martedì 28 febbraio 2023

PACE: parola di quattro lettere nei cruciverba

articoli, video, musica, immagini di Carlos Latuff, Chris Hedges, Vittorio Rangeloni, Laura Ruggeri, Giuseppe Masala, Stefano Orsi, Olivier Turquet, Michele Santoro, Manlio Dinucci, Peter Beaumont, Martina, Alessandro Di Battista, Fabio Mini, Alessandro Marescotti, Chat GPT, Enrico Tomaselli, Rosso Malpelo, Alessio Galluppi, Fabrizio Poggi, Weaponwatch, Gian Andrea Gaiani, Gian Andrea Gaiani, Alessandro Orsini, No Muos, Andrea Zhok, Lucio Caracciolo, Caitlin Johnstone, Jacques Baud, Fan Wei, Liu Zuanzun, Pasquale Pugliese, Claudio Conti, Guido Salerno Aletta, Robert Kuttner, Alessandro Ghebreigziabiher, MIR Italia, Loretta Napoleoni, Enrico Vigna, Barry McGuire





Discorso di Chris Hedges alla manifestazione “Rabbia contro la macchina della guerra” a Washington DC


L’idolatria è il peccato originale da cui derivano tutti gli altri. La tentazione di diventare Dio che ci arriva dagli idoli, che esigono il sacrificio altrui nella folle ricerca di ricchezza, fama o potere. Ma l’idolo finisce sempre per richiedere il sacrificio di sé, lasciandoci morire sugli altari intrisi di sangue che abbiamo eretto per gli altri.

Poiché gli imperi non possono essere soppressi, si suicidano ai piedi degli idoli da cui sono dominati.

Siamo qui oggi per denunciare i sommi, non eletti, e irresponsabili sacerdoti dell’Impero, che incanalano i corpi di milioni di vittime, insieme a trilioni della nostra ricchezza nazionale, nelle viscere della nostra versione di Moloch, l’idolo cananeo.

La classe politica, i media, l’industria dell’intrattenimento, i finanzieri e persino le istituzioni religiose perseguono come lupi il sangue dei musulmani, dei russi o dei cinesi, o di chiunque l’idolo abbia demonizzato come indegno di vivere. Non c’erano obiettivi razionali nelle guerre in Iraq, Afghanistan, Siria, Libia e Somalia. Non ce ne sono in Ucraina. La guerra permanente e l’industria del massacro sono la loro stessa giustificazione. Lockheed Martin, Raytheon, General Dynamics, Boeing e Northrop Grumman guadagnano miliardi di dollari in profitti. Le ingenti spese richieste dal Pentagono sono sacrosante. Opinionisti, diplomatici e tecnocrati guerrafondai, che si compiacciono di declinare qualsiasi responsabilità per la serie di disastri militari che orchestrano, sono una cricca proteiforme, si spostano abilmente a seconda delle correnti politiche, passando dal Partito Repubblicano al Partito Democratico e viceversa, presentandosi di volta in volta come implacabili combattenti, oppure neoconservatori, o interventisti liberali. Julien Benda ha definito questi cortigiani del potere “i barbari dell’intellighenzia che si sono fatti da soli”.

Questi fanatici della guerra non vedranno mai i cadaveri delle loro vittime. Io li ho visti, compresi i bambini. Ogni corpo senza vita che ho visto come reporter in Guatemala, El Salvador, Nicaragua, Palestina, Iraq, Sudan, Yemen, Bosnia o Kosovo, mese dopo mese, anno dopo anno, ha rivelato la loro bancarotta morale, la disonestà intellettuale, la malata sete di sangue e le loro fantasie deliranti. Sono marionette del Pentagono, uno Stato nello Stato, e dei produttori di armi che finanziano lautamente i loro think tank. Ecco l’elenco: Project for the New American CenturyForeign Policy InitiativeAmerican Enterprise InstituteCenter for a New American SecurityInstitute for the Study of WarAtlantic Council e Brookings Institute. Come un ceppo mutante di un batterio resistente agli antibiotici, non possono essere sconfitti. Non importa quanto si sbaglino, quanto siano assurde le loro teorie di dominio globale, quante volte mentano o denigrino altre culture e società come incivili, o quante ne condannino a morte. Sono puntelli inamovibili, parassiti vomitati negli ultimi giorni di tutti gli imperi, pronti a venderci la prossima giusta guerra contro chiunque abbiano deciso sia il nuovo Hitler. La mappa cambia. Il gioco resta lo stesso.

Pietà per i nostri profeti, che vagano in questo paesaggio desolato gridando nell’oscurità. Pietà per Julian Assange, sottoposto a un’esecuzione al rallentatore in una prigione di massima sicurezza a Londra. Ha commesso il peccato mortale per l’Impero: ha denunciato i suoi crimini, i suoi meccanismi di morte, la sua depravazione morale.

Una società che proibisce la capacità di dire la verità estingue la capacità di vivere nella giustizia. Alcuni che sono qui oggi possono pensare di essere dei radicali, addirittura dei rivoluzionari. Ma ciò che stiamo chiedendo allo spettro politico è, in realtà, conservatore: il ripristino dello Stato di Diritto. È semplice e basilare. In una repubblica degna di questo nome, non dovrebbe essere una richiesta incendiaria. Ma vivere nella verità in un sistema dispotico, quello che il filosofo politico Sheldon Wolin ha definito “totalitarismo al contrario”, diventa sovversivo.

Illegittimi sono gli architetti dell’imperialismo, i signori della guerra, i rami legislativo, giudiziario ed esecutivo del governo controllati dalle multinazionali e dai loro ossequiosi portavoce nei media e nel mondo accademico. Pronunciate questa semplice verità e sarete banditi, come è toccato a molti di noi, messi ai margini. Dimostrate questa verità, come ha fatto Julian Assange, e sarete crocifissi.

“Ora è sparita anche la Rosa rossa. Dov’è sepolta non si sa. Siccome disse ai poveri la verità, i ricchi l’hanno spedita nell’aldilà” scrisse Bertolt Brecht della socialista Rosa Luxemburg, quando venne assassinata.

Abbiamo subito un colpo di stato da parte del sistema corporativo, per cui i poveri e le donne e gli uomini che lavorano, la metà dei quali non ha 400 dollari per coprire una spesa di emergenza, sono ridotti a una cronica instabilità. La disoccupazione e l’insicurezza alimentare sono endemiche. Le nostre comunità e città sono in uno stato desolante. La guerra, la speculazione finanziaria, la sorveglianza costante e la militarizzazione poliziesca che funziona come un esercito interno di occupazione sono le uniche vere preoccupazioni dello Stato. Persino l’ habeas corpus non esiste più. Noi, come cittadini, siamo merce usa e getta per i sistemi aziendali di potere. E le guerre infinite che combattiamo all’estero hanno generato le guerre che combattiamo in patria, come ben sanno gli studenti ai quali insegno nel sistema carcerario del New Jersey. Tutti gli imperi muoiono nello stesso atto di autoimmolazione. La tirannia che l’impero ateniese imponeva agli altri, nota Tucidide nella sua storia della guerra del Peloponneso, alla fine la imponeva anche a se stesso.

