A scuola il gioco del coronavirus - Giuseppe Caliceti
Lavati le mani con il gel. Entra
in aula con la mascherina. Non grattarti il naso. Siediti al
tuo banco. Stai immobile. Non fare pernacchie.
Non giocare con la mascherina. Se te la togli, infilala in una busta sigillata.
Ripeti: Andrà tutto bene. Non muovere il tuo banco. Resta a un metro di
distanza dal tuo compagno. Meglio che il tuo banco sia fissato al pavimento.
Idem per la sedia su cui sei seduto. Avvicinati a qualcuno solo con la
mascherina, ma solo se lui non si muove. Tutto il tuo materiale didattico lo
devi usare solo tu. Qualsiasi cosa succeda a scuola, ripeti: Comunque sarà un
successo. Non prestare nulla. Non piangere. I fazzoletti di carta con reflussi
organici buttali negli apposito contenitori. Controlla che ogni verifica (in
fogli) una volta consegnata, sia raccolta con i guanti dal tuo docente, che la
metterà in quarantena per 48h prima di correggerla e riconsegnartela
sanificata. Tutte le superfici devono essere continuamente sanificate.
Controlla che l’impianto di riscaldamento sia continuamente controllato.
Immaginati di giocare con una trottola. Ok bambine e bambine, avete fatto tutto
quello che vi ho chiesto? Ecco il resto.
Controlla che il tuo docente abbia un suo sacchetto per i gessetti personali per la lavagna. Chiudi
gli occhi: sogna. Apri le finestre ogni ora, anche in caso di pioggia. Non
starnutire. Fai una giravolta. Fanne un’altra. Fai un salto. Ricreazione seduti
in classe. O in piccoli gruppi a distanza di un metro. Non fare l’urlo di
Tarzan. Ingurgita velocemente lo snack e poi rimettiti in fretta la mascherina.
Ripeti: Gesù, aiutaci. Nessuna attività di laboratorio. Nessun lavoro a coppie
o a gruppi. Lezione solo frontale. Anche per ragazzi con BES e 104. Controlla che il tuo docente di sostegno sia ad almeno un
metro da te. Non fare il verso della pecora o del maiale. Non fare nessun
verso. E’ istituita la saletta Covid, dove, in caso di sintomi sospetti, sarai
portato in attesa dei tuoi genitori. Starnutisci solo nel gomito o nel
fazzoletto. Non chiedere alle maestre di aiutarti a soffiare il naso. Non
abbracciarle. Per le attività motorie, svolte senza mascherina, le distanze
dovranno essere di due metri. Nessuno sport di squadra. Esegui gli esercizi a corpo libero
fermo sul posto. Controlla che lapalestra sia sanificata dal personale ATA ad
ogni cambio d’ora. Se adoperati, controlla siano sanificati anche gli attrezzi:
palle o altro. Ripeti ad alta voce: Abbiamofatto tutto il possibile. Ripeti ad
alta voce: il rischio zero non esiste. Segui cartelli, segnaletiche. Dì ad alta
voce:tutti dobbiamo fare sacrifici, anche noi bambini.Fingi di metterti un
anello al dito. I bagni sono sanificati ad ogni passaggio. Non cantare. Non
usare il pc della scuola. Non ridere. Non cantare Happy Birthday. All’uscita
della scuola rassicura la tua famiglia. Fatti una coccola da solo. Fai un
salto. Fanne un altro. Non dare baci a nessuno. Ripeti mentalmente: Sono il
miglior bambino robot che esista, ce la posso fare. Cerca il
pulsante dietro al tuo orecchio destro: spegniti. Domani è un altro giorno.
Duecento
di questi giorni - Priorità alla scuola
Oggi primo
giorno di scuola. Per molti ma non per tutti, s’intende. Al di là delle cifre del ministero, c’è la
realtà non solo delle regioni che sfilacceranno il rito almeno fino al 24
settembre, ma anche delle città e delle scuole che – pur essendo nel mazzetto
del “regioni del 14” – oggi non hanno ancora aperto.
La
nostra solidarietà e gratitudine a chi ha organizzato presidi davanti a scuole e
sedi regionali: se oggi, tra quanto abbiamo visto con i nostri
occhi di genitori e le notizie che ci sono arrivate, prevale un sentimento
festoso, quel che si addice alla ricorrenza, lo dobbiamo a
loro. Persino l’orario provvisorio è accolto come un ritorno alla normalità:
del resto quale anno scolastico che abbiamo conosciuto da student* o da
genitori non è cominciato così? Ai cancelli saluti e sorrisi. Qualche battuta
rivolta dai genitori a insegnanti e ATA “adesso vi tocca di nuovo anche a voi,
eh?!”, ma con una certa bonarietà. Insegnanti e ATA delle scuole dei più
piccoli possono replicare che almeno per quest’anno i genitori di figlio unico
potevano astenersi dal presentarsi in due all’ingresso e all’uscita: ci sono
forme di disobbedienza più creative. In alcune scuole dei bei manifesti segnalano
che si apre “nonostante” il ministero, grazie alla mobilitazione
di una comunità educante solidale e collaborativa.
Dove è
andato tutto bene ci si è salutati all’uscita pensando “speriamo in duecento di
questi giorni”… magari giusto con l’orario pieno, con i lavori di “edilizia
leggera” finiti, con insegnati e ATA entrati in servizio nel numero necessario
per garantire continuità, le migliaia e migliaia di precari-e ripassati
dalla condizione di disoccupati-e a quella di persone che lavorano. Ai protocolli sanitari
farraginosi e alla minaccia della scuola a singhiozzo causa quarantene ci
penseremo in un giorno più brutto, quando arriveranno le prime
piogge e i primi nasi che colano, oggi è “il primo giorno” e tanto basta.
Purtroppo
fin troppi hanno ripreso la via di casa con molta più amarezza: quelli che da casa
proprio non sono usciti perché il loro primo giorno li ha riportati ai tempi
del lockdown, in pigiama davanti al pc; quelli che un pezzo della classe
vedrà le lezioni in video, sorvegliati da un bidello in
un’aula diversa da quella dove ci sono gli altri compagni e il docente; quelli
che un pezzo della classe si accomoda in corridoio e l’insegnante fa lezione a
cavallo della soglia; quelli che la rete non regge, i nuovi tablet
non dialogano con le nuove lim, il cavo della lim non è compatibile con i portatili;
quelli che sono intervenuti i vigili minacciando di chiudere la scuola se
continuava l’assembramento; quelli che il sabato sera gli dicono “i bambini
dovranno tenere la mascherina al banco”, ma poi la domenica rettificano
rassicurando “tutto a posto, gli spazi ci sono” e poi il lunedì vanno a
prendere i figli che hanno tenuto sempre la mascherina anche seduti al banco;
quelli che erano a fare un presidio sotto un ufficio scolastico regionale;
quelli che siccome sei l’unico della classe a fare alternativa, per te non c’è
alternativa perché non si attiva, se vuoi però puoi uscire prima.
E la
famiglia che non può prenderlo all’uscita anticipata, per non creare ulteriori
turbamenti in segreteria già oberata di lavoro, si rassegna e accetta che il
figlio frequenti l’ora di religione: “La mia fede è troppo scossa ormai / Ma
prego e penso fra di me / Proviamo anche con dio, non si sa mai”.
La violazione della legge e della
Costituzione è ancora più grave per quel bambino di nove anni rispedito a casa
perché manca la maestra di sostegno.
È accaduto in una scuola di Roma, l’istituto Pio La Torre, in via di
Torrevecchia. Ci teniamo a dirlo: questo riferimento è a un fatto realmente
accaduto, e lo stesso vale per tutte le circostanze evocate sopra.
Con la nostra mobilitazione,
proviamo a fare che tutte queste bambine-i ragazze-i, genitori, lavoratori e
lavoratrici non abbiano altri duecento di queste giornate amare. Anche per
questo ci vediamo il 26 settembre a Roma.
A scuola di rabbia. Sulla
riapertura scolastica, la colpevolizzazione dei giovani e molto altro
[Ospitiamo una riflessione del nostro compagno Plv –
insegnante in quel di Bologna e membro della Rete Bessa – sulla débacle organizzativa e comunicativa a cui stiamo
assistendo alla vigilia della riapertura/richiusura della scuola pubblica.
Questo articolo è la prosecuzione ideale di quello che la Rete Bessa ha scritto
per Giap il 20 aprile scorso. Tra l’altro quell’articolo
aveva un postilla scritta da noi Wu Ming che oggi, alla luce dell’immobilismo
del governo nei mesi appena trascorsi, suona terribilmente premonitrice. WM]
di Plv
17 agosto
2020. Estratto da una conversazione realmente avvenuta.
– Oh, poi mi spieghi la faccenda di come si torna a scuola?
– Oggi i giornali titolavano che si ritornerà a scuola in sicurezza.
– Ah, quindi?
– Nessuno aveva mai messo in dubbio che si ritornava a scuola in sicurezza, non
c’era motivo per ribadirlo. Se lo fanno è perché stanno insinuando il dubbio.
Il lunedì
dopo Ferragosto il Governo ha gradualmente esplicitato il suo piano per la
scuola. Repubblica ha dedicato la prima pagina alla riapertura della
scuola per 6 giorni di fila. Un’attenzione
inesistente quando, poco più di un mese prima, le proteste per chiedere una
riapertura della scuola in sicurezza erano nelle piazze e non sui social. Ma da
Ferragosto in poi, ciò che fino a quel momento non era mai stato messo in
dubbio è diventato prima discutibile, poi problematico, infine quasi
impossibile.
Le premesse
per quel lunedì mattina c’erano già da tempo: da marzo il Governo non aveva
fatto le uniche cose utili per tentare una riapertura della scuola con il
minimo rischio possibile. Delle misure strutturali opportune nessuno aveva mai
parlato.
Non che non
si fosse fatto niente. Si è fatto eccome, si è
creata un’emergenza che si poteva evitare o quantomeno inibire.
Perché non ci sono scuse: di come riaprire la scuola in sicurezza si poteva
parlare tranquillamente a marzo, poi ad aprile, poi a maggio, poi a giugno a
scuole chiuse, e pure a luglio. Arrivare al 17 agosto per aprire il dibattito a
suon di “mascherina sì/mascherina no” è criminale.
Il governo
ha, di fatto, creato un’emergenza nell’emergenza e al contempo speso soldi e
tempo per costruire trappole discorsive. Tocca fare attenzione, perché in
quelle trappole ci caschiamo in molt@ e le conseguenze potrebbero essere
disastrose.
1.
Cosa si poteva fare
Fin da
aprile, il movimento di Priorità Alla Scuola ha affermato che permettere un
ritorno a scuola voleva dire adottare misure strutturali. Occorre riprendere
queste idee, non solo per prevenire accuse di disfattismo, ma per sottolineare
che a livello pubblico la discussione su come riaprire è iniziata ben prima del
17 Agosto. Le proposte sono state urlate nelle piazze di maggio, di giugno, di
luglio. Sono state inviate a Comuni e Regioni. Sono state espresse sulla
stampa. Dal basso il lavoro è stato fatto. È dall’alto che non si è mai
affrontato sistematicamente il problema, per questo Priorità alla Scuola ha
deciso di tornare in piazza a Roma il 26 settembre.
Per farlo
era sufficiente partire da una semplice domanda: un virus che si trasmette per
via aerobica circola di più in ambienti dove ci sono 26 persone o dove ce ne
sono 13? Purtroppo non è una domanda retorica.
Alla
richiesta di aumentare in modo significativo l’organico, per permettere la
formazione di classi meno numerose, il Governo ha risposto con conferenze
stampa altisonanti. Del miliardo promesso si è saputo poco o niente fino a
quando non è stata annunciata l’immissione del «personale-Covid» (è la stessa
ministra Lucia Azzolina a usare questa espressione). Ad oggi nessuno sa
bene come e con che logica questo personale sarà assunto, visto che esistono
delle graduatorie cui attingere. È molto più chiaro che su questa figura si
rovescerà la responsabilità di un ipotetico lockdown, dal momento che nell’ordinanza si
legge che «in caso di sospensione delle attività didattiche in presenza, i
contratti di lavoro attivati si intendono risolti per giusta causa, senza
diritto ad alcun indennizzo». A queste condizioni, ve lo immaginate un
lavoratore precario che ammette di avere la febbre? Qual è la causa
dell’emergenza o chi ne facilita la propagazione?
Inoltre
alle richieste di molti sindacati di assumere, in modo definitivo, chi insegna
da più di tre anni, il Governo ha deciso di rispondere bandendo un concorso
straordinario, che prima doveva essere a Luglio, poi fine a fine Ottobre,
pronto a saltare se la curva epidemiologica non sarà adeguata o se la ministra
Azzolina salta, come ormai sembra inevitabile. Nel frattempo, il concorso
ordinario (quello cui possono partecipare anche coloro che hanno meno di 3 anni
di insegnamento), è rinviato a data da destinarsi.
Sempre
rispetto all’organico merita una menzione particolare la figura delle
educatrici e degli educatori. Un’interessante testimonianza mostra come durante
il «lockdown» le cooperative, con l’appoggio degli enti locali, abbiano
sperimentato aberrazioni contrattuali. Tecnicamente queste figure non sono
integrate nel sistema nazionale della scuola, ma sono fondamentali e spesso
diventano punti di riferimento, quindi andrebbero integrate.
Chiaramente
questa iniezione di personale che le piazze richiedevano doveva poter lavorare
in nuove aule. Per esempio: l’Italia è piena di spazi vuoti, alcuni
perfettamente utilizzabili, bastano pochi lavori d’adeguamento. Alcuni
ragionavano di questo già a maggio. Grazie alle assemblee online di Non Una
Di Meno dedicate al tema della scuola ho scoperto che a Napoli già da aprile si
ragionava sulle numerose caserme militari dismesse presenti nelle città:
Ministero della Difesa, Ministero dell’Economia, Cassa Depositi e Prestiti,
Demanio, nessuno di questi soggetti si è sognato di proporre una messa a
disposizione di questi spazi per la scuola.
I mesi sono
passati e la questione sugli spazi si è risolta in una lentissima cavillosità
burocratica i cui risultati sarebbero stati comunicati dalle scuole alla
seconda metà di luglio, sulla base di un software per il calcolo dei metri
quadrati degli spazi a disposizione delle singole scuole (ma una mappa
catastale?) per capire chi effettivamente ne avesse bisogno e chi no. Il
problema è che tutti avevano bisogno di spazi, perché tutti hanno
classi sovraffollate: è così da decenni.
Si è deciso
di mettere delle toppe – una finestra qua, un buco là, uno sgabuzzino rimesso a
nuovo… – ma nulla a livello strutturale e quindi addio distanze di sicurezza,
tanto che persino il Comitato Tecnico-Scientifico ha dovuto affermare che in
caso di impossibilità di mantenere il metro di distanza era possibile ammettere
un ritorno a scuola con l’uso della mascherina. Ma se
è così, non si poteva riaprire in primavera? Quanto tempo è stato buttato?
Il problema
però è anche la circolazione del virus in sé. Non ho le competenze per
disquisire sul livello di contagiosità di adolescenti, infanti o adulti, ma mi
sembra molto chiaro che su una cosa ci può essere ampia condivisione: è
necessario che la scuola sia di per sé un presidio sanitario per il
monitoraggio dei contagi (già il 2 giugno lo si suggeriva qui). Sui protocolli
da attuare si poteva discutere, c’era tempo.
Dopo 6 mesi dall’inizio del
lockdown, un papocchio di dichiarazioni sporadiche, bozze e documenti prodotti
da diversi organi non ha partorito uno scenario plausibile, con l‘effetto di seminare il panico. A
partire da Ferragosto in diverse chat sono iniziate a circolare voci che nel
caso in cui un* bambin* avesse presentato i sintomi i protocolli avrebbero
impedito il contatto coi genitori.
Di fronte a
questa situazione i dirigenti scolastici, su cui può ricadere la responsabilità
per la mancata gestione di un focolaio, si chiamano fuori; i docenti sono
accusati di non collaborare perché non vogliono sottoporsi ai test sierologici,
quando gli stessi documenti emanati dalle fonti ufficiali li ritengono inutili
per la diagnosi e per il controllo dei focolai (vedi le «Istruzioni operative per la gestione di casi e focolai …»,
pagina 8) e diversi genitori affermano pubblicamente la loro volontà di tenere
i figli a casa, magari sostenendo con orgoglio l’educazione parentale. Senza
parlare di quelli, tendenzialmente di basso censo, magari stranieri, che senza
dire nulla a nessuno hanno già deciso come muoversi: figli e figlie staranno a
casa, punto, così potranno essere mandati a lavorare. Ed è così che la scuola
si cristallizza ancora di più come il primo luogo in cui l’individuo conosce le
ingiustizie sociali. Ve lo ricordate Conte che diceva: «Avremo una scuola più
inclusiva»?
Non è
finita: se è chiaro che non avremo un’infermeria in ogni scuola è altrettanto
chiaro che ogni medico referente avrà più di un istituto da monitorare. In un
articolo pubblicato su Repubblica il 23 agosto si parla di un rapporto 1 a 23!
Non c’è
bisogno di entrare in dettagli tecnici per affermare una cosa di una banalità
sconvolgente: servono infermerie scolastiche, serve personale medico preparato,
servono equipaggiamenti, servono i test. Ad oggi non c’è nulla di tutto questo:
se uno studente o una studentessa ha i sintomi, al momento attuale, non c’è un
medico che può agire prontamente, non c’è il materiale per la prevenzione del
contagio, non ci sono i test adeguati per tutte le persone con cui è entrat* a
contatto a scuola. Quindi, la classe e gli insegnanti devono stare tutt* in
quarantena per 14 giorni. Senza alcun test. Una follia.
Tutt*
abbiamo litigato ferocemente sul tema della prevenzione sanitaria del Covid,
anche con persone con una sensibilità vicina alla nostra. Possiamo però
concordare sul fatto che c’è un livello minimo ragionevole da cui è necessario
partire e che di questo livello base il Governo se ne sta ampiamente fottendo?
Ripeto, a
scanso di equivoci: nessuno dice che fosse facile ragionare su questi temi, ma
perché diamine non è stato fatto sei mesi fa per arrivare pronti alla
riapertura di settembre?
2.
Capre espiatorie, prima parte: «I giovani»
Prima o poi
sarebbe arrivata la fase delle “capre espiatorie”. Era scritto, o meglio, disegnato. Era così ovvio che dovevamo essere preparati,
e invece i dibattiti sulla questione dei giovani hanno un che di
raccapricciante.
Tralasciamo
il fatto che non è chiarissimo cosa si intenda per «giovani», sta di fatto che
di loro non si è parlato per mesi tranne che nelle ultime settimane. La loro
colpa è quella di divertirsi.
Un anno fa,
quei e quelle giovani erano acclamati da tutta la politica italiana perché in
loro risiedeva la speranza di salvezza dall’apocalisse climatica.
Pochi mesi
dopo tutto e cambiato: delle loro opinioni in merito al riscaldamento climatico
abbiamo deciso semplicemente di farne a meno, quando una riflessione sul fatto
che questa pandemia sia causata dall’estrattivismo capitalista sarebbe quanto
mai necessaria.
A partire
da febbraio/marzo i giovani sono stati segregati in casa, privati della
possibilità di camminare all’aria aperta, infantilizzati in quanto ritenuti
incapaci di prendere precauzioni. Impossibilitati a crescere, avere una
socialità, conoscere emozioni, sperimentare se stessi. Tra quelli che ho
conosciuto in questi anni, alcuni
il 5 giugno avevano ancora il divieto di uscire per paura del contagio:
chissà come deve essere trascorrere tre mesi segregati in casa con quei
genitori che ti costringono tra quattro mura anche quando il cosiddetto «lockdown» è finito da un mese. Come si collocano
queste persone nel computo delle vittime del covid? E quell* che già prima
erano quotidianamente umiliat* dai genitori? E quell* che hanno dovuto
nascondere, ancora di più, la propria identità sessuale? E quell* che sono
stati mandati a lavorare, perché la scuola era chiusa?
Possiamo
avere le più svariate opinioni sul Covid, ma la tortura dei e delle minori come
metodo di governo dovrebbe incontrare un livello di critica decisamente
maggiore.
I giovani
vanno in discoteca, non prendono precauzioni, si infettano e il Paese soffre.
Poco importa che a non seguire le precauzioni siano anche adulti e che alcuni
luoghi siano stati mal gestiti per colpa di settantenni milionari: sono i
giovani che hanno peccato. Alcuni giornali, nel conteggio quotidiano degli
infettati riportano addirittura il numero di coloro che sono stati contagiati
in discoteca.
La
questione va scomposta perché in nome dell’austerità sociale si rischia di fare
discorsi tanto miopi quanto reazionari.
1. Il
divertimento e il turismo sono anch’essi settori produttivi. Trattarli solo
come vizi ci porta fuori strada: l’Italia vive anche di questo. Non vuoi che
entrino in funzione? Devi attivare gli ammortizzatori che consentano di reggere
la situazione. Questo non è stato fatto.
2. Il
Governo ha deciso che le discoteche potevano riaprire. Dopo Ferragosto lo
stesso Governo ha pensato che era abbastanza, bisognava chiudere. Il timing è chiarissimo: non si poteva pensarci
prima?
3. Non
facciamoci ingannare: alcuni Comuni hanno preso posizione critica contro queste
politiche, altri no, altri hanno fatto entrambe le cose, esattamente come ha
fatto il Governo. A Bologna, il
Sindaco uscente ha tuonato contro la riapertura delle discoteche, quando
gli eventi del Robot Festival organizzati negli spazi di Dumbo hanno
avuto tra i principali sponsor il vice-Sindaco
Matteo Lepore.
4. i
primi focolai post-lockdown non sono stati nelle discoteche. Sono stati alla
Bartolini e alla TNT, facilitati dal fatto che la logistica era stata
follemente ritenuta a «basso rischio». Perché
nessuno ha pensato che gli stabilimenti potessero chiudere? Uno dei focolai più
pesanti è quello dell’Aia di Treviso. Un lavoratore su tre è contagiato.
Perché di questo non si parla?
Non si
tratta – lo so, sono pedante – di minimizzare il problema di un contagio che
aumenta nel momento in cui si aprono determinate forme di socialità. Ma di
capire che nell’attacco ai giovani e alle
discoteche è implicito il fatto che la socialità sia un lusso che non possiamo
permetterci. E quindi, se non dobbiamo fare qualche attività seria
veramente fondamentale, ossia lavorare, si può stare tutt* a casa.
Questo
discorso avrà ripercussioni pesanti sulla scuola e se è ipotizzabile che forse
– e sottolineo forse – chi ha meno di 10 anni si salverà dalla DAD, perché
ormai è indiscusso che per bambini e bambine è impossibile seguirla, gli adolescenti potrebbero essere
condannati a stare in casa, perché la loro socialità è percepita come
sacrificabile. Tutti i documenti emanati in merito alla ripresa della
scuola vanno in questa direzione.
L’idea per
cui la socialità debba essere limitata perché rischiosa per definizione, mentre
nelle attività lavorative definite “essenziali” si possa fare a meno delle
reali garanzie, è la prosecuzione di quello che l’1 maggio i Wu Ming
chiamavano «la grande sostituzione».
La scuola e
la socialità che lì si vive devono essere classificate come “essenziali”.
3.
Capre espiatorie, seconda parte: vari, eventuali e ministre
L’ultimo
capro espiatorio in ordine cronologico è il corpo
docente: scomparso per mesi dal discorso pubblico, è riapparso solo per
essere accusato di non voler fare i test sierologici.
Su questo
si è già scritto, ma manca un pezzo: non è del tutto chiaro cosa succede
contrattualmente se qualcuno risulta positivo al test (quindi forse è entrato
in contatto col virus): va in malattia? Va in aspettativa? Lavora da casa? In
teoria no, ma nelle Istruzioni operative sopra citate si legge: «Dovrebbe
essere identificato il meccanismo con il quale gli insegnanti posti in
quarantena possano continuare a svolgere regolarmente la didattica a distanza,
compatibilmente con il loro stato di lavoratori in quarantena». Come si
incastra questo aspetto con chi è precario? Se vai in quarantena sei in
malattia? I contratti sbocconcellati che spesso abbiamo, coprono o non coprono
questa casistica?
Altri
attacchi sono arrivati alle “mamme
del ceto medio riflessivo“, accusate di lamentarsi perché non vogliono tenersi
i figli a casa qualora vi fosse un secondo “lockdown”. Dover spiegare l’idiozia
di questo assunto è così sfibrante che MammadiMerda e Cristina Sivieri
Tagliabue l’hanno provocatoriamente preso per buono. La risposta la
trovate qui.
Più gravi e
più sibillini saranno gli attacchi che subiranno quei genitori colpevoli di mandare i figli a
scuola con la febbre, magari dando una tachipirina prima di farli uscire
di casa. Possiamo anche su questo mantenere la barra a dritta? La maggior parte
delle persone che adotterebbe questa modalità lo farebbe per l’esigenza di
lavorare e ad oggi non c’è una forma di
welfare studiata per evitare questo comportamento. Partite IVA,
lavoratori e lavoratrici in nero, persone sfruttate di tutti i tipi spesso non
possono permettersi di stare a casa e ad oggi se un* studente è in quarantena
non è chiaro se anche il genitore debba stare a casa. Ancora una volta: chi è che sta provocando la diffusione
del virus?
Anche i sindacati sono stati
criticati, per la loro scarsa collaborazione. Quelli confederali, ovviamente,
gli altri sono cattivi per definizione. Ma non è mai stato chiaro a cosa
dovessero collaborare dato che sono stati fatti fuori dai tavoli importanti.
Anzi, a dir la verità i tavoli decisionali non
si sa nemmeno dove stanno. Oggettivamente l’unica accusa che si può
muovere ai sindacati, e in particolare alla FLC-CGIL, è la mollezza di ogni
loro presa di posizione che sembra scritta tre mesi prima. Col dovuto rispetto:
datevi una svegliata.
Infine c’è
un punto scivoloso, ma dirimente: bisogna porre il ruolo della ministra
Azzolina nella sua giusta collocazione. Un Governo senza idee l’ha chiamata al
ministero senza alcun piano sulla scuola, se non quello di non rompere le
scatole sui soldi. E lei era la persona perfetta: «al Ministero lavoriamo per
creare una task force che aiuti gli istituti a scrivere i progetti e a gestire
meglio i finanziamenti», scriveva a gennaio. Il problema erano le singole
scuole, o al massimo i fondi europei, mica il Bilancio. Ad oggi l’Italia
è tra gli ultimi posti in Europa per il rapporto
Fondi all’istruzione / PIL.
Un mese
dopo, Azzolina è diventata un personaggio chiave nella gestione di una
catastrofe mondiale e si è ritrovata in una simile situazione senza
portafoglio, isolata rispetto alla questione della responsabilità ma circondata
da organi oscuri che pensavano a come riorganizzare la scuola, scavalcandola.
Conte l’ha scelta come punching ball:
mandata al massacro nella consapevolezza che, essendo questo un paese infame,
sarebbe stata attaccata anche in quanto donna, per di più con accento
meridionale. Sono attacchi schifosi.
Non si
tratta di sollevare la ministra dalle sue responsabilità evidenti, ma di dire
che sulla scuola tutta la classe dirigente italiana continua
a dimostrare la sua bassezza. La ministra sarà sollevata dall’incarico, forse
diventerà dirigente e probabilmente sarà una pessima dirigente, ma i ministri
dell’economia, i premier, i plurideputati che di mese in mese scelgono quale
finta opposizione enunciare, gli industriali che investono sulla didattica
online e quelli che sperano nella manodopera giovanile a costo zero, i
finto-intellettuali dai doppi carpiati, i macho-governatori, i baroni che ancora
ristagnano nelle università, la classe dirigente italiana che da anni lavora
alla distruzione della scuola pubblica, loro si salveranno.
