domenica 19 settembre 2021

Leggere distopia in Covidistan - Giulia Abbate

  

Leggere distopia in Covidistan è un titolo che mi sono inventata questo agosto, assistendo con sempre maggiore preoccupazione e indignazione all’incremento della violenza della propaganda, legata alla (mala) gestione dell’emergenza pandemica da parte del governo italiano.

Molto è stato fatto per colpevolizzare, dividere, discriminare, terrorizzare, angosciare, confondere.
Molto meno è stato fatto per migliorare la situazione sanitaria, scolastica e infrastrutturale di questo paese, con interventi organici e di ampio respiro, anche in presenza di risorse finanziarie in più.
Trovo chiaro il fatto che la prima istanza è funzionale alla seconda: si strilla all’untore, innescando la solita guerra tra poveri ansiosi di cascarci, per nascondere che non si sta facendo né si vuole fare il dovuto per cambiare davvero.

Siamo in Covidistan: in un regime emergenziale dove sotto la bandiera strumentale della “guerra al virus” le decisioni vengono prese in modo brutale e poco chiaro, si rivelano fallimentari e peggiorative, e il tutto è nascosto dietro un muro di propaganda assordante. Che bercia di “nemici interni”, ovvero i “renitenti al vaccino”, che, senza rispetto per i “caduti del covid”, “mettono in pericolo tutti” minacciando la “campagna sanitaria”… incantati da questa strombazzante retorica bellica, in molti credono ormai che la guerra da fare sia contro chi dissente.

Eh, bè, questo è un capolavoro della propaganda di potere!


Immagine pubblicitaria cinese - “Se esci fuori oggi, il prossimo anno l’erba crescerà sulla tua tomba” 

Il momento pericoloso nel quale ci troviamo, già oltre la soglia di allerta, è paragonabile a brutte pagine che possiamo leggere nei libri di storia. Anche di storia del futuro: infatti tale deriva è anche oggetto di tantissima letteratura distopica, che se letta in questi giorni può essere uno strumento di demistificazione e di libertà interiore (che secondo me sono indispensabili e precedenti a ogni azione).

Già, la distopia: questa parola fino a pochi anni fa non la conosceva nessuno, oggi invece è comune e mainstream (inteso nel senso più ampio e anche più scadente possibile). Ma siamo sicuri che anche questa fama non nasconda una bugia?

Sin dall’inizio della pandemia, ho sentito dire: “Ormai siamo in una distopia!” e non ho mai amato particolarmente questa espressione.

Intanto, per amore di filologia bisognerebbe dire “siamo in una società distopica”, visto che la distopia è una forma letteraria. Poi, ammalarsi di brutto e vedere morire le persone care è una condizione umana – comune, tra l’altro, in quelle parti del mondo depredate dalla nostra – che non ha necessariamente a che vedere con la distopia, perché quest’ultima non riguarda un futuro peggiorato di tipo generico.

Cos’è la distopia, davvero?

“Nasce in opposizione all’utopia, fin dal nome: consiste nell’immaginare un futuro peggiore del nostro, tramite il quale speculiamo su problematiche e tendenze che vogliamo criticare, o sulle quali vogliamo mettere in guardia i nostri contemporanei. “

(dal “Manuale di scrittura di fantascienza” di Giulia Abbate e Franco Ricciardiello, Odoya)

La distopia è una articolazione della fantascienza sociale. Non nasce per parlare di catastrofi tout court: si concentra piuttosto sulle reazioni alle catastrofi, sui modi in cui le società, le comunità, le persone si organizzano di conseguenza.

La catastrofe anzi non è strettamente necessaria: la distopia parla di totalitarismo, di autoritarismo, di degenerazioni sociali, di ingiustizie. Nella sua immagine di futuro c’è sempre un forte richiamo al presente, a qualcosa che già esiste, a tendenze sociali preoccupanti, a qualcosa che è sotto gli occhi di chi scrive.

L’autore e l’autrice di distopia sono attent* al mondo che li circonda e sono in grado di costruire, partendo dalla realtà, un ammonimento di valore generale su cosa può andare peggio, valido nell’hic et nunc.

Conoscere effettivamente la distopia significa farsi forti di strumenti per agire, per pensare, per restare in guardia e, quando ci dicono che tutto sta crollando e che bisogna seguire il capo, per non crederci!
Anzi, leggendo distopia possiamo coltivare un punto di vista altro, per agire in modo più libero in nome di ciò che crediamo giusto.

Da questo punto di vista, l’invasione sul mercato editoriale di “romanzi distopici” ha fatto una gran confusione, perché in essi la distopia è intesa in modo più superficiale, come una ambientazione, uno sfondo. In molto “distopico” c’è un mondaccio cattivo perché sì, “una cosa proprio malissimo!”, che serve a far risaltare la reazione del protagonista; ma nulla ci chiama a una riflessione sul nostro presente, né alla critica, tanto meno alla messa in discussione dello status quo del nostro reale. Anzi, l’intrattenimento “distopico” a volte si dimostra reazionario, perché insiste sui valori dominanti: l’indidualismo, il superomismo, la forza intesa come violenza e contrasto diretto/armato, e così via.