Opporsi, tendere la mano e aiutare i deboli, gli oppressi e i sofferenti, salvare il pianeta dall’ecocidio, denunciare i crimini interni e internazionali della classe dominante, chiedere giustizia, vivere nella verità, distruggere gli idoli, significa portare il marchio di Caino.

Dobbiamo far sentire la nostra collera a coloro che detengono il potere, mediante azioni costanti di disobbedienza civile nonviolenta e di sabotaggio a livello sociale e politico. Il potere organizzato dal basso è l’unico che può salvarci. La politica gioca sulla paura. È nostro dovere far sì che chi è al potere abbia molta, molta paura.

L’oligarchia al potere ci tiene chiusi nella sua morsa mortale. Non può essere riformata. Oscura e falsifica la verità. È alla ricerca maniacale di accrescere la sua oscena ricchezza e il suo potere incontrollato. Ci costringe a inginocchiarci davanti ai suoi falsi dei. E quindi, per citare la Regina di Cuori, metaforicamente, ovviamente, dico: “Via le teste!”.

Chris Hedges, giornalista vincitore del Premio Pulitzer, è autore di numerosi libri antimilitaristi e attivista.

Traduzione dall’inglese di Daniela Bezzi
Revisione di Anna Polo

da qui

 

 

Promuovere la ricostruzione dell’Ucraina per alimentare la guerra – Laura Ruggeri

L’operazione militare russa in Ucraina era appena iniziata e i principali attori della coalizione che sostiene l’Ucraina, così come le istituzioni finanziarie e i think tank transatlantici, stavano già discutendo della ricostruzione del Paese. Inevitabilmente la spacciavano come un’opportunità storica per il Paese: come una fenice che risorge dalle ceneri, l’Ucraina sarebbe diventata un faro di libertà, democrazia e legalità, un testimonial del Build Back Better, un successo della transizione verde e digitale; il Paese avrebbe bruciato in corsa diverse fasi di sviluppo e la sua crescita economica avrebbe replicato il boom della Germania del dopoguerra.

Non sorprende che gli esempi più recenti, e molto meno edificanti, di “ricostruzione” guidata dall’Occidente in Iraq, Libia e Afghanistan non vengano mai menzionati. La velocità con cui sono state sfornate narrazioni fantasiose di ripresa e ricostruzione non dovrebbe sorprendere nessuno: erano state concepite anni prima nell’ambito di diversi “piani di riforma” per l’Ucraina. Si potrebbe dire che sono parte della strategia di questa guerra per procura contro la Russia e chi le ha prodotte lavora direttamente o indirettamente per governi e lobby coinvolti sia nella distruzione dell’Ucraina che nell’ucrainizzazione dell’Europa, un processo finalizzato a controllare, militarizzare e saccheggiare il Vecchio Continente.

Non c’è dubbio che l’Ucraina dovrà essere ricostruita una volta che la guerra sarà finita, ma “distruzione” e “ricostruzione” significano cose diverse per persone diverse in contesti diversi.  Ad esempio, c’è un forte disaccordo su cosa si intenda per “distruzione”, su quando sia iniziata la “distruzione” dell’Ucraina e di chi sia colpa. Il campo semantico, come la storia, è un territorio fortemente conteso. Chi ha seguito le vicende ucraine senza pregiudizi ideologici, e con un minimo di onestà intellettuale, sa che al momento della dissoluzione dell’URSS, l’Ucraina era una potenza economica, la terza potenza industriale dell’Unione Sovietica dopo Russia e Bielorussia, oltre che il suo granaio. Questa repubblica sovietica possedeva industrie aerospaziali, automobilistiche e di macchine utensili, i suoi settori minerario, metallurgico e agricolo erano ben sviluppati, come i suoi impianti nucleari e petrolchimici, le sue infrastrutture turistiche e commerciali. Ospitava inoltre il più grande cantiere navale dell’URSS.


Un continuum di distruzione

A partire dal 1991, anno della sua indipendenza, il PIL dell’Ucraina è rimasto indietro rispetto al livello raggiunto in epoca sovietica, la capacità industriale si è notevolmente ridotta e la popolazione è diminuita di circa 14,5 milioni di persone in 30 anni a causa dell’emigrazione e del più basso tasso di natalità in Europa. Non solo, l’Ucraina è anche diventata il terzo debitore del FMI e il Paese più povero d’Europa. Questi record negativi non possono essere imputati solo alla corruzione sistemica e spaventosa dell’Ucraina: le reti di corruzione che hanno spremuto l’Ucraina sono transnazionali. L’Ucraina è stata vittima di due rivoluzioni colorate finanziate dagli Stati Uniti che hanno portato a un cambio di regime e ad una guerra civile che l’hanno separata a forza dal suo principale partner economico, la Russia.

La sua storia è stata cancellata e riscritta, le ricette neoliberali hanno distrutto il suo tessuto economico e sociale instaurando una forma di governo neocoloniale.

L’Ucraina è entrata a far parte del nefasto Partenariato Orientale 1  dell’UE nel 2009 e, fin dalla sua indipendenza,  è stata invasa da ONG, consulenti economici e politici occidentali. Lo stato di soggezione del Paese ostaggio degli interessi anglo-americani si è cementato dopo che l’ultimo governo ucraino che si era opposto alle dure condizioni del FMI è stato rovesciato dal colpo di stato sponsorizzato dagli Stati Uniti nel 2014. Il 10 dicembre 2013, il presidente ucraino Viktor Yanukovich aveva dichiarato che le condizioni poste dal FMI per l’approvazione del prestito erano inaccettabili: “Ho avuto una conversazione con il vicepresidente degli Stati Uniti Joe Biden, mi ha detto che la questione del prestito del FMI è stata quasi risolta, ma gli ho ripetuto che se le condizioni fossero rimaste tali non avremmo avuto bisogno di tali prestiti”. Yanukovich ha quindi interrotto i negoziati con il FMI e si è rivolto alla Russia per ottenere assistenza finanziaria. Era la cosa più sensata da fare, ma gli è costata cara. Non è possibile rompere impunemente le catene del FMI: questo fondo a guida americana concede prestiti a paesi con l’acqua alla gola in cambio della solita shock therapy fatta di austerità, deregolamentazione e privatizzazione, e prepara in questo modo il terreno per gli avvoltoi della finanza internazionale, quasi sempre angloamericani.   Se si permette a coloro che hanno distrutto un Paese di essere coinvolti nella sua ricostruzione, essa sarà inevitabilmente solo un punto sul continuum di conquista, occupazione e saccheggio, anche se viene imbellettato. La distruzione produce quella tabula rasa su cui l’occupante può scrivere le proprie regole: “Rubano, massacrano, rapinano e, con falso nome, lo chiamano impero; infine, dove hanno fatto il deserto, lo chiamano pace”. Tacito conosceva bene sia la realtà che la propaganda dell’imperialismo romano.

