C’era una volta il Giappone
L’impero distopico (suo malgrado).
Dovrebbe essere l’anno del Giappone, questo. G-7 a Hiroshima, riconquista
di un seggio come membro non permanente del Consiglio di Sicurezza delle
Nazioni Unite (il meno votato, tuttavia, tra i neo-eletti Mozambico, Ecuador,
Svizzera e Malta), adesione più o meno convinta alle varie iniziative di
“contenimento” strategico anticinese dell’Indo-Pacifico: Quad,
AUKUS. Persino uno storico invito al vertice della Nato, in cambio di una
– vedremo quanto credibile – promessa di raddoppiare il bilancio militare, portandolo
al due per cento del PIL, come “suggerito” dagli USA ai suoi alleati europei.
Ma il fatto che sentiremo parlare un po’ di più del Giappone, e che
nei prossimi mesi (ma non molto più a lungo) vedremo un po’ più spesso il suo
opaco premier Fumio Kishida in giro per il mondo, a fianco dei “grandi”, non
significa che Tokyo sia riuscita a emergere dal lungo letargo in cui si è
nascosta negli ultimi vent’anni (almeno) e che si appresti a rivendicare il
ruolo al quale avrebbe avuto da tempo diritto e che la comunità internazionale
avrebbe potuto/dovuto riconoscerle. Non è successo quando il Giappone era
in corsia di sorpasso, dal dopoguerra agli anni Ottanta, figuriamoci oggi che è
desolatamente fermo ai box, avvitato in una crisi economica, sociale, culturale
senza precedenti e senza apparente soluzione e di fatto precipitato in una
situazione di irrilevanza internazionale.
Quando sono arrivato qui in Giappone, oramai più di quarant’anni fa, mi
sembrava di essere atterrato su un altro pianeta. Il Giappone era già
diventata la seconda economia del mondo, e molti erano convinti che sarebbe
presto diventata la prima. Esattamente come ora il mondo si aspetta che succeda
con la Cina. Mi sentivo un privilegiato, uno che aveva avuto la fortuna di
trovarsi nel posto giusto al momento giusto. E così è stato, in effetti, per i
primi anni. Il Giappone era il modello da seguire, e noi giornalisti avevamo il
compito di decifrarlo e raccontarlo.
Ma poi la corsa del Giappone si è interrotta bruscamente, e nonostante
tutti i tentativi – ivi compresa la famosa e decisamente sopravvalutata (in
patria e all’estero) Abenomics – non è mai ripartita. Negli
anni Ottanta i giapponesi erano più ricchi degli americani, oggi sono più
poveri degli inglesi e probabilmente anche di noi italiani: il reddito
pro-capite, che negli anni Ottanta era arrivato a essere il secondo del mondo,
ora è sceso al 26mo posto. Il debito pubblico sfiora il trecento per cento, il
doppio del nostro. Lo Shinkansen, il “treno proiettile” che negli anni Settanta
stupì il mondo per la sua linea, velocità, puntualità e sicurezza
c’è ancora, ma è uno dei tanti, oramai, che sfrecciano in giro per il
mondo, e ha conservato come primati – non che sia poco, intendiamoci –
solo quelli della puntualità e della sicurezza. Per il resto, quanto a
prestazioni, è stato superato dai treni europei e cinesi, e non riesce più da
tempo ad assicurarsi nuove commesse all’estero. Per realizzare l’alta velocità
il Vietnam, nonostante le tensioni politiche, si è infatti rivolto alla
Cina, dopo aver interrotto una lunga trattativa con il Giappone. Dove l’alta
velocità è ferma. Lo Shinkansen è stato il primo treno al mondo a superare i
duecento chilometri orari, ora a fatica arriva, e solo in certe tratte, a
trecento chilometri orari. Il MAGLEV, il treno a lievitazione
magnetica, ha appena realizzato il nuovo record mondiale di velocità, a
603 chilometri orari. Ma è ancora a livello di prototipo. In Cina i MAGLEV sono
già in funzione da alcuni anni ed entro il 2025 dovrebbe partire una nuova
tratta, con velocità superiore ai seicento chilometri orari. Ma il dato più
indicativo del “rallentamento” è lo sviluppo della rete: tra i primi a
realizzarla, assieme all’Italia, il Giappone è il paese dove si è meno
sviluppata: in entrambi i nostri paesi è praticamente ferma a trent’anni fa.