Ed è da troppo tempo che va avanti così.
4.
Intermezzo semiserio: le parole o le cose?
Prima di
tentare di indirizzare in maniera intelligente il sano odio che è lecito
esprimere in questa situazione, è d’uopo sciogliere la tensione, ripassando un
po’ il gergo con cui negli ultimi mesi siamo stati turlupinati.
Ricordiamoci
che non si tratta solo di parole: è tempo buttato e denaro sprecato.
Metro buccale: a tutti
suonava come una pratica sessuale, invece era il metro che intercorreva da una
bocca all’altra nel software promosso dalla ministra Azzolina. Ci siamo scervellati per
spiegare che quello che conta non era il metro buccale, perché in realtà le
classi sono insiemi dinamici e quando qualcuno si alza dal tavolo salta tutto e
tocca mettere la mascherina. Ne consegue che possiamo dimenticarci dei gruppi
di lavoro, dello studio collettivo, con buona pace della didattica innovativa.
Inoltre nessuno sa bene cosa preveda il piano del Governo nel caso, certo
remoto, in cui una pioggia, magari con un po’ di vento, obblighi a tenere
chiuse le finestre.
Banchi monoposto: Rispetto a
questo tema ammetto un mio limite e chiedo scusa in anticipo alle persone con
cui mi sono confrontato. Capisco che in molte regioni un banco monoposto è una
necessità effettiva, ma l’idea per cui il problema di un aumento del rischio di
contagio dovuto al sovraffollamento delle classi possa essere risolto con dei
banchi più piccoli, a me dà la sensazione che invece di adottare misure
strutturali si stia giocando a Tetris.
Didattica integrata, o DDI: la
chiamavano DAD, ma utilizzare un acronimo che significa “papà” deve aver
ricordato a diversi personaggi che il Concilio di Trento aveva ragione e i lavori di casa, tipo aiutare i figli a
parlare con uno schermo nero per il buffering, li deve fare la donna.
Non solo la DAD è rimasta, ma nel decreto legislativo del 7
agosto e nelle linee guida si dà per assunto che sarà utilizzata nelle scuole
secondarie (qui i testi). Ad oggi non c’è
dibattito su questo.
5.
La destra pervasiva: riconoscerla ed evitarla
Nel
frattempo le destre stanno alla grande. Lasciamo stare le percentuali dei
singoli partiti, quelle variano a seconda del momento, ma c’è una destra larga ed estesa che si sta
espandendo, al punto da coprire l’intero arco parlamentare. E i
suoi effetti stanno per ripercuotersi sulla scuola.
Salvini e
compagnia stanno cavalcando un’onda facile. Dopo un lockdown che impediva di
stare all’aria aperta, hanno buon gioco nel mostrare la contraddittorietà delle
indicazioni e parlare di norme esagerate, magari riempiendosi la bocca con la
scuola che deve accogliere e renderci vicini. È un problema chiaro, che si
risolve col giusto equilibro, non con la corsa al controllo (che a Salvini
peraltro va benissimo), né con l’abolizione della vita sociale (idem). Non è
facile, ma quell’equilibrio va quantomeno cercato evitando certi svarioni.
La cosa più
facile, almeno per chi frequenta questo blog, è evitare
movimenti o pagine che riportano siti noti per le notizie-spazzatura o per tesi
rossobrune. PandoraTV e Byoblu i più evidenti. Evitate pure quelli che
per dirvi cosa fare in tempo di Covid si rifanno ai sindacati di polizia.
Più
difficile, ma necessario, costruire discorsi in cui evitare trappole semplificatorie.
Una su tutte: piantiamola di
ragionare esclusivamente sulla necessità dei bambini di tornare a scuola.
La scuola è un mondo sterminato: ragionare solo sui diritti e le necessità di
un unico soggetto conduce inevitabilmente a sottostimare (nel migliore dei
casi) o silenziare (nei casi più ipocriti) le esigenze degli altri. Il fatto
che ci siano docenti che rischiano se vengono a contatto col virus è vero. Il
fatto che il personale per la sanificazione è sottopagato e vessato è
altrettanto vero. Che nessuno abbia parlato dei trasporti fino a pochi giorni
fa è evidente. È difficile perché non siamo stati allenati a questo (le scuole
che abbiamo fatto non ci hanno preparati), ma tocca
fare un discorso strutturale, altrimenti è la guerra fra poveri.
Altro
discorso peloso: l’innovazione. Sia chiaro: la scuola pubblica italiana
rispecchia il classismo della società, è strutturalmente razzista, è lassista
nei confronti del sessismo imperante, è inadeguata, le indicazioni ministeriali
non aiutano a costruire la didattica, diversi docenti sono pericolosi,
l’educazione ai dispositivi elettronici è inesistente. Detto ciò, la Didattica a Distanza non risolve
questi problemi, ma li amplifica. Come suggerisce Girolamo De Michele sulla
scia di Neil Selwyn: «bisogna finirla con le stronzate». Quindi
piantiamola col dire «la DAD ha fatto anche cose buone», è un ritornello che
crea un falso bilanciamento tra elementi positivi e negativi.
Infine, la
preoccupazione per il contagio sta portando diversi genitori a vedere di buon
occhio l’educazione a casa dei propri figli, homeschooling
o educazione parentale. Questo discorso conduce dritto a una dismissione
dal basso della scuola pubblica che, nonostante le mille aberrazioni, rimane un
traguardo epocale: abbiamo bisogno che bambini e bambine escano dal nucleo
familiare, abbiamo bisogno che si confrontino con altri adulti, abbiamo bisogno
che interagiscano fra di loro, che non si capiscano, che conoscano chi è
diverso da loro e anche che litighino coi propri genitori con gli strumenti che
gli vengono dati da ciò che si trova fuori dalla famiglia, perché è anche così che
si cresce.
«Ma la
scuola pubblica è la Scuola dello Stato e io sono contro lo Stato», benissimo.
Ma non dimentichiamoci che anche la famiglia è un’istituzione, ben più totale
della scuola: è vero che anche la scuola, come la famiglia, è un luogo cardine
della riproduzione sociale, ma permette ancora un margine di libertà
radicalmente differente – a volte maggiore, a volte no, sicuramente diverso –
da quello che una famiglia può garantire.
C’è poi
l’elefante nella stanza: se qualcuno decide di fare educazione parentale ai
propri figli è perché se lo può permettere culturalmente ed economicamente.
Optare per questo modello significa avallare il privilegio di classe. E, mi
spiace, ma per me questo è il nemico.
Glisso
sulle scuole libertarie, che spesso utilizzano l’escamotage fornito
dall’educazione parentale. Lo faccio perché ritorniamo al problema di fondo,
ossia la promiscuità delle persone all’apertura delle scuole e quindi i
problemi che incontriamo sono gli stessi. Ma ci tengo a sottolineare un nodo centrale:
creiamo esperimenti, costruiamo scuole popolari, rinnoviamo le pratiche, bene,
anzi, benissimo. Ma la scuola pubblica deve essere un campo di battaglia e su
quel campo di battaglia ci dobbiamo stare. Costruire alternative e lottare per
un rinnovamento di quello che c’è può essere una contraddizione, ma cerchiamo
di tirarla dalla nostra parte e di non lasciare campo libero alle destre.
6. La rabbia o la depre
Non ho il
tempo per soffermarmi sulla miriade di soggetti che in questo momento
meriterebbero di stare alla sbarra di un tribunale per crimini contro
l’umanità. La classe dirigente italiana, nella sua
interezza, non merita il surreale clima di pace che si è instaurato negli
ultimi mesi. Non si salva nessuno. Però il ruolo di alcuni soggetti
va sottolineato.
Il
“menopeggismo” ha lasciato campo libero a un premier che di fatto ha permesso
che sulla riapertura della scuola si seminasse il panico. Tralasciando quanto
fatto prima dell’epidemia, Giuseppe Conte non solo si è chinato agli
speculatori di Confindustria durante i giorni di maggiore crisi, ma ha anche
posto le basi per una futura emergenza.
I partiti
che lo sostengono e quelli che lo contrastano sono pure peggio di lui. I
parlamentari di “centrosinistra” che guardano con spocchia all’attuale Ministra
sono stati complici della Riforma Renzi. Quelli di “centrodestra” sono complici
delle Riforme Gelmini e Moratti. Senza bisogno di alcun complotto, il piano di
dismissione della scuola pubblica parte da lontano, è condiviso e nessuno se ne
è mai distaccato. Dei 5Stelle poco da dire dal momento che esprimono
direttamente sia la Ministra dell’Istruzione che il Ministro del Lavoro e del
Welfare.
Il nome
di Mario Draghi è tornato
spesso nei giorni passati per il suo discorso sui «giovani». Negli ultimi anni
«Mario Draghi» è diventato come il «paracetamolo»: si consiglia di usarlo
quando ci sono sintomi di malessere ma non si sa bene quali siano le cause.
Mario Draghi è un protagonista del mercato internazionale, che rimane il mostro
finale da affrontare. Lo abbiamo ben conosciuto nel 2011, quando scrisse una lettera con le indicazioni su come far
uscire l’Italia dalla crisi.Quella batosta è stata dilaniante, tanto per i
giovani dell’epoca quanto per quelli di oggi.
Chi ci ha
visto lungo sono i privati interessati nella Ed-Tech e quindi nelle forme di
didattica a distanza. Alcuni di loro hanno visto un aumento di capitale impressionante.
«Ma è gratis!» ci è stato detto mesi fa in riferimento a Google: come se questo
non permettesse di lucrare comunque sui dati acquisiti e dunque sulle nostre
vite. Citando il Financial Times, Costanza
Margiotta, Girolamo De Michele e Maddalena Fragnito, hanno sottolineato come
negli ultimi mesi le piattaforme digitali abbiano quadruplicato le loro
azioni. Non sorprendiamoci se Google propone le lauree in 6 mesi!
Altri
privati non ci hanno visto così lungo, ma hanno saputo aspettare un aiuto dal
cielo, o dalla Regione, come in Liguria, dove viene dato un voucher di 180 euro
per l’iscrizione alle scuole private. L’attenzione alle scuole private è
enorme, ma d’altronde, siamo anche un paese che non
ha un piano nazionale per bambini e bambine da 0 a 6 anni: rivolgersi
alle private per molti è un obbligo. Vogliamo esigere che questa mancanza sia
coperta o preferiamo le parole di Patrizio Bianchi che, dal sito della COOP, ci
ricorda che «la scuola non è un badantato»?
Per chi se
lo fosse perso Patrizio
Bianchi è un altro personaggio interessante: docente universitario,
è anche il coordinatore della commissione esperti del ministero
dell’Istruzione. Promotore di quell’autonomia scolastica regionale destinata a
massacrare le scuole del centro-sud al rientro è anche uno dei massimi
“spingitori” della DAD. In alcuni momenti è stato una sorta di ministro-ombra.
È in quota PD e chi sta in Emilia-Romagna l’ha conosciuto come Assessore
all’Istruzione della Regione durante il primo mandato di Stefano Bonaccini.
Quest’ultimo
è anche il Presidente della Conferenza delle Regioni, che a Luglio è stata
protagonista di un curioso siparietto: dopo aver rigettato con disprezzo le
prime linee guida del Governo sulla riapertura delle scuole in nome della
scarsità dei fondi erogati per il personale, la stessa Conferenza delle Regioni
ha accettato pochi giorni dopo una seconda bozza. Non che i fondi fossero
aumentati. Però dalla seconda bozza
era scomparsa la partecipazione ai tavoli dei sindacati confederali. Il
13 Luglio, Priorità alla Scuola ha organizzato presidi alle regioni per
protestare contro questa decisione. A Bologna, vista la posizione di spicco di
Bonaccini, sono arrivati esponenti del comitato nazionale. Peccato che i
giornalisti locali non fossero presenti quel giorno, avrebbero assistito ad un
dialogo molto intenso in cui l’assessora Paola
Salomoni mostrava una delle tecniche con cui la riapertura della
scuola è pensata: un continuo rimando
ad altri tavoli e ad altri decisori.
Questa
tecnica di governo è così diffusa che i dirigenti scolastici si sono dissociati
dalle responsabilità di cui il Governo li investiva. Peccato che la loro
posizione sia scivolosa dato che il PD, grazie alla Riforma Renzi, li ha
trasformati in wannabe manager, paladini di
una scuola sempre più neoliberale che in piena emergenza riteneva
prioritario ridimensionare gli organi collegiali
«per evitare disfunzionali sovrapposizioni e conflitti con le prerogative
dirigenziali» (dal documento dell’Associazione Nazionale Presidi,
25/05/2020). Esistono dirigenti sinceramente degni di stima. A loro sarà
richiesta la fatica di dissociarsi da questi soggetti.
È questa la
panoramica della classe dirigente che sta ponendo le basi per il ritorno a
scuola. È lapalissiano che anche per chi è abituato a tapparsi il naso non c’è
nulla da salvare. Tocca a noi invertire la tendenza.
Scrivo
“noi” riferendomi a una comunità ampia, che include docenti, attiviste,
educatori, studentesse, amministratori, personale delle pulizie, genitori e
genitrici.
Ma la
situazione in cui siamo ci obbliga a guardare a una comunità ben più ampia con
cui possiamo e dobbiamo intrecciarci. Fatta dalle donne infuriate per essere
lasciate a casa senza fonti di reddito, dagli antirazzisti scesi in piazza per
la morte di George
Floyd, dai migranti che hanno bloccato la produzione, dalle
froce che ogni giorno ci mostrano quanto la normalità sia IL problema, da
artisti che lottano per un minimo di riconoscimento, da chi porta in piazza il
proprio corpo per una diversa politica sul clima.
Della
rabbia di tutta questa comunità abbiamo bisogno, estremamente bisogno.
Perché c’è
poco da girarci attorno, di fronte a noi abbiamo due possibilità: da una parte
la rabbia da organizzare, incanalare, far esplodere; una rabbia che ci permetta
di sperimentare, sbagliare, creare; dall’altra abbiamo la depressione, non solo
e non tanto la connivenza ad un esercizio di potere sempre più ottenebrante, ma
la chiusura in un nucleo sempre più chiuso e circoscritto. Fino ad una
solitudine estrema.
La scuola è
un pezzo della società da riconquistare, esattamente come la sanità. Che ci
piaccia o no, se salta la scuola salta tutto.
Partiamo da
lì e ripigliamoci questo mondo infame.
Dieci problemi in più per la scuola - Giancarlo Cavinato
Non si vuole negare l’importanza della tutela della
salute di tutti coloro che intervengono a scuola. Né l’urgenza dei genitori di
“affidare” i figli in luoghi sicuri. Ma ci sono anche ragioni pedagogiche,
relazionali, psicologiche, umane. Freinet definiva acqua stagnante quella di un
certo modo di fare scuola di contro allo sgorgare e scorrere libero di un
ruscello. Noi vorremmo una scuola talmente sicura di se stessa, resiliente, che
sappia decentrarsi, flessibilizzarsi, aprirsi all’esterno, farne oggetto di
continua esplorazione e ricerca, andare a cercare chi non si fa raggiungere.
Andare e tornare a piedi da casa a scuola in compagnia è già qualcosa, ma non
basta. Con
il post lockdown e la minaccia pendente di un acutizzarsi dei contagi ci sono
alcuni nodi di cui si preferisce non parlare, nascondendoli come la polvere
sotto il tappeto. Ma prima o poi rispuntano e dobbiamo imparare
a farci i conti.
1. Apertura
Non si può
tenere tutto e tutti sotto controllo e al chiuso per lungo tempo. Non è scuola
ma reclusorio. Bisogna trovare i modi e le ragioni per uscire.
L’incontro (con chi e cosa sta fuori) è una delle occasioni più favorevoli per
l’apprendimento. Solo il fare esperienza ambientale, culturale, ludica, motoria
può salvare dalla saturazione psicologica che contrassegnerà i mesi di immobilità.
Ma bisogna bussare forte alle porte della scuola. Tanti sono i problemi, dai
nidi alla secondaria, che caratterizzano un’apertura così spoglia di varietà
percettive, spaziali, cromatiche, multimodali, che vanno affrontati e risolti
cercando soluzioni meno dannose possibili.
2. Tempi
Una scuola
di tempi brevi non può che approfondire distanze e divaricazioni, non stimola
pensiero e non problematizza, assuefà alla ricezione passiva. È
scuola? Quando si potrà quanto meno pensare e progettare una scuola aperta
lungo tutta la giornata nonostante tutti i condizionamenti si potrà fuoriuscire
da ragionamenti angusti e limitativi.
3. Spazi
Si è spesa parecchia retorica, nei mesi del lockdown, sulla mancanza dell’aula,
di uno spazio strutturato consacrato alla lezione, cattedra inclusa. Ma l’aula
può consentire solo determinate azioni dei soggetti, tutte prevedibili. Servono laboratori, spazi
dove fare altre esperienze, dove rielaborare quanto si è visto e fatto fuori.
Pensare solo a sistemare/ingrandire le aule è stato un grande errore pedagogico.
Gli arredi non educano, ma possono avere funzione educativa se non sono
prigioni. Con buona pace di chi si preoccupa della cattedra. Ma una scuola senza
possibilità di educazione sensoriale, di manipolazione, di compiere
trasformazioni, di sussidi per l’apprendimento, di strumenti per
l’osservazione, che scuola è? Occorrono soluzioni
creative, sostituzioni di attività con altre più “sicure”, ma garantendo
l’apprendimento attivo. Ogni limite sfida a superarlo. Lewin analizzava lo
spazio fisico e sociale in termini di valenze positive o negative, di barriere
o facilitazioni. Che percezione della realtà ambientale potremo offrire se sarà
ridotta a pochi metri, piena di controindicazioni e allarmi? Quale valenza
positiva potrà assumere lo spazio scolastico?
4. Cooperazione
A vivere
insieme si impara vivendo insieme. Non chiusi in tante bolle, non misurando i
passi. È dallo sguardo dell’altro che acquisto maggior
conoscenza di me stesso. È facendo insieme che si strutturano procedure, si
stabiliscono connessioni, si assumono responsabilità. La cooperazione è un
abito che ci si porterà dietro tutta la vita. Se avrà avuto modo di crescere,
svilupparsi, arricchirsi, mettersi alla prova. Comprendendo che ognuno ha con
gli altri debiti di ri-conoscenza e crediti di reciproca collaborazione. Bisogna sperimentare
l’interdipendenza attraverso il gioco, la scrittura, le discussioni, per capire
che non si può fare a meno degli altri, che non si è autoreferenziali senza che
questo si traduca in un limite all’espansione della personalità. Oggi questo è
in discussione seriamente. Troppo tempo senza gli altri
non può non avere conseguenze. Tutti devono potersi ri-conoscere. Costruire
insieme qualcosa di nuovo, di diverso.
5. Partecipazione
Non
prevedere la consultazione dei ragazzi rispetto al loro vissuto scolastico è un
grave errore e non potrà non avere conseguenze in una
scuola in cui l’educazione alla cittadinanza attiva è spesso tutta da
costruire. Tutte le forme di coinvolgimento in ragionamenti collettivi, di
discussione, di assemblea, di consigli dei ragazzi sono quanto mai necessarie
per istituire modalità che conducano al civismo attivo e al senso dell’etica
pubblica. Una scuola con misure unicamente di prevenzione, di contenimento, di
sospensione di diritti (previsti dalla Convenzione e dalla legge 176) è un
danno per la comunità nel suo insieme.
6. I “diversi”
Franco Lorenzoni sottolinea giustamente il rischio di una reazione allarmata o
penalizzante della scuola a fronte di comportamenti che non rientrino nelle
procedure previste per il distanziamento, la sanificazione, la stanzialità sui
banchi: il “disturbo”. Ma il problema riguarda anche i casi “silenti”, le forme
di disagio inespresso, le tante piccole difficoltà che a volte vengono
ingigantite e categorizzate come stigmi, e, come ha evidenziato drammaticamente
il periodo del lockdown, riguarda i casi di disabilità, di disturbi della
personalità, di handicap neurofisiologico, cui il lockdown ha sottratto tempo
di esperienza, contatto, presenza preziosi. L’inclusione deve partire
da una ripresa reale di contatto di e fra tutti i soggetti, da una volontà di
tenere tutti dentro, di essere con loro prima di tutti per
poter stare costituzionalmente con tutti.
7. I lontani
Una particolare
attenzione va rivolta a chi non è stato raggiunto e non ha avuto e ancora non
ha possibilità di connessione. I bambini stranieri in primis, i sinti e i rom,
alcune zone del paese. Chi è rimasto, nell’accezione
espressione di una mentalità obsoleta, “indietro”. Nessuno va lasciato
“indietro” ma nello stesso tempo occorre tener presente che spesso la scuola è
funzionale a coloro ai quali non è necessaria. Piuttosto che a una pedagogia
della compensazione espressa dal termine “recupero” occorre pensare a una
riconversione pedagogica complessiva che riequilibri le condizioni e le
opportunità per tutti. Perché è la scuola che ha un groppo debito verso molti e
serve un risarcimento che sia complessivo.
8. Conoscenza
Una conoscenza asettica e in pillole non può rispondere alle tante domande,
alle emozioni vissute, alle esigenze formative del post lockdown. La conoscenza necessaria
deve radicarsi nella realtà, affrontare i problemi del mondo,
della povertà, dell’ambiente, dell’economia, della salute e della felicità.
Partendo da esperienze condivise e rielaborate collettivamente. Non “situazioni
reali” artificiosamente costruite. L’interconnessione mentale indispensabile
per comprendere cause effetti degli eventi che ci circondano si crea sulla
simbolizzazione e rielaborazione dei vissuti attraverso la metodologia dalla
ricerca, la discussione, l’elaborazione di ipotesi.
9. Voti
Il nostro
ministero è riuscito a produrre un “mostro pedagogico”: metà
anno con verifiche e voti su registro elettronico, l’altra metà (?) con profili
e giudizi. In un anno che inizia in modo così confuso e con tanti punti
interrogativi, accompagnato da ansie, disorientamento, annunciare la
sostituzione dei voti con un documento alternativo e due mesi dopo reintrodurli
in forma così pesante e prescrittiva risulta un ulteriore elemento di
disgregazione e disaffezione. Non si può non invitare i collegi a cercare
soluzioni diverse e più coerenti sul piano educativo.
10. Patti
Tutte le
ragioni suddette inducono a ribadire l’esigenza di accordi e progettazioni
reciproche a livello di territori per una città come scuola,
costruendo reti collaborative che si costituiscano come buone proposte a
disposizione delle scuole. Per sostenere la coesione sociale di cui il
distanziamento ha ulteriormente allentato i legami. Con tutti gli accorgimenti
del caso, lavorare con volontari, enti del terzo settore, associazioni
professionali costituisce una risorsa ineludibile per dare spazio e respiro
alla scuola. Visite a istituzioni culturali e strutture produttive, ricerche
ambientali e passeggiate ecologiche, animazioni, frequentazione di biblioteche
e ludoteche, di fattorie didattiche, di laboratori artigianali possono
integrare un curricolo che per reagire all’isolamento e alla chiusura non può
essere affidato a lezioni e verifiche.
Su
questi punti vorremmo confrontarci con associazioni, scuole, enti locali,
genitori, organizzazioni sindacali.
Scuola nel caos: la guerra di tutti
contro tutti - Chiara Foà e Matteo Saudino
A
pochi giorni dall’inizio del nuovo anno scolastico, fissato dal MIUR per il 14
settembre 2020, la scuola italiana vive una situazione di preoccupante caos che
sembra divorare tutto e tutti, buon senso in primis. Il tema del
diritto allo studio e della necessità di riaprire le scuole di ogni ordine e
grado (dall’infanzia alle superiori), tema assolutamente centrale per la vita
democratica di un Paese, ha generato uno scontro politico durissimo, dai tratti
prevalentemente propagandistici ed elettorali, e un acceso dibattito pubblico,
dai toni quasi sempre aggressivi e infarciti di imbarazzanti e denigratori
luoghi comuni.
Dopo
decenni di riforme scolastiche, fatte principalmente di riduzione della spesa e
degli investimenti, accolte con indifferenza e superficialità dalla maggior
parte dei cittadini, la scuola pubblica italiana sta avendo l’onore e l’onere
di occupare, in modo del tutto strumentale e probabilmente passeggero, il
centro della scena politica.
Di
colpo la scuola sembra essere diventata ufficialmente importante per la nostro
comunità. Ma discutere di un aspetto della vita associata così complesso e
delicato in piena logica emergenziale sanitaria è il modo peggiore per
affrontare e risolvere di colpo le innumerevoli problematicità strutturali e
calcificate del sistema scolastico. Il Covid-19, infatti, ben lungi dal portare
ponderatezza e lungimiranza nella classe dirigente e nella cittadinanza, ha
sdoganato ancor di più le perverse logiche della cieca autoconservazione
egoistica. Ora lo possiamo dire: è stata un’ingenua idiozia pensare, anche solo
per alcuni giorni, che una pandemia globale avrebbe finalmente migliorato una
società che da tempo ha archiviato i valori e i principi di solidarietà e
comunanza, con l’assurda pretesa di fondarsi sulla ricerca individuale del
profitto e della felicità, in un mondo in cui tutto è stato trasformato in
merce, dalla cultura alla salute, dal lavoro all’istruzione. Il Covid-19 non
poteva che peggiorarci e così pare sia stato. E un mondo fondato ancora su una
dimensione di collettività e reciprocità, come è quello della scuola, non
poteva che esserne drammaticamente travolto. La discussione intorno alla
scuola, infatti, è diventato il luogo di una lacerante guerra di tutti contro
tutti, dell’homo homini lupus est di plautiana e hobbesiana
memoria. Proviamo ad analizzare alcune faglie di queste conflittualità che
stanno logorando il terreno dell’istituzione scolastica.
1.
Innanzitutto
il caos intorno alla scuola ha messo ancora una volta a nudo l’inadeguatezza
della politica a partire primariamente dalla ministra Azzolina, la quale, in un
contesto certamente anomalo, emergenziale e di difficile gestione, si è però
mostrata inadeguata e fuori luogo. Dichiarazioni avventate poi smentite,
imbarazzanti silenzi seguiti da fragorose e clamorose boutades (sparate),
decisioni improvvisate, precipitose e poco razionali o motivabili: la Ministra
dell’Istruzione in questi mesi ha detto e fatto tutto e il contrario di tutto.
Ma vi è un importante nodo da evidenziare. La ministra Azzolina è stata, come
spesso è capitato in passato, immediatamente e volutamente lasciata sola dal
Governo, diventando il facile bersaglio polemico nonché il capro espiatorio dei
media, dell’opposizione e dell’opinione pubblica tutta. Ridurre la complessità
alle inefficienze di una sola persona è uno scaricabarile comodo e molto
italico, ma è un’operazione storicamente ed esperienzialmente poco analitica;
come se la ministra decidesse da sola la linea scolastica, per di più durante
una crisi medico-sanitaria. Di fronte a una situazione così articolata, serviva
e serve tutt’ora unire le migliori intelligenze del Paese per innovare la
didattica e per mettere in sicurezza le scuole in modo affidabile e non
approssimativo (con improbabili banchi a rotelle a seduta singola o
fantascientifiche tonnellate di plexiglass o di legno per dare slancio
all’artigianato), con investimenti di medio e lungo periodo per evitare di
aprire le scuole e poi richiuderle frettolosamente, generando ancor più
sconforto e disagio sociale. Le emergenze si affrontano attivando capacità di
progettazione: nuovi edifici, più insegnanti, più collaboratori scolastici, più
mezzi di trasporto. Invece il nanismo della classe dirigente ha scelto la via dello
scontro sterile, senza mettere realmente al centro del dibattito gli studenti e
il loro diritto a una formazione di qualità in piena sicurezza. Concentrarsi
sul far naufragare la ministra significa non tanto far naufragare un
personaggio politico, per quanto mediocre e confuso, quanto soprattutto
danneggiare un anno scolastico e la vita di milioni di studenti e studentesse.
