Negli anni sessanta e settanta del
novecento, l’Africa e la lotta anticolonialista erano al centro del panorama
politico. E la resistenza era un modello per gli indipendentisti africani.
Un’alleanza che sarebbe da recuperare
Giovanni Pirelli, Joyce Salvadori Lussu,
Enrico Berlinguer: l’ex partigiano primogenito di famiglia di imprenditori, la
poeta e traduttrice anticolonialista, il politico che prova a immaginare una
via oltre la guerra fredda. Tre italiani che avevano avviato un dialogo su
resistenza e liberazione con Amílcar Cabral, dirigente indipendentista e
panafricanista, guerrigliero nell’allora Guinea portoghese, oggi Guinea-Bissau.
Quello scambio si interruppe cinquant’anni
fa, con un colpo di pistola alla tempia. È il 20 gennaio 1973: Cabral è
assassinato da Inocêncio Kani, veterano del suo stesso partito, in circostanze
mai del tutto chiarite. Lo sparo risuona a Conakry, nuova capitale dell’ex
Guinea francese, divenuta la base dei guerriglieri in lotta con i portoghesi al
di là del confine. Sotto accusa finiscono i servizi segreti di Lisbona,
sospettati di un complotto. Sui quotidiani italiani la notizia finisce in prima
pagina.
Ma cosa resta degli incontri con Cabral
cominciati in casa Pirelli, a Varese, nel 1963, e culminati quando Roma ospita
la Conferenza internazionale di solidarietà con i popoli delle colonie
portoghesi? Filomeno Lopes, giornalista e filosofo originario della
Guinea-Bissau, da tempo in Italia, ne riflette nel suo nuovo libro in uscita
per Castelvecchi: sarà intitolato Afroitalotopia,
neologismo per una visione del futuro che si nutre di storia. “Quel dialogo”,
sottolinea lo scrittore, “permise al movimento anticolonialista e terzomondista
italiano dell’epoca di riconfigurare il proprio paradigma della resistenza,
interpretando come un suo prolungamento le lotte di liberazione in corso in
Africa”. Si provò allora, secondo Lopes, “ad adottare una prospettiva più
ampia, dalla parte degli oppressi”.
Dalla resistenza
all’indipendenza
Non è una storia lontana, perché il tema
dei rapporti con l’Africa è ancora presente. Lo confermano i richiami della
politica odierna a Enrico Mattei, partigiano, deputato democristiano e
fondatore dell’Ente nazionale idrocarburi (Eni). Allargando lo sguardo oltre il
Mediterraneo, il 25 aprile 1961, a Firenze, Mattei aveva invitato a “ribellarsi
contro l’ingiustizia, la prepotenza e la sopraffazione e per la sacrosanta
difesa dei diritti umani”. Il suo obiettivo dichiarato era rompere l’oligopolio
delle “sette sorelle” del petrolio (Exxon, Shell, British Petroleum, Mobil,
Chevron, Gulf e Texaco), affermando il principio per il quale i paesi in cui si
trovano le riserve devono ricevere i tre quarti dei profitti derivanti dai giacimenti.
Della necessità di promuovere un “piano Mattei” per l’Africa ha parlato nel
dicembre scorso l’attuale presidente del consiglio italiana, Giorgia Meloni.
Basta “posture predatorie”, ha detto, e spazio invece alla collaborazione tra
paesi, “valorizzando le identità e le specificità di ciascuno” e con l’Italia
“nazione guida in questo approccio”.
Ma torniamo ad Afroitalotopia. Pagina dopo pagina si susseguono
ritratti e citazioni di dirigenti politici ed esponenti della società civile
protagonisti del dibattito sulla decolonizzazione tra gli anni cinquanta e
settanta del novecento: da Aldo Moro ministro degli esteri al segretario del
Partito comunista (Pci) Berlinguer, dal sindaco di Firenze Giorgio La Pira al
presidente dell’assemblea del Consiglio d’Europa Giuseppe Vedovato,
dall’avvocato e costituente Lelio Basso alla fotoreporter Bruna Polimeni. Nel
dopoguerra in Italia brucia il ricordo dell’aggressione mussoliniana
all’Etiopia e quello delle liberazioni africane è un processo vissuto con
disagio, a volte in maniera traumatica. E però, sottolinea Lopes, dirigenti
della Democrazia cristiana al governo come Amintore Fanfani, Vedovato o Moro
“cercheranno di riconvertire la decolonizzazione in una spinta per avere un
nuovo ruolo nella scacchiera geopolitica mondiale”.
Afroitalotopia è un omaggio a
“personaggi nati in terra europea ma che hanno speso tutte le loro energie per
servire la causa della libertà di popoli apparentemente lontani”. Sono
rievocati discorsi di Pirelli, imprenditore e intellettuale, capace di guardare
al di là dei guadagni economici immediati. “Ricordatevi che la resistenza non è
affatto finita con la disfatta del fascismo”, disse rivolgendosi ai giovani.
“Finché ci saranno sfruttatori e sfruttati, oppressori e oppressi, chi ha troppo
e chi muore di fame, ci sarà sempre da scegliere da che parte stare”.
