martedì 15 settembre 2020

L'estate sta finendo e riaprono le scuole, tutti i giorni, speriamo

 

A scuola il gioco del coronavirus - Giuseppe Caliceti

Lavati le mani con il gel. Entra in aula con la mascherina. Non grattarti il naso. Siediti al tuo banco. Stai immobile. Non fare pernacchie. Non giocare con la mascherina. Se te la togli, infilala in una busta sigillata. Ripeti: Andrà tutto bene. Non muovere il tuo banco. Resta a un metro di distanza dal tuo compagno. Meglio che il tuo banco sia fissato al pavimento. Idem per la sedia su cui sei seduto. Avvicinati a qualcuno solo con la mascherina, ma solo se lui non si muove. Tutto il tuo materiale didattico lo devi usare solo tu. Qualsiasi cosa succeda a scuola, ripeti: Comunque sarà un successo. Non prestare nulla. Non piangere. I fazzoletti di carta con reflussi organici buttali negli apposito contenitori. Controlla che ogni verifica (in fogli) una volta consegnata, sia raccolta con i guanti dal tuo docente, che la metterà in quarantena per 48h prima di correggerla e riconsegnartela sanificata. Tutte le superfici devono essere continuamente sanificate. Controlla che l’impianto di riscaldamento sia continuamente controllato. Immaginati di giocare con una trottola. Ok bambine e bambine, avete fatto tutto quello che vi ho chiesto? Ecco il resto.

Controlla che il tuo docente abbia un suo sacchetto per i gessetti personali per la lavagna. Chiudi gli occhi: sogna. Apri le finestre ogni ora, anche in caso di pioggia. Non starnutire. Fai una giravolta. Fanne un’altra. Fai un salto. Ricreazione seduti in classe. O in piccoli gruppi a distanza di un metro. Non fare l’urlo di Tarzan. Ingurgita velocemente lo snack e poi rimettiti in fretta la mascherina. Ripeti: Gesù, aiutaci. Nessuna attività di laboratorio. Nessun lavoro a coppie o a gruppi. Lezione solo frontale. Anche per ragazzi con BES e 104. Controlla che il tuo docente di sostegno sia ad almeno un metro da te. Non fare il verso della pecora o del maiale. Non fare nessun verso. E’ istituita la saletta Covid, dove, in caso di sintomi sospetti, sarai portato in attesa dei tuoi genitori. Starnutisci solo nel gomito o nel fazzoletto. Non chiedere alle maestre di aiutarti a soffiare il naso. Non abbracciarle. Per le attività motorie, svolte senza mascherina, le distanze dovranno essere di due metri. Nessuno sport di squadra. Esegui gli esercizi a corpo libero fermo sul posto. Controlla che lapalestra sia sanificata dal personale ATA ad ogni cambio d’ora. Se adoperati, controlla siano sanificati anche gli attrezzi: palle o altro. Ripeti ad alta voce: Abbiamofatto tutto il possibile. Ripeti ad alta voce: il rischio zero non esiste. Segui cartelli, segnaletiche. Dì ad alta voce:tutti dobbiamo fare sacrifici, anche noi bambini.Fingi di metterti un anello al dito. I bagni sono sanificati ad ogni passaggio. Non cantare. Non usare il pc della scuola. Non ridere. Non cantare Happy Birthday. All’uscita della scuola rassicura la tua famiglia. Fatti una coccola da solo. Fai un salto. Fanne un altro. Non dare baci a nessuno. Ripeti mentalmente: Sono il miglior bambino robot che esista, ce la posso fare. Cerca il pulsante dietro al tuo orecchio destro: spegniti. Domani è un altro giorno.

da qui

 

 

Duecento di questi giorni - Priorità alla scuola

 

Oggi primo giorno di scuola. Per molti ma non per tutti, s’intende. Al di là delle cifre del ministero, c’è la realtà non solo delle regioni che sfilacceranno il rito almeno fino al 24 settembre, ma anche delle città e delle scuole che – pur essendo nel mazzetto del “regioni del 14” – oggi non hanno ancora aperto.

