giovedì 30 ottobre 2014

Ogni giorno è per il ladro – Teju Cole

un piccolo libro straordinario.
uno vive fuori, meglio, e magari si rimuovono i difetti della patria di partenza, e resta la nostalgia, Teju Cole torna per qualche settimana in Nigeria, e trova quello che si trova al ritorno. 
tutto il male, corruzione, estorsione, pressapochismo, oblio del passato, e qualche cosa bella, che vale ancora di più, visto l'ambiente.
un amico, un negozio che vende dischi, una persona che legge un libro sono cose preziose, minoritarie, da coltivare.
ma tutto è difficile, quasi impossibile.
la straordinarietà di questo quasi diario di viaggio risiede nel fatto che è disegnato il nostro futuro, non solo un presente (parzialmente) altro.
il Male vince, senza trovare ostacoli abbastanza forti da fermarlo, o anche solo rallentarlo.
un libro che con poche pennellate dipinge un mondo., con gli occhi di un quasi-straniero.
ma tu leggilo (anche) come una cronaca del nostro futuro, non potrai non sentirti coinvolto - franz







…Dopo il racconto di New York, anche la scoperta di Lagos – col suo odore di cherosene, i muezzin, i galli, il rumore dei generatori che partono ai continui black-out, i guru religiosi che girano con le Mercedes-Benz – si rivela presto essere l’unico modo in cui Cole cerca se stesso. Il suo peregrinare nei luoghi che non conosce e in quelli che conosceva un tempo esprime il desiderio di perlustrare una parte di sé che è ancora inaccessibile.
Ogni giorno è per il ladro è uscito in Nigeria nel 2007. È stato poi rivisto dall’autore per la pubblicazione nel resto del mondo nel 2014. Lagos è cambiata. Aprono nuovi fast food, si è formata una Chinatown che prima non esisteva. Con gli anni muta anche Teju Cole. I lettori continueranno a seguire i suoi viaggi nei quartieri di teppisti, le sue descrizioni della pioggia, la sua passione per l’arte. E chissà, magari un giorno, si fermerà, e per scrivere un grandioso racconto di una nuova città si metterà a scrivere. Non più reportage, ma una lunga lettera alla madre.

Ogni giorno è per il ladro (scritto in realtà per primo nel 2007, ma pub­bli­cato sinora solo in Nige­ria), oscilla con­ti­nua­mente tra appar­te­nenza e non-appartenenza, flut­tua tra nostal­gia, amore e rab­bia in una serie di pere­gri­na­zioni, di fram­menti ed epi­sodi, intra­mez­zati dalle dician­nove foto­gra­fie che l’autore stesso ha scat­tato a sette anni di distanza, nel 2013, come altret­tante istan­ta­nee di un mondo sfac­cet­tato e non ricon­du­ci­bile a verità asso­lute ed inter­pre­ta­zioni uni­vo­che. Il ritorno alla nativa Nige­ria san­ci­sce la presa di coscienza dell’impossibilità del «ritorno a casa», rac­co­glie sto­rie di esi­lio, segna un viag­gio epico nella vita moderna dell’Africa…

L’operazione compiuta da Cole è uno dei tòpoi più classici della letteratura, la cronaca di un ritorno a Itaca che si sposta però a un’altra latitudine, dove tutto è più estremo, intenso. L’autore è consapevole che il materiale che ha a disposizione per la sua storia è roba prolifica, bollente, che si presta con naturalezza alla narrazione, e lo maneggia con consapevolezza e misura. Dopotutto, tramite il suo personaggio confessa ai lettori: «provo una vaga compassione per quegli scrittori che devono esercitare il loro mestiere in sonnolenti sobborghi americani, descrivendo scene di divorzio simboleggiate da un lentissimo risciacquo di piatti. Se John Updike fosse stato africano, avrebbe vinto il Nobel vent’anni fa. Sono convinto che il suo materiale lo ostacolava. Shillington, Pennsylvania, semplicemente non era all’altezza della sua stravagante genialità». La Nigeria, invece, il talento di Teju Cole lo sa assecondare eccome.
da qui

mercoledì 29 ottobre 2014

protestano contro l'assassino di Thomas Sankara

Sono scesi in piazza a migliaia, secondo i dati forniti dall'opposizione, i manifestanti a Ouagadougou capitale del Burkina Faso, sono un milione. Protestano contro il progetto di riforma costituzionale che consentirebbe al presidente Blaise Compaoré di rimanere al potere, di candidarsi ancora una volta e di prolungare ulteriormente il suo mandato che dura già da 27 anni. Gli agenti hanno usato gas lacrimogeni per disperdere un centinio di giovani che tentavano di bloccare la principale autostrada del Paese e che si erano avvicinati troppo alla sede del parlamento. I contestatori hanno risposto lanciando pietre. Tre le scritte sugli striscioni "Blaise vattene" o "Non toccate l'articolo 37", che si riferisce al limite di mandato previsto dalla costituzione che il Parlamento è chiamato a rivedere per consentire al presidente di candidarsi il prossimo anno. Giovedì prossimo l'assemblea nazionale esaminerà l'emendamento costituzionale che prevede di aumentare il numero massimo di mandati presidenziali…



…M. Compaoré dispose d'une solide image à l'étranger, notamment en France, malgré des trafics d'armes et de diamants avec les insurrections angolaise et sierra-léonaise épinglés par l'ONU, ou sa proximité avec le défunt « Guide » libyen Mouammar Kadhafi et le dictateur libérien Charles Taylor. Il est crédité d'avoirplacé son petit pays enclavé au cœur de la diplomatie africaine, en s'imposant comme l'un des grands médiateurs dans les conflits qui agitent le continent.
Ainsi, Paris, qui a critiqué la semaine dernière le projet constitutionnel, ne se montre pas très virulent à l'égard du chef de l'Etat. Blaise Compaoré fait actuellement office de médiateur au Mali, où l'ex-puissance coloniale est engagée dans une intervention militaire compliquée. De son côté, Washington a fait part, mardi, de sa préoccupation quant à « l'esprit » et aux « intentions » de ce texte.

martedì 28 ottobre 2014

papa Francesco è l'unico leader di sinistra

"Terra, lavoro, casa. Strano, ma se parlo di questo per alcuni sono comunista" e invece "l'amore per i poveri è al centro del Vangelo" e della dottrina sociale della Chiesa. Lo ha detto il Papa ad alcuni movimenti popolari, tra cui quello legato allo storico centro sociale milanese Leoncavallo, sottolineando che questo incontro "non risponde a nessuna ideologia". 

La lotta alla povertà. "Diciamo insieme con il cuore", ha esortato Francesco, "nessuna famiglia senza tetto, nessun contadino senza terra, nessun lavoratore senza diritti, nessuna persona senza la dignità del lavoro!", invitando i movimenti popolari a "continuare la propria lotta, perché ci fa bene a tutti". L'incontro con i loro rappresentanti "è un grande segno: viene messa alla presenza di Dio, della Chiesa, della gente una realtà spesso messa a tacere. I poveri non si accontentano di promesse illusorie, scuse o alibi. E neanche possono aspettare a braccia incrociate l'aiuto delle Ong, di piani assistenziali o soluzioni che non arrivano o se arrivano" lo fanno in un modo "pericoloso", per "anestetizzare o addomesticare". 