Ci si può solo chiedere se coloro che parlano di “ricostruzione”, “ripresa”, “riforma”, “ordine fondato sulle regole”, “reset” o qualsiasi altra espressione di moda al momento, siano consapevoli di questa realtà brutale o credano veramente alla propria propaganda. In ogni caso, promettono un’utopia futura per la quale vale la pena uccidere e morire.

Il capitalismo occidentale ha creato la propria escatologia secolare, sostituendo la promessa della vita eterna dopo la morte con la speranza di un mondo migliore in futuro, suscitando aspettative che vengono costantemente deluse. Incapace di risolvere le sue crescenti contraddizioni nel presente, il capitalismo rimanda la soluzione al futuro.

L’utopia promessa, incorporata nella narrazione ambientalista-tecnocratica, è un tentativo di distogliere l’attenzione dalle tendenze distruttive insite nel capitalismo stesso, che ancora una volta ha fatto ricorso alla guerra e all’espansione dei budget militari per tirarsi fuori dalle sue crisi sistemiche. Le guerre, con i loro cicli di distruzione e ricostruzione, forniscono sia uno stimolo economico nel quadro della stagnazione attuale che uno sbocco per la sovraaccumulazione del capitale. ll centro di gravità economica si è spostato in Asia, un mercato quello asiatico in cui gli Stati Uniti devono affrontare la forte concorrenza della Cina, e mentre l’egemonia statunitense si indebolisce, le élite occidentali si trovano di fronte alla scelta di sostenere il vecchio egemone oppure cercare un accordo con le potenze emergenti, un’opzione che non solo ridurrebbe la loro influenza e i loro profitti scandalosi, ma accelererebbe anche il declino degli Stati Uniti.

Poiché il potere militare e l’influenza USA sull’economia globale sono da tempo intrecciati e la perdita dell’uno comporterebbe la perdita dell’altra, gli Stati Uniti hanno stretto la presa sui loro vassalli, hanno raddoppiato le loro ambizioni egemoniche e preferiscono indulgere in grandiose e pericolose fantasie piuttosto che accettare la nuova realtà multipolare. Le loro fantasticherie non possono garantire una crescita reale, ma aiutano a manipolare il sentimento del mercato, ed è per questo che l’Impero sta investendo una parte considerevole delle sue risorse per colonizzare le menti e blindare le sue narrazioni con metodi polizieschi. Il compito di coloro che progettano contemporaneamente la distruzione e la ricostruzione è quello di ridurre la dissonanza cognitiva tra lo stato di miseria attuale e i proclami di un futuro radioso…

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Il ritorno dei blocchi e la teoria Rumsfeld – Giuseppe Masala

È tuttavia mio dovere prospettarvi determinate realtà dell’attuale situazione in Europa. Da Stettino nel Baltico a Trieste nell’Adriatico una cortina di ferro è scesa attraverso il continente,” Winston Churchill (5 marzo del 1946)

Ad ormai un anno di distanza dall’inizio del conflitto tra Ucraina (e Nato) da un lato e Russia dall’altro si stanno susseguendo gli appuntamenti simbolici dal grande impatto mediatico ma anche dalla enorme portata politica.

Ad aver iniziato la serie di “appuntamenti” è stato Joe Biden arrivato a Kiev direttamente dall’America per dimostrare anche fisicamente l’appoggio statunitense a Kiev e al suo leader Zalensky.  In questa visita il presidente americano, per il vero, non ha fatto alcun annuncio importante, se non dimostrare fisicamente al mondo il sostegno degli USA all’Ucraina che si vorrebbe far credere incrollabile. Ovviamente il tutto condito dall’ennesima firma di Old Joe su un atto che autorizza la fornitura di ulteriore assistenza militare e finanziaria all’Ucraina. Non è chiaro peraltro, se questo – come tutti gli altri aiuti arrivati da Washington – siano sotto l’egida della Lend-Lease Act americana appositamente re-introdotta dal parlamento USA allo scoppio della guerra o se siano vere e proprie donazioni. Molto probabilmente si tratta di sostegno sotto l’egida di questa legge, conseguentemente qualcuno un giorno sarà chiamato a pagare; e qualcosa mi dice che non sarà l’Ucraina a farlo ma i paesi europei ormai sempre più ridotti nel ruolo di pagatori di ultima istanza.

Il giorno dopo la visita di Biden a Kiev – tre giorni fa – è stato lo stesso Putin a dare il via agli eventi simbolici con un discorso di fronte al parlamento riunito in seduta comune. Un discorso per certi versi di portata storica che a tratti è stato una vera e propria requisitoria contro l’Occidente Collettivo, accusato di doppiezza a partire dagli accordi di Minsk che si sono dimostrati (per stessa ammissione della Merkel e di Hollande) un semplice escamotage per guadagnare tempo e poter così consentire alla Nato di rinforzare l’apparato militare ucraino e renderlo abbastanza robusto da riuscire a combattere la Russia magari fino a logorarla in maniera sostanziale.

Ma il nocciolo del discorso di Putin è certamente legato al tema della sicurezza strategica della Russia e più in generale al concetto di indivisibilità della sicurezza che – essendo il mondo unico – o è garantita a tutti o non è garantita a nessuno. Putin ha ricordato che sono stati gli USA ad uscire dal trattato che bandiva i missili a  medio raggio dall’Europa. Un trattato questo fondamentale per garantire la Pace in Europa. Inoltre Putin ricorda che fu la Russia – nel Dicembre del 2021 – a porre il tema della sua sicurezza alla luce del fatto che la Nato sempre più avanzava verso i confini del paese euroasiatico. Questione questa che portò a colloqui ai massimi livelli tra Mosca e Washington ma che si conclusero con un nulla di fatto.

Alla luce di tutto questo lo Zar dunque annuncia la sospensione del trattato New START sui missili e le testate nucleari strategiche che garantisce di fatto la non proliferazione nucleare. Una sospensione che rende impossibili le ispezioni americane nei siti nucleari russi e che è comprensibile visto che gli USA ormai sono a tutti gli effetti una potenza belligerante contro la Russia e risulterebbe certamente paradossale che mentre invia armi all’Ucraina possa ispezionare le armi strategiche russe compresi i Sarmat, il sistema Avanguard e i missili ipersonici Zhircon e Kinzhal.