2.
La
seconda faglia di conflittualità riguarda la società. L’emergenza Covid-19
lungi dallo sviluppare solidarietà e unità tra i lavoratori e tra i cittadini,
ha acuito le acredini e i rancori di una società che, al di là della ideologica
retorica nazionale, è profondamente atomizzata e divisa: partite IVA contro
lavoratori dipendenti, commercianti e lavoratori autonomi contro statali,
imprenditori contro operai. In particolare il caos della scuola ha mostrato
ancora una volta che vi è una parte del Paese che considera gli insegnanti dei
privilegiati, dei fannulloni, con quattro mesi di vacanze l’anno, che rubano lo
stipendio. Nessuna empatia con chi è addetto alla formazione dei propri figli.
L’insicurezza sociale generata dalla pandemia anziché portare i cittadini a
chiedere maggior protezione e diritti per tutti ha, infatti, determinato la più
becera e ottusa guerra tra poveri e tra categorie. Dunque ‒ mentre giornali, tv
e web puntano subito il dito contro gli insegnanti che non vogliono sottoporsi
all’esame sierologico o si dimostrano timorosi o ostili alle condizioni del
rientro in aula ‒ faticano ad emergere le vere questioni che dovrebbero stare a
cuore a tutti.
Perché
una cassiera del supermercato o un idraulico hanno lavorato per tutto il lockdown,
mentre i professori si nascondevano dietro le piattaforme comodamente in
pantofole a casa e ancora si lamentano di dover tornare a scuola? Questa sembra
essere la vulgata delle lamentele. Ma è questo il vero problema? Ricordiamo che
una cassiera può essere maggiormente protetta, in quanto incontra un cliente
pagante per volta, in un ambiente molto vasto e protetta dal plexiglas, mentre
un insegnante sta a contatto (stretto) con minori (molti) che pare siano i
principali veicoli della trasmissione del virus, in spazi angusti (pochi metri
quadrati) per cinque o sei ore di seguito al giorno. Senza dimenticare che
l’insegnamento presuppone la costruzione di un rapporto personale e che le
misure intraprese per il distanziamento su indicazione del ministero sembrano
essere davvero poche e di dubbia efficacia. E ricordiamo anche che buona parte
del corpo insegnante ha un’età non propriamente giovane e dunque risulta
maggiormente a rischio di contagio, soprattutto se esposta senza adeguate
protezioni al contatto diretto con gli allievi e all’interno di un ambiente
piccolo. Chi lavora all’interno della scuola conosce a menadito i problemi che
possono emergere. È possibile tenere per ore e ore i bambini/ragazzi fermi e
distanti tra loro? Seduti per ore con mascherine? Chi misurerà loro la febbre
prima dell’ingresso in aula? E quando staranno male, come faremo a star loro
vicini? Quando mangeranno, andranno al bagno, verranno interrogati toglieranno
la mascherina: perché non dovrebbero essere pericolosi a livello di contagio? E
se devono leggere?
Spaventa
anche l’affermazione sbandierata dai politici secondo cui si aprirà
assolutamente e ad ogni costo nella data stabilita. Perché questi costi
dovrebbero essere pagati dal personale scolastico e dagli studenti per
propagande politiche e per una manciata di voti? E se gli studenti saranno
contagiati, non porteranno forse a casa, a genitori e nonni, il virus? Perché
riaprire ad ogni costo se ci sono troppi rischi? Questo discorso alimenta le
preoccupazioni. Se non sono state prese cautele e non ci si è mossi per tempo
il buon senso direbbe di ripensarci poiché a scuola potrebbe capitare una
diffusione rapida del virus. Come mai gli studenti non faranno il tampone?
Ma
ragionando sulla reazione degli adulti, occorre anche soffermarsi sulla
posizione assunta da molti genitori. Le famiglie degli allievi premono molto
per la riapertura della scuole ma assai meno per la riapertura solo se in
sicurezza. Se le aule diventano focolai, gli allievi tornando a casa diffondono
il virus a macchia d’olio. Certamente il problema sotteso non è da poco ma, se
analizzato attentamente, ci rivela anche qual è la funzione che per molte
famiglie riveste la scuola. Intrattenere i figli, parcheggiati possibilmente
almeno per otto ore senza i costi elevati che potrebbe avere una baby sitter o
una struttura privata, mentre i genitori sono impegnati con il lavoro. Tutto
ciò è comprensibile. Ma è anche lungimirante? La guerra di tutti contro tutti
ha fatto sì che la salute non sia diventata un diritto da estendere il più
possibile a tutti, ma che sia considerata un privilegio da togliere a chi lo
rivendica. La scuola deve essere un luogo di inclusione e di risoluzione dei
conflitti e delle disuguaglianze, in cui costruire una visione condivisa di
comunità. Invece sta diventando un’arena in cui tutti si scannano senza
esclusioni di colpi e in cui ancora una volta si decide scientificamente di
delegittimare ancor di più gli insegnanti e di disgregare il tessuto sociale.
3.
Infine,
vi è una terza faglia di conflittualità che riguarda l’essenza della scuola:
l’emergenza Covid-19 ha evidenziato la crisi profonda delle istituzioni
scolastiche, sempre più disorientate e alla ricerca di un senso. Il dibattito
politico che si è innescato in questi mesi è miope e banale in quanto sorvola
del tutto sulla principale delle questioni pedagogiche: a cosa serve oggi la
scuola? La domanda è del tutto inascoltata da chi ha il potere di incidere
sulla vita scolastica. La parte preponderante dello scontro è su questioni
politiche di piccolo cabotaggio, da bar sport si potrebbe dire. Sarebbe
importante lasciarsi alle spalle la logica della guerra e della competizione
che attraversa il mondo della scuola per concentrarsi autenticamente su una
rifondazione dell’istruzione. La sconfitta della scuola parte dal fatto che
essa viene considerata sempre più un luogo dove realizzarsi come privato
cittadino e non come membro di una comunità. Se le istituzioni scolastiche
perdono il loro essere un bene comune e vengono fagocitate dalla logica
dell’interesse individuale e del mercato non c’è nessun futuro per la scuola
come luogo di realizzazione delle istanze democratiche contenute nella
Costituzione.
La
crisi in cui è precipitata la scuola è pericolosissima, perché si tratta di una
stupida guerra di tutti contro tutti combattuta però sulla pelle della scuola
stessa, al termine della quale non ci sarà nessun vincitore, ma solo una
desolante sconfitta di tutti, nessuno escluso.
Perché il 5G non è necessario alla scuola – Alessandro Marescotti
La connessione ad alta velocità, sia ai PC sia agli smartphone, si può realizzare partendo dalla fibra e da reti WiFi che garantiscano l'accesso a tutti. La rete come bene comune va pensata come condivisione sociale. Per questo il WiFi è preferibile al 5G.
Presentare il 5G come il sistema che consente l'accesso generalizzato all'alta velocità è semplicemente una forma di propaganda.
E' un'abile propaganda verso una tecnologia, pur non essendo la più efficiente in assoluto, che promette profitti più alti e che quindi va presentata come una tecnologia per tutti, necessaria a tutti, strategica per tutti. La cosa non è vera e qui vedremo perché.
Connessione senza fili: in casa è meglio il 5G o il WiFi?
Al di là dell'aspetto sanitario, c'è un punto su cui riflettere: la connessione senza fili ad alta velocità c'è già ed è il WiFi. Il WiFi si sta evolvendo, diventando sempre più performante e veloce. Il WiFi può essere connesso alla fibra, propagandosi mediante hotspot ai dispositivi mobili. Gli ultimi cellulari si stanno ammodernando e oggi possono viaggiare a velocità elevatissime. Ciò avviene senza consumare la banda dell'abbonamento telefonico ma attingendo alla banda che proviene dalla fibra ottica. Tutto questo avviene senza aver bisogno del 5G.
Il 5G è una tecnologia che può superare il divario di velocita che si registrava in passato fra PC e cellulari. Potrà dare l'impressione di poter fare con il cellulare tutto ciò che si fa con il PC. E potrebbe far pensare che tutti i sistemi "fissi" (cavi in fibra, cablaggio degli edifici con reti) siano eredità del passato e che il futuro prescinda dalla fisicità delle reti fatte di cavi.
La tecnologia dal punto di vista della pigrizia
Molti si chiederanno: ma in casa non è meglio usare il 5G invece del WiFi?
E anche nella scuola questo ragionamento potrebbe replicarsi per pigrizia e per lo stato di fatiscenza dei cablaggi, oltre che per la fatica di progettare qualcosa di concreto e funzionante: megli affidarsi a chi posiziona le antennine 5G nei pressi delle scuole, che risolvono tutti i problemi. La componente "pigrizia" sta ormai diventando la vera componente strategica. WhatsApp si è diffusa per pigrizia, non perché le email non possano fare le stesse cose, e anche meglio. Ma se analizziamo la tecnologia non in base alla pigrizia le cose cambiano completamente.
A scuola senza il 5G
Ad esempio in una scuola è possibile creare un'infrastruttura pubblica basata sulla fibra che garantisca il collegamento WiFi a tutti i dispositivi. A casa è possibile avere router che garantiscano una costante connessione ad alta velocità a tutti i dispositivi, sia fissi sia mobili. Stessa cosa nelle aziende.
E' quindi del tutto evidente che, già da ora - portanto la fibra in modo capillare nelle scuole, nelle case e nelle aziende - è possibile garantire l'accesso all'alta velocità sia ai computer sia ai dispositivi mobili.
Il 5G come rete unica di connessione globale
Vedere il 5G come accesso generalizzato all'alta velocità - fino a mettere il WiFi in secondo piano - è una scelta tecnologicamente sbagliata, ad esempio nella scuola.
"Come" connettersi alla rete è una scelta, anche politica.
E se si usa in modo intelligente la fibra e il WiFi si evitano inutili sprechi. Ma qui arriva il punto interessante: la tecnologia 5G viene proposta per avere più velocità o per alimentare un sistema di spreco in funzione del profitto?
Il WiFi come alternativa al 5G a scuola e a casa
Se quindi l'obiettivo non è perseguire il profitto ma l'efficienza tecnologica e l'utilità sociale, e se l'efficienza tecnologica può essere ottenuta in altri modi, diversi dal 5G, qual è la ragione per cui il 5G viene presentato come treno strategico da non perdere?
Semplice: perché il 5G è la gallina dalle uova d'oro e non si vuole che le uova d'oro le faccia la Cina. Vorremmo avere noi la gallina che fa le uova d'oro.
Ma se il nostro ragionamento viene orientato su finalità sociale, allora il tutto cambia.
Ripeto: il WiFi è un sistema di connessione senza fili che rende inutile il 5G in vari contesti. Lo rende inutile perché più costoso e meno stabile. Oltre che più inquinante rispetto al WiFi in termini di sovvraccarico dei campi elettromagnetici.
La scuola non ha bisogno del 5G
Nella scuola non serve il 5G ma il WiFi veloce. Dal punto di vista del consumo critico stiamo abdicando alla nostra funzione se ci accodiamo alla grancassa del 5G presentato come unica soluzione per consentire l'alta velocità per il futuro.
Dobbiamo avere il coraggio di mettere in discussione il cosiddetto ruolo strategico del 5G. Nelle case e nelle scuole useremo il WiFi, non il 5G. E se non lo faremo è perché abbiamo abdicato alla nostra capacità critica fino a non comprendere che tecnicamente a casa e a scuola i nostri dispositivi vanno connessi wireless alla fibra tramite router e hotspot.
E chi userà il 5G sul cellulare lo farà al 99% non per reale necessità ma per semplice cedevolezza rispetto alla pubblicità. Una serie di articoli possono confermare le basi tecniche di questo ragionamento.
In uno di questi si legge ad esempio: "E' ovvio che i "provider" di linea telefonica vorrebbero che le aziende utilizzassero la rete mobile come tecnologia principale eliminando Ethernet e WiFi: sarebbe la gallina dalle uova d'oro del nuovo millennio".
E' chiaro il concetto?
La gallina dalle uova d'oro siamo noi, quando - per il nostro analfabetismo tecnologico e per la nostra cedevolezza verso la pubblicità - penseremo che senza il 5G non potremo partecipare all'alta velocità e che i nostri cellulari saranno lenti e vecchi senza il 5G. Una cosa da comprendere è che la fibra è in grado già da ora di fornire alta velocità non solo ai computer collegati a cavi ma anche ai cellulari.
Un 5G per utente o un WiFi per tutti?
Ad esempio nella scuola alcuni pensano di diffondere le connessioni wireless con SIM-card. Perché? Perché progettare una rete capace di sostenere le connessioni di tutta la scuola è cosa complessa da progettare. Ma se si sa fare, ed è possibile, si offre un WiFi condiviso e veloce per tutti. E soprattutto comune. E' la scelta dei beni comuni. Mentre andare verso le SIM-card e il 5G è la strada opposta rispetto ai beni comuni.
Infatti il 5G, si legge in una pubblicazione tecnica, è "payperuse" (necessità di abbonamento a pagamento per ogni singolo utente) mentre il WiFi può essere condiviso con tutti gratuitamente.
Precisiamo: anche il 5G può essere condiviso con appositi dispositivi. Ma con quali costi di banda?
Il WiFi in sostanza è più indicato ed economico rispetto al 5G per la banda larga e il suo uso sociale. Ed è anche più stabile.
Verso una società dei beni comuni
Se si vuole andare verso una società dei beni comuni - e la connessione ad alta velocità deve diventare un diritto di tutti - la scelta strategica vada fatta sulla fibra e sul wifi di nuova generazione.
L'uso sociale delle connessioni wireless è consentito dalla fibra e le scuole possono essere il luogo dove - senza il 5G - si può garantire l'accesso a tutti ad alta velocità.
L'accesso a Internet è stato riconosciuto come un diritto umano. E quindi va usata una tecnologia che consenta la condivisione di tale accesso.
La fibra consente l'alta velocità e la condivisione fra più utenti, sia in casa, sia a scuola, sia nelle aziende. Questo assetto basato sulla fibra garantisce una condivisione più veloce e stabile a costi minori e con un impatto elettromagnetico inferiore. Avere telefonini a 5G è una cosa non indispensabile se c'è una buona programmazione pubblica che garantisca la capillarità della fibra. E una volta arrivata la fibra capillarmente si creano delle aree di condivisione WiFi ad alta velocità. A questo punto lo spazio per il 5G si restringe ad usi di nicchia, lì dove la fibra non arriva, o per applicazioni molto specifiche e mirate, ad esempio nel settore delle automobili connesse a reti. Per diffondere il 5G bisognerà creare bisogni indotti, molti dai quali alienanti; vedremo ad esempio nelle pizzerie le persone usare il 5G per nuovi supervideogiochi e mostrarlo agli amici invece di parlare, discutere e socializzare il proprio vissuto. Ma sulla base delle attuali esigenze, si può portare l'alta velocità sul lavoro e in casa, anche senza fili, senza il 5G.
L'analfabetismo tecnologico: ragazzi senza PC ma col cellulare
Oggi si sta assistendo ad una distorsione dell'approccio alla tecnologia per ragioni commerciali ed extra tecnologiche. Ad esempio tanti studenti hanno il cellulare costoso ma non hanno il computer. Il mercato del cellulare è più redditizio e ha un indotto più interessante in termini di consumi connessi. Ecco perché molte famiglie comprano cellulari costosi ai figli invece di PC e normali cellulari, e ciò avviene sulla spinta dell'insistenza dei ragazzi che pensano di poter fare con il cellulare tutto ciò che si fa con il PC. Cosa non vera.
A scuola scopriamo che famiglie e ragazzi spendono i soldi non per ottenere risultati migliori ma solo perché abbindolati dalla pubblicità che li illude che il cellulare sia il futuro, mentre per gli usi educativi il PC rimane imprescondibile. Nelle famiglie italiane si spende di più per avere di meno e per scoprire ala fine che con i cellulari non si possono usare software ideonei a scopi professionali o educativi.Rispetto alle attuali esigenze come quelle di una scuola connessa in modo stabile e veloce occorre pertant rivedere completamente la cultura della rete e dei dispositivi.
E, sottolineiamolo fino alla noia, anche i cellulari degli studenti possono fruire del wifi veloce senza il 5G. Il 5g non serve a scuola. Ma, chissà perché, il futuro della scuola viene associato alla diffusione del 5G quando ciò non è vero.
Note: Fonti informative per questo articolo
5G o WiFi: come e cosa scegliere?
https://www.corrierecomunicazioni.it/whitepapers/wi-fi-o-5g-ecco-qual-e-la-scelta-migliore-per-le-imprese/
Ecco perché il WiFi sopravviverà anche al 5G
https://www.alfacod.it/blog-wifi-sopravvive-5g
Il 5G al posto della fibra ottica in casa? Non è ancora il momento, ecco perché
https://www.ilsole24ore.com/art/il-5g-posto-fibra-ottica-casa-non-e-ancora-momento-ecco-perche-AD1ggBX
Internet a casa, il 5G ancora non permette di rimpiazzare la connessione domestica
https://www.repubblica.it/tecnologia/mobile/2020/06/10/news/internet_a_casa_il_5g_ancora_non_permette_di_rimpiazzare_la_connessione_domestica-258847174/
Il 5G prenderà il posto delle connessioni casalinghe?
https://www.lastampa.it/tecnologia/news/2020/01/13/news/il-5g-prendera-il-posto-delle-connessioni-casalinghe-1.38315485
Foucault, Debord e i banchi a rotelle - Fernanda Mazzoli
Il Paese, prostrato dal Covid,
riprende finalmente a correre, anzi a scivolare, sulle rotelline degli
innovativi banchi fortemente voluti dalla ministra Azzolina, i quali, assieme
al monopattino, rappresentano una significativa manifestazione di quello
spirito creativo e un po’ sbarazzino al quale è affidata la tanto sospirata
ripresa. Ma come rispondono, i banchi a rotelle, alla necessità di riprendere
le lezioni in sicurezza? Non c’è sicurezza senza innovazione. E non c’è
innovazione che non faccia rima con digitalizzazione.
Il
Paese, prostrato dal Covid, riprende finalmente a correre, anzi a scivolare,
sulle rotelline degli innovativi banchi fortemente voluti dalla ministra
Azzolina, i quali, assieme al monopattino, rappresentano una significativa
manifestazione di quello spirito creativo e un po’ sbarazzino al quale è
affidata la tanto sospirata ripresa.
Pochi, tuttavia, hanno accolto con entusiasmo la proposta che, al netto dei
tempi richiesti dai bandi, dalla fabbricazione e dalla consegna, ancora troppo
lenti per stare al passo con tanta vivacità progettuale, dovrebbe tramutarsi in
realtà dal prossimo anno scolastico. Prevalgono i soliti gufi che si
abbandonano chi al sarcasmo, chi alle dietrologie, chi a fosche previsioni
sulle conseguenze in caso di terremoti.
E c’è chi evoca Foucault e la microfisica del potere, con la sua
riorganizzazione degli spazi e il disciplinamento dei corpi che i nuovi banchi
contribuirebbero a rimodellare.[1] Dubito che l’opera dell’insigne pensatore
francese sia uno dei livres de chevet da cui la ministra e i suoi consiglieri
traggano ispirazione per le loro mosse e contromosse, se non altro perché anche
le analisi dell’ottimo Foucault (come ogni tentativo d’analisi, d’altronde)
hanno quel sapore di vetusto che l’Azzolina si sforza di individuare ed
esorcizzare ovunque ne scopra un qualche sentore. Assai meglio, per disegnare
la scuola del futuro, approfittare delle risorse che offre Internet e pescare
nuove idee dalle accattivanti immagini che si propongono all’attenzione di chi
intraprenda un serio lavoro di ricerca che, come è noto, non può
prescindere dalle fonti dirette, su Google. Ed ecco snocciolarsi una dopo
l’altra aule spaziose e luminose ove si dispongono, simpaticamente a cerchio, o
in più tradizionali ranghi, i banchi a rotelle, vuoi colorati, laddove si
tratti di stimolare con opportuni colori le facoltà intellettive, vuoi
monocromi per allievi sufficientemente familiarizzati con le stesse. Pur nella
varietà, non solo ricca di stimolazioni didattiche, ma rispettosa della libertà
di scelta dei modelli costituzionalmente garantita dall’articolo 33, tutti i
banchi ospitano orgogliosamente un computer, o un tablet.
Allora,
io che non riuscivo a capire come i banchi a rotelle potessero rispondere alla
necessità di riprendere le lezioni in sicurezza ( avevo sempre pensato che le
ruote servissero per avvicinarsi a qualcuno/qualcosa e/o per allontanarsi da
qualcuno/qualcosa con cui si è stati in recente contatto) e che avevo
ricondotto le mie perplessità a quella che Debord chiamava “la dissolution de
la logique” ho dovuto ricredermi. Né a dissuadermi sono valse le giubilanti
dichiarazioni della ministra che, in sede di collaudo,
ha rassicurato gli Italiani che anche un vetusto e ponderoso Rocci riuscirebbe
a trovar posto sulla ridotta superficie dei nuovi banchi. Infatti, nel
frattempo, avevo sottoposto a riesame le fonti dirette e avevo potuto notare
che in ogni aula spaziosa e luminosa campeggia una LIM su cui convergono gli
sguardi in provenienza dai detti banchi, comunque disposti.
Mi sono allora ricordata che non è solo per il distanziamento di tutti- grandi
e piccini- che la previdente Ministra ha optato per queste nuove strutture, ma
per garantire in un unico magistrale colpo sicurezza ed innovazione. E vi è
qualcuno che ancora ignori che innovazione fa rima obbligata con
digitalizzazione ?
E’ doveroso, tuttavia, riconoscere che disfattismo e presunzione intellettuale
mi avevano sviata, al punto da spingermi a dubitare delle capacità logiche di
un intero Ministero, per scoprire invece che una ratio ineccepibile ne ha
dettato la scelta: affrettare la sostituzione del libro cartaceo con i
dispositivi digitali e la lezione frontale con la flipped class.
Comunque, niente paura: i nuovi ambienti di apprendimento sono fortemente
inclusivi: c’è posto per tutti, dal Rocci ai docenti. Tanto più, che continuerà
ad esserci ancora bisogno di qualcuno che intervenga, in caso le aule si
trasformino in piste di autoscontro o salti la connessione.
[1] https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/18420-salvatore-bravo-i-banchi-dell-azzolina.html
La scuola e il discorso digitale - Girolamo De Michele
Premessa: il diritto di
lasciare le cose incompiute
C'è un apologo
piuttosto noto, anche se non è chiaro chi ne sia l'autore. La storia è questa:
il Direttore di una grande società, impossibilitato ad assistere a un concerto
nel quale era in programma la Sinfonia N° 8 in si minore di
Franz Schubert, nota come l’Incompiuta, fa dono dei biglietti al
Responsabile delle risorse umane dell'azienda, un giovane laureato alla Bocconi
con master in una London School, ma che non conosce la Grand Musique,
nella speranza che Schubert gli apra un orizzonte. Il giorno dopo il Direttore
generale gli chiede com'è stato il concerto, e si sente rispondere che riceverà
una relazione; che, puntualmente, arriva a mezzogiorno, divisa in punti:
1.Durante
considerevoli periodi di tempo i quattro oboe non fanno nulla: si potrebbe
ridurne il numero e distribuirne il lavoro fra il resto dell’orchestra,
eliminando i picchi d’impiego;
2. I dodici
violini suonano la medesima nota: l’organico dei violinisti potrebbe quindi
essere utilmente ridotto;
3. Gli ottoni
ripetono suoni che sono già stati eseguiti dagli archi, il che appare
inutilmente ridondante;
4. In conclusione:
se Schubert avesse tenuto conto di queste osservazioni e avesse ottimizzato
tempi e risorse, avrebbe ridotto di almeno il 25% la durata della sinfonia, e
avrebbe quindi avuto il tempo di terminarla prima di morire.
La morale
dell'apologo è che Schubert dovrebbe avere il diritto di fare quel che gli pare
(per inciso, non è vero che l'Incompiuta è incompiuta a
causa della morte dell'autore), e il pubblico di ascoltare Schubert (ma anche
Otis Redding) così com'è. Nondimeno, i rilievi del giovane bocconiano sono
tecnicamente esatti, presi uno per uno; quello che manca, è la comprensione del
valore estetico, emotivo, artistico dell'opera di Schubert: tutti elementi che
non sono suscettibili di una misurazione quantitativa.
L'ordine del discorso
digitale e le sensate esperienze della DaD
Uno dei più acuti
critici degli usi retorici che accompagnano e sostanziano la presunta necessità
di far irrompere il digitale nel sistema educativo, Neil
Selwyn, osservava nel 2013: «Public debate, commercial marketing, education
policy texts and academic research are now replete with sets of phrases and
slogans such as ‘twenty-first century skills’, ‘flipped classrooms’, ‘self
organised learning environments’, ‘unschooling’, an ‘iPad for every child’,
‘massively online open courses’ and so on». E concludeva: «If we are to make
sense of current forms of digital education, then it is necessary to consider
the nature of these particular discourses». La natura
scivolosa (slippery) dell'Ed-Tech Speak, secondo Selwyn, è evidente
nell'operazione di re-branding con la quale vengono
introdotti nel discorso educativo nuovi sintagmi che, dietro l'apparente
neutralità del linguaggio tecnico, operano un vero e proprio sovvertimento
delle pratiche e delle finalità scolastiche – uno per tutti, l'apprendimento (learning)
in luogo dell'educazione – per cui si parla di "learnification dell'educazione";
o la
ridefinizione, da parte della CRUI del compito dell'Università nello
"Sviluppare ed erogare servizi e prodotti orientati al cittadino/cliente e
altri portatori di interesse significativi" (p. 65). In realtà, questi
nuovi sintagmi veicolano pratiche, significati e modalità di relazione fra
educazione e uso della tecnologia. Nondimeno, nella maggior parte di questo
rumore di fondo digitale l'innovazione viene presentata come un valore in sé –
"l'innovazione per l'innovazione", come
scrive Marco Meotto –, senza che sia esplicitata qual è la finalità
che si attribuisce alla scuola, quali le strategie per conseguirla, e, in terzo
luogo, se il digital disruption (preferisco non tradurre il
termine disruption, per non privare la sua area semantica delle
sue connotazioni negative) è uno strumento adeguato a conseguire queste
finalità, e quali sono le evidenze che lo dimostrerebbero. Come il responsabile
delle risorse umane che sforbicia l'orchestra per sfoltire l'Incompiuta di
Schubert, la retorica digitale sembra non chiedersi qual è lo scopo della
scuola. Ciò
ha portato Selwin a sottolineare che l'Ed-Tech Speak è pieno di
"stronzate" (bullshit), ovvero di sintagmi inverificabili,
dei quali non è possibile accertare se siano veri o falsi. Selwin segue qui
H.G. Frankfurt, che in un aureo libretto definiva "stronzata" un
enunciato che non appartiene all'ordine del vero: «Uno che mente e uno che dice
la verità giocano in campi opposti, per così dire, allo stesso gioco. Chi
racconta stronzate ignora completamente tali esigenze».