E poi Salvadori Lussu, traduttrice di
poeti angolani, vietnamiti o curdi: “La resistenza bisognava continuare a farla
nei nuovi spazi legali e costituzionali che ci eravamo conquistati, senza far
finta che il fascismo fosse stato debellato e senza dimenticare che molti
popoli gli spazi legali e costituzionali non li avevano e dovevano ancora
affrontare la guerra per la loro sopravvivenza”. Il riferimento è anche alle
colonie portoghesi, le ultime in Africa a essere liberate, dove cineasti,
giornalisti e scrittori si recano per documentare e testimoniare. Tra loro c’è
Polimeni, che accompagna Cabral nelle sue missioni ed è poi l’unica
fotoreporter a documentare la proclamazione d’indipendenza della Guinea-Bissau
il 24 settembre 1973.
Di questi rapporti e queste solidarietà
Lopes sa poco quando si trasferisce a Roma per studiare alle università
pontificie Urbaniana e Gregoriana. Negli anni novanta è poi in Sudafrica,
ospite della fondazione di Desmond Tutu, per assistere agli incontri della
Commissione verità e riconciliazione voluta dal presidente Nelson Mandela dopo
la fine del regime di apartheid. “Fu lui a parlarmi di Cabral e mi vergognai
tantissimo”, ricorda Lopes. “Lo definiva il più grande di tutti, mentre io, che
ero guineano, al di là delle frasi retoriche sul ‘padre dell’indipendenza’, non
ne sapevo quasi nulla”.
Nel tempo il suo paese è divenuto ostaggio
di nuove crisi, con corruzione e malgoverno alimentati dal contrabbando di
droga dall’America Latina all’Europa. “Oggi per i giovani africani la
conoscenza del passato è difficile, nient’affatto scontata”, spiega Ângela
Coutinho, ricercatrice di storia coloniale all’Universidade Nova di Lisbona,
nata a Capo Verde, un arcipelago al largo della Guinea del quale erano
originari entrambi i genitori di Cabral. Proprio nell’isola di São Vicente,
dove il dirigente indipendentista visse da ragazzo sette anni, l’esperta ha
organizzato nel dicembre scorso il festival Cinema-debate Amílcar Cabral.
“L’obiettivo è far riflettere su una vicenda più che mai internazionale, che
vive di legami con il mondo e anche con l’Italia”, sottolinea Coutinho. Al
telefono parla in italiano e pronuncia più volte la parola “partigiano”,
definendola “una realtà e un mito globale”. Rievoca poi un telegramma inviato
da Berlinguer all’indomani dell’assassinio di Cabral: il segretario del Pci si
rivolge ai “compagni” guerriglieri denunciando la “mano mercenaria armata dai
colonizzatori portoghesi” e rendendo omaggio alla “vittoria ormai certa
dell’eroica lotta”.
Guarda al sud globale anche la Democrazia
cristiana. Come il Pci, il partito di governo prova a vedere oltre i blocchi
contrapposti della guerra fredda. “Riconoscendo il sud in generale e l’Africa
in particolare come nuovi interlocutori e protagonisti della scena culturale,
politica e geopolitica mondiale”, ricorda Lopes.
Solidarietà e pace
Basta sfogliare i quotidiani dell’epoca.
Nel 1965, in Tanzania, alle riunioni della Conferência das Organizações
Nacionalistas das Colónias Portuguesas (Concp) partecipa l’ex deputato Giovanni
Serbandini, “Bini” per i compagni partigiani, in rappresentanza del Comitato
anticolonialista italiano. Anche a lui si rivolge Cabral per accusare
l’Alleanza atlantica, che ai portoghesi fornisce missili e bombe al napalm, le
stesse usate dagli statunitensi in Vietnam. Ai portoghesi sono state
sequestrate anche mitragliatrici e granate prodotte nelle fabbriche italiane.
“La Nato”, scandisce il dirigente, “in un certo qual modo governa questo popolo
eroico che ha saputo dar esempio di amore e di libertà: il popolo italiano”.
Per Serbandini e il suo Comitato il messaggio è però un altro: “Volevo dire al
nostro fratello che ha parlato qui che noi non confondiamo il popolo italiano
con lo Stato italiano, che fa parte della Nato”.
Cabral lo spiega ancora, il 27, 28 e 29
giugno 1970, a Roma, in occasione della Conferenza di solidarietà con i popoli
delle colonie portoghesi. “Voglio dire anche”, sottolinea, “quanto ammiriamo,
quanto cerchiamo di imparare dall’esperienza dei partigiani italiani che hanno
saputo prendere le armi per battersi, nella valle del Po come in altre regioni,
contro il fascismo, contro la presenza tedesca, per la liberazione dei popoli”.
Secondo Lopes, è valorizzando alleanze
come queste e non concentrandosi solo sulle opportunità economiche che vanno
approfonditi i rapporti con l’Africa. Lo scrittore cita l’esempio di un’altra
ex colonia portoghese, il Mozambico, oggi potenza emergente degli idrocarburi:
l’accordo che trent’anni fa permise di superare una guerra civile fu firmato a
Roma, nella sede trasteverina della Comunità di Sant’Egidio. “Che si chiami o
meno piano Mattei”, sottolinea Lopes, “qualsiasi nuovo partenariato deve essere
culturale e sociale e non limitarsi a contratti dell’Eni per le importazioni di
gas naturale”.
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