La nostra solidarietà e gratitudine a chi ha organizzato presidi davanti a scuole e sedi regionali: se oggi, tra quanto abbiamo visto con i nostri occhi di genitori e le notizie che ci sono arrivate, prevale un sentimento festoso, quel che si addice alla ricorrenza, lo dobbiamo a loro. Persino l’orario provvisorio è accolto come un ritorno alla normalità: del resto quale anno scolastico che abbiamo conosciuto da student* o da genitori non è cominciato così? Ai cancelli saluti e sorrisi. Qualche battuta rivolta dai genitori a insegnanti e ATA “adesso vi tocca di nuovo anche a voi, eh?!”, ma con una certa bonarietà. Insegnanti e ATA delle scuole dei più piccoli possono replicare che almeno per quest’anno i genitori di figlio unico potevano astenersi dal presentarsi in due all’ingresso e all’uscita: ci sono forme di disobbedienza più creative. In alcune scuole dei bei manifesti segnalano che si apre “nonostante” il ministero, grazie alla mobilitazione di una comunità educante solidale e collaborativa.

Dove è andato tutto bene ci si è salutati all’uscita pensando “speriamo in duecento di questi giorni”… magari giusto con l’orario pieno, con i lavori di “edilizia leggera” finiti, con insegnati e ATA entrati in servizio nel numero necessario per garantire continuità, le migliaia e migliaia di precari-e ripassati dalla condizione di disoccupati-e a quella di persone che lavorano. Ai protocolli sanitari farraginosi e alla minaccia della scuola a singhiozzo causa quarantene ci penseremo in un giorno più brutto, quando arriveranno le prime piogge e i primi nasi che colano, oggi è “il primo giorno” e tanto basta.

Purtroppo fin troppi hanno ripreso la via di casa con molta più amarezza: quelli che da casa proprio non sono usciti perché il loro primo giorno li ha riportati ai tempi del lockdown, in pigiama davanti al pc; quelli che un pezzo della classe vedrà le lezioni in video, sorvegliati da un bidello in un’aula diversa da quella dove ci sono gli altri compagni e il docente; quelli che un pezzo della classe si accomoda in corridoio e l’insegnante fa lezione a cavallo della soglia; quelli che la rete non regge, i nuovi tablet non dialogano con le nuove lim, il cavo della lim non è compatibile con i portatili; quelli che sono intervenuti i vigili minacciando di chiudere la scuola se continuava l’assembramento; quelli che il sabato sera gli dicono “i bambini dovranno tenere la mascherina al banco”, ma poi la domenica rettificano rassicurando “tutto a posto, gli spazi ci sono” e poi il lunedì vanno a prendere i figli che hanno tenuto sempre la mascherina anche seduti al banco; quelli che erano a fare un presidio sotto un ufficio scolastico regionale; quelli che siccome sei l’unico della classe a fare alternativa, per te non c’è alternativa perché non si attiva, se vuoi però puoi uscire prima.

E la famiglia che non può prenderlo all’uscita anticipata, per non creare ulteriori turbamenti in segreteria già oberata di lavoro, si rassegna e accetta che il figlio frequenti l’ora di religione: “La mia fede è troppo scossa ormai / Ma prego e penso fra di me / Proviamo anche con dio, non si sa mai”.

La violazione della legge e della Costituzione è ancora più grave per quel bambino di nove anni rispedito a casa perché manca la maestra di sostegno. È accaduto in una scuola di Roma, l’istituto Pio La Torre, in via di Torrevecchia. Ci teniamo a dirlo: questo riferimento è a un fatto realmente accaduto, e lo stesso vale per tutte le circostanze evocate sopra.

Con la nostra mobilitazione, proviamo a fare che tutte queste bambine-i ragazze-i, genitori, lavoratori e lavoratrici non abbiano altri duecento di queste giornate amare. Anche per questo ci vediamo il 26 settembre a Roma.

da qui

 

 

A scuola di rabbia. Sulla riapertura scolastica, la colpevolizzazione dei giovani e molto altro

 

[Ospitiamo una riflessione del nostro compagno Plv – insegnante in quel di Bologna e membro della Rete Bessa – sulla débacle organizzativa e comunicativa a cui stiamo assistendo alla vigilia della riapertura/richiusura della scuola pubblica. Questo articolo è la prosecuzione ideale di quello che la Rete Bessa ha scritto per Giap il 20 aprile scorso. Tra l’altro quell’articolo aveva un postilla scritta da noi Wu Ming che oggi, alla luce dell’immobilismo del governo nei mesi appena trascorsi, suona terribilmente premonitrice. WM]

di Plv

 

17 agosto 2020. Estratto da una conversazione realmente avvenuta.

