domestico

 

Traduzione indiretta dall'inglese di: Leonardo Maria Battisti, febbraio 2020. (Fonte: Walter Benjamin: Illuminations, translated by Harry Zohn and edited by Hannah Arendt, Mariner Books, 2019)

 

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