"I movimenti rivitalizzano democrazia". Secondo il Papa, i movimenti popolari "esprimono la necessità urgente di rivitalizzare le nostre democrazie, tante volte sequestrate da innumerevoli fattori". Francesco ha anche sottolineato che è "impossibile" immaginare "un futuro per una società senza la partecipazione protagonista della grande maggioranza" della persone. Bisogna superare "l'assistenzialismo paternalista" per avere pace e giustizia, creando "nuove forme di partecipazione che includano i movimenti popolari" e il "loro torrente di energia morale"…

Un pirata piccolo piccolo – Amara Lakhous

Hassinu racconta in tre giornate una città e un mondo che diventa insostenibile e l'unica via di salvezza è la fuga.
ha qualche amico, qualche parente, un lavoro che sta per evaporare, vive in una società corrotta e violenta, in un mondo che non è tanto estraneo al nostro, in parte almeno.
si sentono arie di Albert Cossery e Nagib Mahfuz e Alaa al-Aswani, di quel mondo urbano delle città dell'Africa del nord (o del Mediterraneo del sud, a scelta).
parafrasando Bertolt Brecht si può dire che "Sventurata è la terra che produce emigranti e profughi".
non è perfetto, ma è un libro che merita - franz






…Hassinu è un pirata piccolo piccolo, chiuso dentro i suoi comportamenti ossessivi, i rituali religiosi svuotati di significato autentico, i pensieri e i comportamenti ipocriti simili a quelli degli altri, baciapile e trasgressivo insieme, debole e vigliacco, non è capace di combattere e vedersi in una dimensione collettiva di lotta, perché è troppo deluso e l'orizzonte lo schiaccia con la sua piattezza. Capace solo di proposte paradossali quali gare di sonno contro la disoccupazione o la riduzione delle baguette per famiglia allo scopo di  ridurre le nascite. Forse, semplicemente, non sono ancora i tempi.
Il romanzo termina, in una malinconica depressione,  con una solenne ubriacatura in compagnia di un giovane che pensa che l'unica possibilità sia andarsene e migrare e di un vecchio con lo sguardo rivolto unicamente al passato. Un po' di speranza? Forse...
Il traduttore ha fatto miracoli per rendere questo linguaggio convulso e frammentato, scritto originariamente in arabo algerino e non in arabo classico, con un mix di registri alti e bassi: doppiamente coraggioso l'autore per il contenuto e la lingua non convenzionale. Il testo è corredato da una introduzione dello stesso  autore e da una postfazione del traduttore: il resto lo apprenderete lì.

…La storia si svolge in tre giorni: giovedì 27 febbraio, venerdì 28 febbraio, sabato 29 febbraio, giorno in cui il protagonista compie gli anni, in teoria ogni quattro anni, essendo l’anno bisestile. Hassinu quarantenne è nell’età in cui il profeta Maometto ricevette la Rivelazione, lui, invece, è un impiegatuccio piccolo piccolo che lavora alle poste. Scapolo in una società in cui l’essere celibe è visto come motivo di disordine…

… Romanzo divertente per l’uso di un linguaggio semplice, senza fronzoli, diretto, colorito (si pensi solo a tutte le volte che chiama in causa il suo “Fertàs”) e che riesce a trattare gli argomenti seri in modo leggero provocando, grazie anche all’ironia propria dell’autore, più di un sorriso.
E con questa ironia che fa sorridere in molti casi (anche se spesso di un sorriso amaro), l’autore riesce a mettere in evidenza la corruzione, il marcio e le storture di una cultura che tende a privilegiare poche persone a scapito della stragrande maggioranza della popolazione, mettendo in evidenza come soprattutto le donne siano colpite in quanto considerate socialmente inferiori e in quanto costituiscano a volte il bersaglio più facile su cui abbattersi…
da qui

lunedì 27 ottobre 2014

Buon compleanno a Beppe Viola - Gianni Mura

Se Beppe Viola fosse vivo, oggi sarebbe il suo compleanno. Avrebbe 75 anni, qualche by-pass, pochi capelli (tingerli, mai) e qualche nipote. Avrebbe scritto qualche libro in più, qualche canzone in più. Milano gli piacerebbe sempre di meno, cercherebbe rifugio in luoghi (poco costosi, ocio) in cui già si rifugiava: la val d'Intelvi, le colline piacentine. L'è bona la meringa ma de grana ghe n'è minga.

Se Beppe Viola fosse vivo sarebbe molto popolare, credo. Lo era già, ma cercava di dribblare questa popolarità come faceva il suo amico Rivera con i terzini. Scena, vista più volte, per strada. "Scusi, ma lei è Beppe Viola?". "Guardi, me lo dicono in tanti, forse c'è una certa somiglianza, ma io non sono lui".

Beppe aveva un'aria ciondolante da fancazzista, che non gli ha impedito di sgobbare come una bestia per tutta la sua breve vita e di morire lavorando, tanto per cambiare. "Come un pirla", avrebbe chiosato lui.

È morto in Rai, una domenica sera, 17 ottobre 1982, mentre stava curando la sintesi di Inter-Napoli 2-2. "È andato", disse al Fatebenfratelli il suo medico curante, dottor Jannacci Enzo.

Ma prima di far circolare la notizia bisognava aspettare. Il tempo necessario per l'espianto degli organi. Generoso sempre, Beppe. Anche da morto. Gli occhi andarono a una cieca madre di sei figli (questo l'ho saputo da Franca, moglie di Beppe). Da vivo, se aveva solo un sacco (mille lire) e un amico gli chiedeva una scudo (cinquemila) chiedeva a un terzo amico altri quattro sacchi per accontentare il secondo…

venerdì 24 ottobre 2014

Dal mantra della videoconferenza al mantra della LIM

Una quindicina d’anni fa stavo in una scuola dove si attrezzò un aula chiamata di videoconferenza, era importante che le scuole potessero comunicare con le altre scuole, e non solo, stando ciascuno nella propria sede, si diceva.
Sarebbero crollate tutte le spese di trasferimento, vitto, alloggio e trasferta per l’Amministrazione, si diceva.
La tecnologia avrebbe trasformato le scuole, si diceva.
Quell’anno addirittura due volte due classi si misero in contatto con altre classi per vedersi e parlarsi, non ricordo di cosa, non doveva essere importante.
In seguito quelle apparecchiatura rimasero a prendere polvere, e sicuramente sono ormai obsolete.
I dirigenti hanno fatto frequenti viaggi a Roma,a fare riunioni, a partecipare ad adunate, a prendere le direttive ministeriali, senza videoconferenze.***

Oggi lo stesso sembra valere per le LIM, siamo nella fase dell’entusiasmo, poi il ciclo sarà in (rapida) discesa.

Già oggi nel documento de “La buona scuola”, a p. 73, si parla delle LIM come di tecnologie troppo 'pesanti' (qui), magari le rottameranno, a vantaggio di tecnologie nettamente migliori e meno costose (qui), anche il prof. Bottani, sicuramente senza simpatie luddiste, ospita nel suo sito interventi drasticamente critici, addirittura nel 2010, relativa all’esperienza degli Usa, ("Le LIM, un flop?" e "Perché odio le LIM").

Cosa succederà appena i venditori e i montatori delle LIM non garantiranno più assistenza e manutenzione?

*** Mi è venuta in mente la storia delle videoconferenze quando ho letto che numeroso gruppo di dirigenti degli istituti alberghieri di tutta Italia si sono trovati fra Cagliari (candidata per essere capitale europea della cultura) e Pula (un posticino dove ha sede il Forte Village, famosa struttura di vacanza per non poveri, per chi non la conosce).
Anche il sottosegretario del MIUR Toccafondi era lì (qui), per sponsorizzare la buona scuola.

Non ho mai capito perché questi bellissimi convegni non li facciano a Scampia, a Corviale o allo Zen di Palermo.