Trovo importante a questo punto rimarcare una cosa: la letteratura, e in generale l’attività culturale, che (usando il proprio arsenale di conoscenza, impegno, arte, mezzi intellettuali) diffonde la visione dominante, senza metterla minimamente in discussione, non adempie alla vera vocazione culturale; piuttosto prende parte alla propaganda, o contribuisce a un’egemonia, che è altra cosa.

Leggere distopia in Covidistan significa sottrarsi alla propaganda e controbattere: insomma possiamo usare i romanzi di fantascienza distopica come antidoto al veleno che ci propinano da marzo 2020. Per tornare a vedere e per sottrarci alla pesante adulterazione della realtà (che sta già generando torti, discriminazione, dolore) messa oggi in atto anche da parte di intellettuali di ogni livello e sfera, di figure che potrebbero invece aiutare a ragionare meglio.

E a questo punto ho una domanda, che è anche un appello: dove sta oggi la voce di chi ama, legge, studia, fa la fantascienza?

Esiste in Italia una comunità vivace e competente che ragiona sulla distopia da anni, che ha realizzato dibattiti, studi, conferenze, saggi, e che sempre ha sottolineato quanto la distopia sia un ammonimento, quanto ci richiami all’attenzione, quanto sia in grado di denunciare derive, difetti, ingiustizie, degenerazioni della società…

Ora dove siamo? C’è nessuno?

Forse il valore della distopia è che ha ammonito su qualcosa che è già successo, tutto al passato? Ne abbiamo parlato tanto per fare esercizio intellettuale? Magari per la stuzzicante individuazione di quale dittatura ormai crollata intendeva accusare il tale scrittore ormai morto?

La stessa distopia è quindi una lingua morta, anche se non ce lo eravamo detti? E va bene così, perché ora andrà tutto bene?

 

Andrà tutto bene? Va tutto bene? Se restiamo a casa la sconfiggeremo insieme? Comportiamoci come si deve e tutto tornerà alla normalità? Ne usciremo migliori? Il vaccino è l’unica strada per uscire dalla pandemia? Il Generale stanerà casa per casa i renitenti? Chi non si vaccina muore e fa morire? I giovani irresponsabili uccidono i loro nonni? Il Movimento No Vax prepara su Telegram atti di terrorismo e c’è quindi bisogno di una stretta di sicurezza e sorveglianza generalizzata? Obbedire è un atto d’amore? I vaccini sono sicuri e funzionano senza ombra di dubbio e se tutti gli italiani fossero vaccinati il virus non esisterebbe più? I novax sono nemici della società e ci faranno ammalare? Esprimersi contro questi vaccini e dichiarare illegittimo e infame il green pass significa rallentare la campagna vaccinale, ed essere dunque novax e dunque assassini perché veicolo di infezione certa? Il green pass è come la patente di guida, è una patente per la libertà, aiuta l’economia grazie alla ripresa dei consumi, ci fa stare in sicurezza, ci fa tornare al nostro stile di vita?

C’è nessuno?

E sì che c’è chi la distopia la sta sfruttando alla grande: politicanti vari usano Orwell a volte incidentalmente azzeccandoci, ma in sostanza appropriandosene per farne ennesimo strumento di propaganda.
Nulla da aggiungere in merito a questo?

Nella fantascienza e nel fantastico italiano, tra chi ama e studia la distopia, tra chi conosce e usa gli strumenti demistificatori del fantastico, c’è nessuno che ha qualcosa da dire in merito?

Se c’è, sarò felice di ascoltare, di confrontarmi e sperabilmente di prendere insieme posizione e fare qualcosa contro ciò che sta accadendo.

Non posso non pensare a come, in passato, la cultura di fantascienza ha svolto una vera, importante, seminale funzione di controcultura nei confronti di propagande varie: e non certo per caso, ma grazie a e mediante il suo specifico, particolare, insostituibile contributo culturale e artistico. Anche questo è un capitolo chiuso?

Chi, se non noi? E se non ora, quando?

Nello scrivere queste parole, che ho impiegato settimane a comporre e che restano spaurenti a risuonare in me, ho capito che non voglio e non posso più partecipare a eventi culturali in cui l’accesso sia condizionato al possesso di green pass. Rispetterò gli impegni presi, naturalmente, quindi mi vedrete in giro ancora per un po’ con le “carte in regola”.
Ma non chiedetemi di impegnarmi a farlo in futuro.
Confido che potremo tornare a vederci liberamente ovunque. E non dimentichiamo che sin da subito c’è sempre aperto quel giardino, quello oltre il giusto e lo sbagliato: incontriamoci, aspettiamoci, coltiviamoci lì.

(ripreso da www.giulia-abbate.it)

https://www.labottegadelbarbieri.org/leggere-distopia-in-covidistan/

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