– Oh, poi mi spieghi la faccenda di come si torna a scuola?
– Oggi i giornali titolavano che si ritornerà a scuola in sicurezza.
– Ah, quindi?
– Nessuno aveva mai messo in dubbio che si ritornava a scuola in sicurezza, non c’era motivo per ribadirlo. Se lo fanno è perché stanno insinuando il dubbio.

Il lunedì dopo Ferragosto il Governo ha gradualmente esplicitato il suo piano per la scuola. Repubblica ha dedicato la prima pagina alla riapertura della scuola per 6 giorni di fila. Un’attenzione inesistente quando, poco più di un mese prima, le proteste per chiedere una riapertura della scuola in sicurezza erano nelle piazze e non sui social. Ma da Ferragosto in poi, ciò che fino a quel momento non era mai stato messo in dubbio è diventato prima discutibile, poi problematico, infine quasi impossibile.

Le premesse per quel lunedì mattina c’erano già da tempo: da marzo il Governo non aveva fatto le uniche cose utili per tentare una riapertura della scuola con il minimo rischio possibile. Delle misure strutturali opportune nessuno aveva mai parlato.

Non che non si fosse fatto niente. Si è fatto eccome, si è creata un’emergenza che si poteva evitare o quantomeno inibire. Perché non ci sono scuse: di come riaprire la scuola in sicurezza si poteva parlare tranquillamente a marzo, poi ad aprile, poi a maggio, poi a giugno a scuole chiuse, e pure a luglio. Arrivare al 17 agosto per aprire il dibattito a suon di “mascherina sì/mascherina no” è criminale.

Il governo ha, di fatto, creato un’emergenza nell’emergenza e al contempo speso soldi e tempo per costruire trappole discorsive. Tocca fare attenzione, perché in quelle trappole ci caschiamo in molt@ e le conseguenze potrebbero essere disastrose.

1. Cosa si poteva fare

Fin da aprile, il movimento di Priorità Alla Scuola ha affermato che permettere un ritorno a scuola voleva dire adottare misure strutturali. Occorre riprendere queste idee, non solo per prevenire accuse di disfattismo, ma per sottolineare che a livello pubblico la discussione su come riaprire è iniziata ben prima del 17 Agosto. Le proposte sono state urlate nelle piazze di maggio, di giugno, di luglio. Sono state inviate a Comuni e Regioni. Sono state espresse sulla stampa. Dal basso il lavoro è stato fatto. È dall’alto che non si è mai affrontato sistematicamente il problema, per questo Priorità alla Scuola ha deciso di tornare in piazza a Roma il 26 settembre.

Per farlo era sufficiente partire da una semplice domanda: un virus che si trasmette per via aerobica circola di più in ambienti dove ci sono 26 persone o dove ce ne sono 13? Purtroppo non è una domanda retorica.

Alla richiesta di aumentare in modo significativo l’organico, per permettere la formazione di classi meno numerose, il Governo ha risposto con conferenze stampa altisonanti. Del miliardo promesso si è saputo poco o niente fino a quando non è stata annunciata l’immissione del «personale-Covid» (è la stessa ministra Lucia Azzolina a usare questa espressione). Ad oggi nessuno sa bene come e con che logica questo personale sarà assunto, visto che esistono delle graduatorie cui attingere. È molto più chiaro che su questa figura si rovescerà la responsabilità di un ipotetico lockdown, dal momento che nell’ordinanza si legge che «in caso di sospensione delle attività didattiche in presenza, i contratti di lavoro attivati si intendono risolti per giusta causa, senza diritto ad alcun indennizzo». A queste condizioni, ve lo immaginate un lavoratore precario che ammette di avere la febbre? Qual è la causa dell’emergenza o chi ne facilita la propagazione?

Inoltre alle richieste di molti sindacati di assumere, in modo definitivo, chi insegna da più di tre anni, il Governo ha deciso di rispondere bandendo un concorso straordinario, che prima doveva essere a Luglio, poi fine a fine Ottobre, pronto a saltare se la curva epidemiologica non sarà adeguata o se la ministra Azzolina salta, come ormai sembra inevitabile. Nel frattempo, il concorso ordinario (quello cui possono partecipare anche coloro che hanno meno di 3 anni di insegnamento), è rinviato a data da destinarsi.