Circa tremila chilometri per il Giappone, meno di mille per l’Italia. In Cina
sono oltre quarantamila, e hanno cominciato appena una ventina di anni fa.
Certo, il Giappone continua a essere la terza potenza economica del mondo:
un paese politicamente stabile, direi immobile (che in questo caso forse
costituisce un problema, non un valore aggiunto), “sicuro”, con il tasso di
criminalità più basso del mondo industrializzato. Ma è fermo, immobile. Niente
e nessuno sembra in grado di farlo ripartire. Altro che riarmo. Il Giappone che
conoscevamo, che ammiravamo e in un certo senso temevamo, è scomparso. Non c’è
più. E nel frattempo i giapponesi stanno sempre peggio. Vivono più a lungo, ma
in condizioni sempre più difficili. Ecco perché non fanno figli. Ecco perché
mai come in questi ultimi anni scappano via. L’anno scorso ha lasciato il
paese oltre mezzo milione di persone, nel 2010 meno della metà, mentre fino al
2000 il numero era irrisorio, meno di cinquantamila. Ed ecco perché il
problema demografico, che il Giappone condivide con molti altri paesi, primo
fra tutti l’Italia qui è più grave. Alla di fatto già avvenuta “scomparsa”
geopolitica potrebbe corrispondere quella fisica. Non è uno scherzo.
Se il saldo negativo della “bilancia demografica” dovesse continuare al
ritmo attuale, il Giappone vedrebbe ridotta la sua popolazione, entro il
2050, dagli attuali 123 milioni a novanta. Un paese sovrappopolato come il
Giappone, con zone ad altissima intensità abitativa, può anche permettersi di
sopravvivere con venti milioni di abitanti in meno. Ma non con venti milioni di
giovani in meno e dieci milioni di anziani in più. Persino l’opaco Kishida
se ne sta rendendo conto, e ha deciso di partire da questa emergenza nel suo discorso
di riapertura dei lavori della Dieta, lo scorso 23 gennaio. Ma anche in
questo caso, nonostante a parole tutti oramai considerino l’irreversibilità del
calo demografico la vera emergenza nazionale, non sembra che il governo abbia
le idee chiare sul come affrontarla, aldilà dei soliti, episodici e
superficiali palliativi. L’ultimo pacchetto offre fino a cinquantamila
euro alle famiglie urbane che accettano di andare/tornare a vivere in
provincia. Una follia, visto che nelle province non ci sono strutture e non c’è
lavoro. Le donne, per prendere in considerazione di nuovo l’idea di far figli,
hanno bisogno, oltre che di certezze o quanto meno rassicurazioni sul fatto che
potranno mantenerli (dopo la Cina, il Giappone è il paese dove costa di più
mantenere i figli agli studi) di strutture dove lasciarli: asili, scuole
materne, spazi attrezzati sul luogo di lavoro. E maggiore rispetto sociale per
il loro ruolo. Altrimenti non solo continueranno a non far più figli, ma
eviteranno di sposarsi, per non correre il rischio. Il trend dei matrimoni è
negativo da almeno da una decina di anni.
“Workaholics living in
rabbit hutches”
“Intossicati dal lavoro costretti a vivere in gabbie per conigli”. È come
definì i giapponesi, nel lontano 1982, Sir Roy Denman, alto funzionario europeo
in visita ufficiale a Tokyo. Una definizione pesante, che suscitò proteste e un
certo scalpore. Ma che aveva – e purtroppo ha tutt’ora – una certa legittimità.