Il problema è che la mossa russa rischia di aprire il vaso di pandora della proliferazione nucleare in tutto il mondo. Se i russi decidessero di aumentare i vettori per le loro testate, perché non dovrebbero fare altrettanto francesi, inglesi, americani, israeliani, cinesi, indiani e pakistani? E di conseguenza, perché giapponesi, iraniani, sauditi non possano decidere di dotarsi anche essi dell’arma atomica visto che – magari – i loro avversari storici aumenteranno le loro testate e i loro missili? Un passaggio questo delicatissimo…

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lunedì 27 febbraio 2023

I conti con Maurizio Costanzo - Andrea Masala

Chiunque voglia occuparsi seriamente di egemonia culturale, i conti con #mauriziocostanzo li deve fare bene. E non è per niente facile.

Il personaggio è infatti doppio, triplo, quadruplo. Sicuramente genio, forse però del male.

I meriti sono palesi: sceneggia una giornata particolare, partecipa alla stesura delle 120 giornate di Sodoma, scrive con Morricone se telefonando e soprattutto inventa con quelll’altro genio (del bene però) il personaggio di Fracchia.

Anche le collaborazioni lunghe sono indicative: Alberto Silvestri, Paolo Pietrangeli, Enrico Vaime.

Però toglie truffaldinamente il Brancaccio a Giggi Proietti, e questo non ce lo doveva fare.

E poi c’è il resto. Che è tutto Maurizio Costanzo.

Il suo passaggio dalla Rai a Mediaset fa della tarda serata di Canale5 il salotto italiano. Che smette di essere pubblico, si fa privato. Da lì escono personaggi (del male e del bene: da Sgarbi a Mastrandrea, da Carmelo Bene [non è che esca da lì, ma da lì parla al paese] a De Lorenzo, da Di Bella a de Crescenzo) ma soprattutto gli argomenti di discussione nel paese, le griglie di interpretazione dei fatti pubblici, la modernizzazione spettacolare della visione del mondo, perfino tic e tormentoni.

L’Italia cambia con quel salotto. Si modernizza di una modernizzazione americaneggiante ma comunque italiana, di una certa Italia sì, ma tanta Italia, tanto Italia. Italia che Costanzo conosce e capisce, ma soprattutto plasma e trasforma nell’intimo, nella mente, nelle parole, nei comportamenti.

Tra anni 80 e 90 è l’altra faccia di Berlusconi, il lato destro del cervello, la sua controanima. Non è lo specchio degli italiani, non pretende di rappresentarli (come poi farà Silvio): pretende di educarli (come mai farà Silvio). Educarli dall’alto, con spocchia intellettuale ma con un modo che non è rifiutato dal popolo/pubblico, anzi si pende dalle sue labbra. Non è un demagogo popolare come Funari, non è piacione professionale come Baudo, è spesso stronzo come un intellettuale di sinistra, però non viene odiato come un intellettuale di sinistra. Ne prende le mosse, ma con le stesse lui riesce a piacere.

In quegli anni Costanzo ha una visione geniale, l’ennesima: la tv, dice lui, non la faremo più noi professionisti ma la gente normale, il pubblico. Che sarà pubblico di sé stesso.

Lo dice prima dei reality e dei talent. Molto prima.

Lo aveva intuito nel suo salotto dove aveva fatto passare ogni genere di ciarlatano come in un circo del far-west: spiritiste che parlavano coi morti del pubblico del Parioli, guaritori, amici di extraterrestri. Il Tutto mescolato con iniziative antimafia con Falcone e Santoro (ci rimediò una bomba), scoperte continue di grandi talenti comici e musicali, interviste a mostri sacri della cultura.

Ma appunto lui parla con tutti allo stesso modo, con Gassman come con quello degli ufo, con la Montalcini come con la spiritista.

E incontra la moglie.

Un incontro che somiglia ai grandi incontri della storia. Quell’intuizione geniale (la tv la faranno le persone normali, la farà il pubblico) con Maria De Filippi diventa realtà. Anzi Reality.

E parte il secondo tempo della storia dell’egemonia culturale Made in Costanzo, ora Costanzos. Con lei è possibile ciò che prima era solo pensabile.

E non si pensi che questa egemonia sia destinata a finire coi social: su TikTok gli adolescenti di oggi vedono pezzi di Amici e Uomini e Donne e ne ricalcano i modi, le parole, le dinamiche relazionali, i frame mentali. Parlano come loro, pensano come loro, sentono come loro.

Ancora una volta è il doppio del doppio, impasto di bene e male che diventano ancora altro: in quei programmi si guarda con simpatia e rispetto al gay e contemporaneamente si riproducono, rinnovati, misoginia e patriarcato. Si promuovono nuovi stili di vita e insieme si blindano le antiche gerarchie relazionali. Un impasto impossibile da tenere insieme ma che nella spettacolarizzazione insieme ci sta, eccome.

Fare i conti con l’egemonia culturale Made in Costanzos è lavoro più duro di quello di Gramsci coi feuilletton e Croce: quei due livelli in Costanzo stanno insieme, e c’è un nuovo americanismo dello spettacolo, e c’è Debord applicato al contrario ma perfettamente (altro che quella pipparsugo di Freccero), e c’è un andare al popolo dandogli un quarto d’ora e più di celebrità e il resto della vita di illusioni e rimpianti, e c’è l’era del narcisismo di massa di Lasch.

Sicuramente con un background culturale e frequentazioni di sinistra, sicuramente senza nessun tratto culturale di destra, sicuramente utilissimo, direi fondamentale, per la destra (e per il neocapitalismo privatistico), mostruosamente dannoso, direi mortale, per la sinistra (e per le pratiche di vita non ripiegate sul privato).

Insomma liquidarlo con le battute sulla P2 significa aver capito poco Gramsci e per niente la P2 e l’Italia.

da qui 

Come opera la macchina della propaganda - Alberto Bradanini

 

Introduzione

Secondo la narrativa dominante, la propaganda, vale a dire la sistemica produzione di falsità, colpirebbe solo le nazioni prive di libertà di espressione, i paesi autocratici, autoritari o dittatoriali (appellativi, invero, attribuiti a seconda delle convenienze). Nei paesi autoritari, con qualche diversità dall’uno all’altro, il quadro è piuttosto evidente, domina la censura: alcune cose si possono fare, altre no. A dispetto delle apparenze, tuttavia, anche nelle cosiddette democrazie, l’obiettivo è il medesimo, controllare il disagio della maggioranza contro i privilegi della minoranza, cambia solo la tecnica, una tecnica basata sulla Menzogna, che opera in modo sofisticato, creando notizie dal nulla, mescolando bugie e verità, omettendo fatti e circostanze, rimestando abusivamente passato e futuro, paragonando ostriche a elefanti.

Confondendo ulteriormente il quadro, per il discorso del potere – in cima al quale, a ben guardare, troviamo sempre l’impero americano in qualche sua incarnazione – i paesi autoritari sono poi quelli che non si piegano al dominio dell’unica nazione indispensabile al mondo (Clinton, 1999), colonna portante del Regno del Bene.