Mandami a dire – Pino Roveredo

sulla copertina del libro ci sono le parole di  Claudio Magris:  "I suoi racconti sono veri piccoli capolavori". 
sempre diffido di questi spot, ma per una volta alla fine sono abbastanza d'accordo, alcuni racconti sono solo belli, gli altri sono bellissimi, imperdibili.
dentro c'è la vita, quella dello scrittore, quelle dei personaggi, e anche le nostre, se si guarda e si ascolta bene.
mica facile, ma Pino Roveredo riesce, in questo piccolo grande libro, a essere tristi perchè all'ultima pagina capiamo che non possiamo più leggerlo per la prima volta - franz

e grazie a Daniela che me ne ha parlato.




Dolce tesoro mio, come stai? Anche oggi ti ho cercata al telefono e tu non c'eri, ma lì, nella tua lontananza, ti trattano bene? Mi raccomando: se ti sfiorano un capello, tu mandami a dire. (da Mandami a dire)

14 novelle, 14 piccoli-grandi capolavori, 14 piccole apparizioni di un’umanità densa, palpitante, emozionante nella sua semplicità, nella sua espressione di sentimenti elementari, veri, immediati nella loro comprensione…

Un libro all’apparenza veloce, sia per il formato che per la lunghezza dei racconti, ma se in certi episodi (La famiglia Starnazza, Brutti sgabuzzini, Problema, L’uomo dei coperchi) questa impressione può anche risultare vera, in altri (Mandami a dire, I ragazzi di quarant’anni, Una boccata d’amore) ogni frase è un’eco che dura, rimbalza e ritorna all’attenzione, impedendoti di andare oltre fino a quando non ha imboccato tutte le direzioni possibili.
Ciò comporta il rischio di piegare la libertà notturna della scrittura a una pur nobile finalità morale e umana, a una retorica. Egli si rende conto di questo rischio e della necessità di separare le due scritture, quando dice che, in ogni caso, prima di diventare buono lo scrittore deve tirar fuori tutta la sua cattiveria e rappresentare senza remore tutto il male dei suoi personaggi, anche quando sente il bisogno o la tentazione di scagionarli. Ma aggiunge: “Per me, come per tanti che scivolano nel silenzio della solitudine, la scrittura è l’ultima voce, la voce intima che può trovare il coraggio di scrivere nella disperazione, a volte fino a toccare e a rovesciare il fondo della coscienza, e trasformare, in un impulso, quasi in un’energia fisica, che trova la scorciatoia per uscire dal male. La scrittura dà la libertà di vincere la paura della memoria e convincersi che nessuno è irrecuperabile. Proprio per pura azione egoista, io continuo a salvarmi… aiutando altri a salvarsi.” – dall’introduzione di Claudio Magris

mercoledì 22 ottobre 2014

lettere immaginarie e no

Elsa Morante parlava del mondo salvato dai ragazzini, scrivere due lettere, immaginarie (e realistiche), è un modo con il quale due ragazzini italiani si sentono coinvolti.
e poi un algerino, incontrato da Pino Petruzzelli, e due turchi, di ieri, ma il tempo non importa, raccontano le loro storie, di perdenti e perduti, scarti umani di un mondo che ne produce ogni giorno di più.
arriverà un giorno nel quale la storia giudicherà gli statisti in base a un indice semplice semplice, aver fatto crescere o diminuire il numero delle persone che non hanno niente da perdere - franz
 
Lettera ad un immigrato clandestino approdato sulle nostre spiagge
Caro amico,
c’è chi ti disprezza, chi ti umilia, chi ti imbroglia, chi ti perseguita… ma io ti stimo.
Tu senza sapere ciò che accadrà, tenti il costoso e rischioso viaggio della fortuna,
impavido e sacrificando la tua vita per un futuro migliore.
Affidando i risparmi di una vita ad un crudele scafista, il quale a tuo discapito è
pronto a scaraventarti in mare senza pietà e sensi di colpa, anzi, con sollievo per
essersi liberato di te. Tu in enorme difficoltà vai speranzoso, in cerca di una nuova
vita.
E arrivato qui, sei costretto ad affrontare la crudeltà umana che già esisteva un
tempo e che continua ad esserci anche oggi, nel 2013.
Ecco, fuggi dalla fame e dalla guerra, per trovarti chiuso in un “ CENTRO
D’ACCOGLIENZA”, da dove deluso cercherai altre strade.
Forse fuggirai ancora una volta e ti nasconderai ancora una volta e, ancora una volta
sarai discriminato e deriso, ma tu, col tuo sorriso, porgerai l’altra guancia e
proseguirai, il tuo lungo viaggio.
Per sopravvivere, ti lascerai alle spalle la fame, gli insulti, gli stenti e le umiliazioni.
Il viaggio della fortuna è terminato, o forse è appena cominciato, ma stai tranquillo
perché, anche se, non capisco la tua lingua, non professo la tua religione, non so nulla
dei tuoi usi, costumi e tradizioni, sono anch’io un essere umano e so che tu, come me
hai un’anima, dei sentimenti e delle emozioni, so benissimo ciò che hai provato, provi e
continuerai a provare, pertanto se avrai bisogno d’aiuto, bussa alla mia porta ed io
sarò al tuo fianco.
BUONA FORTUNA AMICO!!!
 
Lettera da un clandestino immaginario
di Federico Mangialardo, 17 anni, studente
"Caro amico che ti trovi da qualche parte nel mondo; tu che vivi nel mondo civilizzato, tu che abbracci la tua famiglia sicuro di un tetto sulla testa, di un piatto caldo pronto per te, che sei nato nella parte giusta del mondo. Sono sicuro che non avrai molto tempo per me, per i tuoi fratelli sparsi nel mondo che cercano di sopravvivere, ma ti chiedo solo il tempo di leggere queste righe.
Io sono uno di quelli che solitamente chiami”clandestini”, uno di quelli che arriva nella tua terra in punta di piedi, senza pretendere molto, se non un po' di dignità, di pace e di lavoro.
Lo so che non passo per le vie convenzionali ma per me, come per il mio amico Musa, che viene dal Gambia e non ha nemmeno avuto l'opportunità di andare a scuola, quelle vie sono ancora più difficili che traversare il Mediterraneo su di un barcone fatiscente, che attraversare il deserto per poi rischiare la vita in Libia.
Tu devi capire questo: di alternative non ne avevo, a casa mia c'è la guerra, una guerra civile costante e perpetua, della quale pure i tuoi giornali si sono stancati di parlare. Altri miei fratelli sono scappati dalla fame. Che alternative potevamo avere se non partire? Diventare pirati come capita in Somalia? Li compiono azioni sbagliate, ma cosa gli posso rimproverare, di provare a restare in vita?
I soldi in certe parti dell'Africa, se ci sono, vanno nelle mani di potenti, ricchi, signori della guerra con cui, magari, il tuo governo fa affari. Detto questo spero che perdonerai il somalo che da qualche tempo dorme qui con me nel tuo paese.
E non mi piace poi così tanto anche ricevere i soldi dal tuo governo, ma che ci posso fare? Io vorrei lavorare, darmi da fare, cercare di dare una svolta alla mia vita. Però qui non c'è lavoro nemmeno per chi ci è nato. Mi dispiace, ma non ho intenzione di arrendermi alla vita che mi tocca; ho inseguito una speranza, sono arrivato troppo lontano per poterci rinunciare proprio ora.
Ora sono qui e ti chiedo aiuto; sono qui e affido il mio destino a te. Ti posso solo offrire la mano e la gratitudine di un uomo che ha combattuto a suo modo per cambiare il corso della propria storia.
Sperando che tu possa capirmi e aiutarmi.
 
dice Ken Loach:
“Il razzismo ha una funzione nella nostra società. Fa in modo di impedirci di identificare il nostro vero nemico. La responsabilità del problema dei senza tetto, della povertà e dello sfruttamento non è delle persone più povere e sfruttate. Farli diventare il capro espiatorio, perché sono neri o marroni o perché vengono da una cultura diversa, lascia i veri sfruttatori liberi di agire. Una classe di lavoratori divisa dal razzismo è perfetta per gli imprenditori. Essi traggono beneficio dal lavoro a basso costo, mettendo i lavoratori gli uni contro gli altri. Qualunque sia la loro retorica, i fascisti che si servono del razzismo parlano nell'interesse del capitale.
Dobbiamo ricordare che l’offesa fatta a uno, di qualunque razza egli o ella sia, è un’offesa fatta a tutti.”
 