Un'accurata
decostruzione di questo ordine del discorso digitale è stata operata
da Marco Gui nel suo Il digitale a scuola del 2019. In
qualche modo, le sensate esperienze della didattica a distanza (DaD) hanno
cambiato le cose: come lo stesso Gui ha riconosciuto in una recente intervista,
«è risultata chiara la povertà comunicativa della didattica a distanza. Una
volta esauritosi l’effetto novità, come dimostra la letteratura sui media, sono
affiorati tutti i problemi: effetto distrattivo delle tecnologie, overload cognitivo,
disuguaglianza digitale, elementi già ben descritti in letteratura ma ancora
non sufficientemente noti all’opinione pubblica».
In questo senso il
libro di Gui è importante anche per una ragione cronologica: la letteratura
scientifica che passa in rassegna precede di un paio d'anni la DaD. Quello che,
con parole semplici e in apparenza banali, hanno detto i docenti
sull'esperienza della DaD coincide con quello che si scrive da anni su libri e
riviste specializzate in mezzo mondo: scritture che sono a loro volta basate su
prassi di digitalizzazione della didattica cominciate prima, e che proprio per
questo mostrano la corda mentre da noi si inneggia all'innovazione. Con buona
pace di chi ha liquidato il dibattito sulla scuola in lockdown come
"enfasi della tautologia" e "filosofia alla Catalano", si è
concretizzata una positiva sovrapposizione fra una prassi didattica che tutto
il sistema-istruzione (docenti, discenti e famiglie) ha esperito con quello che
la letteratura internazionale sull'argomento attesta da anni (bastava aver
esperienza dell'una o dell'altra per accorgersene, ma che te lo dico a
fare?).
Decostruire è
spesso utile, quasi mai sufficiente: è necessario andare oltre, e indagare
l'ordine del discorso digitale, ponendosi alcune domande: quali significati e
concezioni dell'educazione sono veicolati dalle rappresentazioni del digital
disruption? Fino a che punto queste enunciazioni del digital
disruption sono situate all'interno di strutture dominanti di
produzione e di potere? Quali libertà e restrizioni sono associate a tali
enunciati? In che modo possono essere vissuti da individui e gruppi sociali
diversi? Come questi discorsi inquadrano il rapporto fra l'individuo e comune,
il pubblico e il privato?
Il digitale a scuola:
alcune fake
news che è utile conoscere
L'ordine del
discorso digitale si avvale di una serie di luoghi comuni – nel doppio senso di
affermazioni che vengono date per scontate in quanto condivise, senza che ne
sia verificata la veridicità; e di territori nei quali bisogna esserci.
Si aggiunga che in quei territori si incontrano non solo la gente che conta, ma
anche i flussi di finanziamenti senza i quali la scuola dell'autonomia
boccheggia. Ne elenco una sintesi dall'elenco fatto da Marco Gui nel quinto
capitolo del suo Il digitale a scuola:
A. Si è invertita
l'asimmetria educativa: gli studenti sanno più dei professori nel campo
digitale
B. I nativi
digitali hanno uno stile di apprendimento diverso, e migliore
C. I media sono
neutri, tutto dipende da come li usiamo
D. La lezione
frontale è un lascito del passato
E. La conoscenza è
in rete, non serve più imparare nozioni
A queste cinque
asserzioni si può rispondere agevolmente che:
A1. Questa affermazione
è frutto di un errore percettivo: si scambia lo smanettare con una effettiva
competenza digitale, e l'essere sui social con l'essere sul web. In realtà la
maggior parte degli utenti dei social non esce mai dai limiti della propria
infonicchia: i contenuti che condivide, le operazioni che compie (leggere un
messaggio, aprire un video, ecc.) restano all'interno di questo spazio. La
sensata esperienza didattica dimostra che questi apparenti smanettoni sono a
volte in difficoltà nel compiere azioni elementari, come entrare nella propria
casella di posta o aprire un drive, se non partono dal proprio social. Così
come sanno quali tasti pigiare, ma non sanno cosa questo comporta: per citare
un'esperienza personale, quando arrivo a scrivere alla lavagna col gesso in
mano <a href="www.blablabla.com"
/a>, per far vedere dove si arriva una volta avviata con Frege la scissione
fra significato e significante, capita di rado che qualcuno sappia cosa
significa questa stringa di codice html, o la sappia correlare all'immagine del
pulsante con su scritto "link" o il disegno della graffetta
(nondimeno, un ispettore che capitasse in quel momento potrebbe criticare il
mio uso pervicace del gesso in luogo della più aggiornata LIM). In aggiunta,
«molte ricerche hanno mostrato che l'abilità tecnologica e digitale dei giovani
resta per lo più confinata nell'ambito delle competenze operazionale», laddove
«la competenza digitale "content related", relativa cioè all'analisi
dei contenuti veicolati dai media, è maggiore negli adulti che nei giovani» (p.
173): si sta parlando, per capirci, (anche) della capacità di interpretare
criticamente un post, individuandone le distorsioni.
B1. Questa
asserzione si basa su un doppio errore. In primo luogo, il presupposto che gli
stili di apprendimento denotino due campi – per banalizzare: i docenti-boomers e
i giovani-zoomers – separati da paratie stagne. L'esperienza
della DaD ha invece dimostrato che i boomers sono stati in grado di convertirsi
in zoomers o meeters. Questo ci porta al
secondo pregiudizio: che lo stile di apprendimento caratterizzato da velocità,
frammentazione, iperstimolazione e dal multitasking sia di per sé
"migliore": vero è, invece, che questo stile comporta la rinuncia a
importanti elementi cognitivi – approfondimento, analisi riflessiva, capacità
di imparare dai propri errori, lentezza (tutti elementi che non vengono
misurati dai test di verifica degli apprendimenti, per inciso). In definitiva,
questo luogo comune si basa sull'assolutizzazione di uno stile cognitivo, che è
però funzionale solo a poche e determinate esperienze di apprendimento.
C1. Qui si
tratta di capire cosa si intende per "media": il mero accrocco, o gli
ambienti mediali? Sappiamo bene che algoritmi e feedback sono progettati e
programmati per veicolare certi comportamenti o pratiche, e limitarne altri. E
che il loro inserimento all'interno di un contesto ne veicola la funzione:
insomma, l'algoritmo sarà anche in apparenza neutro in quanto insieme di
simboli/codici, ma dietro l'algoritmo c'è un programmatore umano. Anni fa,
quando l'algoritmo che attribuiva le cattedre ai precari comportò una vera e
propria deportazione di precari, il suo programmatore (che era stato precario
anch'egli) rispose alle critiche dicendo: se la cattedra che ti spetta è a
Terni, la colpa non è dell'algoritmo. Vero: la colpa era del taglio delle
100.000 cattedre operato dalla riforma Gelmini, sul quale la Buona Scuola
glissava. Ma l'idea che esistesse un algoritmo imparziale impediva di vedere la
foresta al di là dell'albero, e finiva col fornire una giustificazione smart all'ingiustizia.
D1. Qui si tratta
in primo luogo di intendersi su cos'è una lezione frontale. Il docente in
classe ha una certa varietà di modalità, che vanno dal leggere la stessa storia
sullo stesso libro con le stesse parole di vendittiana memoria, fino al
brainstorming, con tutte le varianti del caso: però è probabile che lo studente
percepisca come frontale una lezione che il docente non considera tale. In
altri termini, si tratterebbe di vedere se i presunti limiti della lezione
frontale non siano in realtà limiti intrinseci a un uso parziale o limitato,
come guidare un'auto senza mai ingranare le marce alte. Questo luogo comune si
accompagna però a un implicito: che, essendo "vecchia" la lezione
frontale, qualsiasi cosa, purché "nuova", sia di per sé migliore (per
inciso: formulata così, è una fallacia logica); e dunque flipped
classroom, collaborative learning, didattica per competenze:
senza che di queste "novità" si dimostri la maggiore utilità.
E1. Questo luogo
comune, che è stato alla base della Buona Scuola (lo stesso Matteo Renzi
l'aveva in precedenza enunciato a Che tempo che fa con aria
ispirata), è una modalità smart di enunciare la didattica
per competenze, che si basa su un doppio fraintendimento: in primo luogo, si
confondono le conoscenze con ciò che merita di essere conosciuto; in secondo,
sovrappone il ruolo delle competenze con quello delle conoscenze. In rete, ma
prima che la rete fosse nel mondo, c'è di tutto: il vero, il falso, l'utile e
l'inutile. Non si possono mettere tutti i dati sullo stesso piano limitandosi a
connetterli, senza operare una scrematura e una selezione: si formano
altrimenti studenti (di nuovo, parlo per esperienza) abituati a scaricare la
qualunque, e la qualunque a giustificare con affermazioni tipo "l'ho
trovato in rete". Al tempo stesso, «le competenze di verifica delle
informazioni non possono sostituire il confronto con una base di informazioni
di cui si conoscono senza dubbio la validità e la coerenza» (p. 185): la
grandinata di fake news, di negazionismi, di fallacie logiche e
argomentative, di errori di traduzione, di equiparazione delle fonti che ha
inquinato la discussione pubblica nei giorni del lockdown e oltre dovrebbe
avercelo ultimativamente insegnato. Al fondo di questo luogo comune, in modo
più evidente che negli altri, c'è la domanda su quale finalità vogliamo
attribuire alla scuola. Di nuovo con le parole di Gui: «se vogliamo formare
tecnici da mettere subito nel mercato del lavoro, l'idea di un utente che trova
le informazioni a mano a mano che gli servono, può essere efficiente. Se, però,
abbiamo in mente un cittadino autonomo, che sappia dare una lettura critica dei
fatti che vive direttamente o che trova nei media, il ruolo della conoscenza
pregressa e ben strutturata appare irrinunciabile» (p. 186).
Depotenziare e
semplificare: la neolingua del digital disruption
Un'altra
caratteristica del digital disruption è una marcata
banalizzazione del linguaggio: la valenza comunicativa e cognitiva del
linguaggio complesso sembra essere sottomessa alla maggiore funzionalità alla
mera trasmissione di contenuti di un linguaggio elementare. Una conseguenza che
getta luce sulla portata della learnification dell'educazione,
che cercherò di argomentare con alcuni casi esemplari.
Il primo riguarda
l'università, nella quale i processi di digitalizzazione della didattica sono
molto più avanzati che nella scuola. In un recente
documento, Federico Bertoni, Davide Borrelli, Maria Chiara Pievatolo,
Valeria Pinto puntano il dito sulla cosiddetta didattica blended,
a partire dai documenti CRUI (la Conferenza dei Rettori Universitari Italiani)
che ne dettano le norme; ai docenti è chiesto di insegnare in un “blended
learning environment” (un’aula predisposta per la registrazione e lo streaming):
La lezione si trasforma in un modulo
riutilizzabile, fungibile, computabile. Si è arrivati a consigliare ai
professori universitari di usare «parole chiave in maiuscolo» per un uso
efficace delle slide», «periodi brevi, evitando quindi la narrazione prolissa»,
«elenchi puntati, per mettere in risalto dei concetti o chiarire argomenti complessi»;
e ancora: «evitare di inserire riferimenti all’insegnamento», «evitare
riferimenti temporali», «evitare di riferirsi alla numerazione delle lezioni
(es. questa è la seconda parte dell’incontro)». Così, si dice esplicitamente,
«le registrazioni possono essere riutilizzate per insegnamenti/corsi
differenti»; si possono «riutilizzare i moduli didattici anche con un
ordinamento differente»: unità di apprendimento «auto consistenti e
indipendenti», ogni mattoncino «di durata compresa tra i 10 minuti e i 20
minuti max», ricombinabili secondo le esigenze del caso.
Sarà bene
sottolineare che questa prassi, che trasforma gli studenti in utenti/ricettori
di pillole preconfezionate recitate da «un docente che, una volta alienato il
suo prodotto, non ha neppure bisogno di continuare a esistere», è alternativa a
investimenti nel reclutamento dei docenti, nell’edilizia universitaria e in
studentati.
Il secondo caso è
un documento ministeriale, gli Orientamenti per l’apprendimento della
filosofia nella società delle competenze prodotti nel 2017 da una
commissione ministeriale per adattare alla Buona Scuola l'insegnamento della
filosofia, in cui si pretende di ridurre il sapere filosofico a un Sillabo
di filosofia per competenze e il docente a facilitatore del processo
di apprendimento», in nome di una filosofia che cede davanti al proprio
desiderio e si acquatta nel ruolo di counseling filosofico:
una filosofia buona per un debate, cioè per fare chiacchiere al
tavolo del burraco. Il "lancio" di questo documento fu accompagnato
da una improvvisa fioritura di manuali scolastici improntati alla
semplificazione di linguaggio e contenuti – uno "stile limpido e lineare
assistito da mappe, schemi, tabelle e disegni" –, per fare spazio a
"contenuti digitali" quali booktrailer filosofici
utilizzabili anche per la flipped classroom, lezioni LIM
(presentazioni personalizzabili che sintetizzano i concetti chiave dei capitoli
e ne riprendono schemi e cronologie), e un corredo di webinar di sconcertante
banalità (ma certificabili come aggiornamento) per accompagnare il docente. Uno
dei facitori di questa manualistica lo ritroviamo fra gli autori dei podcast
prodotti dal MIUR per "facilitare" la preparazione degli studenti
all'esame. Senza tema di sdoganare la parola "bigino" (dopo aver
sdoganato "sillabo", del resto), questi podcast sono stati diffusi
sul web player Spotify: una modernità che fa passare in secondo piano il
classismo col quale "le dieci materie più importanti" sono state
individuate nel curricolo del liceo classico. Basta aprire il primo,
sulla Critica della Ragion pura di Kant (che è programma del
quarto anno, ma tant'è...) e si può ascoltare un riassuntino di
mezz'ora con un linguaggio che sembra presumere che le subordinate contengano
olio di palma o glifosfato; in compenso, ricompare la bufala delle passeggiate
di Kant sulle quali si regolavano gli orologi: che sarà un dettaglio, ma la
dice lunga sulla considerazione per i contenuti sui quali si dovrebbero poi
svolgere i debate – però vuoi mettere, scaricarlo da
Spotify? Sopravvissuti a 6/7 cambi di ministro, gli Orientamenti ricompaiono
nel Piano per la ripartenza della Regione Veneto, dove,
reintroducendo dalla finestra la DaD in apparenza accompagnata alla porta, si
forniscono "indicazioni metodologiche" per «una organizzazione della
didattica centrata sugli apprendimenti attivi degli allievi, anche mediante la
rimodulazione dei curricoli per nuclei fondanti essenziali, privilegiando lo
sviluppo dei concetti chiave, delle relazioni interdisciplinari e dei metodi
per costruire e organizzare gli apprendimenti»: esplicitando il fatto che la
banalizzazione della filosofia ridotta a sillabo è funzionale a una lezione a
distanza (si ricorderanno i moduli di 20 minuti sostitutivi di un'ora in
presenza delle Linee Guida della CRUI), ovvero alla lectio brevis di
un'ora ridotta a 40 minuti e in modalità blended.
L'ordine del discorso
digitale e la logica del Realismo capitalista
Riprendo un
passaggio dal documento CRUI CAF
Università. Il modello europeo di autovalutazione delle performance per le
università (p. 61):
Così come lo studente che si iscrive ad
un corso di studio universitario costituisce l’input al processo formativo universitario
(caratterizzato dal bagaglio di conoscenze e abilità acquisite nei processi
formativi precedenti, che in tal senso costituisce a tutti gli effetti quello
che potrebbe essere definito un “semilavorato pregiato in ingresso”), lo
studente che si laurea costituisce l’output (il prodotto/risultato complessivo)
del processo formativo universitario (caratterizzato dal bagaglio di conoscenze
e abilità acquisite nel processo formativo universitario).
La fredda logica
cadaverica di questo testo, nel quale la prassi educativa è neutralizzata e
spogliata di ogni passione, emozione, connotazione etica, sociale e
risignificata in "erogazione di servizi e prodotti orientati al
cittadino/cliente" procede come un manuale tecnico: il presupposto è che,
seguendo la sequenza di procedure, eventualmente esemplificate in un diagramma
di flusso, si ottiene il prodotto/risultato complessivo. Successo o insuccesso
formativo saranno da addebitarsi alla corretta esecuzione della sequenza; in
definitiva, alla individuale capacità del docente e del discente, ovvero alla
loro incapacità: la struttura in sé, in quanto efficiente, è
deresponsabilizzata.
È la logica di
quello che Mark Fisher ha denominato "Realismo capitalista", fondato
su tre enunciati fondamentali:
1. Non c’è altro
modello di gestione della società possibile al di là di quello basato sulle
regole del mercato: There Is No Anternative;
2. Le regole del
mercato vanno estese anche a quegli ambiti della società dal quale il mercato
era escluso: istruzione, sanità, pubblica amministrazione;
3. Il mercato non
contempla un’entità come la società, ma singoli individui concepiti come
consumatori-utenti, imprenditori di sé stessi, individualmente responsabili del
proprio successo o insuccesso.
Questa logica,
applicata alla sanità pubblica con esiti che hanno reso tragicamente nota la
Lombardia nel mondo, è all'opera da tempo anche nel sistema-istruzione, e fonda
la retorica dell'innovazione digitale.
Il primo enunciato
legittima i sostenitori del digital disruption dall'esaminare
le evidenze contrarie, i limiti cognitivi e sociali dell'interconnessione e
dell'implementazione della tecnologia nell'educazione: se non c'è alternativa,
perché occuparsene?
Il secondo
enunciato, con un perverso feedback, fa retroagire l'autovalutazione positiva
dell'innovazione Ed-Tech sui criteri di valutazione dell'innovazione stessa:
che l'innovazione digitale sia in grado di migliorare i livelli di
apprendimento in alcune materie (che per questo sono definite fondamentali, con
buona pace delle intelligenze multiple e della natura poliedrica della mente
umana), di sviluppare competenze digitali e di aumentare l'inclusività sociale
della scuola, è una sorta di tormentone che, un po' come il "se l'amore è
amore" in Notte prima degli esami, si reitera da sé
indipendentemente dall'assenza di evidenze che supportino queste aspettative.
Il terzo enunciato
individualizza la didattica e la responsabilità del suo successo/insuccesso:
ignorando che il carattere classista della scuola e della società italiana
incollano al pavimento sociale gli studenti, o bloccano con soffitti di
plexiglass l'ascensore sociale. L'Italia è, nel cosiddetto mondo occidentale,
seconda solo alla Gran Bretagna per rigidità sociale, con professioni che
arrivano ad avere un traino familiare del 65%; dagli studi OCSE a quelli di De
Mauro sulle competenze linguistiche, alle analisi della composizione sociale
delle scuole italiane, possiamo definire un fatto acclarato che il destino, se
non come professione quantomeno come collocazione sociale e livello di
istruzione, sia in misura predominante determinato dalla famiglia d'origine.
L’Italia resta un paese classista, dove il figlio del notaio studia legge come
il padre, poi va a fare praticantato dai compagni di carte del sabato sera del
padre, e una volta acquisita la professione aggiunge un “& figli” alla
targa dell’ufficio del padre; mentre il figlio del proletario resta proletario,
come il bambino povero della celebre gag di Giorgio Gaber al quale il padre,
davanti a un paesaggio, diceva non: «guarda, un giorno tutto questo sarà tuo»,
ma soltanto: «guarda…». E mentre guarda si sente dire che se non ha saputo
cogliere le opportunità che il libero mercato offre, la colpa è sua, così come
se ti ammali la colpa è della tua costituzione fisica e del tuo stile di vita e
non di un sistema sanitario carente e inadeguato: è il Realismo capitalista
– There Is No Alternative.
Ma se la
digitalizzazione dell'educazione non aggredisce la contraddizione sociale
fondamentale, e men che meno la mette in discussione, non solo è impotente a
modificare quegli esiti della contraddizione sociale, ma ne è di fatto
complice, se non parte integrante.
The bullshit should stop here!, ovvero: cosa fare con
l'Ed-Tech Speak?
I due studiosi cui
ho fatto prevalentemente riferimento, Gui e Selwyn, sono più o meno concordi
sul fatto che il digitale a scuola, il suo ordine del discorso e i suoi storytelling debbano
essere rimessi in discussione. Selwyn propone due strategie: la più moderata
consiste nel ricominciare a chiamare le cose col loro nome, al di là
dell'enfasi tecno-modernista: tornare a dire "studenti" invece che
"utenti" o "clienti", "lavori di gruppo" invece
che "comunità di apprendimento", "problemi" piuttosto che
"criticità". La seconda, «A more radical alternative», è una
strategia di verità, o forse di parrhesia: «to broker deliberately ‘honest’
declarations of the likely consequences of digital technology use. Perhaps, we
need a language of education and technology that unpacks more aptly the underlying
functions of these technologies and exposes their political intent». In
definiva, bisogna farla finire con le stronzate (The bullshit should stop
here!).
Gui usa in modo
consapevole la terminologia foucaultiana nel definire "discorso" un
insieme di enunciati che veicola una certa idea di realtà: e il discorso sul
digitale non fa certo eccezione. Ma gli enunciati, a loro volta, vanno a
costituire un ordine discorsivo a partire da certe pratiche che ne
costituiscono lo sfondo: e questo mette in questione l'insufficienza della pur
necessaria strategia di chiarificazione delle opacità retoriche dell'Ed-Tech.
Non c'è reale possibilità di mettere in discussione l'ordine del discorso
digitale, senza mettere in discussione il Realismo capitalista col quale è intrecciato.
Conviene allora ricordare che proprio Michel Foucault, nella sua ultima
settimana di lezione tre mesi prima di morire, indicava nella filosofia cinica
il modello di una militanza filosofica che ha intende la cura di sé come cura
dell'altro, «la vita come una vita altra, una vita di lotta, per un mondo
cambiato»; e concludeva: «non vi è instaurazione della verità senza una
posizione essenziale dell'alterità; la verità non è mai il medesimo; non può
esserci verità che nella forma dell'altro mondo e della vita altra».
[Nota: raccolgo in
questo testo quanto ho esposto in tre appuntamenti pubblici: il workshop Diritto
alla salute, vaccino del comune, riconversione ecologica, all’interno
della seconda assemblea #ilmondocheverrà, 30 aprile 2020; il workshop Riapertura
della scuola e scenari di innovazione: tempi, spazi e relazioni, 8 luglio
2020, Fondazione Feltrinelli Milano; la tavola rotonda Sapere per il
futuro, organizzata dal Laboratorio di filosofia della tecnica
"Mechane" dell'Università Federico II di Napoli, 9 luglio 2020]
Campagna: Scuole Smilitarizzate (anticipazione del lancio
ufficiale) - Sonia Zuccolotto
“Una società più
giusta e solidale passa necessariamente attraverso una scuola in grado di
educare le nuove generazioni a ideali, valori e modelli di comportamento
ispirati alla Pace, ai Diritti, al dialogo e al rifiuto di ogni forma di di
violenza e quindi della guerra”
Così potrete
leggere nella presentazione del documento che accompagnerà il lancio della
campagna SCUOLE SMILITARIZZATE. La scuola, che in questi giorni è
“sorvegliata speciale”, si sta organizzando minuziosamente per accogliere tanti
bambini e ragazzi che dalla fine di febbraio non frequentano a causa del covid.
Progettare gli spazi, i materiali, le mense in sicurezza… ma l’obiettivo
primario è quello di recuperare la relazione con bambini e ragazzi.
Fondamentale, in un rapporto educativo, rientrare in contatto, ripristinare
relazioni fatte di scambio, apertura, accoglienza reciproca, superando la
diffidenza e la paura dell’altro che abbiamo rinforzato in questo tempo così
impegnativo. Questo è un periodo fertile per costruire ponti, per guardare il
Creato con rispetto, per abbattere muri, per imparare a vivere con più
semplicità e rispetto per la difesa della vita. La crisi del covid può
diventare opportunità per orientare la scuola a costruire
progetti di educazione alla pace e alla nonviolenza.
Il cuore del
documento che avvierà la nuova campagna di SCUOLE SMILITARIZZATE, elenca
nove punti a cui i singoli insegnanti ma soprattutto i collegi docenti
potranno aderire, impegnandosi in attività, progetti di educazione alla pace,
pratiche di difesa civile nonviolenta, realizzarli, divulgarli, come, tra
l’altro, indicato nelle “Linee guida per l’educazione alla Pace e alla
cittadinanza glocale”.
Diventa importante
mettersi in gioco, come Punti Pace, per collaborare, portare le esperienze e la
testimonianza di operatori di pace.
La campagna SCUOLE
SMILITARIZZATE è promossa da Pax Christi, MIR con la collaborazione di Sos
diritti, ma stanno aderendo molte associazioni, perché siamo certi che lavorare
insieme, per dare voce alla Pace, ci aiuti a rendere migliore la nostra
casa comune, ferita da tante guerre e tanta violenza.
Tornare a scuola non basta
#Finalmentescuola
è un
invito rivolto all’universo della scuola, a genitori, studenti
e studentesse, ma anche ad associazioni, movimenti e singoli cittadini, “due proposte affinché
questo primo giorno di scuola sia più che un inizio”. La prima:
celebrare e raccontare quella giornata dedicandola non solo alla spiegazione
delle nuove regole ma all’ascolto coinvolgendo il territorio. La seconda:
documentare prima, durante, dopo il primo giorno di scuola le condizioni,
quantitative e qualitative, della riapertura.
L’idea
nasce da un gruppo di realtà tra cui Movimento “E tu da che parte stai?”,
Maestri di Strada, Casa-laboratorio di Cenci, Mce, Rete di Cooperazione
Educativa, Saltamuri, redazione di Comune-info. Nell’invito completo,
tra l’altro, si legge: “Abbiamo bisogno di incontrarci, di ritrovarci tutte e
tutti, di aiutare i bambini e le bambine a riprendersi i luoghi, nonostante le
legittime preoccupazioni… La riapertura della scuola non è solo un problema
tecnico, poiché non c’è questione tecnica che non abbia
risvolti pedagogici e non comporti ricadute sulle scelte didattiche… La Scuola
che vogliamo costruire ha orizzonti ampi e una visione lungimirante che ci
permette di affrontare il futuro e altre emergenze…”.
Scarica
e diffondi l’invito e le immagini della campagna:
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Tutelare
i diritti di chi non si avvale dell’Irc. L’Uaar scrive ai ministri Azzolina e
Speranza
In vista dell’apertura dell’anno
scolastico e in considerazione dell’emergenza sanitaria che stiamo vivendo,
l’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti (Uaar) ha scritto una lettera ai
ministri di Salute e Istruzione per verificare come
intendono tutelare i diritti degli studenti che, dalla scuola dell’infanzia
alla secondaria di secondo grado, in misura sempre maggiore non intendono subire
l’Insegnamento della religione cattolica (Irc).
L’emergenza sanitaria rende infatti
non percorribile la già inaccettabile pratica dello “smistamento” in altre
classi degli studenti non avvalentisi, spesso posta in essere per ovviare alla
mancata attivazione delle attività didattiche alternative all’Irc.
«La normativa è chiara», si legge
nella lettera, a firma del segretario, Roberto Grendene: «Non deve essere messa in
atto alcuna forma di discriminazione tra chi sceglie
l’insegnamento non obbligatorio dell’Irc e chi sceglie di non avvalersene.
L’Uaar chiede che fin dal primo giorno di lezione a tutti gli studenti che
hanno detto no all’Irc optando per la permanenza nella scuola sia garantito un
insegnante, un’attività didattica alternativa e uno spazio sicuro dal punto di
vista sanitario. L’anno scolastico 2020/21 non può registrare nessun caso di
“smistamento” in altre classi, né tantomeno imporre in alcun modo un
insegnamento dottrinale a chi lo rifiuta».
L’auspicio è che vengano presi
tutti i provvedimenti necessari, «ricordando che l’Irc è una attività didattica
non obbligatoria e che gli insegnanti di religione cattolica frequentano fino a
18 classi diverse: ciò in caso di positività ai test per il coronavirus
comporterebbe il blocco di intere scuole per una attività didattica
opzionale. Attivare la didattica a distanza e collocare l’Irc in orario
extrascolastico sarebbe un provvedimento responsabile».