Coloro che dominano la narrativa pubblica, dunque, controllano la società e per la proprietà transitiva la ricchezza e le inquietudini che vi si aggirano. D’altra parte, persino chi siede in cima alla piramide è inquieto, preso dall’angoscia di perdere ricchezza e potere. E la coercizione non basta, occorre il consenso e il ruolo della propaganda è quello di disarticolare il conflitto, contenere quel malessere che si aggira ovunque come un felino in attesa della preda. Essa è anche un aspetto costitutivo della più vasta nozione di egemonia, nell’accezione gramsciana del termine[1], secondo la quale il ceto dominante, oggi transnazionale, ha bisogno di guidare la narrazione pubblica, servendosi di un’impalcatura di servizio, politici, militari/burocrati, giornalisti, accademici.

Il potere è slegato da ogni ideologia, non essendo fondato su valori, ma solo su interessi: liberalismo o socialismo, conservatorismo o progressismo, fondamentalismo cristiano o islamico, suprematismo o meticciamento e via dicendo, il fine è solo uno, la massificazione di sè stesso e dei profitti correlati. Il Regno del Bene non ha sfumature di pensiero, tanto meno di azione.

La narrativa pubblica diffonde inoltre un messaggio inconscio: “sappiamo bene che la situazione non è ideale, le cose dovrebbero andar meglio, ma, ahimè, non vi sono alternative. D’altro canto, si faccia attenzione perché le cose potrebbero andare molto peggio, e solo noi siamo in grado di evitare che la situazione precipiti”.

Taluni sono persuasi che solo chi vive ai margini, i poveri di spirito e gli individui senza istruzione o acume siano esposti al sortilegio della propaganda. Uno sguardo disincantato rivela invece che tale dipendenza non ha nulla a che vedere con la cultura o l’intelligenza. Anzi, entrambe tendono a rafforzare la resistenza a riconoscere la porosità alla manipolazione. La capacità di opporsi al mainstream appare invero connessa con l’umile qualità di saper riconoscere i propri errori, e all’occorrenza la propria credulità. Si tratta di una caratteristica critica dell’essere umano che esprime maturità emotiva e spessore culturale. Sul piano filosofico, invece, l’abilità a smascherare l’inganno discende dall’aderenza al principio di verità, che non può prescindere da una vita condotta in coerenza. Si tratta di peculiarità poco diffuse, ma che fioriscono in ogni genere di individui e sono essenziali per la vita e la prosperità del genere umano.


Il trampolino della propaganda

Nell’incipit del saggio The Propaganda Multiplier[2], lo svizzero Konrad Hummler afferma che “davanti a qualsiasi genere di informazione non dovremmo mai tralasciare di chiederci: perché ci giungono queste notizie, perché in questa forma e in questo momento? In fin dei conti si tratta sempre di questioni che riguardano il potere”.

Forse, ciò chiarisce perché nessuno dà conto della singolare congiuntura – è questo un esempio tra i tanti – per la quale i cittadini russi possono leggere i nostri giornali e ascoltare le nostre TV, mentre noi non abbiamo il diritto di reciprocare, leggere e ascoltare i media russi[3]. In attesa di venirne informati, ci soccorre il vocabolario orwelliano, nel quale si scrive pace per significare guerrademocrazia per intendere oligarchiaplutocraziasovranità per esprimere sottomissionelibertà di giustizio per la sua soppressione.

Hummler aggiunge che un aspetto sostanzialmente ignoto del sistema mediatico riguarda la struttura del suo funzionamento, in specie la circostanza che la quasi totalità delle notizie che ci giungono sugli eventi del mondo è generato da tre sole agenzie internazionali di stampa. Il loro ruolo è talmente centrale che i fruitori mediatici – TV, giornali e internet – coprono quasi sempre gli stessi eventi con i medesimi argomenti, lo stesso taglio, il medesimo formato. Si tratta di agenzie che godono di coperture e sostegni di governi, apparati militari e intelligence, essendo da questi utilizzate quali piattaforme di diffusione di informazioni pilotate[4].

Come fa il giornale (o la TV) che leggo (o ascolto) a conoscere ciò che afferma di conoscere su un argomento internazionale? – si chiede Hummler – e la risposta è banale: quel giornale o quella TV non sa nulla, si limita a copiare da una delle citate agenzie. Queste lavorano in modo felpato, dietro le quinte. La prima ragione di tale discrezione è beninteso il controllo della notizia, la seconda risiede nella circostanza che giornali e TV non hanno interesse a far conoscere ai loro lettori di non essere in grado di raccogliere notizie indipendenti su quanto raccontano.

Le tre agenzie in questione sono:

·         Associated Press (AP), che ha oltre 4000 dipendenti sparsi nel mondo. AP ha la forma di società cooperativa, ma è di fatto controllata da finanziarie quotate a Wall Street; dall’aprile 2017, il suo presidente è Steven Swartz, il quale è anche CEO di Hearst Communications, il colosso Usa dei media. AP fornisce informazioni a oltre 12.000 giornali e TV internazionali, raggiungendo ogni giorno oltre metà della popolazione mondiale;

·         Agence France-Presse (AFP)[5], partecipata dallo stato francese, ha circa 4000 dipendenti e trasmette ogni giorno oltre 3000 reportage a testate mediatiche di tutto il mondo;

·         Agenzia Reuters, con sede a Toronto, con migliaia di persone in ogni dove, dal luglio 2018 il 55% del suo capitale è proprietà di Blackstone Group, quotata a Wall Street; nel 2008 è stata acquisita dalla canadese Thomson Corporation e si è poi fusa nella Thomson-Reuters.

Le corporazioni statunitensi (e con esse gli apparati militari e di sicurezza, lo stato profondo, etc…) dominano anche il mondo internet, poiché le prime dieci società mediatiche online, tranne una, sono di proprietà americana e hanno tutte sede negli Usa.

Essendo tale impalcatura alla radice della creazionesoppressione e adulterazione mediatica degli accadimenti nel mondo[6], è curioso che siano poche le persone interessate a conoscerne ruolo e meccanismi operativi.

Un ricercatore svizzero (Blum[7]) ha rilevato che nessun quotidiano occidentale può far a meno di tali agenzie se vuole occuparsi di questioni internazionali. Noi conosciamo solo ciò su cui queste decidono di riferire. La Grande Menzogna nella quale è immersa la popolazione (con eccezioni, beninteso) sta devastando l’etica pubblica e la sensibilità collettiva. Il lavaggio del cervello è implacabile, tutto è piegato alle esigenze del potere (l’Occidente e quella parte del mondo pilotata dall’Occidente), così gerarchicamente ordinato: impero Usa (corporazioni, stato profondo, forza militare), élite europee (finanza, banche, in prevalenza nordiche), classi dirigenti nazionali (politici, media, accademia).