“Io abitavo in un paese che si chiama Algeria.
Amo la vita e amo quello che faccio.
Il mio lavoro è un messaggio per il mio popolo.
In un paese che sta lottando per una causa giusta che si chiama democrazia, mi hanno condannato a morte perché le mie idee sono diverse dalle loro.
Mi hanno condannato perché sono un uomo di teatro.
Mi hanno condannato a morte perché mi esprimo attraverso il mio lavoro, perché ho detto quello che penso di questi fondamentalisti che hanno monopolizzato la religione.
Adesso sono in un paese che si chiama Italia e sa cosa significa democrazia e cosa significa emigrazione: fuggire da un inferno per trovare un altro inferno.
Grazie.”
 
«Sono un turco. Un turco che è entrato clandestinamente in Svizzera dall’Italia, come quel bambino di sette anni che è morto l’altra notte di freddo e di fame mentre tentava di venire qui, dove sono adesso io, vivo e felice. Perché si sorprende, signore? Io sono felice, davvero. Sono in Svizzera. Sto in questa baracca che si chiama Centro di registrazione degli asilanti, quelli che hanno chiesto asilo, mi scusi se sono in pigiama, se voglio posso uscire: mi sento davvero libero. Ah, lei non ci crede? Se lei dice che un uomo come me non può sentirsi davvero libero perché vive in una baracca e si chiama con una sigla, io sono S31, mi pare, si sbaglia. Se sente la mia storia cambierà subito idea».
S31 è uno dei diecimila e ottocento immigrati clandestinamente in Svizzera dal primo gennaio scorso ad oggi, il 90 per cento sono turchi, come lui. E’ facile entrare in Svizzera. E’ difficile restarci. Un modo è quello di chiedere asilo politico: gli «asilanti» hanno diritto a restare, nei Campi di raccolta, almeno il tempo dell’inchiesta per accertare se sono perseguitati o «se fanno i furbi».
S-31 la sua storia la racconta così. «Sono nato 23 anni fa in un villaggio turco dell’Est, uno di quei paesini dove ci sono tanti militari e tanta polizia. Da lì me ne sono andato. Credevo che a Istanbul fosse diverso. Per vivere facevo il cuoco. Ma vivevo male. Pochi soldi, niente casa. Davo da mangiare e distribuivo qualche manifesto per quelli di Dev-Sol, un’organizzazione politica di sinistra. Lavoravo, lavoravo, ma non avevo mai il giusto, sempre qualcosa di meno. E allora, via. Un giorno al ristorante arriva un autista di Tir. Te ne vuoi andare, mi dice? Sì, me ne voglio andare. Con duemila franchi svizzeri, un milione e settecentomila delle vostre lire italiane si può fare, mi dice. Potevo portare una sola borsa, con tutto dentro. Tanto non avevo più nulla. Per mettere insieme i soldi del viaggio ho bruciato tutto quello che avevo. Una notte sono salito dentro quel Tir, nel cassone, con gli altri, una ventina. Istanbul, Bulgaria, Jugoslavia, Italia, Milano: quattro giorni di viaggio. Da mangiare e da bere ce lo dava ogni tanto l’autista. Per la toilette, scusi signore, facevamo tutto all'aperto. L’autista si fermava nei posti dove non c’era nessuno, quasi sempre dì notte. A Milano sono sceso dal Tir: due uomini, due italiani erano venuti a prendermi con la jeep. Non so proprio dov'ero; so solo che ero a Milano. Ma lì ci sono stato poco. Siamo partiti quasi subito. Mi hanno portato a un valico, quale non lo so. Ah, ho dovuto pagare ancora, ma non mi hanno imbrogliato: lo sapevo prima. Questa volta l’equivalente di duemila marchi tedeschi, più o meno un milione e mezzo delle vostre lire. Gli ultimi soldi, ma ne valeva la pena. Con la jeep mi hanno portato su una montagna. Eravamo ancora in Italia. Poi mi hanno fatto camminare, tre ore nei boschi. Faceva molto freddo, ma non m’importava. Quando sono arrivato al confine è stato un po’ strano. C’era quella rete metallica con un buco. Italia e Svizzera sembravano proprio uguali. Ma dall'altra parte del buco, un po’ più in là, c’era un’altra macchina che mi aspettava; o forse era la stessa che mi aveva portato al confine, poi era entrata in Svizzera e ora veniva a prendermi. I due italiani mi hanno portato a Friburgo. Non lo so perché proprio lì. Io non capivo loro e loro non capivano me. Mi hanno fatto vedere il posto di polizia da lontano e mi hanno fatto segno che dovevo andare lì. Ho chiesto asilo politico. Se non accetteranno la mia domanda? Finirebbe male, per me. Ma io preferisco pensare che tutto andrà a posto e io farò il cuoco in Svizzera».
S40 ha ascoltato in silenzio: ha i capelli lunghi e neri, gli occhi chiari e gli orecchini d’oro: l’unica cosa che valga qualcosa. Pure lei ha una storia da raccontare. «Anche io sono turca, anche io ho 23 anni, però non sono musulmana, sono curda. Mia madre mi ha detto: vai via, salvati almeno tu. Così una mattina ho preso il bus a Istanbul. Mio padre era già lontano, nel Kuwait a fare l’operaio, mia madre fa tessuti, uno dei miei due fratelli fa l’università. Li ho lasciati, ma loro sono contenti per me. Con tre milioni di lire turche ho comprato il biglietto del bus fino a Milano e il passaporto falso. Con 1800 marchi tedeschi il viaggio in auto da Milano al confine. Con un milione e 200 mila lire italiane il passaggio dalla frontiera fino a Basilea, in macchina. Mia madre ha venduto le sue ultime cose per aiutarmi. Lo sapevo che facevo una cosa illegale, ma era l’unico modo. La Svizzera è bella: finora ho conosciuto poche persone. Quei signori del battello a Basilea, perché in quella città il Centro per i profughi è in un barcone sul fiume. E questi qui al centro di Chiasso. Non ho scelto io di venire qui: è stato il caso, il destino. A me interessava soltanto arrivare in Svizzera. Sì, è come me la immaginavo: un posto dove vorrei fermarmi a vivere. Perché, signore, dice che potrei non avere l’asilo politico? Non sapevo di quel bambino morto al passo dello Spinga, magari sono passata anch'io di là e ora sono qui. Vede che sono fortunata?». Nel cortile della baracca si gioca a pallone aspettando di sapere se si è uno dei 65 ogni cento immigrati clandestini che ottengono l’asilo politico, il diritto di restare e quello a un lavoro. Quasi sempre «nero», ma non importa.
Francesco Cevasco

martedì 21 ottobre 2014

dice Nicolás Gómez Dávila




appartengono alla letteratura tutti i libri che si possono leggere due volte.