L’Uaar – che, in attesa che l’Irc
sia finalmente abolito, difende i diritti delle famiglie e degli studenti che
optano per non avvalervisi e da sempre si batte affinché siano ad essi
garantiti i diritti all’istruzione e alla libertà di coscienza, combattendo le
discriminazioni infantili che ancora interessano la scuola pubblica – sollecita
quindi «un impegno concreto da parte dei Ministeri dell’Istruzione e della
Salute per garantire il pieno diritto all’istruzione e
la salvaguardia della salute di studenti, docenti e genitori, nel rispetto
della laicità delle istituzioni e della libertà di coscienza di coloro che non
si avvalgono dell’Irc».
Nominativi fritti e mappamondi:
didattica della ‘ripartenza’ e dichiarazioni d’agosto tra dire e fare - Orsetta
Innocenti
La cosiddetta ‘ripartenza’ della scuola ha scandito i mesi estivi, tra una serie infinita di comunicati, note, smentite, da parte del Ministero dell’Istruzione, mentre, pedalando la loro autonomia, i presidi cercavano di far quadrare i metri, chiedendo più o meno disperatamente ai loro interlocutori provinciali, regionali e nazionali spazi, aule a norma, insegnanti in più (e dunque classi più piccole), che non sono arrivati.
Invece, molto si è parlato di banchi (più o meno rotelle)
e di «rime buccali», di «didattica digitale integrata» (il nuovo nome della
didattica a distanza) e di test sierologici; di capienza a scadenza (entro i 15
minuti non c’è assembramento) sui mezzi di trasporto. Molto ci sarebbe da
eccepire, per ciascuno di questi punti, ognuno dei quali conferma l’impressione
di provvisorietà con la quale si è guardato alla scuola nel suo complesso (e
non è solo questione di emergenza sanitaria). Perché, è ovvio, gli spazi sono
importanti, così come lo dovrebbe essere l’adozione di misure di prevenzione
reali, conformi alla presente situazione epidemiologica e coerenti con quelle
prese per ogni altro comparto: ma la verità è che, da giugno a fine agosto, per
parlare di scuola, si è parlato di tutto, tranne che di scuola reale.
Abbiamo passato quasi quattro mesi in emergenza, facendo
didattica di prossimità in una situazione inaudita prima ancora che anomala.
Tutto questo ha lasciato – oltre che segni tangibili in ogni membro della
comunità scolastica – tantissimi buchi neri, ha acuito distanze sociali e
culturali, sottolineato differenze, per una serie di ragioni che iniziano a
essere indagate in molti interventi da parte della comunità sociale e culturale[1].
Eppure, ancora il 27 giugno 2020, la ministra Azzolina ha
mandato ai docenti una «Lettera alla comunità scolastica per la riapertura
delle scuole a settembre»[2].
La lettera contiene slogan motivazionali, dichiarazioni di successo e buoni
sentimenti; curiosamente, non contiene, per esempio, un
Google Moduli con qualche domanda per i docenti: come ti sei trovato, quanti
alunni ti hanno seguito bene, male o così così, che cosa salveresti, che cosa
manderesti al macero: insomma, un banalissimo questionario di valutazione
dell’esperienza.
Forse, Azzolina e il suo staff ritengono di non averne
bisogno, dal momento che nella lettera la didattica a distanza viene definita:
«Un patrimonio di esperienze e competenze di cui andare fieri e da non
disperdere assolutamente: rappresenta un’eredità importante per il futuro».
Eppure, qualche settimana prima non ne dovevano essere così certi, visto che
l’OM 11/2020, «Ordinanza concernente la valutazione finale degli alunni per
l’anno scolastico 2019/2020 e prime disposizioni per il recupero degli
apprendimenti»[3],
conteneva indicazioni riguardanti il recupero di quanto non appreso (dai
singoli alunni) e di quanto non spiegato (dai docenti) in questo periodo di
distanza: il “Piano di apprendimento individualizzato” e il “Piano di
integrazione degli apprendimenti”, PAI e PIA, rispettivamente (al MI gli
acronimi piacciono moltissimo). In quel documento il MI mette nero su bianco
che, nonostante tutte le magnifiche e progressive sorti celebrate nella
distanza, i docenti non sono riusciti a svolgere quello che avevano in mente
come lo avevano in mente, e lo hanno svolto forzatamente ‘meno
bene’ (se no non dovrebbero recuperarlo e integrarlo, art. 2, comma 1) e gli
alunni non hanno avuto la possibilità e le condizioni di apprendere come
avrebbero potuto e dovuto per diritto (altrimenti non sarebbero ammessi alla
classe successiva in presenza di un numero a piacere di insufficienze, e non
dovrebbero a loro volta avere un piano degli apprendimenti da recuperare
nell’anno successivo, art. 3 e art. 4).
L’OM 11/2020, se sugli acronimi va fortissimo, è
viceversa molto fumosa per quanto riguarda il “dove” e il “quando”. Logica
vorrebbe che, per sanare le lacune create dalla didattica a distanza, questo
recupero debba essere fatto con agio e in presenza. Così, nel DL 22 08/04/2020
(legge di conversione 41 06/06/2020[4]), all’art. 1
comma 2, il MI stabilisce «l’eventuale integrazione e recupero degli
apprendimenti relativi all’anno scolastico 2019/2020 nel corso dell’anno
scolastico successivo, a decorrere dal 1° settembre 2020, quale attività
didattica ordinaria» le cui strategie e modalità di attuazione saranno
«definite, programmate e organizzate dagli organi collegiali delle istituzioni
scolastiche». Così, senza ulteriori parole, se non una generica (e scivolosa)
indicazione di «didattica ordinaria» (che, in quanto tale, è soggetta a
disciplina contrattuale, ogni tanto tocca ricordarlo). A questo si aggiunge la
ferma intenzione di far partire l’inizio delle lezioni in anticipo e la data
prescelta è quella del 14 settembre 2020. Nella mia regione, la Toscana, è ben
1 giorno prima del calendario regionale ufficiale, che prevedeva il 15/09,
tutti gli anni; per molte regioni del nord e qualcuna del sud si tratta di
qualche giorno dopo l’inizio usuale. Tutto questo, in mezzo al turno elettorale,
e alla sessione straordinaria degli esami di Stato.
Ancora una volta, dunque, l’assenza di indicazioni chiare
rovescia in modo ambiguo sull’autonomia delle singole istituzioni scolastiche
(già impegnate a: raddoppiare aule, clonare insegnanti, abbattere alunni e
inventare il teletrasporto) tutta l’organizzazione, creando l’ennesimo quadro
progettuale e normativo assai opaco e – ciò che è più grave – bordeggiando
pericolosamente coi diritti dei lavoratori della scuola. Infatti, la natura non
occasionale delle azioni di recupero (che sono previste anche per l’intero anno
scolastico) esige, se considerata “attività ordinaria” (cioè ricompresa nelle
ore ‘normali’) di insegnamento anche per i docenti, una ricontrattazione del
CCNL. Altrimenti, come per ogni altro corso di recupero extracurricolare, le
ore di insegnamento devono essere considerate in più, dunque di lavoro
straordinario, e come tali pagate e conteggiate.
Perché è chiaro che alla fine gli aspetti si legano, e i
nodi vengono tutti al pettine: se la didattica a distanza ha avuto (come ha
avuto) una natura esclusivamente suppletiva ed emergenziale, con una funzione
di mantenimento di una relazione minima, non può sopperire alla dinamica
pedagogica sottesa alla didattica in presenza. In altre parole, un recupero
serio, progettato, cadenzato e personalizzato (sul gruppo classe e sugli
studenti e sulle studentesse) può avvenire solo alla ripresa di una relazione
didattica, comune e continuativa, in presenza, poiché progettare un recupero di
obiettivi il cui mancato raggiungimento è stato determinato dalla forzata
condizione di distanza con una ripetizione della stessa distanza si
configurerebbe come una tautologia.
Allo stesso modo, un piano di recuperi che esuli dalla
didattica ordinamentale (cioè quella che va, per gli alunni, dal primo giorno
di scuola all’ultimo) prevista dal CCNL si può considerare, se ritenuto
didatticamente valido, attività “ordinaria” per gli studenti, ma non certo per
i docenti, che dal 1 al 14 settembre sono impegnati nelle attività funzionali
propedeutiche all’avviamento dell’anno scolastico, che sono sempre molte, e
quest’anno ancora di più, come è ovvio. La proposta di concentrare il buco nero
di tre mesi e rotti a distanza in due settimane di corsi alla spicciolata,
gratuiti e senza ricontrattazione, magari anche a online («in alcuni casi in
presenza, in altri, per il secondo grado, a distanza» – è scritto nero su
bianco nel comunicato del MI del 29/08/2020[5]), per i soli
alunni ‘rimandati’ dovrebbe dunque suonare solo ridicola. Eppure è esattamente
quello che è successo.
“Ma intanto si comincia, meglio che niente; la legge dice
che poi là dove c’è bisogno si prosegue” – potrebbe essere una sensata
obiezione da parte di chi a scuola non ci abita. Ed è importante cercare di
spiegare perché questa soluzione è mera pubblicità per solide ragioni
didattiche.
La prima argomentazione riguarda la assoluta assurdità di
permettere il recupero a distanza delle lacune determinate dai limiti della
didattica a distanza, che sono ancora gli stessi di metà giugno. In secondo
luogo, ricordiamo che gli insegnanti e i loro alunni non si sono rivisti in
presenza, in classe, dal 4 marzo (in alcune regioni da prima). La distanza ha messo
in evidenza le difficoltà di sguardo connesse con il mezzo, di cui hanno fatto
esperienza, e abbondantemente (stra)parlato, tutti. Per mettere in atto, per
davvero, un piano di recupero che non sia «“un mero adempimento formale”, ma
nasca dalla “necessità di garantire l’eventuale riallineamento
degli apprendimenti” dato il particolare anno scolastico vissuto da marzo a
giugno dai nostri ragazzi» (sempre comunicato MI del 29/08/2020) è
necessario, prima, in classe, tornarci tutti e ripristinare la
relazione didattica: incontrare i ragazzi, misurare lo spazio virtuale che ci
ha separato nei mesi di scuola a distanza e quello reale dei mesi estivi,
ascoltare, dialogare e provare a comprendere. Solo dopo questo primo e
necessario atto, sarà possibile elaborare un piano serio che (lo dice l’OM 11,
quando parla non solo di PAI, ma anche di PIA) non riguarda soltanto gli alunni
insufficienti, ma, ancora prima, l’intera classe. Dal punto di vista didattico,
è perfettamente ovvio che prima di procedere a corsi di recupero mirati per
quegli alunni che abbiano lacune consistenti, io debba progettare un recupero
complessivo per tutti gli alunni, il quale recupero dovrebbe, idealmente, già
servire a colmare parte di quei disallineamenti presenti negli alunni più fragili.
Invece, il 26 agosto 2020 è stata diffusa la Nota MI 1494
“Piano di integrazione degli apprendimenti e Piano di apprendimento
individualizzato. Indicazioni tecnico operative”, a firma del Capo Dipartimento
per il sistema educativo di istruzione e formazione Marco ‘Max’ Bruschi. La
Nota, giocando sul significato delle parole «attività ordinarie», andando
contro a quanto previsto dal CCNL, non esita a dichiarare che i corsi di
recupero compresi tra il 1 e il 14 settembre 2020 vanno intesi «nell’alveo degli
adempimenti contrattuali ordinari correlati alla professione docente e non
automaticamente assimilabili ad attività professionali aggiuntive da retribuire
con emolumenti di carattere accessorio». Inoltre, sarebbero da pianificare non
dagli organi collegiali (che si riunisce non prima del 1 settembre), come
previsto dal CCNL e dallo stesso art. 1 comma 2 della L. 41/2020, ma dai
dirigenti scolastici, «nell’esercizio del potere organizzativo loro
riconosciuto dalle vigenti norme» e «con propri atti».
Solo in subordine, qualora (ma dai?!) 12 giorni non
fossero sufficienti a recuperare tutti gli apprendimenti
lasciati indietro nelle classi e per gli alunni più fragili, «per le attività
che invece debbano svolgersi nel prosieguo dell’anno scolastico 2020/2021» è previsto
di destinare a questa attività che a parole si dice prioritaria «i risparmi,
dovuti alla diversa configurazione delle Commissioni degli esami di Stato, per
metà all’incremento del Fondo per il funzionamento delle istituzioni
scolastiche e “per la restante metà al recupero degli apprendimenti relativi
all’anno scolastico 2019/2020 nel corso dell’anno scolastico 2020/2021”. La
destinazione avverrà a seguito della ricognizione dei predetti risparmi, al
termine della sessione straordinaria degli esami di Stato». In altre
parole, nessun investimento ulteriore per sanare le lacune,
culturali, relazionali e pedagogiche, intercorse nel periodo di distanza, ma
solo i risparmi dovuti al fatto che all’esame di Stato (esame, e costi
relativi, che poteva essere evitato tout court: mi concedo un “lo
avevo detto”[6]) c’erano più
commissari interni e l’invito ai presidi a violare il contratto collettivo
nazionale[7].
E così si torna all’inizio: parole parole parole vs investimenti.
Quelli che mancano, per ripartire. E quelli che sono mancati, sempre.
L’esperienza è generalizzata e comune: nelle scuole italiane mancano le
necessità di base: sapone, asciugatutto, penne e pennarelli, carta e carta
igienica. Tutti materiali che sono stati pazientemente forniti, anno dopo anno,
dalle famiglie: dall’infanzia a tutta la primaria, attraverso donazioni dirette
che fanno parte delle richieste usuali delle scuole a inizio anno; alle medie e
alle superiori attraverso l’istituto del “contributo volontario”, che spesso
serve in questi casi a fornire alle scuole non più o non tanto carta, ma, per
esempio, forniture di base ai laboratori nei tecnici e nei professionali, o
altri materiali di prima necessità didattica. Lo spirito di sacrificio con il
quale la società civile ha supplito a queste carenze strutturali riguarda
tutti. Perché altrimenti la scuola dei nostri figli sarebbe stata priva di
mezzi, perché il contributo richiesto era, diviso per tutti, una cifra
relativamente piccola e affrontabile – e dunque pagarlo era il modo più veloce
per risolvere un problema immediato e contingente, la cui mancata soluzione ne
avrebbe causati altri, assai più gravi e pressanti: un’impossibilità
sostanziale di garantire condizioni minime di praticabilità didattica. Ma
bisognerebbe ricordare che la scuola noi cittadini la finanziamo già, in forma
indiretta, con quel nobile istituto che prende il nome di fiscalità pubblica. E
sarebbe dunque anche ora di fare, tutti, una enorme ammenda collettiva – magari
per progettare una bella inversione di tendenza – e pensare che, sostituendoci
a chi quei materiali doveva fornirli, non abbiamo fatto un atto di supplenza
civica, ma abbiamo avallato la sostituzione individuale per beneficenza di un
diritto sociale.
Note
[1] Segnalo,
nel mucchio, il sintetico e acuto intervento di C. Foà – M. Saudino, La
scuola è finita. E ora? Riflessioni sulla didattica a distanza, «Volere la
luna», 19 aprile 2020: https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2020/04/19/la-scuola-e-finita-e-ora-riflessioni-sulla-didattica-a-distanza/ (u.c.
13 luglio 2020).
[2] Cfr. https://www.miur.gov.it/documents/20182/0/Lettera+alla+comunit%C3%A0+scolastica.pdf/5794498d-4612-9e65-74f8-8a788fa2bfdf?version=1.0&t=1593257124535 (u.c.
13 luglio 2020).
[3] Cfr. https://www.miur.gov.it/documents/20182/2432359/OM+VALUTAZIONE+FINALE+ALUNNI+A.S.+19-20+RECUPERO+APPRENDIMENTI+.0000011.16-05-2020.pdf/c665ee9e-1752-c808-ce67-9f3e3c02ef7e?version=1.0&t=1589784478152 (u.c.
13 luglio 2020).
[4] Cfr. https://www.edscuola.eu/wordpress/wp-content/uploads/2020/06/Legge-6-giugno-2020-n.-41.pdf (u.c.
29/08/2020).
[5] Cfr. https://www.miur.gov.it/web/guest/-/scuola-recupero-apprendimenti-ci-sara?fbclid=IwAR0IKD-_HMk-fuQeS4ykjTYrIRcFQPuF-YDT_W-5ogSwUuLVRqMCmLINdDY (u.c.
29/08/2020).
[6] Cfr.
O. Innocenti, Dov’era Gondor quando cadeva l’Ovestfalda, «La
letteratura e noi», 9 giugno 2020: https://www.laletteraturaenoi.it/index.php/scuola_e_noi/1202-%E2%80%9Cdov%E2%80%99era-gondor,-quando-cadeva-l%E2%80%99ovestfalda%E2%80%9D-l%E2%80%99esame-di-stato-2020-tra-retorica,-simboli-ed-errori-di-calcolo.html
(u.c. 29/08/2020).
[7] Sulla
illegittimità della Nota Bruschi rimando al comunicato congiunto emanato dalle
organizzazioni sindacali: http://www.gildains.it/public/documenti/10492DOC-207.pdf (u.c.
29/08/2020).
Car*
Prof, disobbediamo - Coord. Collettivi studenteschi Mi
Car* Prof, sono ormai passati sette mesi dalla chiusura
delle scuole a causa della pandemia da Covid-19. La Fase 1 l’abbiamo passata
tutt* chius* in casa e per noi “mondo della scuola” ha significato didattica a
distanza. Durante la Fase 2 ci era concesso andare a correre, fare qualche giro
in bicicletta e poco altro. Nella Fase 3 ha riaperto tutto. Tutto, tranne le
scuole. Perché noi “mondo della scuola” siamo l’ultima ruota del carro, oramai da troppi
anni. Ripartenza sì, ma per chi? Riparte il profitto dei soliti pochi,
in barba a tutto il resto della popolazione, senza pensare alla formazione di
quelli che saranno i futuri cittadini di questo paese.
Sulla
riapertura, tutti hanno detto molte cose, ma nella migliore delle ipotesi tutte
tese a salvaguardare le briciole che concedevano prima, un’ottica miope per un
Paese che conta uno dei più alti tassi di dispersione scolastica, chi ridarà i
suoi quindici anni o i suoi otto anni a Mohamed, Marco, Sofia o Jasmine? Qualcuno ci ridarà questi
mesi o forse qualcuno pagherà per aver ritenuto più importante la produzione di
F35 che la nostra formazione?
Non vogliamo difendere lo status
quo, almeno la capacità di sognare e di immaginare altre scuole possibili
vogliamo tenercela stretta. Non possiamo accettare che le scuole siano state
chiuse ma non possiamo accettare neanche che nulla sia stato detto né tanto
meno fatto su come cambiare una scuola che, da molto prima del Covid, fa acqua
da tutte le parti a causa dei
governi che, uno dopo l’altro, hanno tagliato miliardo dopo miliardo i fondi
all’istruzione pubblica, preferendo il finanziamento del privato.
Un
banco qua, una mascherina là, come se questo bastasse a eliminare i
numerosissimi problemi che da anni denunciamo. Classi pollaio,
precarietà, scuole che ci cadono in testa, insegnanti che mancano e, quando ci
sono, con gli stipendi più bassi d’Europa, la percentuale di dispersione più
alta d’Europa, la scuola-impresa, i presidi-manager, la retorica di studentesse
e studenti “preparat*” al mondo del lavoro e la concretezza di non essere
preparat* a essere cittadin* attiv*, la didattica frontale tale e quale a
settanta anni fa, le pochissime gite. E ancora la valutazione quantitativa, i
test invalsi, scuole di serie A e di serie B, le ripetizioni private, i soldi
pubblici alle scuole private, la dote scuola alle scuole private, le scuole
private, le scuole cattoliche, l’educazione sessuale mancante, la completa
mancanza di educazione ecologica nonostante l’emergenza climatica.
Non una proposta su come cambiare
la scuola, su come reinventarla per costruire una scuola equa, solidale,
cosmopolita, su come costruire la
scuola nell’era della pandemia globale e del mondo globalizzato, su come uscire
insieme da questa situazione dove il profitto conta sempre più delle vite
umane. Le
possibilità sono tante, l’educazione all’aperto, nei parchi, nei luoghi
pubblici, negli spazi dismessi delle caserme, difesi e tenuti inutilizzati in
attesa della prossime speculazioni e mai considerati come spazi da restituire
alla collettività.
Vogliamo tornare a scuola ma
vogliamo anche tutta un’altra scuola con edifici adeguati, programmi rivisti e
metodi di insegnamento diversi, una scuola che non lasci indietro nessuno, se no non è scuola. Abbiamo alcune domande che non
possono più aspettare, questa scuola tutta tesa a una valutazione anacronistica
e non alla comprensione della realtà, va cambiata.
Come studieremo l’ambiente e le
scienze? L’economia? Qualcuno ci spiegherà mai il concetto di Spillover, il
legame tra la crisi climatica e il virus che ci ha intrappolati e ci
intrappolerà nelle nostre stanze? Chi
ci spiegherà come funziona il mondo, a partire dai libri di storia? Chi ci
racconterà che la rivoluzione è già stata fatta nel 1789 e
che si può rifare? Chiusi, isolati per mesi o anni davanti a uno schermo come
faremo a diventare le donne e gli uomini del futuro? Come faremo a imparare
come va il mondo? Come faremo a imparare a rispettare tutte le persone, senza
differenziazione data dal colore della pelle, rispettosi dell’orientamento
sessuale di chiunque? Come impareremo a essere solidali con qualunque essere umano, non facendo
morire delle persone nel Mediterraneo in nome di un nazionalismo inutile e
ottuso, che ha il solo obiettivo di alimentare la guerra tra i poveri?
La nostra
socialità, inter-azione, la nostra cospirazione di cervelli è necessaria. Siamo
il mondo che verrà, se non volete un mondo di sociopatici, ignoranti, di
persone sole e centrate solo su se stesse bisogna essere tutt* partigiane e
partigiani, prendere parte, non stare a guardare, non pensare
che oramai i giochi sono fatti e niente va più, tutto può ancora andare e
cambiare, dipende da noi.
È
necessario per noi studentesse e studenti, giovani e, senza retorica, futuro di
questa italietta dei malati di Covid nella rsa e dei tamponi mancati, ma è
necessario anche per tutti le e gli insegnanti, docenti, educatrici e
educatori, ora più che mai, non dobbiamo lasciare indietro nessuno, a partire
da una scuola che va re-immaginata come reale possibilità per tutti di vivere
meglio, a partire dalle diverse capacità e possibilità.
Vi scriviamo per invitarvi a
essere con noi, a immaginare insieme strade percorribili, per prendere parte,
per continuare a fare a scuola e a farla meglio. Occupate con noi i parchi, le
scuole, le strade! Apriamo le scuole alla città e la città alle scuole, stiamo
in classe il pomeriggio e la sera, scioperate con noi facendo lezione in
piazza, ribellatevi alla DAD, siate partigian*!
Non
chiediamo di lavorare gratis, ma chiediamo di lottare assieme perché voi
possiate avere un contratto dignitoso, ma allo stesso tempo riappropriamoci del
tempo e degli spazi e dei contenuti scolastici!
Non
sedetevi, non arrendetevi, non siate indifferenti! Disobbedite!
Abbiamo
perso un sacco di tempo, nessuno ce lo ridarà. Voi non fermatevi ai vostri
diritti di lavoratrici e lavoratori, siate insegnanti di vita: non diventate una
corporazione chiusa, che difende le briciole, come nella
peggiore guerra tra poveri. Non conquistate le briciole sulla nostra pelle,
sacrificando sull’altare della DAD la nostra istruzione, il nostro futuro, il
nostro diritto, la nostra scuola.
Lottiamo
insieme per una scuola più giusta per tutt*!
[Coordinamento dei Collettivi
Studenteschi di Milano e provincia]
La scuola e la pandemia secondo la Fondazione
Agnelli: test INVALSI, capitale umano e PIL - Redazione ROARS
“Nessuno sembra prestare attenzione alla
perdita potenzialmente più grande di tutte: quella del capitale umano”, che al
momento non è quantificabile, perché “quest’anno le prove standardizzate
Invalsi sono state cancellate [..e ..] la pandemia è stata una scusa per
eliminare un passaggio scolastico particolarmente inviso a molti insegnanti e a
una parte della politica, anche nella maggioranza“. La
Fondazione Agnelli allude a vecchi retroscena contro i test
standardizzati, antipatici agli insegnanti e a parte della maggioranza di
governo. Eppure quei test sarebbero essenziali, ci spiega il direttore Gavosto.
Sono i soli a consentire la misura del capitale umano perduto a causa della chiusura
delle scuole. Non soffermiamoci, per adesso, sui calcoli effettuati dai
ricercatori della Fondazione: una perdita di reddito, distribuita su 40 anni,
complessivamente equivalente all’83% del reddito medio attuale. Di questi
parleremo più avanti. Osserviamo, piuttosto, quanto la chiarezza tipica degli
economisti dell’educazione, oggi onnipresenti nel dibattito pubblico e sulla
scena politica, ancora una volta sia capace di riportarci ai fondamentali.
Cancellati in un colpo solo i richiami e i discorsi su uguaglianza, equità e
cittadinanza con cui l’Istituto di Valutazione ha giustificato in questi anni
interventi sempre più invasivi nelle scuole, restano le misure di capitale
umano, degli incrementi di reddito, i test INVALSI e il PIL. La scuola, in fondo,
oggi, è tutta qui. Per fortuna, la Fondazione Agnelli ce lo ricorda sempre.
Questa è un’estate particolare per la scuola italiana.
Troppe le incertezze sulla ripresa di settembre, tra carenza di organici,
spazi, arredi scolastici, condizioni degli edifici e organizzazione didattica,
previsioni sull’evoluzione della situazione sanitaria.
Poche le certezze. Una di queste è che la Fondazione
Agnelli sta continuando alacremente a lavorare per noi. Interventi e
dichiarazioni con cadenza ormai più che settimanale sulle colonne dei maggiori
quotidiani nazionali, interviste radio o tv, incontri culturali tematici
[1], iniziative socio-pedagogiche o gestionali.
“L’estate offre opportunità che non vanno sprecate per
preparare il ritorno a scuola di tutti i ragazzi a settembre, cominciando a
recuperare quanto hanno perso durante la lunga sospensione delle attività
didattiche.”
ha affermato di recente il presidente della Fondazione,
John Elkann.
Ma quanto
hanno perso, e cosa, gli studenti durante la pandemia?...
Come si insegna il Covid a scuola? - Paolo Cacciari
Alla fine, speriamo, arriveranno i banchi, gli spazi
aggiuntivi, gli insegnati necessari e le scuole torneranno in qualche modo a
funzionare. Ma bisognerebbe preoccuparsi anche di come verrà “insegnato” il Covid19 (abbreviazione
per COronaVIrus Disease-2019). Verrà ripetuto anche in aula
quello che da mesi affermano, come un disco rotto, tv, giornaloni e giornalini
e cioè che siamo stati invasi da un “virus cattivo”, attaccati da un “nemico
imprevedibile e invisibile” e via inventando un racconto di comodo che ignora
le cause profonde, strutturali, scientifiche e sociali delle nuove pandemie
emergenti da zoonosi? La drammatica esperienza vissuta da milioni di giovani di
tutte le età andrebbe elaborata nelle scuole con amorevole cura e grandi
competenze. Sia per contrastare la “pandemia depressiva” causata dalla
desocializzazione da distanziamento fisico e da dipendenza da internet, sia per
evitare l’imbroglio di una “ripresa” che non cambia nulla, anzi.