 

Sempre rispetto all’organico merita una menzione particolare la figura delle educatrici e degli educatori. Un’interessante testimonianza mostra come durante il «lockdown» le cooperative, con l’appoggio degli enti locali, abbiano sperimentato aberrazioni contrattuali. Tecnicamente queste figure non sono integrate nel sistema nazionale della scuola, ma sono fondamentali e spesso diventano punti di riferimento, quindi andrebbero integrate.

Chiaramente questa iniezione di personale che le piazze richiedevano doveva poter lavorare in nuove aule. Per esempio: l’Italia è piena di spazi vuoti, alcuni perfettamente utilizzabili, bastano pochi lavori d’adeguamento. Alcuni ragionavano di questo già a maggio. Grazie alle assemblee online di Non Una Di Meno dedicate al tema della scuola ho scoperto che a Napoli già da aprile si ragionava sulle numerose caserme militari dismesse presenti nelle città: Ministero della Difesa, Ministero dell’Economia, Cassa Depositi e Prestiti, Demanio, nessuno di questi soggetti si è sognato di proporre una messa a disposizione di questi spazi per la scuola.

I mesi sono passati e la questione sugli spazi si è risolta in una lentissima cavillosità burocratica i cui risultati sarebbero stati comunicati dalle scuole alla seconda metà di luglio, sulla base di un software per il calcolo dei metri quadrati degli spazi a disposizione delle singole scuole (ma una mappa catastale?) per capire chi effettivamente ne avesse bisogno e chi no. Il problema è che tutti avevano bisogno di spazi, perché tutti hanno classi sovraffollate: è così da decenni.

Si è deciso di mettere delle toppe – una finestra qua, un buco là, uno sgabuzzino rimesso a nuovo… – ma nulla a livello strutturale e quindi addio distanze di sicurezza, tanto che persino il Comitato Tecnico-Scientifico ha dovuto affermare che in caso di impossibilità di mantenere il metro di distanza era possibile ammettere un ritorno a scuola con l’uso della mascherina. Ma se è così, non si poteva riaprire in primavera? Quanto tempo è stato buttato?

Il problema però è anche la circolazione del virus in sé. Non ho le competenze per disquisire sul livello di contagiosità di adolescenti, infanti o adulti, ma mi sembra molto chiaro che su una cosa ci può essere ampia condivisione: è necessario che la scuola sia di per sé un presidio sanitario per il monitoraggio dei contagi (già il 2 giugno lo si suggeriva qui). Sui protocolli da attuare si poteva discutere, c’era tempo.

Dopo 6 mesi dall’inizio del lockdown, un papocchio di dichiarazioni sporadiche, bozze e documenti prodotti da diversi organi non ha partorito uno scenario plausibile, con l‘effetto di seminare il panico. A partire da Ferragosto in diverse chat sono iniziate a circolare voci che nel caso in cui un* bambin* avesse presentato i sintomi i protocolli avrebbero impedito il contatto coi genitori.

Di fronte a questa situazione i dirigenti scolastici, su cui può ricadere la responsabilità per la mancata gestione di un focolaio, si chiamano fuori; i docenti sono accusati di non collaborare perché non vogliono sottoporsi ai test sierologici, quando gli stessi documenti emanati dalle fonti ufficiali li ritengono inutili per la diagnosi e per il controllo dei focolai (vedi le «Istruzioni operative per la gestione di casi e focolai …», pagina 8) e diversi genitori affermano pubblicamente la loro volontà di tenere i figli a casa, magari sostenendo con orgoglio l’educazione parentale. Senza parlare di quelli, tendenzialmente di basso censo, magari stranieri, che senza dire nulla a nessuno hanno già deciso come muoversi: figli e figlie staranno a casa, punto, così potranno essere mandati a lavorare. Ed è così che la scuola si cristallizza ancora di più come il primo luogo in cui l’individuo conosce le ingiustizie sociali. Ve lo ricordate Conte che diceva: «Avremo una scuola più inclusiva»?