La confessione della leonessa – Mia Couto

dice Nicolás Gómez Dávila che “appartengono alla letteratura tutti i libri che si possono leggere due volte"; questo libro l’ho letto due volte di seguito, quindi questo libro appartiene alla letteratura.
questo libro di Mia Couto (un grande scrittore) parla di cacciatori, fantasmi, sofferenza, esclusione, leoni e leonesse, e tante altre cose, ma, come sempre, ognuno troverà la sua storia.
provateci, però con un avvertimento: potrebbe conquistarvi - franz




In una recente intervista a El Pais Mia Couto ha parlato proprio di quel realismo magico che la critica ha spesso considerato peculiare di molta produzione letteraria dell’america latina. Nel caso dello scrittore mozambicano si tratta di letteratura lusofona, che nasce pur sempre dalla penisola iberica; ed è un dato di fatto che la sua opera ha avuto a che fare col cosiddetto realismo magico, sia che lo si intenda come una sorta di stile sia come corrente letteraria. Un magico che Couto sembra interpretare soprattutto nel senso di confronto e convivenza di innumerevoli culture e in misura minore come contrapposizione di reale e soprannaturale…

Leggendo quest'ultima opera di Mia Couto e memori dei suoi precedenti racconti e romanzi intrisi di poesia e visionarietà, vengono in mente le parole di Italo Calvino “si scrive per nascondere qualcosa che deve essere trovato”. Scrivere dunque serve a conoscere se stessi e gli altri, ma non uscendo allo scoperto tutto in una volta. La scrittura visionaria di Mia Couto in particolare è collegata sia all'amore per la poesia ( la prima arte con cui si è fatto conoscere) che a una profonda etica ( questa, in comune con Calvino) inserita in una visione del mondo molto complessa; non potrebbe essere altrimenti dato che è nato e vissuto in Mozambico, terra africana dalle numerose guerre e contraddizioni. Per lui l'arte, la scrittura nel suo caso, può essere tanto importante quanto  la politica come strumento di denuncia sociale e di rinnovamento culturale…

Non studiate! - Ilvo Diamanti

Cari ragazzi, cari giovani: non studiate! Soprattutto, non nella scuola pubblica. Ve lo dice uno che ha sempre studiato e studia da sempre. Che senza studiare non saprebbe che fare. Che a scuola si sente a casa propria.

Ascoltatemi: non studiate. Non nella scuola pubblica, comunque. Non vi garantisce un lavoro, né un reddito. Allunga la vostra precarietà. La vostra dipendenza dalla famiglia. Non vi garantisce prestigio sociale. Vi pare che i vostri maestri e i vostri professori ne abbiano? Meritano il vostro rispetto, la vostra deferenza? I vostri genitori li considerano “classe dirigente”? Difficile.

Qualsiasi libero professionista, commerciante, artigiano, non dico imprenditore, guadagna più di loro. E poi vi pare che godano di considerazione sociale? I ministri li definiscono fannulloni. Il governo una categoria da “tagliare”. Ed effettivamente “tagliata”, dal punto di vista degli organici, degli stipendi, dei fondi per l’attività ordinaria e per la ricerca.

E, poi, che cosa hanno da insegnare ancora? Oggi la “cultura” passa tutta attraverso Internet e i New media. A proposito dei quali, voi, ragazzi, ne sapete molto più di loro. Perché voi siete, in larga parte e in larga misura, “nativi digitali”, mentre loro (noi), gli insegnanti, i professori, di “digitali”, spesso, hanno solo le impronte. E poi quanti di voi e dei vostri genitori ne accettano i giudizi? Quanti di voi e dei vostri genitori, quando si tratta di giudizi – e di voti – negativi, non li considerano pre-giudizi, viziati da malanimo?

Per cui, cari ragazzi, non studiate! Non andate a scuola. In quella pubblica almeno. Non avete nulla da imparare e neppure da ottenere. Per il titolo di studio, basta poco. Un istituto privato che vi faccia ottenere in poco tempo e con poco sforzo, un diploma, perfino una laurea. Restandovene tranquillamente a casa vostra. Tanto non vi servirà a molto. Per fare il precario, la velina o il tronista non sono richiesti titoli di studio. Per avere una retribuzione alta e magari una pensione sicura a 25 anni: basta andare in Parlamento o in Regione. Basta essere figli o parenti di un parlamentare o di un uomo politico. Uno di quelli che sparano sulla scuola, sulla cultura e sullo Stato. Sul Pubblico. Sui privilegi della Casta. (Cioè: degli altri). L’Istruzione, la Cultura, a questo fine, non servono.

Non studiate, ragazzi. Non andate a scuola. Tanto meno in quella pubblica. Anni buttati. Non vi serviranno neppure a maturare anzianità di servizio, in vista della pensione. Che, d’altronde, non riuscirete mai ad avere. Perché la vostra generazione è destinata a un presente lavorativo incerto e a un futuro certamente senza pensione. Gli anni passati a studiare all’università. Scordateveli. Non riuscirete a utilizzarli per la vostra anzianità. Il governo li considera, comunque, “inutili”. Tanto più come incentivo. A studiare.

Per cui, cari ragazzi, non studiate. Se necessario, fingete, visto che, comunque, è meglio studiare che andare a lavorare, quando il lavoro non c’è. E se c’è, è intermittente, temporaneo. Precario. Ma, se potete, guardate i maestri e i professori con indulgenza. Sono una categoria residua (e “protetta”). Una specie in via d’estinzione, mal sopportata. Sopravvissuta a un’era ormai passata. Quando la scuola e la cultura servivano. Erano fattori di prestigio.

Oggi non è più così. I Professori: verranno aboliti per legge, insieme alla Scuola. D’altronde, studiare non serve. E la cultura vi creerà più guai che vantaggi. Perché la cultura rende liberi, critici e consapevoli. Ma oggi non conviene. Si tratta di vizi insopportabili. Cari ragazzi, ascoltatemi: meglio furbi che colti!
 
