Liliana Segre ha osservato con amarezza che la memoria della Shoah sta svanendo, che non fa presa nella società; la senatrice a vita teme addirittura che sarà presto appena una riga nei libri di storia. Possibile, ma paradossale, in tempi che sovrabbondano di “celebrazioni” e occasioni per “fare memoria”. Gli stessi vertici politici dello Stato, dal presidente della Repubblica in giù, in questi giorni si sono fatti sentire con moniti solenni e alte affermazioni; lo sforzo delle tv pubbliche e private, con film e approfondimenti, non è affatto mancato, e così quello della stampa quotidiana e poi basta entrare in una libreria per notare quanto la produzione editoriale sia costante attorno ai temi cardine della storia del ‘900: dalla Shoah ai totalitarismi alla lotta di resistenza.
Dunque, qual
è il problema? Perché la memoria, nonostante tutto ciò, sembra in decadenza?
Perché i princìpi fondativi delle democrazie europee, quindi un preciso
progetto di civilizzazione – per aggiungere un elemento al discorso di Liliana
Segre – sono così in declino nella coscienza e nella cultura degli italiani e
degli altri europei?
Il punto è
probabilmente la credibilità. Le tragedie del ‘900, ma anche le straordinarie
lotte sociali e popolari di quel secolo, sono da considerare un monito e un
esempio, perciò è importante conoscerle, studiarle, farle proprie. La memoria
serve a questo: a rendere ciascuno di noi un cittadino più consapevole e la
collettività cosciente degli errori ma anche delle grandezze del passato. Il
calendario civile, con le varie feste e celebrazioni riconosciute, è uno
strumento di questa presa di coscienza, purché – ecco lo snodo fatale – non si
tratti di omaggi formali, affermazioni occasionali, momenti di conoscenza da
mettere subito in archivio senza conseguenza alcuna.
Le politiche
della memoria sono sottoposte per loro natura a un rischio incombente: la
ritualizzazione, l’uso strumentale, la banalizzazione. Se le retoriche della
memoria – i discorsi che si fanno il 27 gennaio, il 25 aprile, il 2 giugno e
così via – si distaccano troppo dalla realtà, se chi se ne fa interprete non
dimostra “sul campo”, ogni giorno, attraverso le proprie scelte, la sua
adesione autentica a quei valori e quei principii, ecco che la retorica suona
falsa, asettica, superata. É quel che sta accadendo, e non da oggi, sotto i
nostri occhi. I traumi, gli orrori ma anche le glorie – come l’antifascismo e
la resistenza – della prima metà del ‘900 hanno portato a ciò che di più
prezioso abbiamo: le costituzioni democratiche, la nuova impalcatura delle
relazioni internazionali, un sistema codificato di tutela dei diritti umani
fondamentali. Siamo usciti dalla seconda guerra mondiale stabilendo finalmente
e senza esitazioni che tutte le vite valgono – un principio che era stato
sepolto dalle politiche razziste e eugenetiche di fascismo e nazismo –,
approvando una solenne Dichiarazione dei diritti umani e costruendo un sistema
di trattati ed enti sovanazionali – in testa l’Onu – con il preciso scopo di
contenere le tentazioni infernali dei nazionalismi e di prevenire i conflitti
armati, dopo due guerre mondiali che avevano trasformato il suolo europeo in un
immenso cimitero all’aperto e disseminato il sottosuolo di innumerevoli fosse
comuni.
Ma oggi,
ahinoi, succede che si ricordi la Shoah, che si celebrino la resistenza, i
valori costituzionali e le stesse regole del diritto internazionale, mentre
pratichiamo l’opposto. È questo il punto. L’Europa nata per combattere i
nazionalismi e quindi abolire i confini è oggi una fortezza circondata da fitte
reti di affilatissimi fili spinati e non sa più parlare la lingua della
cooperazione e della pacificazione; il diritto internazionale, la diplomazia,
il castello di enti e trattati concepiti per evitare i conflitti armati sono
stati accantonati e screditati uno dopo l’altro e oggi siamo sottoposti a una
ventata bellicista che alimenta, anziché sedare, la guerra in corso sul suolo
europeo, nell’infelice terra ucraina, sottoposta lungo tutto il ‘900 a ferite
forse senza pari in Europa; il principio cardine che ispira le nostre
costituzioni e che deriva direttamente dalla sconvolgente esperienza della
Shoah – “tutte le vite contano” – non vive più nella quotidianità dello spazio
pubblico, è anzi platealmente calpestato nel mare Mediterraneo, ai confini
terrestri dell’Unione, nei campi di concentramento in Libia, Turchia e altri
paesi finanziati con le imposte dei cittadini europei; gli stessi valori della
resistenza e dell’antifascismo – l’aspirazione all’uguaglianza, alla giustizia
sociale – sono tramontati nell’ideologia e nella pratica delle maggiori forze
politiche democratiche.
Ciò che nel
discorso pubblico ufficiale è definito memoria, dunque, suona quasi sempre
falso; chi parla di antifascismo, di diritti umani, di aspirazione alla pace –
ministri, capi di stato, ma anche molti “esperti” e intellettuali – non risulta
credibile, perché pare non credere a ciò che afferma, visto che non agisce in
modo conseguente. Un’Europa fedele ai suoi princìpi oggi dovrebbe lottare per
fermare i conflitti in corso con gli strumenti della diplomazia e
dell’interposizione; dovrebbe salvare, accogliere, tutelare e non respingere o
lasciare annegare i profughi che si spingono fino ai suoi confini; dovrebbe
contrastare i nazionalismi invece di alimentarli. Per essere creduti, occorre
essere credibili. Non è il caso delle attuali classi dirigenti europee, sempre
più simili ai leader “sonnambuli” che spinsero l’Europa fino all’abisso nella
prima metà del ‘900. Tocca quindi ad altre persone, ad altre organizzazioni, a
chi vive e pratica – oggi controcorrente – i valori più alti scaturiti dalle
tragedie e dalle glorie del secolo scorso, tenere alta la fiaccola della
memoria e lottare ancora.
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