Muhammad Hisham Nofal, ingegnere egiziano perseguitato per aver partecipato a una trasmissione in cui ha parlato pubblicamente del suo ateismo, e Yahya Mustafa Ekhou, mauritano perseguitato dalle autorità e dai fondamentalisti per aver criticato l’islam, condividono la loro difficile esperienza di rifugiati in Germania sul n. 5/2021 della rivista Nessun Dogma.
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Testimonianza
di Muhammad Hisham Nofal
Chiuso in
bagno all’aeroporto di Francoforte ho aspettato di perdere la coincidenza per
Il Cairo al rientro dal mio viaggio pretestuosamente turistico in Ecuador. È
allora che la mia nuova vita in Germania ha avuto inizio. Non sapevo cosa
aspettarmi, ma la disperazione della mia situazione in Egitto mi aveva spinto
ad affrontare questa avventura, e finalmente potevo respirare a pieni polmoni
la mia sudata libertà.
Presentatomi
alle autorità, prima di poter fare domanda di asilo ho dovuto subire due
brusche perquisizioni corporali, con ore di estenuante attesa tra una e
l’altra. Il primo ostacolo che ho incontrato è stato il mio passaporto,
ritenuto non valido come documento perché mancava la mia firma, cosa che non mi
era stata richiesta in Egitto al momento del rilascio. Per questo motivo, per
poter entrare legalmente nel paese ho dovuto affrontare una prima grossa
udienza.
Nel
frattempo, non potendo uscire dall’aeroporto, sono rimasto parcheggiato in una
residenza all’interno, un posto dove vigono rigorose misure di sicurezza, fra cui
il sequestro dei cellulari. Una quarantina di persone si trovavano lì,
soprattutto iraniani, pachistani, afghani, egiziani, marocchini, e qualche
cinese. Avevo paura di queste persone. Molti chiedevano quale fosse la mia
storia e all’inizio gliela raccontavo volentieri, ma essendo musulmani, non
appena si toccava il tema della religione, la situazione si faceva drammatica.
Una volta mi sono trovato circondato da un gruppo di loro, e solo la presenza
delle telecamere a circuito chiuso ha impedito agli abusi verbali di sfociare
in un’aggressione fisica. Qualcuno ha ritenuto opportuno far presente alla
direzione che parlavo male dell’islam, al che la security mi ha approcciato per
intimarmi di non parlare più di religione. Ho così imparato una lezione importante:
avrei dovuto tenere a bada il mio entusiasmo per la libertà di espressione,
perché nel passaggio dal Medio Oriente all’Europa, questa gente non diventa
improvvisamente intelligente o civile: l’esperienza di migrazione non cambia le
persone.
Arrivato
all’udienza, ho avuto un problema con il traduttore, un siriano di nome
Muhammad, il quale, anziché fare il suo lavoro, si è messo a urlarmi contro,
riportando le mie parole in modo scorretto. L’ufficiale non è intervenuto a mio
favore e ha rifiutato la mia richiesta di proseguire in inglese per bypassare
il problema. Il colloquio è andato così male che, aspettandomi
un’immediata deportazione, ho cominciato a fantasticare su come togliermi la
vita. Per fortuna, mi è stato concesso l’ingresso al paese. A quel punto, in
attesa della sentenza sulla mia richiesta di asilo, sono passato in custodia ai
servizi sociali. Mi è stata trovata una sistemazione, in un centro di
accoglienza, e assegnato un piccolo sussidio. Purtroppo, ciò significa vivere
in un limbo, senza poter lavorare, studiare, né conoscere il paese, perché ti
ritrovi in una remota e isolata località in collina, lontano dalla città.
L’unica cosa che puoi fare è attendere, e nel mio caso, cercare di
sopravvivere.