01 settembre 2011

sabato 18 ottobre 2014

Renzi, il nuovo potere in camicia bianca - Furio Colombo

C’è chi sa come stanno le cose. Non c’è ritorno. Gli uomini con la camicia bianca sono molto vicini al potere, e il potere è cambiato. Non vi starò a dire chi sposta i pezzi perché non lo so, ma i pezzi sono stati spostati. In pochissimo tempo siamo passati da una lotta politica interna a un partito, per il temporaneo controllo della segreteria, alla guida, ben ferma e non discutibile, di un partito-nazione che non ha e non accetta confini, non ha e non accetta dissenso, non ha e non accetta alternative. Questo nascente partito-nazione non è interessato ai confini istituzionali (se questo compito tocchi all’esecutivo oppure al Parlamento), non accetta e anzi ridicolizza confini ideologici (se questa sia o non sia sinistra). Quei limiti – e tutti i limiti – sono disprezzati con l’espediente di rovesciare la scena e trascinare la folla. Non sono io che travalico linee sacre. Ma sono io che, da solo, ho il coraggio di salvarvi e questo è il percorso.
Il dovere dell’obbedienza è implicito in questa formula di governo che tende a sbarazzarsi di inciampi e ribelli. Sembra chiaro che, in questa improvvisa e drammatica riorganizzazione di ciò che dobbiamo intendere per politica, non ci sono improvvisazioni. Ciascun designato sa qual è il compito e qual è il percorso e perché la scrupolosa osservanza, e non la competenza, è il requisito essenziale. Salvo che in strettissimi ambiti tecnici, la competenza è anzi considerata una distrazione o una ambizione che limita la fedeltà. Il patto è fra pochissimi, qualcosa come “la prima ora”. Altri, in numero destinato a essere crescente, seguono e seguiranno, ma destinati a restare sostenitori e seguito, più o meno ignoti, persino in Parlamento.
Ci sono ancora aree di disordine e zone di ribellione (stiamo parlando dell’interno dell’ex Pd). Quanto siano rare è un indizio che persino i presunti leader di alternative sanno, pur essendo stati tenuti fuori dal progetto, che non ci sono varchi possibili. Appaiono deboli (non tutti) perché si sono resi conto in ritardo che esclusione e inclusione non erano più materie trattabili.
Sappiamo poco del progetto, ma il progetto c’è. Per questo, assembramenti e manifestazioni di contrasto avvengono sempre in un vuoto che non ha conseguenze politiche. E questo è anche il rischio della “occupazione delle fabbriche” imprudentemente annunciato da Landini, sulla base di un altro tempo e un altro luogo. Direttori di giornali e capi azienda sono stati informati o cambiati, o arbitrariamente esclusi, suscitando furiose reazioni di alcuni nel vuoto che intanto si è creato intorno a loro. All’improvviso compaiono appelli su grandi giornali (“Noi sosteniamo Matteo Renzi”) firmati da nomi che sono o si considerano grandi. Meritano interesse per tre ragioni. La prima è che Matteo Renzi non era in pericolo e neppure in bilico, e dunque l’appello è un tributo, non un aiuto. La seconda ragione è l’uso di frasi come “andare avanti insieme a chi crede”, dove “credere” è la parola chiave, una parola di fede e sottomissione, non di politica; oppure: “sosteniamo la volontà (del premier, ndr) di non mollare”, invocazione che fa perno su “volontà” cioè la qualità superiore di chi si è messo alla guida. E dove “non mollare” annuncia rigetto (approvato dai firmatari) di ogni critica.
L’appello è importante perché ci dice con chiarezza che siamo nella fase in cui si aderisce, non più in quella in cui si partecipa alla fondazione. Potrai essere e sentirti dalla parte giusta. Ma sei tra quelli che seguono e si adeguano. Ci devono essere delle buone ragioni per farlo, anche se la maggior parte di noi non le conosce. Il renzismo infatti fa proseliti con molto successo in modo insolito, certo estraneo alla vita democratica. Non devi sapere, devi credere.
Intanto il sistema mediatico, soprattutto visivo, tempestivamente coinvolto e debole di natura, ha messo a disposizione una immensa quantità di notizie, di diretta e in replica, su una sola persona, che provvede a coprire tutte le funzioni di governo in Italia e all’estero, malamente compreso nella lingua, ma perfettamente chiaro nel gesto esclusivo di contare e di comandare senza alcuna forma di opposizione. Anzi, una efficace trovata del leader è di essersi impossessato del linguaggio della ex opposizione. Lui è “contro”, ed è in questa titanica impresa che bisogna credere, e da cui viene la “volontà di non mollare”. Tutto ciò non è tipico di chi gestisce il potere, ma di chi sta radunando masse fedeli per dare l’assalto finale alla fortezza.
Però il fervore apparentemente improvvisato dei discorsi copre ordine e ridistribuzione dei pezzi del gioco fatta per tempo, non sappiamo da chi e di cui non sappiamo il fine ultimo, che non è il potere personale. Renzi non è Attila, è un professionista in missione. Pare bravo, ma ha il grande vantaggio di giocare su un tavolo in cui gli altri si muovono alla cieca, perché tutto è già stato deciso prima. La storia è più semplice e più complicata di quel che sembra. Il fatto è che le prossime puntate sono già state filmate e certo non ti raccontano in anticipo come dovrebbe finire. Si, si può ancora fare qualcosa. Interrompere “la sceneggiata” (così il leader chiama l’opposizione in Parlamento) e fare lo sforzo che certe volte devi fare dormendo: svegliarti lottando contro lo stato di sonno. Fare ritorno alla normalità, fuori da un Truman Show già tutto serializzato.
Nei tristi filmati delle Camere vedi ancora facce vere, di vere persone (alcune stanno per essere cacciate dal Pd). Se si accostano (metti Casson e Di Maio) una vera resistenza è possibile. A volte, nella storia, ha portato liberazione.

mercoledì 15 ottobre 2014

I’unico curdo buono è un curdo morto

Il generale Philip Sheridan (nel XIX secolo) non si diceva mai dispiaciuto per le morti che l’esercito seminava tra le donne e i bambini pellerossa: “Se un villaggio viene attaccato e donne e bambini muoiono nel corso dell’attacco, la responsabilità di queste morti non deve ricadere sull’esercito, ma sulla gente che ha causato l’attacco stesso con i propri crimini.

E laddove qualche generale che comandava queste campagne – è il caso del Generale Miles – espresse occasionalmente un senso di stima militare per gli indiani che stavano combattendo, Sheridan era famoso per la frase che gli veniva attribuita: “Gli unici indiani buoni che abbia mai visto erano morti.”
Sheridan, però, negò di aver detto queste cose. (da qui)

le considerazioni del generale Philip Sheridan sono quelle di tutti gli assassini seriali di tutto il ‘900 e anche adesso, dai nazisti (sarebbero troppi gli esempi, pensateli voi), ai sovietici (qui e qui, per esempio), ai franchisti (la Catalogna lo sa), agli statunitensi (Vietnam, Afghanistan, Iraq, per esempio), alla Nato (guerre umanitarie, per esempio), agli Israeliani (Gaza ricorda qualcosa?).

adesso è il turno dell’Isis (sostenuti dagli Usa, almeno all’inizio, dalla Turchia,anche se non ufficialmente, e da qualche stato del petrolio), che massacra Yazidi (qui) e Curdi (qui), fra gli altri.
David Graeber (qui) si chiede (e dà risposte molto convincenti) perché nessuno intervenga, altri (qui e qui e qui scrivono cose mollo interessanti), qui baruda informa che è nata Support Kobane, una piattaforma per sostenere la resistenza di Kobane.

prima ammazzano gli indiani d’America, gli indigeni di tutta l’America, gli aborigeni australiani, tutta gente che voleva vivere in pace.
poi i colonizzati africani (10 milioni ammazzati dal re Leopoldo fanno pensare), e che dire degli schiavi che arrivavano in tutta l’America (e anche in Europa)?
i Palestinesi, Mapuche, gli Zapatisti del Chiapas, i Curdi (che incontrano gli anarchici, qui) sono popoli che tengono alta la bandiera della resistenza e della dignità umana, non vogliono conquistare nessuno, solo stare tranquilli in casa propria, sono un pericolo per tutti i potenti del mondo, di cui facciamo parte, dimostrano che un altro mondo è possibile, devono essere sconfitti, e, quelli che sopravvivono,  vivere di aiuti internazionali, vedrete che la dignità se la dimenticheranno.

quelli che governano, meglio, che comandano, sono apprendisti stregoni terribili, Walt Disney è morto, non ci salva più nessuno, quei politicanti e strateghi pazzi hanno bisogno di un TSO, di una corte di giustizia internazionale, sono tutti gente da Comma 22 all’ennesima potenza, bande di assassini, che vengano rinchiusi tutti a giocare a risiko, e basta.
e il nostro paese è complice, e la famosa opinione pubblica dorme un sonno senza fine.

lunedì 13 ottobre 2014

Perché il mondo sta ignorando la rivoluzione dei Curdi in Siria? - David Graeber

Nel 1937, mio padre si arruolò volontario per combattere nelle Brigate Internazionali in difesa della Repubblica Spagnola. Quello che sarebbe stato un colpo di Stato fascista era stato temporaneamente fermato da un sollevamento dei lavoratori, condotto da anarchici e socialisti, e nella maggior parte della Spagna ne seguì una genuina rivoluzione sociale, portando intere città sotto il controllo di sistemi di democrazia diretta, le fabbriche sotto la gestione operaia e le donne ad assumere sempre più potere.