Sebbene molti paesi dispongano di proprie agenzie – la tedesca DPA, l’austriaca APA, la svizzera SDA, l’italiana Ansa e così via – la carta stampata e le TV private/pubbliche, se vogliono occuparsi di temi internazionali, sono costrette a rivolgersi alle tre menzionate, le quali si sono appropriate di un ruolo insostituibile potendo contare su risorse, copertura geografica e capacità operativa: i reportage di tali agenzie vengono tradotti e copiati, talvolta utilizzati senza citare la fonte, altre volte parzialmente riscritti, altre ancora ravvivati e arricchiti con immagini e grafici per farli apparire un prodotto originaleIl giornalista che lavora su un dato argomento seleziona i passaggi che ritiene importanti, li manipola, li rimescola con qualche svolazzo e poi li pubblica (Volker Braeutigam)[8]”.

Quelli che il pubblico ritiene contributi originali del giornale o della TV sono in realtà rapporti fabbricati a New York, Londra o Parigi. Non sorprende che le notizie siano le stesse a Washington, Berlino, Parigi o Roma. Un fenomeno da brividi, poco dissimile dalle vituperate pratiche dei cosiddetti paesi illiberali.

Quanto ai corrispondenti, gran parte dei media non se ne può permettere nessuno. Quando esistono, coprono diversi paesi, anche dieci o venti, e si può immaginare con quale competenza! Nelle zone di guerra, raramente si avventurano fuori dall’hotel dove vivono, e pochissimi possiedono le competenze linguistiche per capire cosa succede intorno. Sulla guerra in Siria, scrive Hummler, molti riferivano da Istanbul, Beirut, Il Cairo, Cipro, mentre le citate agenzie dispongono di corrispondenti ovunque e ben addestrati.

Nel suo libro People Like Us: Misrepresenting the Middle East, il corrispondente olandese dal Medio Oriente, Joris Luyendijk, ha descritto candidamente come lavorano i corrispondenti e in quale misura dipendono dalle tre sorelle: “pensavo che questi fossero degli storici del momento, che davanti a un evento di rilievo, scoprissero cosa stesse davvero succedendo e riferissero in proposito. In verità nessuno va mai a verificare cosa accade. Quando succede qualcosa, la redazione chiama, invia per fax o e-mail comunicati-stampa già confezionati e il corrispondente in loco li rimbalza con parole sue, commentandoli alla radio o TV, oppure ne fa un articolo per il giornale di riferimento. Le notizie vengono nastro-trasportate. Su qualsiasi argomento o evento i corrispondenti aspettano in fondo al tapis-roulant, fingendo di aver prodotto qualcosa, ma è tutto falso”.

In altre parole, il corrispondente solitamente non è in grado di produrre inchieste indipendenti e si limita a rimodellare resoconti confezionati nelle redazioni o da una delle tre agenzie. È così che nasce l’effetto mainstream.

Ci si potrebbe chiedere perché i giornalisti non provano a produrre inchieste indipendenti. Luyendijk scrive in proposito: “ho provato a farlo, ma ogni volta, a turno, le tre sorelle intervenivano sulla redazione e imponevano la loro storia, punto[9]. Talvolta alla TV alcuni giornalisti mostrano una preparazione che suscita ammirazione, perché rispondono con competenza e disinvoltura a domande difficili. La ragione, tuttavia, è banale: conoscono in anticipo le domande. Quello che si vede è puro teatro[10]. Talora, per risparmiare, alcuni media si servono dei medesimi corrispondenti e in tal caso i reportage che giungono alle testate sono due gocce d’acqua.

Nel libro The Business of News, Manfred Steffens, ex-redattore dell’agenzia tedesca DPA, afferma “non si capisce la ragione per la quale una notizia sarebbe attendibile se ne viene citata la fonte. Anzi, può esser vero il contrario, poiché la responsabilità viene in tal caso attribuita alla fonte citata, potenzialmente altrettanto inattendibile[11]“.

Ciò che le agenzie ignorano non è mai avvenuto. Nella guerra in Siria, l’Osservatorio siriano per i diritti umani – un’organizzazione di scarsa indipendenza, con sede a Londra e finanziata dal governo britannico[12] – ha avuto un ruolo di primo piano. L’Osservatorio ha inviato i suoi reportage alle tre agenzie, che li hanno inoltrati ai media, i quali a loro volta hanno informato milioni di lettori e telespettatori in tutto il mondo. La ragione per la quale le agenzie hanno fatto riferimento a tale Osservatorio – e chi lo finanziava – resta tuttora misteriosa.

Mentre alcuni temi sono semplicemente ignorati, altri sono enfatizzati, anche se non dovrebbero esserlo: “una plateale falsità o una messa in scena[13] sono digerite senza obiezioni davanti alla presunta rispettabilità di una blasonata agenzia di stampa o una rinomata testata, poiché in questi casi il senso critico tende a sfiorare lo zero[14]”. Tra gli attori più efficaci nell’iniettare menzogne troviamo i ministeri della difesa (in Occidente tutti a vario modo penetrati dall’intelligence Usa). Nel 2009, il capo dell’agenzia AP, Tom Curley, ha pubblicamente affermato che il Pentagono impiegava oltre 27.000 specialisti in pubbliche relazioni che con un budget annuale di cinque miliardi di dollari diffondevano quotidianamente informazioni manipolate (da allora budget e numero di specialisti sono cresciuti di molto!). Le agenzie di sicurezza americane hanno l’abitudine di raccogliere e distribuire a giornali e TV informazioni create a tavolino con una tecnica che rende impossibile conoscerne l’origine, facendo ricorso a formule quali ‘secondo fonti d’intelligencesecondo quanto confidenzialmente trapelato o lasciato intendere da questo o quel generale, e così via”[15].

Nel 2003, dopo l’inizio della guerra in Iraq, Ulrich Tilgner, veterano del Medio Oriente per TV tedesche e svizzere, ha parlato dell’attività manipolatoria dei militari e del ruolo dei media. “Con l’aiuto di questi ultimi, i militari costruiscono la percezione pubblica e la usano per i loro scopi, diffondendo scenari inventati. In questo genere di guerra, gli strateghi mediatici statunitensi svolgono una funzione simile a quella dei piloti dei bombardieri”.

 Ciò che è noto all’esercito Usa lo è anche ai servici d’intelligence. In tema di disinformazione, un ex-funzionario dell’intelligence Usa e un corrispondente della Reuters hanno riferito quanto segue alla TV britannica Channel 4: “Un ex-agente della Cia, John Stockwell, ha rivelato[16] che occorreva far sembrare la guerra angolana come un’aggressione nemica. Per tale ragione abbiamo sostenuto in ogni paese coloro che condividevano questa tesi. Un terzo del mio staff era formato da diffusori di propaganda, pagati per inventare storie e trovare il modo per farle arrivare alla stampa. Di solito, le redazioni dei giornali occidentali non sollevano dubbi quando ricevono notizie in linea con la narrazione dominante. Abbiamo inventato tante storie, che stanno ancor in piedi, ma è tutta spazzatura[17]“.