Il mio primo
compagno di stanza, per esempio, oltre che accanito fumatore (e io odio il
fumo) era anche un attivo supporter dell’Isis. Nell’ambito di una campagna di
sensibilizzazione sulle tematiche Lgbt+, a un certo punto pubblico online la
foto di un bacio tra me e il mio amico attivista Amed Sherwan. La voce si
sparge nella residenza, e vengo confrontato da un coinquilino che afferma di
conoscere la mia storia e mi fa una predica minacciosa, dicendo che avrei
dovuto tornare all’islam e smettere di portare vergogna alla mia famiglia. Gli
altri abitanti della casa, con cui già parlavo poco, mi tolgono completamente
il saluto. Iniziano però i commenti omofobi, e subisco una violenta aggressione
fisica, interrotta solo dall’intervento di una donna giamaicana che minaccia di
chiamare la polizia. Me la cavo con qualche segno sul collo, ma sono costretto
a farmi trasferire in un’altra residenza, dove fin da subito mi isolo da tutti
per evitare problemi.
Nel
frattempo, sulla base dell’assurda considerazione che l’Egitto sia un paese
sicuro per un ateo bisessuale, la mia richiesta di asilo viene rifiutata,
condannandomi a questa non vita fino alla sentenza di appello. Dopo un altro
confronto violento, questa volta con un coinquilino spacciatore, vengo accolto
da una comunità locale di cristiani, dove tuttora vivo. Non è ancora la
sistemazione ideale, trattandosi di persone profondamente omofobe, ma almeno
loro, a patto di evitare certi argomenti, mi tollerano. In ogni caso, due anni
così hanno spento il mio desiderio di esprimermi. Sono stanco, mi interessa
solo tenermi fuori dai guai e dal pericolo.
Non posso
lamentarmi di ciò che la Germania ha fatto per me, anzi mi ritengo fortunato
rispetto ad esperienze di cui sono al corrente in altri paesi. Per esempio,
sono convinto che tragedie come quella di Sarah Hegazi, suicidatasi in Canada
quando le è venuto a mancare il supporto del governo, qui in Germania non
accadrebbero. Tuttavia, mi sento vittima di un sistema che non è preparato né
interessato a gestire situazioni specifiche come la mia. Un sistema che non
guarda in faccia nessuno, che ci aggrega tutti insieme come “arabi”, senza
tenere in considerazione il fatto che i diritti civili si dovrebbero applicare
a noi come individui, non ad arbitrari gruppi di immigrati. Come ateo e
bisessuale non potrei essere più diverso dalle persone con cui sono stato
costretto a convivere: di fatto, lo stesso tipo di persone che mi avevano
costretto a fuggire dal mio paese.
Testimonianza
di Yahya Mustafa Ekhou
Non potendo
prendere un aereo a Nouakchott, dato che mi avrebbero fermato in aeroporto, ho
dovuto valicare la frontiera con il Mali, attraversare il deserto per
raggiungere l’Egitto e da lì proseguire fino alla Turchia, da dove finalmente
sono volato in Germania. Non so descrivere la gioia che ho provato all’arrivo.
Mi sembrava di respirare per la prima volta nella vita, volevo abbracciare
tutti quelli che incontravo. Ero nel paese della libertà, un posto dove potevo
gridare apertamente tutte le cose in cui credevo e non credevo, senza che
nessuno potesse più rubarmi la voce e i miei diritti. Non immaginavo che
sarebbe stato l’inizio di una nuova guerra.
I problemi
sono emersi subito, con il traduttore che si rifiutava di riportare le mie
parole all’ufficiale, considerandole personalmente blasfeme. Infatti ho dovuto
rifare il colloquio, perché una volta che mi è stata presentata la
documentazione per firmarla, alla voce “religione” era scritto “musulmano”,
nonostante avessi chiaramente dichiarato di essere ateo.