I rivoluzionari spagnoli speravano di creare la visione di una società libera cui il mondo intero avrebbe potuto ispirarsi. Invece, i poteri mondiali dichiararono una politica di "non intervento" e mantennero un rigoroso embargo nei confronti della repubblica, persino dopo che Hitler e Mussolini, apparenti sostenitori di tale politica di "non intervento", iniziarono a fare affluire truppe e armi per rinforzare la fazione fascista. Il risultato fu quello di anni di guerra civile terminati con la soppressione della rivoluzione e quello che fu uno dei più sanguinosi massacri del secolo.

Non avrei mai pensato di vedere, nel corso della mia vita, la stessa cosa accadere nuovamente. Ovviamente, nessun evento storico accade realmente due volte. Ci sono infinite differenze fra quello che accadde in Spagna nel 1936 e quello che sta accadendo ora in Rojava, le tre province a larga maggioranza curda nel nord della Siria. Ma alcune delle somiglianze sono così stringenti, e così preoccupanti, che credo sia un dovere morale per me, in quanto cresciuto in una famiglia le cui idee politiche furono in molti modi definite dalla Rivoluzione spagnola, dire: non possiamo fare sì che tutto ciò finisca ancora una volta allo stesso modo.

La regione autonoma del Rojava, così come esiste oggi, è uno dei pochi raggi di luce - un raggio di luce molto luminoso, a dire il vero - a emergere dalla tragedia della Rivoluzione siriana. Dopo aver scacciato gli agenti del regime di Assad nel 2011, e nonostante l'ostilità di quasi tutti i suoi vicini, il Rojava non solo ha mantenuto la sua indipendenza, ma si è configurato come un considerevole esperimento democratico. Sono state create assemblee popolari che costituiscono il supremo organo decisionale, consigli che rispettano un attento equilibrio etnico (in ogni municipalità, per esempio, le tre cariche più importanti devono essere ricoperte da un curdo, un arabo e un assiro o armeno cristiano, e almeno uno dei tre deve essere una donna), ci sono consigli delle donne e dei giovani, e, in un richiamo degno di nota alle Mujeres Libres (Donne Libere) della Spagna, un'armata composta esclusivamente da donne, la milizia "YJA Star" (l'"Unione delle donne libere", la cui stella nel nome si riferisce all'antica dea mesopotamica Ishtar), che ha condotto una larga parte delle operazioni di combattimento contro le forze dello Stato Islamico.

Come può qualcosa come tutto questo accadere ed essere tuttavia perlopiù ignorato dalla comunità internazionale, persino, almeno in gran parte, dalla sinistra internazionale? Principalmente, sembra, perché il partito rivoluzionario del Rojava, il PYD, lavora in alleanza con il turco Partito Curdo dei Lavoratori (PKK), un movimento combattente marxista impegnato sin dagli anni Settanta in una lunga guerra contro lo Stato turco. La Nato, gli Stati Uniti e l'Unione Europea lo classificano ufficialmente come "organizzazione terroristica". Nel frattempo, l'opinione di sinistra lo descrive spesso come Stalinista.

Ma, in realtà, il PKK non assomiglia neppure lontanamente al vecchio, organizzato verticalmente, partito Leninista che era una volta. La sua evoluzione interna, e la conversione intellettuale del suo fondatore, Abdullah Ocalan, detenuto in un'isola-prigione turca dal 1999, lo hanno condotto a cambiare radicalmente i propri scopi e le proprie tattiche.

Il PKK ha dichiarato che esso non cerca nemmeno più di creare uno Stato curdo. Invece, ispirato in parte dalla visione dell'ecologista sociale e anarchico Murray Bookchin, ha adottato una visione di "municipalismo libertario", invitando i curdi a formare libere comunità basate sull'autogoverno, basate sui principi della democrazia diretta, che si federeranno tra loro aldilà dei confini nazionali - che si spera che col tempo diventino sempre più privi di significato. In questo modo, suggeriscono i curdi, la loro lotta potrebbe diventare un modello per un movimento globale verso una radicale e genuina democrazia, un'economia cooperativa e la graduale dissoluzione dello stato-nazione burocratico.

A partire dal 2005 il PKK, ispirato dalla strategia dei ribelli zapatisti in Chiapas, ha dichiarato un cessate il fuoco unilaterale nei confronti dello Stato turco e ha iniziato a concentrare i propri sforzi nello sviluppo di strutture democratiche nei territori di cui già ha il controllo. Alcuni si sono chiesti quanto realmente sinceri siano questi sforzi. Ovviamente, elementi autoritari rimangono. Ma quello che è successo in Rojava, dove la Rivoluzione siriana ha dato ai curdi radicali la possibilità di condurre tali esperimenti su territori ampi e confinanti fra loro, suggerisce che tutto ciò è tutt'altro che un'operazione di facciata. Sono stati formati consigli, assemblee e milizie popolari, le proprietà del regime sono state trasformate in cooperative condotte dai lavoratori - e tutto nonostante i continui attacchi dalle forze fasciste dell'ISIS. Il risultato combacia perfettamente con ogni definizione possibile di "rivoluzione sociale". Nel Medio Oriente, almeno, tali sforzi sono stati notati: particolarmente dopo che il PKK e le forze del Rojava per combattere efficacemente e con successo nei territori dell'ISIS in Iraq per salvare migliaia di rifugiati Yezidi intrappolati sul Monte Sinjar dopo che le locali milizie peshmerga avevano abbandonato il campo di battaglia. Queste azioni sono state ampiamente celebrate nella regione, ma, significativamente, non fecero affatto notizia sulla stampa europea o nord-americana.

Ora, l'ISIS è tornato, con una gran quantità di carri armati americani e di artiglieria pesante sottratti alle forze irachene, per vendicarsi contro molte di quelle stesse milizie rivoluzionarie a Kobané, dichiarando la loro intenzione di massacrare e ridurre in schiavitù - si, letteralmente ridurre in schiavitù - l'intera popolazione civile. Nel frattempo, l'armata turca staziona sui confini, impedendo che rinforzi e munizioni raggiungano i difensori, e gli aeroplani americani ronzano sopra la testa compiendo occasionali, simbolici bombardamenti dall'effetto di una puntura di spillo, giusto per poter dire che non è vero che non fanno niente contro un gruppo in guerra con i difensori di uno dei più grandi esperimenti democratici mondiali.

Se oggi c'è un analogo dei Falangisti assassini e superficialmente devoti di Franco, chi potrebbe essere se non l'ISIS? Se c'è un analogo delle Mujeres Libres di Spagna, chi potrebbero essere se non le coraggiose donne che difendono le barricate a Kobané? Davvero il mondo - e questa volta, cosa più scandalosa di tutte, la sinistra internazionale, si sta rendendo complice del lasciare che la storia ripeta se stessa?