L’accurata analisi dei motivi che
hanno scatenato l’epidemia sarebbe un formidabile banco di prova per ripensare
i modelli pedagogici e didattici in uso nelle nostre scuole. Proprio quest’anno in cui dovrebbe iniziare l’ora di
lezione di “educazione ambientale e alla sostenibilità” (voluta dall’ex
ministro alla pubblica istruzione Lorenzo Fioramonti). Poca cosa e confinata
nell’ambito della “educazione civica”, perciò stesso non idonea a “intrecciare saperi,
competenze e pratiche innovative” di insegnati ed educatori/trici. Prendiamo
per buoni, comunque, gli auspici del ministro all’ambiente Sergio Costa: “Con
l’inserimento dell’educazione ambientale vogliamo far sì che le generazioni
future abbiano una coscienza ambientale maggiore di quella che la mia
generazione ha dimostrato di avere”. Quest’anno è anche il centocinquantesimo
della nascita di Maria Montessori che diceva: “Il bambino è il maestro” (vedi
il volume omonimo di Cristina De Stefano, Rizzoli, 2020). Cominciamo quindi con la pratica
dell’ascolto e mettiamo in cattedra Greta Tumberg e le
altre del suo movimento, che di “coscienza ambientale” sembrano averne già
molta.
Per “spiegare” la diffusione
delle nuove patologie virali e batteriche non bastano i virologi. Serve staccare l’occhio dal microscopio e guardare come
funziona il mondo attorno a noi: naturale e culturale, biologico ed economico,
emozionale-spirituale e fisiologico-cognitivo. Rompere gli steccati degli
specialismi e acquisire una visione transdisciplinare. Se tutte le cose sono
interdipendenti nella grande rete dei sistemi viventi, allora abbiamo bisogno
di una “alfabetizzazione ecologica” (Fritjof Capra, Speaking Nature’s Language:
Principles for Sustainability, 2011), che può esplicitarsi
attraverso un progetto educativo unitario, un’opera ecopedagogica.
Le Linee guida e le indicazioni del Miur per l’ora di educazione ambientale
sono davvero poca e misera cosa. Per cominciare mi accontenterei di un corso
rapido ai docenti sul “salto interspecifico” (spillover) dovuto alla distruzione degli
ecosistemi e alla perdita di biodiversità, alla caccia e
al commercio degli animali selvatici, agli allevamenti intensivi e al consumo
di suolo, agli stili di vita e alla abitudini alimentari. Tutti effetti
collaterali di un sistema di sviluppo controproducente.
Nei prossimi giorni non
affideremo alla scuola solo l’igiene dei nostri figli, ma anche le loro
inquietudini, la loro capacità di comprensione, il loro desiderio di sapere
come agire per cambiare questo mondo malato.
Costi della chiusura delle scuole: è affidabile la
Fondazione Agnelli? - Redazione ROARS
In un precedente post abbiamo
raccontato come la Fondazione Agnelli (col supporto della pubblicistica
nazionale) si sia impegnata durante tutta l’estate a promuovere la necessità di
rimettere in piedi al più presto la valutazione standardizzata di tutti gli
studenti italiani. Servono i test INVALSI, subito! – ci viene detto –
indispensabili per misurare quanto capitale umano è “evaporato” a causa della
chiusura delle scuole. Si tratta di una perdita rilevante, sostiene la
Fondazione Agnelli: “78 miliardi di euro, ovvero circa il 10 per cento del Pil 2019″. Ma
come sono giunti a questo risultato gli economisti più esperti del paese in
tema di istruzione scolastica? Per i lettori che non abbiano familiarità con
simili calcoli, proviamo a ricostruirne i passaggi più rilevanti. Così,
ciascuno potrà giudicare se si tratti di stime attendibili e scientificamente
robuste o piuttosto di valutazioni approssimative – anche nel panorama
internazionale – che nel discorso pubblico italiano vengono spacciate per dati
tecnici con cui il decisore deve confrontarsi. È la solita logica degli strumenti di intimidazione
matematica, che servono a giustificare agende
politiche predefinite da ristretti gruppi di pressione. Come tutti i salmi
finiscono in gloria, altrettanto puntualmente i conti della Fondazione Agnelli
servono a glorificare le ricette di sempre: test INVALSI a settembre e un po’
di pedagogia compassionevole di second’ordine…
DIARIO DELLA PRIMA SETTIMANA DI SCUOLA - Massimo Gezzi
Lunedì 31 agosto, in Ticino, siamo tornati a scuola,
tutti regolarmente in classe (è il modello che le autorità politiche hanno
chiamato “scenario 1”) e senza aver fatto test sierologici o tamponi. Le
disposizioni sono piuttosto semplici: a meno di 1 metro e mezzo di distanza da
un’altra persona, è obbligatorio l’uso della mascherina. In classe, quindi, gli
studenti devono indossarla sempre (tranne quelli situati in un pugno di aule
molto ampie che assicurano un distanziamento tra i banchi singoli). Anche nei
corridoi e negli spazi comuni si porta la mascherina, e anche nel piazzale
antistante il liceo (a meno che ci si riesca a tenere a un metro e mezzo dagli
altri). I docenti, opportunamente distanziati, in classe possono non
indossarla. Nel caso in cui le cose peggiorassero, si passerebbe allo scenario
2: a turno, metà classe in presenza e metà a casa, a svolgere attività
programmate. In caso di un altro lockdown, si passerebbe allo
scenario 3: la didattica a distanza. Ho scritto di getto, giorno per giorno, un
diario di questa prima settimana di scuola.
Lunedì 31
agosto
La prima cosa della giornata è mia figlia che viene nel
letto, alle 7 in punto, e dice esattamente così: «Non vedo l’ora di tornare a
scuola!». Andrà in seconda elementare, i materiali sono tutti pronti, e quando
la accompagniamo facciamo appena in tempo a darle un bacio prima che lei si
lanci dietro ai suoi compagni, in fila, impaziente di entrare nella sua nuova
aula.
Chissà quanti dei nostri studenti avranno pensato o
pronunciato quella frase, nei giorni scorsi. Pochi, forse. Eppure quest’anno è
diverso, lo sappiamo tutti. Quest’anno non è solo tornare a scuola: è
riconquistare un diritto, riprendersi il proprio posto. La prima cosa che dirò,
quando oggi accoglierò le mie classi, sarà allora «Bentornati, bentornate», che
è la parola con cui Andrea Pomella chiude un bel libro che ho letto
quest’estate. Il libro si intitola I colpevoli, e quell’augurio
viene rivolto dal protagonista – che poi è anche l’autore del libro – al
padre con cui non ha relazioni da trentasette anni. Ci siamo visti in classe
l’ultima volta l’11 marzo, se ricordo bene, e mi sembrano trentasette anni che
non ci si vede. Sarà faticoso, certo. Dovremo indossare le mascherine e i
bronci, i sorrisi, le parole bisbigliate a bassa voce al compagno non si
vedranno. Però ci saremo, ci guarderemo negli occhi e ci ascolteremo.
Ristabiliremo la relazione didattica e umana senza la quale non esiste scuola.
Quando li rivedo, tutti diligentemente mascherati, è
molto strano. Uno non lo riconosco. Forse è uno studente nuovo, mi dico; glielo
chiedo anche, e lui sta al gioco: «Sì, sore [prof.], sono nuovo», risponde.
Invece è N., e io faccio la prima figuraccia dell’anno. Senza cappellino e con
la mascherina N. sembra un altro. Invece poi ride forte, per fortuna, e tutto
torna al suo posto: sono usciti dal nero infernale delle videocamere spente,
sono di nuovo vivi. Bentornato anche a te, N.
D. scuote la testa, quando elenco i punti del protocollo
anti-covid. Questo scetticismo non vuol dire che si opporranno alle regole:
sono certo che tutti indosseranno regolarmente la mascherina in aula e nei
corridoi, come prescrivono le direttive. Non riescono a capire, forse, perché
la scuola sia considerata quasi un mondo a parte: fuori pranzano insieme,
escono, possono andare in discoteca (per un totale di cento a sera in un
locale), nei negozi la mascherina non è obbligatoria e non la indossa quasi
nessuno, mentre a scuola sì. Io la tolgo, vicino alla lavagna, perché le
direttive me lo consentono: parlo con più agio, loro mi sentono meglio e
seguono con più attenzione. I ragazzi invece non possono toglierla, né dentro
né fuori. Ma quando li saluto e mi avvio, sul piazzale della scuola fioccano
già gli abbracci. Forse dovrei farlo ma oggi, e in questo momento, non riesco a
dissuaderli.
A domani, dunque. Sono curioso di vedere che succede in
classe, con le lezioni normali.
Martedì 1
settembre
Ho cinque ore di fila, la prima mattina. Due classi del
tutto nuove. Problema pratico: come farò a riconoscerli? Ho le foto che la
scuola ha scattato a tutti in prima, d’accordo, ma a questa età i ragazzi
cambiano rapidamente, e con la mascherina vedo occhi, occhiali, capelli, ma non
volti, espressioni, facce.
Mi presento, poi chiedo loro chi sono, quali sono i loro
interessi. Chiedo cos’hanno letto durante le vacanze. Nella prima classe quasi
nessuno ha letto un libro (tra le eccezioni A., che ha scelto Kundera, e pochi
altri). Nella seconda idem (a parte A., che ha letto Belli e dannati di
Fitzgerald). Nella terza va meglio: hanno letto Vonnegut, Orwell, persino La
vita oscena di Aldo Nove. Li chiamo tutti, li faccio parlare, li
invito a raccontare la loro estate (molti hanno guardato serie su Netflix anche
di giorno, purtroppo). Poi tocca a me, con il piccolo numero di prestigio che
di solito provoca borbottii e qualche scompiglio: rovescio il mio zaino e butto
sulla cattedra le mie letture estive. C’è il libro di Pomella; quelli di
Daniele Garbuglia (Fare fuoco), di Giovanni Montanaro (Tutti i
colori del mondo), di Fuani Marino (Svegliami a mezzanotte);
c’è L’educazione sentimentale di Flaubert nella traduzione
di Lalla Romano; ci sono i saggi di Mario Lavagetto (Oltre le usate leggi.
Una lettura del Decameron) e di Massimo Bucciantini (Addio Lugano
bella. Storia di ribelli, anarchici e lombrosiani); ci sono i libri di
poesia di Andrea Bajani (Dimora naturale), di Tommaso Di Dio (Verso
le stelle glaciali), di Marco Villa (Un paese di soli guardiani).
Qualche altra cosa. Comincio a raccontare Montanaro, Pomella, Garbuglia; con la
classe che conosco meglio – e con cui abbiamo già studiato Boccaccio – parlo
del libro di Lavagetto, leggo qualche poesia. Non so spiegare perché, ma sto
bene. Ho vissuto con angoscia e frustrazione i mesi che vanno da marzo a
giugno, la cosiddetta “scuola a distanza” (che scuola non potrà mai essere: al
massimo didattica). Sto bene perché ci guardiamo, perché vedo, percepisco
l’interesse o la noia (una già smanetta sotto il banco con il cellulare: faccio
finta di non vedere); perché sento di avere riconquistato anch’io il mio posto
e la mia funzione. Voglio ripartire da qui. Quest’anno voglio provare a
costruire, nel mio piccolo, una scuola meno basata sulla valutazione e più
sulla relazione, sulla mediazione culturale e anche umana. Vorrei che
l’esperienza dell’anno scorso avesse davvero lasciato qualcosa anche a noi che
insegniamo. Lo spero.
Mercoledì 2
Gli studenti che ho davanti oggi sono quelli dell’Opzione
complementare (OC) Storia della cultura: un percorso di letture attraverso la
grande letteratura europea dell’Otto e del Novecento che al liceo, purtroppo e
paradossalmente, rischia di rimanere fuori dai programmi. Durante il periodo di
scuola a distanza li ho lasciati molto liberi: potevano scegliere un libro,
leggerlo, e raccontarmi le loro impressioni di lettura in un diario elettronico
visibile solo a me, senza alcuna valutazione. In pochi l’hanno fatto. Eppure
dovrebbero aver scelto questa Opzione – ognuno sceglie liberamente la propria
OC – perché interessati alla lettura, alla letteratura. Chiedo loro come mai.
Cos’è successo. Mi rispondono quello che già temo: K. mi dice che le sembrava
di sottomettere la lettura, che deve rimanere un gesto libero, al vaglio di un
professore. Giusto, penso. Ma qui non c’era valutazione, ribatto: solo il
gusto, forse la necessità di condividere qualcosa tra di noi (noi chi?
L’illusione del “noi” a volte è più perniciosa di quella del “tu”, come sanno
bene i poeti). A. mi spiega che si sentiva prigioniera della sua testa, e che leggere
non le consentiva di evadere, di allentare le catene. Ma certo: è successo
anche a me, a molti. Durante il lockdown non si riusciva a
leggere. La realtà, composta da una faccia effettuale e da una fantasmatica
alimentata dai media, era più forte di qualsiasi libro. Era impossibile
distrarsi, staccare (o collegare) la spina. Allora l’estate sarà servita anche
per ricominciare a leggere, insinuo. E infatti sì, loro hanno letto molto. Chi
in tedesco, chi in inglese, chi in italiano. L., per esempio, ha letto
tutti I promessi sposi in tre giorni: senza il pungolo e
l’imposizione di un professore di italiano, mi dice, li ha letti con grande
piacere: è un libro bellissimo, conclude. Me ne rallegro, anche se mi convinco
sempre di più che il mestiere che faccio rischia di mettermi nelle condizioni
del borghese di Teorema di Pasolini (che «in qualsiasi modo
agisce, sbaglia»). E comunque, ricominciare a leggere dopo un periodo di
cecità: forse abbiamo fatto anche questo. La prossima settimana parliamo
di Madame Bovary, che faceva l’esatto contrario di quel che
abbiamo vissuto noi: costruiva la propria vita a partire dall’immaginazione,
dalle fantasticherie alimentate dai libri. Chissà cosa ne penseranno.
Giovedì 3
Questi sono gli allievi del Lavoro di maturità (LAM), una
tesina che gli studenti devono scrivere tra il secondo semestre della terza e
il primo della quarta, che in Svizzera (nella maggioranza dei cantoni) è
l’ultima classe di liceo. Ho ereditato questo LAM da Fabio Pusterla, che ha
insegnato per vent’anni nella mia scuola e l’anno scorso è andato in pensione
(anche se continua a insegnare all’università, per fortuna). Si intitola Le
storie di qualcuno ed è un lavoro di scrittura narrativa. A. mi
racconta che durante il lockdown non ce l’ha fatta: non
riusciva a scrivere, non le veniva proprio nulla. L’estate è andata meglio,
invece. Anch’io non ho scritto nulla, le dico, quando ero a casa. A volte
desideriamo l’isolamento, per scrivere meglio e di più, e invece il
confinamento ci ha prosciugato di tutte le parole, lette o scritte.
L’importante è essersi sbloccati, la incoraggio. Sì, sorride lei da dietro la
mascherina.
D. invece ha passato l’estate in giro per l’Europa. Ha
fatto un interrail, proprio quest’anno, evitando i Paesi più a rischio. Ma doveva
farlo, per molti motivi, ed è filato tutto liscio. È partito da solo. Ha letto
molto, sul treno. Gli è piaciuto in particolare Walden di
Thoreau. Ha più di 30.000 parole da farmi leggere: le leggerò tutte con grande
attenzione e trasporto, ne sono certo.
Rieccoci, insomma. Il giro delle classi è concluso. Il
primo contatto è stato positivo. Cerchiamo di prenderci cura di questo luogo e
di questo tempo, penso mentre chiudo la porta dell’aula e torno a casa.
Venerdì 4
Oggi succede quello che molti si aspettavano: a metà
mattina circola la notizia che due studenti di due scuole del settore
post-obbligatorio (non la nostra) sono positivi al coronavirus. L’hanno
contratto fuori dalla scuola, forse in una discoteca, ma poi sono stati in aula
con tutti gli altri. Vediamo che succede ora, penso. La reazione generale è
ragionevole e pacata: l’Ufficio del Medico Cantonale non ordina la quarantena
per tutta la classe (e per i relativi docenti), ma si limita a contattare
alcuni compagni con i quali i due hanno pranzato o passato del tempo senza
accorgimenti al di fuori della scuola. Le misure di protezione (obbligo di
mascherina o distanza di 1.5 metri) garantiscono una certa tranquillità per le
scuole. Per i prossimi dieci giorni (non quattordici, come in Italia) i ragazzi
che sono stati a stretto contatto con i due positivi dovranno rimanere a casa.
Succederà ancora, prevede il medico cantonale, ma le misure che abbiamo
adottato e che dobbiamo rispettare tutti ci consentiranno (speriamo!) di andare
avanti e di non precipitare nel caos. Noi insegnanti dovremo essere
comprensivi, flessibili, consentire a chi è in quarantena di non restare
indietro e di non sentirsi minacciato dalle lacune accumulate nelle varie
materie (molte di più rispetto a quelle insegnate in un liceo italiano). Un
bell’esercizio per tutti. E d’altronde è una cosa che dovremmo già
saper fare, non solo in relazione alle condizioni sanitarie ma anche a quelle
sociali e familiari degli studenti.
Così la prima settimana è passata senza grandi intoppi, a
quanto pare. Sono stanco, ma sereno. La macchina è ripartita. Ho acceso il
computer per scrivere questo diario, rispondere alle mail, lavorare per le
lezioni o per «Le parole e le cose». In aula ho scritto con il gesso sulla
lavagna di ardesia.
RIENTRO A SCUOLA: COME NON SCHIANTARSI - Mauro Piras
Che cosa succede con la scuola, a pochi giorni dal
rientro in aula? L’impressione generale, nei media e nell’opinione pubblica, è
di una grande confusione. Forse i media esagerano, e certo la paura della
pandemia provoca reazioni irrazionali. Ma l’incertezza è condivisa anche dagli
addetti ai lavori. Molte cose non vanno per il verso giusto, ci sono gravi ritardi.
Perché?
Che cosa è
andato storto?
In primo luogo, paghiamo gli errori della politica
scolastica. C’è un grande bisogno di docenti di ruolo, ma non li abbiamo,
perché i concorsi previsti fin dal 2017 dalla Buona scuola, e che
si sarebbero già conclusi, sono stati invece bloccati e rinviati dai governi
successivi. E così partiremo con un gran numero di supplenze, in piena
emergenza.
Secondo, paghiamo i ritardi delle decisioni politiche.
Durante il lockdown è stato fatto un decreto scuola che
prevedeva due scenari: rientro a scuola entro il 18 maggio, oppure scuole
chiuse fino a settembre. Sappiamo come è finita. Ma a quella data, quando si è
deciso, dovevano essere già pronti i primi documenti per tornare in aula. Due
soprattutto: il Documento tecnico del Comitato tecnico scientifico (CTS), con
le misure di sicurezza e contenimento, e le Linee guida del Ministero
dell’Istruzione (MI), per organizzare le attività didattiche. Intorno al 18
maggio bisognava avviare tutte le azioni per ripartire a settembre: definire le
distanze di sicurezza tra gli alunni, misurare le aule, trovare i banchi,
trovare nuovi spazi, trovare nuovi docenti, studiare le forme di flessibilità
orarie ecc. Invece niente. Il Documento tecnico del CTS è uscito il 28 maggio,
forse c’era ancora qualche speranza di recuperare il tempo perso. Invece no. Le
Linee guida del MI sono uscite il 26 giugno, con enorme ritardo. Tutte le cose
da fare erano ancora davanti alle scuole, alle Regioni e agli enti locali. Dopo
si sono accumulati altri ritardi; è inspiegabile, per esempio, perché le Linee
guida sulla Didattica digitale siano uscite solo il 7 agosto, e perché i tavoli
tra Regioni e CTS per i trasporti si siano aperti solo in questi giorni. Non si
poteva fare prima tutto questo?
Il populismo
No DAD
Ma la terza ragione di questo caos è un’altra. Il CTS a
fine maggio aveva chiesto esigenti misure di distanziamento e suggerito, tra
l’altro, la riduzione del monte ore e l’uso della didattica a distanza, a
partire dalla scuola media, a integrazione di quella in presenza. Nel
frattempo, però, si è sviluppato un movimento, di famiglie, docenti,
associazioni e ahimè anche sindacati, che ha pestato su un unico pedale: “la
vera scuola è quella in presenza, la didattica a distanza (DAD) è il demonio, a
settembre tutti a scuola, nessuno deve perdere un’ora”. Aspirazioni sacrosante,
ma si dimentica che l’emergenza non è passata, il virus circola e stare riuniti
in tanti per molte ore in un luogo chiuso non aiuta. I numeri in risalita di
questi giorni lo provano. Certo, sappiamo che ci sono situazioni in cui la DAD
non si può usare: gli alunni della scuola dell’infanzia e della primaria, i
disabili. Situazioni per cui bisogna trovare altre soluzioni. Ma questo non
giustifica la demonizzazione della DAD. Invece la maggioranza di governo, a un
certo punto, ha deciso di schiacciarsi su questo “populismo No DAD-Tutti in
classe”.
Le conseguenze sono evidenti. Le Linee guida sono uscite
con grande ritardo. Come già è stato osservato più volte, per esempio da Andrea
Gavosto (Fondazione Agnelli), non hanno previsto scenari intermedi, ma solo il
rientro per tutti (rischio basso) e il lockdown (rischio
alto). E se il rischio è medio? Nessuna soluzione flessibile? Inoltre, si è
immaginata una scuola in cui, pur con la pandemia in corso, si è tutti
presenti. Il governo ha spinto il CTS a ridurre le misure di distanziamento; ha
puntato sugli arredi delle aule; ha limitato la didattica a distanza, come
integrazione di quella in presenza, alle sole scuole superiori; non ha mai
preso in considerazione la proposta di ridurre il monte ore obbligatorio, per
permettere più facilmente delle turnazioni. Il mito è “tornare in classe”. In
che condizioni? Senza sicurezza, inchiodati ai banchi e da mille regole
rigidissime?
Si è detto, da molte parti: se troviamo gli spazi e i
docenti, possiamo fare tutti didattica in presenza, è solo questione di
investire più risorse. Quando è stato detto era già troppo tardi. Per trovare
gli spazi ci vuole molto tempo. Anche per trovare i docenti ci vuole tempo.
Invece tutte queste cose sono state pensate dopo che
l’ordinaria amministrazione era già partita, che erano state formate le classi
con i soliti criteri, assegnati gli organici con i soliti criteri.
Un’operazione di tale portata andava messa in cantiere il 9 marzo.
Che fare?
Che cosa si può fare, ora? Avviare l’anno scolastico con
le norme previste, semplificandole. Nell’ambito delle norme approvate, lo screening per
il personale scolastico sarebbe più utile se fosse obbligatorio, e si
potrebbero fare dei test a campione (anche su campioni aggregati, i
cosiddetti pooled test), periodicamente, su studenti e personale
della scuola, come già suggerito a suo tempo dal CTS.
Ma bisogna prevedere anche uno scenario intermedio
rispetto al lockdown. La soluzione è quella che hanno realizzato
altri paesi: didattica per piccoli gruppi, alternando momenti in presenza e
momenti a distanza, con grande flessibilità; autorizzare quindi la didattica a
distanza anche per le medie; possibilità di convertire una parte del monte ore
obbligatorio in attività a distanza (il ritornello, che i politici ripetono
come dischi rotti, “non si perderà un’ora di scuola”, ci sta portando dritti a
schiantarci contro un muro).
Se vogliamo tenere aperta la scuola, se vogliamo
convivere in modo intelligente con il virus, invece di buttarci a capofitto in
un’altra chiusura delle attività didattiche, il movimento No-DAD non va
seguito. Altrimenti si conferma che questo governo vive sotto il ricatto del
populismo, sia interno che esterno alla sua maggioranza.
Il
virus del panico - Linda
Maggiori
La scuola inizia con provvedimenti diversi a seconda di
regione, comune e istituto, rischiando in molti casi di fare passi indietro da
gigante in fatto di rispetto dell’ambiente e dei diritti dei bambini.
Sebbene
le linee guida nazionali siano abbastanza ragionevoli, ogni regione e dirigente
può restringere le maglie a piacimento. Un esempio è il delicato momento del
distacco “inserimento” dei bimbi piccoli: le linee guida tutelano
“l’inserimento di bimbi materna e asilo… con la presenza di un solo genitore,
nel rispetto delle regole generali di prevenzione dal contagio… durante tutta
la permanenza all’interno della struttura”. Nella scuola di mia figlia di tre
anni, a Faenza, questo non avviene. Nessun genitore può varcare il portone della scuola
e il bimbo è lasciato direttamente alla maestra senza alcun momento di
inserimento. Non è certo la pedagogia della lentezza e del
rispetto che abbiamo studiato all’università.
Scrive
Teresa, maestra in una scuola materna in Lombardia: “Dobbiamo portarli in bagno
in fila indiana con le braccia incrociate, stando attenti che lungo i corridoi
non tocchino nulla e non invadano lo spazio degli altri bambini.
La didattica con i “campi di esperienza per la scuola dell’infanzia” è andata
letteralmente a farsi friggere. Impossibile reggere questi ritmi fino a fine
anno”.
Eleonora
mamma di Faenza, aggiunge: “È tutto assurdo, a noi hanno detto che se fuori vediamo bambini
di altre sezioni è vietato che giocano insieme, perché devono
restare delle bolle. Se vado al parco quindi devo decidere con chi può giocare
o no? Questo non l’ho ancora capito”.
In alcune scuole materne non sono
più permessi riposini, perché “poco igienici” e neppure i canti perché cantare
“emana troppi virus”.
Un disastro non solo pedagogico
ma anche ambientale. Sulle
mascherine è una saga senza esclusione di colpi: fino a qualche settimana fa
era obbligatorio l’usa e getta, poi il CTS attaccato dagli ambientalisti ha
fatto marcia indietro e permesso anche quelle lavabili di comunità, ma alcune regioni restano
all’obbligo dell’usa e getta. Racconta Giuliana, di Marradi
(Firenze): “Da mesi stanno distribuendo gratuitamente trenta mascherine al mese
per ogni cittadino, obbligatorie le usa e getta, non sono ammesse quelle in
tessuto, se non come scorta”.
In
molte scuole addirittura verranno concesse solo merendine confezionate per la
ricreazione, vietata la frutta (senza alcuna motivazione scientifica), in altre
scuole si richiedono sacchi di plastica per contenere vestiti e giubbotti.
Gli imballi a quanto pare, trionferanno un po’ ovunque. Il gel disinfettante (usato
in abbondanza sui bambini e su ogni superficie) comporterà un ulteriore
consumo di imballaggi plastici e sostanze inquinanti.
Molte
scuole prevedono vassoi e contenitori monouso per la mensa,
anche se le linee guida lasciano spazio a stoviglie lavabili. La caraffa
purtroppo non è più permessa in nessuna mensa.
Anche
sul piano della mobilità sostenibile è un delirio. Quest’anno alla ripresa 2,5
milioni di bambini e ragazzi cambieranno mezzo di trasporto. Dai mezzi pubblici alle
auto, per paura del Covid, per ridotta capacità mezzi pubblici,
per ingressi scaglionati (facile.it).
La
recente riforma del Codice della Strada purtroppo non ha reso obbligatorie a
livello nazionale le strade scolastiche, come più volte richiesto dalle
associazioni (sono state inserite come mera definizione ma nulla di più). Rarissime inoltre sono le
scuole primarie che garantiscono il diritto di uscita autonoma ai bambini più
grandicelli. E così nonni e genitori si accalcheranno davanti ai portoni (alla
faccia del Covid) per accompagnare a casa ragazzini di dieci anni rigorosamente
in auto.