Fred Bridgland[18], riferendo del suo lavoro come corrispondente di guerra per la Reuters, afferma: “abbiamo basato i nostri rapporti sulle comunicazioni ufficiali. Solo alcuni anni dopo siano stati informati che un piccolo esperto di disinformazione della Cia da una scrivania situata in un’ambasciata degli Stati Uniti produceva comunicati che non avevano alcuna relazione con la verità o i fatti sul campo. Fondamentalmente, per dirla in modo crudo, puoi fabbricare qualsiasi schifezza e farla pubblicare su un giornale“.

I servizi d’intelligence, certamente, dispongono di un’infinità di contatti per far passare le loro menzogne, ma senza il ruolo servizievole delle tre agenzie in questione, la sincronizzazione mondiale della propaganda e della disinformazione non sarebbe così efficace[19]. Attraverso questo meccanismo moltiplicatore, racconti interamente fabbricati da governi, servizi militari e d’intelligence raggiungono il pubblico senza alcun filtro. La professione del cosiddetto giornalista meainstream, ormai ridotta a strapuntino del potere, si concretizza nel rabberciare, sulla scorta di veline elaborate altrove, questioni complesse di cui sanno poco o nulla in un linguaggio privo di logica fattuale e indicazione di fonti.

Per l’ex-giornalista di AP, Herbert Altschull, “secondo la prima legge del giornalismo i mezzi d’informazione sono ovunque uno strumento del potere politico e/o economico. Giornali, periodici, stazioni radiofoniche e televisive di mainstream non operano mai in modo indipendente, anche quando ne avrebbero la possibilità”[20].

Sino a poco fa, la libertà di stampa era ancor più teorica, date le elevate barriere d’ingresso, le licenze da ottenere, le frequenze da negoziare, i finanziamenti e le infrastrutture tecniche necessarie, i pochi canali disponibili, la pubblicità da raccogliere e altre restrizioni. Oggi, grazie a Internet, la prima legge di Altschull è stata parzialmente infranta. È così emerso un giornalismo di qualità finanziato dai lettori, di livello superiore rispetto ai media tradizionali, in termini di capacità critica e indipendenza.

Ciononostante, i media tradizionali restano cruciali, poiché disponendo di risorse ben più copiose sono in grado di catturare una moltitudine di lettori anche online. E tale capacità è collegata al ruolo delle tre agenzie, i cui aggiornamenti al minuto costituiscono la spina dorsale della maggior parte dei siti mainstream reperibili in rete.

In quale misura il potere politico ed economico, secondo la legge di Altschull, riuscirà a mantenere il controllo dell’informazione davanti all’avanzare di notizie incontrollate, cambiando così la struttura del potere e almeno in parte la consapevolezza della popolazione, solo il futuro potrà dirlo. Se si guarda ai rapporti di forza l’esito parrebbe scontato. L’uomo resta, tuttavia, arbitro del proprio destino. La lotta è sempre in corso.


Gli operatori mediatici internazionali

Noam Chomsky, forse il più grande intellettuale vivente, nel suo saggio “What makes the mainstream media mainstream“, afferma che: “se rompi gli schemi il potere ha molti modi per rimetterti in riga. Eppure, si può e si deve comunque reagire[21]. Alcuni grandi giornalisti affermano che nessuno ha mai detto loro cosa scrivere. Chomsky chiarisce così tale apparente contraddizione: “costoro non sarebbero lì se non avessero già dimostrato di scrivere o dire ogni volta, e spontaneamente, la cosa giusta. Se avessero iniziato la carriera scrivendo cose sbagliate, non sarebbero mai arrivati nel luogo dove ora possono dire, in apparenza, ciò che vogliono. Lo stesso vale per le facoltà universitarie nelle discipline che contano[22].

Il giornalista britannico John Pilger[23], noto per le sue inchieste coraggiose, scrive di aver incontrato negli anni Settanta una delle principali propagandiste del regime di Hitler, Leni Riefenstahl, secondo la quale per giungere alla totale sottomissione del popolo tedesco era stato necessario, ma non difficile, manipolare le menti della borghesia liberale e istruita; il resto era venuto in automatico.

La tragedia di tale scenario è che gli accadimenti di valenza politica, geopolitica o economica con risvolti internazionali (ma in genere tutti gli argomenti sensibili) vengono accolti con minimo senso critico. I media occidentali vivono di pubblicità (corporazioni private) o di sovvenzioni pubbliche, e riflettono gli interessi della narrativa atlantica, sotto l’egida dell’architettura economica e di sicurezza americana.

mass-media hanno l’obiettivo di distogliere le persone dalle questioni centrali: “puoi pensare quel che vuoi, ma siamo noi che gestiamo lo spettacolo. Lascia che s’interessino di sport, di cronaca, scandali sessuali, problemi delle celebrità, della finta dialettica governo-opposizioni, ma non di cose serie, poiché quelle sono riservate ai grandi“.

Inoltre, le persone-chiave dei media principali vengono cooptate dall’élite transatlantica, ottenendo in cambio carriere e posizioni. I circoli ristretti del potere transnazionale – quali il Council for Foreign Relations, il Gruppo Bilderberg, la Commissione Trilaterale, l’Aspen Institute, il World Economic Forum, Chatham House e altri – reclutano a man bassa operatori mediatici (i nomi degli italiani, insieme agli uomini politici, sono disponibili in rete).

Per Chomsky le università non fanno la differenza. La narrazione prevalente riflette quella mainstream. Esse non sono indipendenti. Possono esserci professori indipendenti, e questo vale anche per i media, ma l’istituzione come tale non lo è, poiché dipende da finanziamenti esterni o dal governo (a sua volta piegato ai menzionati poteri). Coloro che non si conformano sono accantonati strada facendo. Il sistema premia conformismo e obbedienza. Nelle università si apprendono le buone maniere, in particolare come interloquire con i rappresentanti delle classi superiori. È così che, senza dover ricorrere alla menzogna esplicita, l’accademia e i media interiorizzano valori e posture del potere da cui dipendono.

Come noto, ne La fattoria degli animali George Orwell fa una satira spietata dell’Unione Sovietica. Trent’anni dopo si scopre però che, nell’introduzione da lui scritta a suo tempo, e che qualcuno aveva soppresso, egli scriveva “la censura letteraria in Inghilterra è efficace come quella di un sistema totalitario, sola la tecnica è diversa, anche qui, a ulteriore evidenza che le menti indipendenti, quelle che generano riflessioni sbagliate, vengono ovunque ostacolate o estirpate.