Non è finita: se è chiaro che non avremo un’infermeria in ogni scuola è altrettanto chiaro che ogni medico referente avrà più di un istituto da monitorare. In un articolo pubblicato su Repubblica il 23 agosto si parla di un rapporto 1 a 23!

Non c’è bisogno di entrare in dettagli tecnici per affermare una cosa di una banalità sconvolgente: servono infermerie scolastiche, serve personale medico preparato, servono equipaggiamenti, servono i test. Ad oggi non c’è nulla di tutto questo: se uno studente o una studentessa ha i sintomi, al momento attuale, non c’è un medico che può agire prontamente, non c’è il materiale per la prevenzione del contagio, non ci sono i test adeguati per tutte le persone con cui è entrat* a contatto a scuola. Quindi, la classe e gli insegnanti devono stare tutt* in quarantena per 14 giorni. Senza alcun test. Una follia.

Tutt* abbiamo litigato ferocemente sul tema della prevenzione sanitaria del Covid, anche con persone con una sensibilità vicina alla nostra. Possiamo però concordare sul fatto che c’è un livello minimo ragionevole da cui è necessario partire e che di questo livello base il Governo se ne sta ampiamente fottendo?

Ripeto, a scanso di equivoci: nessuno dice che fosse facile ragionare su questi temi, ma perché diamine non è stato fatto sei mesi fa per arrivare pronti alla riapertura di settembre?

2. Capre espiatorie, prima parte: «I giovani»

Prima o poi sarebbe arrivata la fase delle “capre espiatorie”. Era scritto, o meglio, disegnato. Era così ovvio che dovevamo essere preparati, e invece i dibattiti sulla questione dei giovani hanno un che di raccapricciante.

Tralasciamo il fatto che non è chiarissimo cosa si intenda per «giovani», sta di fatto che di loro non si è parlato per mesi tranne che nelle ultime settimane. La loro colpa è quella di divertirsi.

Un anno fa, quei e quelle giovani erano acclamati da tutta la politica italiana perché in loro risiedeva la speranza di salvezza dall’apocalisse climatica.

Pochi mesi dopo tutto e cambiato: delle loro opinioni in merito al riscaldamento climatico abbiamo deciso semplicemente di farne a meno, quando una riflessione sul fatto che questa pandemia sia causata dall’estrattivismo capitalista sarebbe quanto mai necessaria.

 

A partire da febbraio/marzo i giovani sono stati segregati in casa, privati della possibilità di camminare all’aria aperta, infantilizzati in quanto ritenuti incapaci di prendere precauzioni. Impossibilitati a crescere, avere una socialità, conoscere emozioni, sperimentare se stessi. Tra quelli che ho conosciuto in questi anni, alcuni il 5 giugno avevano ancora il divieto di uscire per paura del contagio: chissà come deve essere trascorrere tre mesi segregati in casa con quei genitori che ti costringono tra quattro mura anche quando il cosiddetto «lockdown» è finito da un mese. Come si collocano queste persone nel computo delle vittime del covid? E quell* che già prima erano quotidianamente umiliat* dai genitori? E quell* che hanno dovuto nascondere, ancora di più, la propria identità sessuale? E quell* che sono stati mandati a lavorare, perché la scuola era chiusa?

Possiamo avere le più svariate opinioni sul Covid, ma la tortura dei e delle minori come metodo di governo dovrebbe incontrare un livello di critica decisamente maggiore.

I giovani vanno in discoteca, non prendono precauzioni, si infettano e il Paese soffre. Poco importa che a non seguire le precauzioni siano anche adulti e che alcuni luoghi siano stati mal gestiti per colpa di settantenni milionari: sono i giovani che hanno peccato. Alcuni giornali, nel conteggio quotidiano degli infettati riportano addirittura il numero di coloro che sono stati contagiati in discoteca.

La questione va scomposta perché in nome dell’austerità sociale si rischia di fare discorsi tanto miopi quanto reazionari.

1. Il divertimento e il turismo sono anch’essi settori produttivi. Trattarli solo come vizi ci porta fuori strada: l’Italia vive anche di questo. Non vuoi che entrino in funzione? Devi attivare gli ammortizzatori che consentano di reggere la situazione. Questo non è stato fatto.