Alcune scuole particolarmente
zelanti, considerano infette anche le bici e vietano di parcheggiare la bici
nei cortili interni. Roberta di
Como sottolinea: “Ci hanno detto che non si possono più parcheggiare le bici in
cortile, perché sono oggetti personali dei bambini. Però le auto delle maestre,
dei collaboratori e dei fornitori non creano problemi”. Irene, di Treviso
aggiunge, spaesata: “Non so come fare. Fuori dalla scuola non ci sono
rastrelliere, cercherò dei pali sicuri”. Ad Arcore hanno messo nastri adesivi sulle
rastrelliere (eliminando un posto sì e uno no) per garantire il
distanziamento delle biciclette…
Dalla
Svizzera, Carlo (che ha due bimbe e una moglie insegnante) ci guarda
stupefatto: “Da noi la scuola è iniziata con serenità. I nostri bambini fin
dalle materne a scuola ci vanno da soli e tornano da soli in bici o a piedi. I
bambini stanno spesso fuori, anche alle primarie, si lavano le mani in classe,
la maestra non ha la mascherina, la mette solo se si avvicina molto. Due volte
alla settimana disinfettano le superfici”.
Barbiana e la scuola 2020 - Dimitris
Argiropoulos
L’edizione in lingua araba di Lettera a una
professoressa comprende
una prefazione di Francesco Gesualdi e una di Dimitris Argiropoulos, tradotte
in inglese e francese. Pubblichiamo uno dei paragrafi della prefazione, dal
titolo “La pedagogia della Scuola di Barbiana in Lettera a una
professoressa“. In questo
link invece è leggibile la versione araba.
La pedagogia di Barbiana
Lorenzo
Milani ha dedicato la vita alla formazione dei giovani delle classi popolari. La sua azione educativa era ispirata al Vangelo e
partiva dalla valutazione dell’inferiorità sociale e culturale dei giovani
montanari, con l’obiettivo di emanciparli dalla timidezza1, e aiutarli nello sviluppo di personalità libere e
autonome.
La sua
concezione pedagogica emerge dagli scritti e dalle Lettere collettive,
tuttavia è nella strutturazione della scuola di Barbiana che trova la sua più
chiara espressione. La sua idea di educazione non è concettualizzata in modo rigoroso e
inflessibile, il priore non era un improvvisatore: la sua azione educativa
restò sempre sottesa da pensiero costante, studio, attenzione e cura.
Nonostante fosse isolato sul monte Giovi, leggeva2 molto,
si confrontava con amici e intellettuali, contribuendo al dibattito europeo del suo tempo, intuendo verità che
anni più tardi avrebbero trovato conferma e riconoscimento scientifico.
Con il
suo operato don Milani ha incarnato il proprium della
pedagogia, cioè «quello di essere disciplina prassica che deve continuamente
porre le teorie al vaglio della prassi, autoregolando il “pensare su… con
l’agire per…»3. Il pensiero pedagogico del priore si sviluppa in due
direzioni.
1. Critica del sistema scolastico: a partire dall’esperienza di San Donato don Milani
comprende il legame tra origine sociale ed esito scolastico, rapporto che
diventa palese nelle sue drammatiche conseguenze con l’avvio della scuola media
unica.
Don
Lorenzo è convinto che per adempiere al dettato costituzionale l’uguaglianza
non vada calcolata sulla libertà di accesso ma sulle opportunità di riuscita
(uguaglianza sostanziale). Sviluppando queste riflessioni il priore, lettore
accanito di saggistica francese4, si trova in linea con le idee su cui dibattevano in
quegli anni i cosiddetti sociologi della “riproduzione sociale”: Louis
Althusser, Pierre Bourdieu, Raymond Boudon e Claude Passeron. In particolare
Bourdieu e Passeron con i concetti di capitale culturale ed ethos
di classe dimostravano che la scuola non riconosce le disuguaglianze
di base degli allievi, riproducendo in questo modo le classi sociali esistenti
e perpetuando le disuguaglianze5.
2. Manifesto di istruzione
alternativa a quella
istituzionale ufficiale e pubblica, espressione di un modo inconsueto di
guardare al sapere e alla formazione, che mette al centro la persona e la
varietà di competenze e culture6. Don Milani è portatore di istanze egualitarie: lotta alla
dispersione scolastica, valorizzazione della dimensione educativa comunitaria e
promozione di una coscienza critica e autonoma. Dona tutto il
suo tempo alla scuola perché è convinto di poter migliorare l’esistente: crede
nell’istanza trasformativa dell’educazione, che richiede impegno, personale e
seducente7. Per questo costruisce una scuola a pieno tempo basata sulla
cura e sulla responsabilità reciproca, dove nessuno è “negato
per gli studi”8 e dove ognuno è allievo e contemporaneamente maestro9. Un’educazione appropriata a fornire i mezzi per
l’emancipazione sociale. Questa impresa si trova in linea con le idee dei
teorici dell’attivismo pedagogico e del movimento delle “scuole nuove”: Dewey10, Claparède (e la scuola di Ginevra), Decroly,
Montessori, Freinet11e il gruppo dei pedagogisti fiorentini12.
Don
Milani è conscio dell’immenso valore della persona, di ogni persona. Concepisce
l’educazione come emancipazione, un processo che non è conformazione, cioè
adattamento acritico alla società, che è, invece, l’opposto dell’indottrinamento13.
«Tentiamo invece di educare i ragazzi a più ambizione.
Diventare sovrani! Altro che medico o ingegnere»14.
Per don Lorenzo l’educazione è
liberazione – di pensieri e
identità – dai soprusi, dall’ignoranza, dalle ingiustizie. Pur considerando le
differenze di contesto, la sua era un’idea di paideia, cioè di
formazione all’interezza, all’integrità dell’uomo. Una formazione vista come
processo educativo, come personalizzazione della cultura che sviluppa l’io e
gli dà una forma personale, dura tutta la vita e si sviluppa attraverso la cura
di sé. Formare significa “dare forma” (in greco Morphepoiesis –
μορφοποίηση): la formazione per divenire tale richiede attivazione, il soggetto è parte attiva
del processo: è formato e contemporaneamente si dà forma15. Per questo il fine della sua opera educativa era quello
di formare
cittadini sovrani16, in grado di analizzare la realtà a mente aperta e prendere
coscienza della propria condizione, per uscire dai condizionamenti e
autodeterminarsi.
Don Lorenzo è convinto che la
scuola e la politica non debbano riprodurre le gerarchie esistenti ma essere
comunità aperte che interagiscono con la società civile per la crescita di
tutta la popolazione17. Ha fiducia nella cittadinanza democratica e nel
progresso come elementi di cambiamento qualitativo dell’esistente. Le ingiustizie sociali
restano tali a causa del consenso che il potere riceve dal basso,
da parte di chi non ha gli strumenti per capire e prendere una posizione. Il sapere consente
invece la presa di coscienza dei meccanismi dell’ingiustizia e deve essere usato dalle
persone per liberarsi insieme dalla sopraffazione, essendo strumento di forza
per organizzarsi, rivendicare i propri diritti, correggere l’esistente18. È questa la concezione di rivoluzione non violenta di
don Milani, «per il bene dei poveri. Perché si facciano strada senza che scorra
il sangue»19.
La
scuola è concepita dal priore come un ponte tra passato e futuro: «deve formare
al senso di legalità (rispetto delle leggi) e formare al senso politico (volere
leggi migliori)»20. Fino a quando le classi popolari continueranno a restare
in posizione di subalternità rispetto alla classe dirigente, non avranno un
ruolo nella decisione politica:
«quando la nuova scuola media fu discussa in Parlamento,
noi i muti si stette zitti perché non c’eravamo. L’Italia contadina assente là
dove si parlava della scuola per lei»21,
«ma in Parlamento bisogna andarci noi. I bianchi non
faranno mai le leggi che occorrono per i negri»22.
L’insegnamento
fondamentale che lascia ai ragazzi di Barbiana coincide con la motivazione per
strutturare il loro impegno.
«Il fine giusto è dedicarsi al prossimo […].
Siamo sovrani, non è più il tempo delle elemosine, ma delle scelte. Contro i classisti che
siete voi, contro la fame, l’analfabetismo, il razzismo, le guerre coloniali»23.
Per
formare cittadini sovrani non basta trasmettere una serie predefinita di
saperi: serve che i ragazzi abbiano gli strumenti critici per analizzare la
realtà.
La
scuola dovrebbe essere come una palestra, che allena i suoi alunni
all’esercizio della democrazia, alla discussione, a far valere i propri diritti
nel confronto con gli altri, in una prospettiva creativa e dagli esiti non
definiti24. Per questo Lorenzo Milani scrive all’amico Meucci:
«Non consegneremo dunque loro le cose che abbiamo
costruito e che stanno cadendo da tutte le parti, ma solo gli arnesi del
mestiere (cioè più che altro la lingua, le lingue ecc.) perché costruiscano
loro cose tutte diverse dalle nostre e non sotto il nostro alto patronato né
paterna compiacenza»25.
Si tratta dell’esigenza di
formare nei ragazzi una coscienza critica, in grado di valutare la realtà rendendosi conto delle
contraddizioni, sviluppando un pensiero autonomo che può arrivare a mutare
l’esistente.26
«E qui è il fine ultimo di ogni scuola: tirar su dei
figlioli più grandi di lei, così grandi che la possano deridere. Solo allora la
vita di quella scuola o di quel maestro ha raggiunto il suo compimento e nel
mondo c’è progresso”27.
1 «Due anni fa, in prima magistrale lei mi
intimidiva. Del resto la timidezza ha accompagnato tutta la mia vita. Da
ragazzo non alzavo gli occhi da terra. Strisciavo alle pareti per non essere
visto». Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa,cit., p.
9.
2 In una lettera del 1962 all’amico Giorgio Pecorini
don Lorenzo richiede libri di pedagogia per i ragazzi, con riferimenti a testi
di Dewey e Makarenko. Cfr. E. Butturini, Lorenzo e Adriano Milani:
un’identica passione educativa, in Don Lorenzo Milani e la scuola
della parola, cit.
3 Cfr. Riccardo Pagano, La pedagogia
generale. Fondamenti ontologici e orizzonti ermeneutici, in R.
Pagano La pedagogia generale,Monduzzi, Milano, 2011.
4 Cfr. Peter Mayo, I contributi di Don
Lorenzo Milani e Paulo Freire per una pedagogia critica, in Don
Lorenzo Milani e la Scuola della parola, cit., p. 250.
5 Cfr. Elena Besozzi, Società, cultura,
educazione,Carocci, Roma 2006, p.173.
6 Crf. Roberto Sani e Domenico Simeone (a cura
di), Don Lorenzo Milani e la scuola della parola, cit., p. 8.
7 Cfr. Antonio Michelin Salomon, In difesa
della pedagogia, attualità di don Milani, in L’eredità pedagogica
di don Milani, a cura di De cit., p. 39.
8 Ivi, p.11.
9 «Il più vecchio di quei maestri aveva sedici anni.
Il più piccolo dodici e mi riempiva di ammirazione». Scuola di Barbiana, Lettera
a una professoressa, cit. p.12.
10 Col grande pedagogista americano il priore di
Barbiana condivide l’idea che l’insegnamento democratico debba partire
dall’esperienza della vita quotidiana e debba essere incentrato sull’attività (learning
by doing), sull’interesse e sulla cooperazione sociale. Cfr. C.
Laneve, I modelli didattici del XX secolo, in R. Pagano, La
pedagogia generale,cit., p.128.
11 Cfr. Franco Cambi, Manuale di storia della
pedagogia, Laterza, Bari 2011, pp. 274-291. Il pensiero di Celéstin
Freinet e il suo modello didattico basato sulla cooperazione e sulla Stamperie
à l’ecole, fu diffuso in Italia dal Movimento di Cooperazione
Educativa (MCE), che annoverava Lodi tra i suoi seguaci. Col maestro di Piadena
don Milani ebbe una fitta corrispondenza e grazie a lui introdusse a Barbiana
il metodo della scrittura collettiva.
12 Cfr. Ivi, p.290. Ernesto Codignola,
Lamberto Borghi, Aldo Visalberghi, Raffaele Laporta svilupparono la lezione
deweiana, in particolare il collegamento tra educazione e democrazia.
13 L’indottrinamento è «la perversione
dell’educazione, capace di presentarsi come educazione ma di seguire […]
modalità e procedimenti razionali che non tengono conto degli effettivi bisogni
dei soggetti, ma solo di questioni di principio: presentando, ad esempio, in
veste di conoscenza, ciò che altro non è che un credo o, peggio, legittimando l’odio
e conseguentemente la violenza». In Alessia Malta, Sul significato
attuale de L’obbedienza non è più una virtù, in «Quaderni di
Intercultura», a. III, 2011, numero monografico L’eredità pedagogica
di don Milani, a cura di Dario De Salvo, p. 26.
14 Scuola di Barbiana, Lettera a una
professoressa, cit. p. 96.
15 Cfr. F. Cambi, Pedagogia generale,
cit., p. 35.
16 Art.1 della Costituzione italiana: «La sovranità
appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della
Costituzione».
17 Cfr. Maria Quartarone, Don Milani tra
pedagogia e impegno sociale, in L’eredità pedagogica di don
Milani, a cura di D. De Salvo, cit., p. 56.
18 Cfr. Patrizia Panarello, Il consumo
critico viene da Barbiana, Ivi, p. 45.
19 L. Milani, Lettere di don Lorenzo Milani
priore di Barbiana, cit., p.79.
20 L. Milani, L’obbedienza non è più una
virtù, cit., p. 46.
21 Scuola di Barbiana, Lettera a una
professoressa, cit., p. 93.
22 Ivi, p. 92.
23 Ivi, p. 94.
24 Cfr. A. Malta, Sul significato attuale
de L’obbedienza non è più una virtù, cit. p. 28.
25 L. Milani, Lettere di don Lorenzo Milani
priore di Barbiana, cit., p.54.
26 Cfr. M. Quartarone, Don Milani, tra
pedagogia e impegno sociale, cit., p. 56.
27 L. Milani, Lettere di don Lorenzo Milani
priore di Barbiana, cit., p. 200.
La scuola: un diritto o una lotteria? - Francesca Marcellan
«Ti pare giusto? L’istruzione è obbligatoria,
ma la scuola non è un diritto: è una lotteria!»
C’eravamo tanto amati, Ettore Scola, 1974
In questo clima apocalittico segnato dal Coronavirus,
sono tornate di attualità diverse suggestioni bibliche: il capro espiatorio, il
sacrificio di Isacco, ammazzare il vitello grasso e così via. Oggi si dà per
scontato, infatti, che per salvaguardare una collettività sia lecito ledere i
diritti di un singolo o di una minoranza, fatto che viene tranquillamente
accettato in base al principio del male minore.
Si è iniziato, a febbraio, con l’istituzione della
zona rossa nel basso lodigiano. La creazione di un ghetto avrebbe dovuto
preservare il resto d’Italia, quando in realtà era semplicemente un chiudere la
stalla a buoi già scappati. E l’effetto placebo psicologico (il male è
circoscritto) è stato controproducente, visto che il senso di sicurezza ha
autorizzato comportamenti disinvolti in zone che erano già altrettanto
compromesse, ma senza saperlo.
Ora questa stessa logica si adotta alla riapertura
delle scuole. Ricercare spazi adeguati e incrementare il numero del corpo
docente avrebbe permesso di garantire a tutti gli alunni lezioni in presenza ed
equità di trattamento. E questa era, a parole, la linea del Governo. Purtroppo
per fare queste cose servono soldi, che sono stati stanziati in modo
assolutamente insufficiente. Quindi la soluzione più semplice, che il ministero
dell’Istruzione ha autorizzato in modo più largo per le scuole secondarie di II
grado (le cosiddette superiori, ossia gli adolescenti che si possono
serenamente lasciare in casa incustoditi), è la didattica a distanza. La DAD,
infatti, è una parola magica: permette alla scuola di fare scuola anche senza
scuola, come quelle torte dietetiche senza burro né uova né farina. Di cosa
siano fatte non si sa, ma intanto la torta esce dal forno, così come la DAD
permette di servire sul piatto un anno scolastico formalmente completo.
Non tocca però a tutti un’eguale fetta di DAD, perché
qui interviene il prettamente italico fattore lotteria, come da citazione del
film di Scola. Così capita che l’assegnazione delle aule sia un gioco ad
incastro che combina capienza potenziale e numero di alunni di una classe: se
coincidono è fatta, se sono di più si salta un turno e gli alunni in più
retrocedono di qualche casella (un tot di giorni al mese), venendo mandati a
studiare soli soletti a casa, ma col caldo conforto della tecnologia. La cosa
buffa è che non va bene neppure se sono di meno, perché occuperebbero
abusivamente spazi eccessivi, quindi devono lasciare l’aula ad altri e andare
alla ricerca di un’altra casella, col rischio di trovarne una troppo piccola e
quindi essere anch’essi lasciati a casa in rotazione.
Ci troveremo quindi, a giugno, con alunni che hanno
usufruito di nove veri mesi di scuola, altri di sei, di sette o di cinque, con
differenze generate esclusivamente dal caso, dalla fortuna, dal destino, da Dio
(a scelta, in base alla posizione filosofica adottata).
Ma sarà tutto a posto. Formalmente. Quindi, di che ci
preoccupiamo?
Si poteva fare - Giuseppe
Campagnoli
Occorreva un po‘ di decisione e manifestazione di
coraggio pur tenendo conto di ciò che si sta prospettando a livello
istituzionale: ci sono stati circa cinque mesi di tempo per cominciare a oltrepassare la
scuola tradizionale, pur sempre conservatrice, e siamo ahinoi arrivati al
banco singolo, alle misurazioni e a cercare anche palestre,
cinema, stanzoni e capannoni. Non mi sembra né utile né risolutivo per la
prevenzione (che deve pur esserci…) limitarsi ai banchi, alle fettucce metriche
oppure allo sparpagliamento puro e semplice in altri spazi per fare grosso modo
le stesse cose di prima.
I
dirigenti scolastici, che so per esperienza diretta avere spesso molta paura
“burocratica”, per via del loro ruolo addensatosi perigliosamente, nel tempo,
più sulle procedure e sugli adempimenti che sull’educazione, sanno bene che si
possono percorrere alcune strade dell’autonomia scolastica e della sperimentazione
per rispondere a esigenze di tutela della salute ma anche a quelle dell’avvio
sottile ma deciso di una rivoluzione in educazione. Pochi adattamenti
avrebbero garantito libertà, esperienze efficaci e apprendimenti diffusi oltre
che la tutela della salute di tutti, lavorando per piccolissimi gruppi in
luoghi significativi, educanti aperti o ampi insieme all’edificio tradizionale
che in questa fase assumerebbe il ruolo di “portale” verso le esperienze
altrove. Avrebbe qualche senso mischiare la didattica a
distanza (che non avrebbe avuto, come pare, i risultati aspettati) con la
didattica in presenza sempre con le stesse materie, gli orari, gli appelli, i
controlli, con lo stesso vetusto modello di organizzazione di tempi e modi
adattato all’ultimo momento alle esigenze dettate dalle regole di prevenzione
applicate in modo meccanico e confuso?
Non vi
è un momento migliore invece per sperimentare e mettere alla prova strade che
si possono rinvenire anche nelle pieghe dell’autonomia scolastica, troppo parzialmente
praticata nelle chances innovative. Non cogliere questa
opportunità è un vero peccato e una plateale rinuncia al cambiamento. Sarebbe il caso di
riflettere su tante esperienze rivoluzionarie che si sono dimostrate
decisamente positive e stimolanti per mutare lentamente ma radicalmente un
paradigma scolastico da tempo obsoleto e decisamente superato. Si poteva
cominciare eccome.
Ad
esempio:
1. Eliminazione graduale dell’edilizia scolastica verso la città educante fatta
di una rete di luoghi per l’esperienza e l’apprendimento pubblici o privati,
aperti o chiusi ma trasparenti e ampi. Certamente non per fare le stesse cose
che si facevano in classe o nelle «uscite didattiche».
2. Attività in gruppi di 5-7-9 a
seconda delle età o misti.
3. Creatività massima per sussidi didattici.
4. Destrutturazione delle discipline sconnesse e
separate a favore di aree esperienziali e campi di educazione incidentale dove
il bambino, il giovane, l’adulto che crescono e apprendono sono soggetti
protagonisti che «si educano» non che «vengono educati».
5. Smontaggio dell’orario
scolastico a favore di tempi
flessibili e «orari di prossimità», con l’anno educativo che dura dodici mesi
con pause di tempo libero diluite e diffuse.
Le cose
da apprendere, l’educazione e la crescita non sono indifferenti ai luoghi in
cui avvengono. La marcia di avvicinamento a un nuovo modello di scuola potrebbe
integrare mirabilmente, in tante sperimentazioni brevi che facessero tesoro
delle eventuali buone pratiche nel territorio, l’insieme dei progetti-scuola
dei tempi-scuola e dei luoghi-scuola sfruttando anche quel poco che offre
l’organico potenziato. Se si trasformassero, riducendoli anche di numero,
gli edifici scolastici per un uso misto e flessibile (museo e scuola,
biblioteca e scuola, terziario e scuola…) e si usassero gli spazi di cultura e
non solo, pubblici e privati della città per “fare scuola”, persino bar, negozi
e centri commerciali; se si abolissero le materie e si apprendesse per mappe
concettuali, per argomenti e temi trasversali (gestiti dai docenti disponibili
e competenti), il quadro potrebbe cambiare radicalmente e allora un organico
sarebbe veramente funzionale.
Gli
orari della settimana, del mese o del semestre potrebbero essere realmente
smontati e resi flessibili e adattati a un canovaccio plurisettimanale di aree
tematiche multidisciplinari e interdisciplinari, progetti ed eventi, nel quadro
di un progetto di istituto o di rete territoriale, da sviluppare in diversi
luoghi, anche utilizzando tablet e audiovisivi, docenti esterni e interni,
mentori e maestri oltre che tutors negli ambiti di apprendimento, che possono
essere anche un laboratorio artigiano, una fabbrica, un ufficio pubblico, un
museo, un laboratorio, una mostra…
Un’utopia?
Non tanto e non proprio.
Chiudo
con un commento di un anonimo scritto da uno dei sempre più numerosi firmatari
del Manifesto della educazione
diffusa:
“L’infanzia e adolescenza sono fasi di vita ricche di
opportunità, di crescita e di sfide evolutive. Quanti sogni quando si è bambini
e adolescenti, ma dove vanno a finire i loro sogni, i loro desideri e i loro
talenti? C’è un mercato che vuole decidere il prototipo del giovane perfetto e
allora … quanta fatica vivere con pienezza la realtà quotidiana da parte di un
adolescente. Ogni giorno qualcuno gli apre orizzonti paradisiaci da raggiungere
e spesso gli stessi genitori spingono verso questi obiettivi impossibili. Dove
abbiamo sbagliato? Viene da chiedersi. I giovani hanno bisogno di fare esperienze che
diano loro una maggiore autonomia, penso sia necessario riproporre una cultura
del corpo intelligente, inteso come veicolo dell’apprendere e crescere. Credo
in una concezione del corpo che comprende il rapporto tra corpo e psiche, corpo
e azione, corpo ed emozione, vita e conoscenza. La grande lezione montessoriana
appare quanto mai moderna e attuale, il bisogno di muoversi, di sperimentare..
Il corpo non si riduce alla dimensione fisica, soltanto un insieme biologico di
organi. È il luogo vissuto di piacere o di dolore, luogo in cui ogni persona
vive, sente, esiste; luogo del proprio essere. Sì all’educazione diffusa!…”.
Il mito dello staff del dirigente scolastico:
divide et impera - Teresa Celestino
Nel corso di una intervista del
2017 Alessandro
Barbero, noto professore di Storia medievale presso
l’Università del Piemonte Orientale Amedeo Avogadro, si è espresso in modo
chiaro e sintetico sulla retribuzione degli insegnanti in base al merito,
criterio difficilissimo da stabilire nell’ambito della docenza:
Di parere opposto sembra essere la prof.ssa Elisabetta Nigris,
presidente del CdL in Scienze della Formazione Primaria dell’Università Milano
Bicocca, che in una recente dichiarazione pubblicata su IoDonna del 23 agosto 2020 dice:
«Sarebbe giusto dare incentivi,
economici e di carriera ai docenti innovatori, ai vicari (gli ex vicepresidi), e agli
insegnanti che si occupano di progetti. E basta considerare i presidi solo dei manager:
sono professionisti dell’educazione. Infine, non se ne
può più delle sanatorie:
negli ultimi due anni sono entrati 45mila diplomati senza titolo con un
concorso “non selettivo”, bastava che avessero due anni di supplenza alle
spalle».
Non è chiaro il riferimento alle sanatorie; probabilmente
riguarda l’annosa vicenda delle maestre con il vecchio diploma magistrale,
peraltro escluse dalle graduatorie utili per l’immissione in ruolo dopo una lunga vicenda giudiziaria. Giova ricordare
che, parallelamente al progressivo passaggio da funzioni di direzione didattica
a quelle di gestione amministrativa, le sanatorie hanno riguardato anche la categoria dei
Dirigenti scolastici (DS); [1] basti
pensare ai concorsi che riservavano una quota variabile di posti a favore di
coloro che avessero esercitato per qualche anno la funzione di “preside
incaricato”, assunta da insegnanti senza alcuna qualifica dirigenziale e spesso
già operanti nel ruolo di vicepresidi.
Consideriamo ora il ruolo degli ex vicepresidi (oggi
“collaboratori del DS”), ritenuto così importante dalla professoressa Nigris.
Si tratta di insegnanti che collaborano con il dirigente e da questo
individuati a sua discrezione, sebbene previa formale
approvazione del collegio dei docenti (che rarissimamente contesta la scelta
del DS). Da qualche anno essi sono rappresentati dall’A.N.Co.Di.S., Associazione Nazionale dei
Collaboratori dei Dirigenti Scolastici. L’Associazione
comprende le cosiddette figure “di sistema” o “di staff” (secondo le diciture
in voga al momento): il primo collaboratore (figura la cui evoluzione normativa [2]
ne ha via via definito compiti e funzioni), il secondo collaboratore, i
responsabili di plesso; una recente apertura [3]
prevede la prossima accoglienza di altri insegnanti che svolgono le funzioni
più disparate: si va da coloro che assumono le cosiddette “Funzioni
strumentali” agli “Animatori digitali”, passando per i Responsabili del
servizio di prevenzione e protezione e i Coordinatori di dipartimento. Si
tratta dunque di docenti che svolgono funzioni profondamente diverse per
mansioni e responsabilità.
Questo articolo si concentra sulla figura dei più stretti
collaboratori del DS, i soli che hanno diritto all’esonero totale o parziale
dall’attività in aula. È superfluo precisare (ma è bene farlo comunque) che le
criticità qui evidenziate non riguardano l’intera categoria, ma solo una parte
di essa. Si tratta di aspetti che i collaboratori del DS onesti e competenti
avrebbero il dovere di evidenziare, se non altro per evitare di alimentare il
sospetto di interessi corporativi a esclusivo sostegno delle loro richieste di
miglioramento di status professionale.
Il concetto di “merito” è la bandiera dell’Associazione:
la convinzione di essere insegnanti meritevoli per la particolarità del ruolo
sinora ricoperto ha dato luogo alle reiterate richieste dell’A.N.Co.Di.S., i cui rappresentanti sono stati recentemente ricevuti dal Ministro Lucia
Azzolina e da altri rappresentanti politici.
L’Associazione chiede un riconoscimento di natura diversa
dal semplice incremento della retribuzione prelevata dal FIS (Fondo Integrativo
d’Istituto, di provenienza statale), o dalla estensione dell’esonero dalle attività
di insegnamento per svolgere al meglio tutte quelle funzioni considerate
indispensabili nella scuola dell’autonomia.