Un paese dove accumulare anche sessanta ore di straordinari (spesso non pagati)
era ed è ancora una realtà, dove i salari non aumentano da oltre vent’anni,
dove se si è fortunati si può godere al massimo una settimana di ferie
e dove il famoso “impiego a vita”, che all’epoca di Denman era la norma ma
oggi riguarda oramai meno di un terzo dei lavoratori può in effetti
giustificare il ricorso al termine di “intossicazione”. Con l’aggravante
dell’assuefazione, visto che, a parte qualche caso individuale
isolato, non esiste reazione sociale. Ed è vero, diciamolo una volta per
tutte, che le case giapponesi, anche quelle che vengono costruite
adesso, sono piccole, spesso minuscole, prive di riscaldamento
centralizzato e costruite con materiale scadente e di rapido decadimento:
alluminio, compensato, cartongesso.
Certo, c’è il problema degli spazi, dei terremoti, dei costi: ma mi rifiuto
di pensare che in tutti questi anni non sia venuto in mente a nessuno di
affrontare seriamente il problema e regalare al popolo giapponese condizioni
abitative migliori. Invece di offrire incentivi insufficienti e sottoposti a
complicate condizioni, per convincere i cittadini a lasciare le grandi città e
tornare a vivere in provincia (dove esistono oltre dieci milioni di case vuote,
abbandonate) il governo giapponese, anziché raddoppiare il bilancio militare,
potrebbe finalmente lanciare una campagna nazionale di “bonifica” delle
zone rurali, dove l’unico segno di modernità è dato dai konbini –
piccoli empori aperti 24 ore su 24, dove si trova di tutto a prezzi stracciati
– e le orribili distese di distributori automatici. Per il resto, siamo fermi
al medio evo. Quello che piace molto ai turisti, ma che costringe i giapponesi
a vivere in condizioni indegne di un paese moderno e civile. E non è una
questione di soldi. Molte prefetture hanno bilanci in attivo, e vista l’onestà
diffusa dei suoi cittadini, anche i più piccoli comuni, oltre ai contributi
dello stato, possono contare su un congruo e costante gettito fiscale locale.
Solo che lo usano male.
Tempo fa ho letto di un piccolo comune nelle Alpi Giapponesi, noto perché a
suo tempo, nelle acque del suo lago, erano stati trovati resti di un elefante.
In occasione del centenario, il comune ha deciso di sostituire tutti i tombini
della città, circa un migliaio, sostituendo i vecchi, arrugginiti ma ancora
perfettamente funzionanti, con dei nuovi, raffiguranti un elefante. Prezzo
unitario: circa mille euro. In Giappone c’è una vera e propria fissa nazionale
per i cosiddetti “tombini d’autore” (sono oltre venti milioni, con dodicimila
disegni diversi: ogni anno c’è un concorso nazionale in diretta tv e un
prolifico merchandising, dalla vendita di figurine ai tornei di
carte che appunto raffigurano i disegni dei tombini (per chi volesse
approfondire, ecco un link in inglese. Ed è vero che alcuni
sono davvero opere d’arte. Ma nel caso in questione metà delle abitazioni, come
spesso avviene nelle zone rurali, non è ancora collegata alla rete
fognaria: è legittimo chiedersi se non fosse stato il caso, prima di pensare a
rinnovare il look dei tombini, di collegarvi il resto delle abitazioni.
Non è vero che in Giappone non si potrebbe affrontare in modo radicale il
problema abitativo – spiega un architetto italiano che lavora presso un
importante studio locale ma che vuole mantenere l’anonimato – competenze
tecniche, materiali, fantasia e soprattutto soldi ci sono. Quella che manca è
la volontà politica. E la lentezza istituzionale. Metà dei nostri progetti non
supera la prima selezione, e quelli che la passano devono aspettare anni prima
dell’approvazione finale. Sono venuto in Giappone perché pensavo di trovare il
futuro, alla fine è quasi peggio che da noi.
Nel frattempo, il mercato immobiliare, da sempre oggetto di periodiche espansioni e contrazioni, che garantiscono enormi profitti alle grandi corporation ma mettono a rischio gli investimenti dei piccoli proprietari, resta un pianeta a sé...
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