Il Presidente statunitense Woodrow Wilson fu eletto nel 1916 su una piattaforma contro la guerra. La gente non voleva combattere guerre altrui. Pace senza vittoria, dunque senza guerra, era stato lo slogan. Una volta eletto, Wilson cambiò idea e si pose la domanda: come si fa a convertire una nazione pacifista in una disposta a far la guerra ai tedeschi? Fu così istituita la prima, e formalmente unica, agenzia di propaganda statale nella storia degli Stati Uniti, il Comitato per l’Informazione Pubblica (bel titolo orwelliano!), chiamato Commissione Creel, dal nome del suo direttore. L’obiettivo di spingere la popolazione nell’isteria bellicista e sciovinista fu raggiunto senza troppe difficoltà. In pochi mesi gli Stati Uniti entrarono in guerra. Tra coloro che furono impressionati da tale successo, troviamo anche Adolf Hitler. In Mein Kampf, questi afferma che la Germania fu sconfitta nella Prima guerra mondiale perché perse la battaglia dell’informazione, e promise: la prossima volta sapremo reagire con un adeguato sistema di propaganda, come in affetti avvenne quando giunse al potere.

Walter Lippmann, esponente di punta della Commissione Creel tra i più rispettati del giornalismo americano per circa mezzo secolo, affermava: “in democrazia esiste un’arte chiamata fabbricazione del consenso”, che non ha beninteso nulla di democratico. “Se si riesce a farla funzionare, si può accettare persino il rischio che il popolo vada a votare. Con adeguato consenso si riesce a rendere irrilevante anche il voto. Affinché gli umori siano allineati ai desideri di chi comanda occorre mantenere l’illusione che sia il popolo a scegliere governi e orientamenti politici. In tal modo, la democrazia funzionerà come deve. Ecco cosa significa applicare la lezione della propaganda”. Del resto, James Madison, uno dei padri della costituzione americana, affermava che l’obiettivo principale del sistema era quello di proteggere la minoranza dei ricchi contro la maggioranza dei poveri. E ancora una volta, a tal fine, lo strumento principe era la propaganda.

Il già citato John Pilger ricorda[24] che negli ultimi 70 anni gli Stati Uniti hanno rovesciato o tentato di rovesciare oltre cinquanta governi, in gran parte democrazie. Hanno interferito nelle elezioni democratiche di una trentina di Paesi. Hanno bombardato le popolazioni di trenta nazioni, la maggior parte povere e indifese. Hanno tentato di assassinare i dirigenti politici di una cinquantina di stati sovrani. Hanno finanziato o sostenuto la repressione contro movimenti di liberazione nazionale in una ventina paesi. La portata e l’ampiezza di questa carneficina viene evocata ogni tanto, ma subito accantonata, mentre i responsabili continuano a dominare la vita politica americana.

Lo scrittore statunitense Harold Pinter, ricevendo il premio Nobel per la letteratura nel 2005, aveva affermato: “la politica estera degli Stati Uniti si può definire come segue: baciami il culo o ti spacco la testa. Essa è semplice e cruda, e l’aspetto interessante è che funziona perché gli Usa hanno risorse, tecnologie e armi per spargere disinformazione attraverso una retorica distorsiva, riuscendo a farla franca. Essi sono dunque persuasivi, specie agli occhi degli sprovveduti e dei governi sottomessi. In definitiva, si tratta di una montagna di menzogne, ma funziona. I crimini degli Stati Uniti sono sistematici, costanti, feroci, senza remore, ma pochissime persone ne parlano e ne prendono coscienza. Essi manipolano in modo patologico il mondo intero, presentandosi come paladini del Regno del Bene. Un meccanismo di ipnosi collettiva che è sempre all’opera”.

Il lavaggio del cervello è sofisticato e va chiamato con il suo vero nome, se vi vuole contenerne gli effetti letali. I limitati spazi, un tempo aperti anche alle intelligenze controcorrente, si sono chiusi. Siamo in attesa di uomini valorosi, come negli anni Trenta contro il fascismo, insieme a intellettuali (quelli autentici), agli indignati, alle menti inquiete, a coloro che hanno pietà per i propri simili, a chi non deve vendere l’anima per dare un senso all’esistenza. La catarsi di una rivoluzione culturale, che resta il sale della storia, un giorno potrebbe forse indurci a gridare insieme a voce alta: basta, lorsignori, adesso basta! D’ora in avanti, il popolo spegne i vostri funesti apparati, generatori di menzogne e turpitudini, e torna a calpestare i sentieri della verità e della vita. Si sta facendo tardi, non c’è più molto tempo.


[1] “La supremazia di un gruppo sociale si manifesta in due modi, come dominio e come direzione intellettuale e morale. Un gruppo sociale è dominante dei gruppi avversari che tende a liquidare o a sottomettere anche con la forza armata, ed è dirigente dei gruppi affini e alleati. Un gruppo sociale può e anzi deve essere dirigente già prima di conquistare il potere governativo (è questa una delle condizioni principali per la stessa conquista del potere); dopo, quando esercita il potere ed anche se lo tiene fortemente in pugno, diventa dominante ma deve continuare ad essere anche dirigente” (Quaderni del carcere, Il Risorgimento, p. 70).

[2] https://swprs.org/the-propaganda-multiplier/

[3] Russia Today e Sputnik sono raggiungibili se si accede dal motore di ricerca Brave e da cellulari

[4] Hammler riferisce ad esempio che, secondo un rapporto sulla copertura della guerra in Siria (iniziata nel 2011) da parte di nove grandi testate europee, il 78% degli articoli erano copiati in tutto o in parte dai resoconti di una di queste agenzie. Nessun articolo era basato su ricerche indipendenti. Di conseguenza, ça va sans dire, l’82% degli articoli pubblicati era a favore dell’intervento militare di Stati Uniti-Nato.

[5] https://swprs.org/the-propaganda-multiplier 

[6] Höhne 1977, p. 11.

[7] Blum 1995, p. 9

[8] Per dieci anni redattore dell’emittente TV tedesca ARD

[9] Luyendijk p.54ff

[10] Luyendjik 2009, p. 20-22, 76, 189

[11] Steffens 1969, p. 106

[12] https://en.wikipedia.org/wiki/Syrian_Observatory_for_Human_Rights

[13] Blum 1995, p. 16

[14] Steffens 1969, p. 234

[15] Tilgner 2003, p. 132

[16] https://swprs.org/the-cia-and-the-media/

[17] https://swprs.org/the-propaganda-multiplier/

[18] Fred Bridgland – Wikipedia

[19] È istruttivo scorrere le informazioni che si trovano su questo sito https://swprs.org/media-navigator/.

[20] (Altschull 1984/1995, p. 298)

[21] Chomsky 1997, Cosa rende mainstream i media mainstream

[22] Chomsky 1997

[23] https://cambiailmondo.org/2022/12/28/il-silenzio-degli-innocenti-come-funziona-la-propaganda/

[24] https://cambiailmondo.org/2022/12/28/il-silenzio-degli-innocenti-come-funziona-la-propaganda/


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