David Graeber  (theguardian.com, Wednesday 8 October 2014 09.04 BST)
traduzione di Federico Vernarelli


domenica 12 ottobre 2014

Bollettino-n-2-della-guerra-mondiale – bortocal (con commenti incorporati)

insomma, l’ISIS sta avanzando ovunque; non so quanto riesca a farcene rendere conto l’informazione pilotata, che preferisce tenere occupata la nostra mente con i fotomontaggi della propaganda ISIS, facendole stupidamente da cassa di risonanza.
ISIS sta avanzando non solo verso il nord, dove i curdi sono allo stremo, la roccaforte di Kobane sta per cadere, e con questo il confine turco dalla parte della Turchia e` raggiunto, ma anche verso Bagdad, a sud, dove intanto i fondamentalisti sono riusciti a conquistare la provincia di al-Anbar.
* * *
e, se a nord la resistenza dei curdi continua, mentre l’esercito turco, a due passi, oltre confine, assiste immobile al loro massacro, verso il sud l’avanzata e` rapida e potrebbe portare a risultati sconvolgenti.
Negli ultimi due giorni, Baghdad è stata oggetto di sei attentati rivendicati dall’Isis che hanno provocato oltre 80 morti ed hanno colpito quartieri sciiti e checkpoint militari iracheni. 
ha detto il generale Martin Dempsey, capo di stato maggiore Usa:
I jihadisti dello Stato islamico hanno nel mirino l’aeroporto di Baghdad.
Di recente hanno tentato di conquistarlo, e sono stati respinti dagli attacchi degli elicotteri Usa.
ma ha anche aggiunto e` che non puo` durare a lungo cosi`.
la strategia di Obama, che non vuole inviare di nuovo soldati americani in Iraq e` destinata ad un pesante fallimento.
* * *
ma e` l’intera strategia americana in Medio Oriente che appare attraversata da una specie di auto-lesionismo persino inspiegabile: ha usato i fondamentalisti per combattere ogni capo di governo laico, da Saddam Hussein a Gheddafi, dittatori disgustosi, ma comunque capaci di mantenere i loro stati in equilibrio.
ed ora si ritrova davanti un nemico perfino peggiore di Bin Laden, che lei stessa ha alimentato come aveva alimentato lui.

Quella puta sovversiva - Pino Cacucci (La vicenda umana e politica di Elvia Carrillo Puerto)

La storia del Messico moderno pullula di inestimabili figure femminili, e ogni volta che approfondisco le vicende di un certo periodo o, come in questo caso, di una zona lontanissima dall'epicentro dell'emancipazione che fu – ed è tuttora – Città del Messico, cioè la penisola yucateca, emerge qualche donna a cui varrebbe la pena dedicare un libro intero.
Elvia Carrillo Puerto nacque il 6 dicembre 1878 a Motul, una quarantina di chilometri a est di Mérida, figlia di Justiniano e Adela, allora diciannovenne. Il fatto che a quell'età sua madre partorisse per la sesta volta, aiuta a comprendere come fosse stato possibile che Elvia si sposò a soli tredici anni. All'epoca le ragazze – che oggi definiremmo bambine – crescevano in fretta, specie nello Yucatán dove l'infanzia durava poco. Eppure, quello di Elvia e Vicente fu un matrimonio scaturito dall'amore reciproco, non da un'imposizione famigliare.
Prima, Elvia aveva frequentato la scuola distinguendosi per la vivace intelligenza, mentre l'educazione comune imponeva di andare spesso in parrocchia, per il catechismo e la messa. Fin da allora, Elvia e suo fratello Felipe, più grande di quattro anni, erano diventati inseparabili, condividevano piccole complicità quotidiane e passione per le letture. E intanto il destinoportava a Motul, proprio nella loro chiesa, un singolare prete che oggi il Vaticano sicuramente ridurrebbe al silenzio sospendendolo a divinis, ma erano tempi in cui a Roma neanche sapevano dove diamine fosse, lo Yucatán. Padre Serafín García era venuto dalla Catalogna portandosi appresso i testi e le esperienze del pedagogista anarchico Francisco Ferrer, fondatore della Escuela Moderna di Barcellona improntata all'insegnamento razionalista; Ferrer verrà fucilato dai militari spagnoli nel 1909, accusato di aver fomentato una rivolta di diseredati che protestavano contro la leva obbligatoria per le guerre coloniali in Africa. Padre Serafín aveva altri libri con sé: Rousseau, Voltaire, e soprattutto Proudhon e Kropotkin. Insomma, un prete anarchico, che tanto mi ricorda don Andrea Gallo.
Elvia e Felipe non fecero alcuno sforzo per assimilare gli insegnamenti di padre Serafín, perché già dimostravano una viscerale sensibilità nei confronti dei soprusi subiti dalle popolazioni maya, la guerra de castas volgeva al termine e i due precoci figli dei Carrillo Puerto sembravano vivere sulla propria carne le ingiustizie dei reietti. In breve, Elvia e Felipe divennero i discepoli prediletti del prete libertario. Altra fonte di ispirazione sovversiva fu la maestra che toccò in sorte a Elvia: Rita Cetina Gutiérrez, fondatrice della società femminista La Siempreviva, che pubblicava anche una rivista e diede questo nome pure alla sua scuola. Sulle pagine de La Siempreviva si leggevano scritti di Tristán, Harriet Taylor, Susan Anthony, John Stuart Mill, Mary Wollstonecraft, Victoria Woodhull, Robert Owen, e gli argomenti, così “scabrosi” per l'epoca e il luogo, trattavano di controllo delle nascite, aborto, divorzio, malattie veneree, libero amore e, addirittura, scandalosi approfondimenti sulla sessualità femminile, ricchi di ogni dettaglio.
Quando Elvia aveva compiuto dodici anni, ne dimostrava sicuramente di più, e non solo per l'altezza superiore alla media, ma soprattutto per la bellezza adolescenziale che era sbocciata in lei: le descrizioni di quanti la conobbero parlano di un corpo snello e un profilo “aristocratico”, grandi occhi da sognatrice ma capaci di fulminare l'avversario in una discussione sulle passioni che le stavano a cuore... e intanto Elvia cominciava a non sopportare più le mansioni a cui erano dedite la ragazze di “buona famiglia”, come cucire, ricamare, tessere amache secondo l'antica tradizione yucateca, mentre era attratta molto di più dalla musica: con Felipe aveva imparato a suonare il flauto, ed era anche dotata di una bella voce da soprano. L'orchestra del paese l'accolse con entusiasmo, però, a Motul sul finire dell'800, una ragazza che cantasse e suonasse nel chiosco della piazza non si era mai vista. Infatti, Elvia fu la prima: dicono che quella sera un giovane maestro, Vicente Pérez, ascoltandola e ammirandone la grazia con cui si esibiva sul palco, finì per innamorarsene perdutamente. Si conoscevano già, Vicente era anch'egli seguace della pedagogia libertaria di Ferrer, e i due avevano avuto varie occasioni di incontrarsi nelle riunioni parrocchiali di padre Serafín. Anche Elvia provava un'irresistibile attrazione per Vicente. Il padre tentò in tutti i modi di dissuaderla: sposarsi a tredici anni! Che se lo togliesse dalla testa. Ma Elvia aveva già un carattere volitivo, e non arrossì ricorrendo a un argomento decisivo, e allora fu il padre ad arrossire: “Quando voi avete sposato la mamma, lei quanti anni aveva? Tredici. E cosa avete dovuto aspettare? Che la mamma avesse le mestruazioni. Ebbene, io ho avuto le mestruazioni qualche mese fa. Perché aspettare ancora?”
E don Justiniano si rassegnò a ricevere la visita formale di Vicente, che, per altro, le cayó bien, non poteva certo dire nulla contro quel giovane maestro serio e decente, a parte il fatto che aveva circa una decina di anni in più, ma pazienza, la storia in famiglia si ripeteva, ed Elvia al suo fianco sembrava quasi coetanea. Per non parlare poi del determinante appoggio di Felipe, schieratosi con sua sorella insistendo a voler convincere il padre che non doveva ostacolare il loro amore, perché difficilmente avrebbe trovato un genero stimabile quanto Vicente.
Le nozze le celebrò padre Serafín, che non perse l'occasione della chiesa gremita di gente per tenere uno dei suoi sermoni: scusandosi innanzi tutto per non officiare la messa in lingua maya, esortò Elvia e Vicente a lottare insieme, “perché le donne, ancor più degli uomini, possono trasformare il mondo”...

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