[Vale la pena aggiungere, a proposito di autonomia, che
la stessa distribuzione del salario accessorio destinato ai collaboratori del
dirigente non è affatto uniforme tra i vari istituti e ordini scolastici, o tra
le diverse zone del paese. L’incremento retributivo proveniente dal FIS,
infatti, sebbene attualmente assai misero nella
maggior parte dei casi, in altri viene invece “integrato” con
una prassi assai discutibile: usando i fondi privati provenienti dal “contributo
volontario” versato dalle famiglie, [4]
formalmente utilizzati per la retribuzione relativa a progetti di varia natura
(genericamente considerati “ampliamento dell’offerta formativa”). In questo
modo le famiglie, in alcune realtà territoriali molto munifiche, di fatto
contribuiscono non solo alla dotazione e al funzionamento degli istituti
scolastici, ma alimentano una diversificazione salariale autonomamente gestita
dai dirigenti scolastici e avallata dalle stesse organizzazioni sindacali.]
Cosa chiede dunque l’A.N.Co.Di.S.? L’associazione si batte per
l’istituzione di una vera e propria figura contrattuale sinora inesistente
nella normativa scolastica: il cosiddetto “quadro intermedio”,
la cui introduzione renderebbe finalmente possibile una prospettiva di
avanzamento di carriera per una parte degli insegnanti.
Si noti che l’introduzione del “middle management”
[5] (già auspicata dall’ANP [6])
non è di fatto osteggiata da sindacati come la CISL (che pubblicizza convegni promossi dall’A.N.Co.Di.S.) o la FLC-CGIL (il cui sito ospita articoli in cui si discutono
ambiguamente le proposte a riguardo di TreeLLLe [7]) a conferma dell’endemica propensione italica
all’ope legis – nel caso l’esperienza accumulata (e mai
sottoposta a valutazione) diventi il principale requisito per l’accesso a questo
ipotetico ruolo semi-dirigenziale. Ciò è altamente probabile, come dimostrano i
criteri richiesti dai concorsi riservati per DS prima accennati. A ulteriore
conferma, si riportano di seguito due punti della proposta A.N.Co.Di.S. presentata
al Senato: [8]
·
nuova
progressione di carriera (parallela/integrata) che – oltre l’anzianità di
servizio – riconosca il lavoro e la professionalità di tutti i Collaboratori
dei DS;
·
previsione
dell’accesso alla carriera dirigenziale – attraverso concorso regionale – di
quanti hanno assunto ruoli e mansioni nell’ambito del funzionamento gestionale
ed organizzativo di una scuola.
Dunque, una sanatoria a tutti gli effetti ben ammantata
dalla parola “concorso” (regionale e riservato alle sole figure che hanno prima
usufruito di una apposita e discrezionale nomina dirigenziale!).
Per non parlare della proposta di “riapertura delle graduatorie per gli incarichi di
gestione nelle scuole prive di DS per qualsiasi ragione”, importante premessa di una ulteriore probabile
sanatoria come viatico per accedere alla dirigenza con i famigerati “concorsi
riservati”.
Una sostanziale differenza rende questo scenario qualcosa
di diverso e più grave di una sanatoria ope legis: non si
tratterebbe infatti di una regolarizzazione all’interno di ruoli già esistenti,
ma della istituzione di una nuova figura che sarebbe occupata d’emblée da
un gruppo di insegnanti selezionato in partenza, in ragione di una loro
esperienza considerata positiva e fruttuosa a prescindere. È questo il senso
del riconoscimento dell’esperienza: quest’ultima potrebbe
diventare la sola chiave di volta nella distinzione tra insegnanti meritevoli e
non di un ruolo maggiormente prestigioso all’interno della scuola.
Questo aspetto è abilmente nascosto dalla proposta [3]
di un “percorso annuale di formazione e specializzazione, anche universitaria,
su temi relativi ai modelli organizzativi e gestionali nella PA, al diritto del
lavoro, alla gestione delle risorse umane, seguito da un tirocinio conclusivo
di un anno”. Non è infatti ben chiara l’utilità di un corso universitario di
questo tipo per l’accesso nella specifica area contrattuale, se finora i membri
dell’A.N.Co.Di.S. hanno svolto egregiamente le loro funzioni. Piuttosto, è
ragionevole temere una deriva mercantilistica di questo tipo di corsi, come
accaduto nel caso dell’acquisto (in senso letterale) dei 24 CFU e delle
certificazioni linguistiche accreditate dal MIUR.
Torniamo alla questione della valorizzazione
dell’esperienza acquisita, le cui implicazioni sono di grossa portata e si
riassumono nell’interrogativo: la funzione crea l’oggetto o l’oggetto è creato per
l’uso?
I coltelli da cucina esistono per tagliare gli alimenti
nel modo più efficace; a un certo punto qualcuno decide che anche le forchette
possano essere utilizzate per il medesimo scopo. Così molti coltelli finiscono
con il giacere inutilizzati tra gli arnesi culinari con gran soddisfazione
delle forchette, stanche del ruolo per cui erano state originariamente
fabbricate. Passato un po’ di tempo le forchette, avendo imparato a tagliare
(ma non certo come i coltelli) si riuniscono in una associazione per
“valorizzare l’esperienza acquisita”. Assumendo a pieno titolo la funzione di
tagliare in modo permanente.
Battezzerei questo processo come “evoluzione
professionale lamarckiana”: nel caso il prof. Rossi desideri assumere una
determinata funzione all’interno della sua scuola, egli non è selezionato in
base al suo percorso accademico, alle sue credenziali professionali o
all’attività pubblicistica. Piuttosto, è l’esercizio della funzione a
priori che modifica il prof. Rossi e lo rende adatto a esercitare un
certo ruolo.
[In realtà, a un esame più attento ci si accorge che
anche in questo caso le teorie darwiniane hanno la meglio, in quanto la selezione a
monte esiste comunque: a volte (spesso?) favorisce chi possiede le
caratteristiche che lo rendono particolarmente in grado di adattarsi
all’ambiente clientelare, ad esempio.]
È innegabile che la sola prassi comporti alla lunga
l’acquisizione di alcune abilità ad essa connesse; tuttavia una forchetta resta
una forchetta, un coltello resta un coltello….
Come si
riconosce un coltello? Forse
cominciando a considerare il curriculum di un docente?
L’istituzione scolastica è preposta all’acquisizione di
conoscenze e all’erogazione di titoli culturali con valore legale. Quale
esempio è dato agli studenti nel momento in cui le figure di responsabilità
della scuola che frequentano sono scelte senza alcun riguardo per gli studi
compiuti? Si dirà loro che le conoscenze degli insegnanti non contano quanto le
fumose competenze? Quali competenze?
Perché si parla da anni di valorizzazione
del dottorato di ricerca nella P.A.,
senza che nessuno muova un dito perché questo titolo assuma una effettiva
rilevanza nella scuola?
Perché la pubblicazione di libri di testo, articoli e
saggi è così sottostimata?
Come è possibile che i docenti che svolgono o hanno
svolto professioni di elevato profilo in ambito tecnico-scientifico, artistico
o musicale non siano considerati una risorsa, a parte alcune lodevoli eccezioni?
Chi saprà porre un argine alle logiche servilistiche
animate dalla mera necessità di soggetti che assicurino appoggi politici,
sindacali, economici?
Si potrebbe obiettare che le questioni poste sul tavolo
dall’A.N.Co.Di.S. investono in realtà problematiche ben diverse da quelle
strettamente inerenti alla funzione docente, relegando in secondo piano
l’aspetto culturale: come ben sa chi lavora nella scuola, i collaboratori del
DS si occupano per lo più di aspetti organizzativi e gestionali, spesso resi improbi
da valanghe di compiti burocratici. Tuttavia sarebbe un errore ridurre a mera
burocrazia compiti che il più delle volte rivelano in diversa misura la loro
natura politica. La gestione della scuola, soprattutto della scuola pubblica, è un atto
politico: negare la fondamentale importanza della sensibilità culturale di chi
se ne prende la responsabilità indica una preoccupante disonestà
intellettuale. Lo stereotipo dello studioso negato nei
rapporti con il personale è troppo ingenuo e scontato; quando accade,
chiediamoci piuttosto perché gli insegnanti particolarmente preparati si
sentano spesso a disagio nell’habitat lavorativo che sono costretti a
frequentare.
La situazione dell’attuale pandemia non ha fatto che
complicare ulteriormente la confusione nel guazzabuglio di norme e circolari,
indicazioni e linee guida ministeriali ai fini del rientro in sicurezza nelle
nostre scuole. E l’A.N.Co.Di.S. rivendica un ruolo chiave nel supportare
i DS in questo delicato e difficile periodo. [9]
Dunque non si tratterebbe di “ammanicarsi il preside, accettare incarichi
aggiuntivi e vuoti, inventarsi progetti inutili”, secondo le colorite
espressioni pre-pandemia del prof. Barbero? Questioni più serie sarebbero in
ballo, ora che il Covid-19 sta imponendo un diverso assetto organizzativo: la
sicurezza, innanzitutto; la didattica digitale; le problematiche dovute alla mancata
o parziale inclusione degli studenti svantaggiati, coloro che più risentono
dell’assenza di un contatto diretto con la scuola.
Ma attenzione: la recente situazione di crisi può indurre
a non considerare le richieste dell’A.N.Co.Di.S. nella giusta prospettiva. Un conto è circoscrivere
il problema in termini emergenziali, un altro è la messa a regime di un
congegno che continuerà a funzionare quando questa emergenza sarà un lontano
ricordo. Alla luce di quanto riportato, non è difficile
valutare se le modifiche richieste dai collaboratori dei DS potranno
contribuire a migliorare realmente la scuola italiana. Bene ha fatto
l’A.N.Co.Di.S. a sfruttare astutamente la recente emergenza Covid-19 per
cercare di ottenere un riconoscimento richiesto a gran voce ormai da qualche
anno. Una pandemia può paradossalmente rivelarsi un’ottima occasione di
avanzamento di carriera. Ma poi? Cosa accadrà quando le richieste avanzate in stato
di emergenza saranno esaudite e continueranno a sussistere oltre la situazione
contingente?
Proviamo a inquadrare i termini della questione dapprima
con una prospettiva a grandangolo, in seguito regolando l’obiettivo per una
migliore messa a fuoco (anche nell’ottica di motivare alcune proposte finali di
effettivo riconoscimento del merito non lesive della dignità di tutti gli
insegnanti).
Originariamente i vicepresidi erano eletti dal collegio
dei docenti; questa modalità garantiva l’assunzione dell’incarico da parte di
insegnanti considerati espressione della comunità di appartenenza, spesso con
molti anni di servizio nell’istituto e mediamente capaci di mediare tra i
colleghi e il preside. Il meccanismo elettivo, infatti, scoraggiava i
comportamenti caratteristici del cosiddetto mobbing scolastico verticale;
[10] quest’ultimo è sovente messo in atto da figure che non detengono un reale
potere sanzionatorio, ma che esercitano la loro influenza soprattutto presso le
figure apicali, specialmente se queste sono inesperte e/o deboli; o, più
semplicemente, tendono a delegare per garantirsi una minore esposizione ad
eventuali critiche con conseguente perdita in termini di consenso.
Il meccanismo elettivo costituiva però un grosso impedimento
per i DS, talvolta costretti a collaborare fianco a fianco con docenti la cui
diversità di vedute poteva costituire un serio intralcio alla loro funzione
dirigenziale. Questo era particolarmente evidente quando il vicepreside era
anche un RSU maggiormente attento a incrementare il numero di tessere del
proprio sindacato che non a contribuire al buon andamento della macchina
scolastica. Dunque, nel 2001 la figura del vicepreside è stata abolita a favore
di quella del “collaboratore” di esclusiva nomina dirigenziale. Ciò ha
comportato nuovi inconvenienti: innanzitutto i DS, soprattutto negli istituti
sotto-dimensionati, non sono realmente liberi nella scelta dei collaboratori:
occorre tenere conto delle figure destinate al cosiddetto potenziamento dell’offerta
formativa, [11] onde evitare di
travalicare i limiti di spesa pubblica. Non è infrequente che validi DS freschi
di nomina si trovino a dover interagire quotidianamente con collaboratori non
solo poco competenti, ma impegnati in una continua opera di ostracismo volta a
mantenere un potere ombra con mezzi più raffinati di quanto si possa
immaginare. Di contro, la libertà di nomina da parte di dirigenti non esemplari ha
dato luogo ad attività poco trasparenti, nelle quali la stessa cricca si
spartisce per anni gran parte del FIS pur muovendosi formalmente nel recinto
della legalità (non sempre, come sopra accennato). Non
tutti gli istituti scolastici pubblicano il bilancio sul proprio sito web,
complice il silenzio del Consiglio di Istituto – la cui omertà rende in molti
casi inutile la funzione alla quale è preposto. Altro inconveniente è
rappresentato dalla impunità dello staff dirigenziale, per i cui componenti
sono tacitamente ammessi ritardi, comportamenti poco rispettosi dell’etica
professionale e, ahimè, la non presenza in aula durante le lezioni;
quest’ultima infrazione è spesso commessa approfittando di eventuali
collaboratori in compresenza, o semplicemente lasciando le classi incustodite.
Questa “libertà di non insegnamento” e tutti i su citati
comportamenti pesano come un macigno sulle spalle della maggioranza silenziosa
degli insegnanti validi, ormai tristemente avvezzi alla presenza di un “cerchio
magico” negato da chi ne fa parte con tutti i possibili artifici retorici.
Questi insegnanti sanno infatti che denunciare determinate prassi comporta
isolamento e stress. Non è un caso che negli ultimi anni si sia verificato un
consistente aumento del numero di contenziosi nella scuola, [12] in particolare dovuti a mobbing orizzontale
e verticale.
Dunque non sempre è il puro spirito di servizio a indurre
molti insegnanti ad assumere incarichi mal pagati che di fatto costituiscono un
secondo lavoro. Non è infrequente la spinta di altre motivazioni: l’esercizio
di una certa influenza verso il DS e i colleghi; le agevolazioni
nell’accaparrarsi parte del FIS con un progettificio permanente; la possibilità
di far valere l’esperienza acquisita per futuri ruoli dirigenziali (come già
accaduto); il prestigio agli occhi di studenti, genitori e, in generale,
del territorio; l’esonero parziale o totale dall’insegnamento che, non
dimentichiamolo, è una attività faticosissima soprattutto nelle
scuole inserite in contesti socio-economici svantaggiati.
A dimostrazione dell’appetibilità di tali vantaggi, è
noto che la funzione di collaboratore del DS è generalmente molto ambita da una
parte dei docenti; non molti, ma certamente in numero superiore a coloro che la
esercitano. Non stupisce dunque l’insofferenza verso incarichi di
collaborazione che si protraggono talvolta ben oltre il decennio, magari con
esonero totale dalle attività didattiche; incarichi che potrebbero terminare da
un anno all’altro, ad esempio per l’arrivo di un nuovo DS, e che
comporterebbero il ritorno nelle aule di docenti che hanno sospeso
l’insegnamento per molti anni: cosa rimarrà della loro preparazione
disciplinare?
Una
valorizzazione delle funzioni di collaborazione del DS è possibile senza
invocare l’istituzione di figure contrattuali ulteriormente divisive in una
comunità professionale già frammentata, che continua a esercitare un lavoro
difficile con stipendi da manovale.
I collaboratori del DS dovrebbero essere individuati
all’interno di una ristretta cerchia di insegnanti distinti per meriti
culturali, attività pubblicistica (con particolare riguardo a lavori di natura
didattica e di ricerca), esperienze professionali di un certo calibro, anni di
permanenza nell’istituto.
Questi potranno candidarsi per essere eletti dal collegio
dei docenti, ponendo un limite al numero delle candidature per favorire la
rotazione dei collaboratori.
È certamente necessario un incremento e un utilizzo più
trasparente e razionale del FIS, così come una estensione dell’esonero
dall’insegnamento. Tuttavia queste misure da sole non possono garantire qualità
senza la presenza di professionisti di alto profilo.
Dimensione
culturale, eleggibilità e rotazione delle cariche potrebbero
senza dubbio scoraggiare la deriva verticistica delle nostre scuole i cui
collegi dei docenti, nati come luogo di confronto democratico, somigliano
sempre più a organi di ratifica di decisioni prese altrove dal capo e dai suoi
fedelissimi.
L’immagine di copertina è tratta da:
Riferimenti
[1] Si legga l’articolo “Procedure concorsuali per i
dirigenti scolastici”, pubblicato sul sito dell’Associazione Docenti e
Dirigenti Scolastici Italiani all’indirizzo:
http://adiscuola.it/Pubblicazioni/Fin2007/Fin07_530_reclutamento.htm
[2] “ANCODIS: da vicepreside a “Collaboratore
principale”, una evoluzione semantica che non corrisponde ad una innovazione
giuridica”, pubblicato su Orizzonte Scuola il 04/08/2018:
[3] “ANCODIS: il futuro dei Collaboratori dei DS e delle
figure di sistema verso l’orizzonte sindacale”, pubblicato su La
Tecnica della Scuola in data 08/06/2020:
[4] “Fondo di Istituto: illegittimi i progetti
intramoenia che gonfiano il FIS”, articolo di Lucio Ficara pubblicato su La
Tecnica della Scuola in data 08/02/2020:
[5] “Ancodis: convegno nazionale sul middle management
nella scuola italiana”, articolo di Lucio Ficara pubblicato su La
Tecnica della Scuola il 14/05/2019:
[6] “Associazione Nazionale Presidi: fine della scuola
della Costituzione e pieni poteri al capo”, articolo di Giovanni Carosotti e
Rossella Latempa pubblicato su ROARS il 28/05/2020:
[7] L’articolo, comparso sul sito della FLC-CGIL il 6
luglio 2019
(http://www.flcgil.it/rassegna-stampa/nazionale/governo-della-scuola-e-middle-management-tra-dubbi-e-immagini-di-futuro.flc),
“Governo della scuola e Middle Management: tra dubbi e immagini di futuro”, a
firma di Antonio Valentino, è stato originariamente pubblicato su Scuola
Oggi il 05/07/2019:
Governo della scuola e Middle Management. Tra dubbi e
immagini di futuro
[8] La proposta è reperibile all’indirizzo:
http://www.senato.it/application/xmanager/projects/leg18/attachments/documento_evento_procedura_commissione/files/000/117/701/Ancodis.pdf
[9] “ANCoDiS: la scuola deve ripartire e ciascuno deve
poter dire di aver contribuito a vincere la grande sfida”, articolo pubblicato
su Orizzonte Scuola il 31/08/2020:
[10] “Il mobbing nelle istituzioni scolastiche”, di
Daniela Giannini. Articolo pubblicato su Diritto dei Lavori, Anno
VI, n. 2, giugno 2012, reperibile all’indirizzo:
http://www.csddl.it/csddl/attachments/764_Il%20mobbing%20nelle%20istituzioni%20scolastiche.pdf
[11] “Collaboratori dirigente scolastico, quanti se ne
possono individuare? Come e quanti retribuirne?” Articolo pubblicato su Orizzonte
Scuola il 18/02/2018:
[12] “Aumentano contenziosi disciplinari docenti, costi
per difendersi elevati: ci vuole una Camera della Conciliazione”, articolo di
Marco Barone pubblicato su Orizzonte Scuola in data
11/11/2019:
Il futuro non è la normalità nella
scuola - Giacomo
Cossu
Negli scorsi mesi a Santiago del Cile spiccava un
grattacielo la scritta “non torneremo alla normalità, perché la normalità era
il problema”. Nel pieno dell’emergenza sanitaria, di fronte alle enormi
difficoltà nel riaprire le scuole e le università in condizioni di sicurezza,
questo slogan dovrebbe essere la bussola di ogni riflessione riguardo
l’istruzione. La garanzia del diritto allo studio e la tutela della funzione
democratica dell’istruzione possono realizzarsi solamente se si guarda alle
difficoltà di questi giorni con attenzione a quali sono le radici strutturali
di questa crisi. Ci sono tre aspetti particolarmente significativi da
analizzare, che permettono di inquadrare gli ostacoli ad una ripartenza in
sicurezza all’interno di una seria e concreta visione organica per il rilancio
dell’istruzione: le possibilità di accesso alla formazione, la condizione delle
lavoratrici e dei lavoratori della conoscenza, lo stato dell’edilizia
scolastica e universitaria. Questi focus permettono
di individuare i principali danni causati dal taglio dei finanziamenti alla
scuola e all’università – rispettivamente di 8 miliardi e 1,5 miliardi –
operati da Tremonti e Gelmini dieci fa e mai più compensati dai Governi
successivi.
L’accesso all’istruzione nel nostro Paese è solo
formalmente garantito, ma non ci sono adeguati strumenti per garantire a tutte
e tutti gli studenti le stesse possibilità e la libertà di studiare. Secondo
il Rapporto BES 2019 dell’ISTAT, l’uscita precoce
dagli studi riguarda il 14,5% dei giovani, un dato che arriva ad oltre il
doppio nelle regioni meridionali. Nel corso degli ultimi mesi questa drammatica
esclusione di centinaia di migliaia di giovani dalla formazione è esplosa a
causa dell’introduzione emergenziale della didattica a distanza. Infatti il
sistema scolastico ed universitario, già privo di adeguati strumenti per
garantire a tutti la partecipazione alla formazione, ha ulteriormente escluso
ampie fasce di studenti privi dei dispositivi tecnologici o di un contesto
familiare che potesse supportare la partecipazione alle lezioni in condizioni
straordinarie. Secondo l’indagine Italia sotto sforzo. Diario
della transizione 2020/1 del CENSIS, solo l’11% dei dirigenti
scolastici intervistati ritiene che tutti gli studenti delle loro scuole
abbiano partecipato alle lezioni online, mentre risulta che nel 40% delle scuole
oltre il 5% degli studenti non abbia avuto accesso alla didattica a distanza –
anche in questo caso al Meridione si riscontrano dati nettamente peggiori. Lo
stesso ministero dell’Istruzione a luglio 2019 pubblicava un report in cui si
sostiene che la dispersione scolastica sia direttamente connessa ai livelli di
povertà e ai livelli di istruzione della famiglia di provenienza. Gli
interventi dello Stato per risanare questa ingiustizia e mancata applicazione
della Costituzione si sono mostrati fallimentari in tempi ordinari e ancor più
nella pandemia. Occorre approvare una legge nazionale per il diritto allo
studio che garantisca l’abolizione dei costi diretti legati all’istruzione –
dal contributo volontario alle tasse universitarie – così come i costi indiretti,
fornendo i materiali didattici tradizionali e digitali in comodato d’uso a
tutti gli studenti che ne abbiano necessità, oltre che rendendo gratuiti i
servizi indispensabili alla frequenza delle lezioni e allo studio,
dall’abbonamento per il trasporto pubblico alla connessione personale ad
internet. Insieme all’abolizione di questi ostacoli economici, devono essere
risolte le disparità territoriali nell’offerta didattica, in particolare
garantendo l’apertura delle scuole di tutto il Paese per tutta la giornata,
finanziando il tempo pieno e progetti didattici e autogestiti da parte degli
studenti, in modo da coinvolgere gli studenti che provengono dalle condizioni
socio-culturali che più spingono ad abbandonare l’istruzione.
La necessità di potenziare l’offerta didattica e la
qualità della formazione evidenzia un altro enorme fallimento dello Stato in
materia di istruzione. Il nostro Paese ha infatti un’età media del corpo
docente tra le più alte nell’area OCSE, accanto ad un rapporto tra docenti e studenti
molto elevato. I tagli alla spesa in istruzione hanno comportato una forte
riduzione del personale docente e amministrativo, causando fenomeni dannosi per
la didattica – e per la sicurezza – come le “classi pollaio” e privando le
scuole del personale necessario per ampliare l’offerta didattica e innovare i
metodi di insegnamento. Nell’università il calo del numero dei docenti e il
dimezzamento del numero dei ricercatori a tempo indeterminato causati dalla
riforma Gelmini hanno comportato un eguale problema di carenza di personale. La
pandemia ha spinto il Governo ad un intervento emergenziale, con la
programmazione di un nuovo concorso straordinario da 70 mila cattedre e con
l’assunzione di 50 mila precari per colmare una parte della carenza di organico
nella scuola, dimostrando ancora una volta quanto la classe dirigente del
nostro Paese non abbia la minima capacità di affrontare i problemi strutturali
dell’istruzione. Una seria politica dell’istruzione dovrebbe prevedere la
stabilizzazione di tutte le migliaia di lavoratori che hanno 36 mesi di
servizio alle spalle – come peraltro prevede il diritto dell’UE – insieme ad
una programmazione delle assunzioni calibrata sul fabbisogno delle scuole,
uscendo dal metodo dei concorsi straordinari e dalla trappola della precarietà
in cui sono costretti tantissimi lavoratori della conoscenza.
Il rispetto dei diritti dei lavoratori della conoscenza e
maggiori assunzioni permetterebbero di appianare grandi disuguaglianze presenti
nel sistema di istruzione del Paese, ma non sarebbero sufficienti senza un
piano radicale per l’edilizia scolastica e universitaria. Metà degli edifici
scolastici è stato costruito prima del 1970 e presentano una struttura degli
edifici assolutamente inadeguata a metodi didattici innovativi e alle esigenze
di studenti e docenti. Se guardiamo all’edilizia universitaria, notiamo che
l’espansione del numero programmato e del numero chiuso – che oggi con la
pandemia dimostra la sua pericolosità data la carenza di medici – è stata in
gran parte la risposta delle autorità accademiche e del governo nazionale alla
carenza di strutture per la didattica, nonostante la falsa retorica
inaccettabile sull’esclusione dagli studi per motivi meritocratici. Oggi
paghiamo i mancati investimenti nell’edilizia scolastica e universitaria, non
avendo a disposizione spazi adeguati per garantire il distanziamento sociale e
la tutela della salute di studenti e lavoratori della conoscenza. La pandemia
avrebbe dovuto indurre all’elaborazione di un piano urgente di ristrutturazione
degli edifici scolastici e universitari, una politica che avrebbe effetti
positivi sull’occupazione e sulla riconversione ecologica del patrimonio
pubblico, come richiesto da sindacati e associazioni, ma l’attenzione del
Governo è stata rivolta alla deregolamentazione degli appalti con il DL
Semplificazioni, anziché alla pianificazione di un intervento pubblico per
rispondere alle reali necessità della popolazione.
Questi tre fondamentali aspetti della crisi
dell’istruzione avrebbero dovuto indurre il Governo ad evitare slogan e
approssimazione, riconoscendo immediatamente che il sistema scolastico e
universitario non hanno gli strumenti per rispondere alle necessarie tutele
della salute pubblica. Da questa consapevolezza si deve partire per elaborare
un programma di governo serio e concreto, per garantire innanzitutto l’accesso
alla formazione a distanza, mentre si predispone la stabilizzazione del
personale necessario e un piano di edilizia scolastica e universitaria urgente.
Le risorse necessarie sarebbero ingenti, come denunciano da anni studenti e
lavoratori della conoscenza. Le risorse stanziate dal Governo sono irrisorie
rispetto alle necessità e nettamente inferiori alle risorse destinate agli
sgravi fiscali a pioggia per le imprese come il taglio dell’IRAP. Approfittando
degli stanziamenti del Next Generation EU, lo Stato dovrebbe investire oltre 20
miliardi in istruzione, portando la quota di PIL destinato alla formazione al
5%, in linea con la media dell’area OCSE, in cui siamo stabilmente agli ultimi
posti per investimenti in istruzione con solamente il 3,6% del PIL. Si tratta
di scelte coraggiose ma indispensabili, per non tornare ad una normalità
dominata da ingiustizia e contraddizioni, bensì per costruire un futuro
migliore per tutto il Paese.
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