Il centro di
accoglienza a cui sono stato portato era un luogo isolato in mezzo alla
foresta. La struttura ricordava una prigione, piena di gang e malviventi, ogni
blocco col suo boss che organizzava lo spaccio di droga e la vendita di
articoli rubati. Essendo mauritano, sono stato assegnato a un blocco di africani
musulmani, con a capo un marocchino. Intimorito dalla situazione, ho cercato di
starmene in disparte, ma non si è rivelato facile, perché si mangiava tutti
insieme, e i residenti cercavano sempre di coinvolgermi nelle loro attività
ricreative. Una sera, parlando della nostra esperienza di rifugiati, qualcuno
ha detto: «Per farsi accettare in Europa bisogna tradire le proprie origini,
farsi sodomizzare o vendere la religione. Quella gente va solo uccisa, lo dice
la sharia». Parole che mi hanno scioccato e fatto riflettere. Com’è possibile
che queste persone siano fuggite dalla repressione di brutali regimi africani
per cercare in Europa il rispetto dei loro diritti, per poi perpetuare l’odio e
la discriminazione nei confronti di altre minoranze?
Col tempo,
ho notato che questa gente tende ad avere un atteggiamento ipocrita: parlando
con i tedeschi, dissimula una certa tolleranza, fingendo col sorriso sulla
bocca di essere a favore della libertà di espressione, dei diritti di gay e
apostati. È nei confronti degli altri arabi che questi gettano la maschera e
rivelano tutto il loro odio, aggrappandosi a un concetto di onore che non
tollera deviazioni nella loro comunità.
Passato
qualche giorno, un algerino è venuto a dirmi che aveva trovato il mio profilo
su Facebook e che si vergognava di me per i miei post critici sull’islam. Poco
dopo, un gruppo fa irruzione nella mia stanza e comincia a picchiarmi,
calciarmi e insultarmi. Mi rompono il telefono quando tento di chiamare la
polizia. È il primo di una serie di attacchi che subisco al centro di
accoglienza, dove sono costretto a rimanere per circa un anno. Un iracheno che
stavo aiutando facendogli da interprete mi ha preso a schiaffi quando l’ho
contestato sul fatto che gli atei debbano andare all’inferno. Un altro ragazzo
mi ha colpito in testa con una padella dopo avermi sorpreso in cucina a
preparare il pranzo durante il ramadan. L’episodio peggiore è accaduto quando,
dopo una discussione in cui avevo fatto notare la contraddizione tra la miseria
economica e umana dei paesi mediorientali e la gloriosa superiorità proclamata
da chi dice di affidarsi alla preghiera, vengo zittito a colpi di pugnale,
riportando tre ferite. Il responsabile viene redarguito dalle autorità, ma
subito rilasciato, e a me viene data una generica rassicurazione: «Non hai
nulla da temere se smetti di fare discorsi islamofobi».
I pericoli
non cessano quando finalmente ottengo l’asilo e posso andare a vivere da
solo in città. Il governo mauritano infatti è attivamente impegnato a censurarmi
anche qui in Europa, e tramite l’ambasciata di Berlino fa continuamente
pressioni alla Germania per deportarmi. Per fortuna, senza esito.
In seguito a
un mio post su Facebook, due connazionali malintenzionati partono da Parigi per
venirmi a cercare personalmente in Germania, facendo rete con gli arabi di
Colonia per individuare il mio indirizzo. Per questo motivo ora sono costretto
a nascondermi e non parlare con nessuno nel quartiere, per non essere notato da
chi potrebbe rivelare queste informazioni. Incredibile che nel ventunesimo
secolo esprimere le proprie opinioni sui social media possa mettere in pericolo
la tua vita, no?
Ma io non
sono venuto in Germania per rinunciare alla mia libertà di espressione. Voglio
continuare a dire che molti aspetti della legge islamica violano la dignità
umana e i diritti fondamentali, voglio continuare a dire che l’unica
possibilità di libertà è la laicità e che ognuno ha il diritto di scegliere se
credere oppure no. E soprattutto voglio far conoscere la realtà della
Mauritania, perché qui in Europa nessuno ne parla mai. In Mauritania, a causa
della legge islamica i non credenti, gli omosessuali e i liberali vengono
imprigionati e condannati a morte. A causa della legge islamica esiste ancora
la schiavitù. Io ho avuto fortuna: dalla mia posizione, ho l’opportunità di
fare ascoltare la mia voce, attraverso le associazioni e i media occidentali, e
sento la responsabilità di usarla anche per coloro che soffrono nel silenzio,
ignorati dal resto del mondo.
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