2. Il Governo ha deciso che le discoteche potevano riaprire. Dopo Ferragosto lo stesso Governo ha pensato che era abbastanza, bisognava chiudere. Il timing è chiarissimo: non si poteva pensarci prima?

3. Non facciamoci ingannare: alcuni Comuni hanno preso posizione critica contro queste politiche, altri no, altri hanno fatto entrambe le cose, esattamente come ha fatto il Governo. A Bologna, il Sindaco uscente ha tuonato contro la riapertura delle discoteche, quando gli eventi del Robot Festival organizzati negli spazi di Dumbo hanno avuto tra i principali sponsor il vice-Sindaco Matteo Lepore.

 

4. i primi focolai post-lockdown non sono stati nelle discoteche. Sono stati alla Bartolini e alla TNT, facilitati dal fatto che la logistica era stata follemente ritenuta a «basso rischio». Perché nessuno ha pensato che gli stabilimenti potessero chiudere? Uno dei focolai più pesanti è quello dell’Aia di Treviso. Un lavoratore su tre è contagiato. Perché di questo non si parla?

Non si tratta – lo so, sono pedante – di minimizzare il problema di un contagio che aumenta nel momento in cui si aprono determinate forme di socialità. Ma di capire che nell’attacco ai giovani e alle discoteche è implicito il fatto che la socialità sia un lusso che non possiamo permetterci. E quindi, se non dobbiamo fare qualche attività seria veramente fondamentale, ossia lavorare, si può stare tutt* a casa.

Questo discorso avrà ripercussioni pesanti sulla scuola e se è ipotizzabile che forse – e sottolineo forse – chi ha meno di 10 anni si salverà dalla DAD, perché ormai è indiscusso che per bambini e bambine è impossibile seguirla, gli adolescenti potrebbero essere condannati a stare in casa, perché la loro socialità è percepita come sacrificabile. Tutti i documenti emanati in merito alla ripresa della scuola vanno in questa direzione.

L’idea per cui la socialità debba essere limitata perché rischiosa per definizione, mentre nelle attività lavorative definite “essenziali” si possa fare a meno delle reali garanzie, è la prosecuzione di quello che l’1 maggio i Wu Ming chiamavano «la grande sostituzione».

La scuola e la socialità che lì si vive devono essere classificate come “essenziali”.

3. Capre espiatorie, seconda parte: vari, eventuali e ministre

L’ultimo capro espiatorio in ordine cronologico è il corpo docente: scomparso per mesi dal discorso pubblico, è riapparso solo per essere accusato di non voler fare i test sierologici.

Su questo si è già scritto, ma manca un pezzo: non è del tutto chiaro cosa succede contrattualmente se qualcuno risulta positivo al test (quindi forse è entrato in contatto col virus): va in malattia? Va in aspettativa? Lavora da casa? In teoria no, ma nelle Istruzioni operative sopra citate si legge: «Dovrebbe essere identificato il meccanismo con il quale gli insegnanti posti in quarantena possano continuare a svolgere regolarmente la didattica a distanza, compatibilmente con il loro stato di lavoratori in quarantena». Come si incastra questo aspetto con chi è precario? Se vai in quarantena sei in malattia? I contratti sbocconcellati che spesso abbiamo, coprono o non coprono questa casistica?

Altri attacchi sono arrivati alle “mamme del ceto medio riflessivo“, accusate di lamentarsi perché non vogliono tenersi i figli a casa qualora vi fosse un secondo “lockdown”. Dover spiegare l’idiozia di questo assunto è così sfibrante che MammadiMerda e Cristina Sivieri Tagliabue l’hanno provocatoriamente preso per buono. La risposta la trovate qui.

Più gravi e più sibillini saranno gli attacchi che subiranno quei genitori colpevoli di mandare i figli a scuola con la febbre, magari dando una tachipirina prima di farli uscire di casa. Possiamo anche su questo mantenere la barra a dritta? La maggior parte delle persone che adotterebbe questa modalità lo farebbe per l’esigenza di lavorare e ad oggi non c’è una forma di welfare studiata per evitare questo comportamento. Partite IVA, lavoratori e lavoratrici in nero, persone sfruttate di tutti i tipi spesso non possono permettersi di stare a casa e ad oggi se un* studente è in quarantena non è chiaro se anche il genitore debba stare a casa. Ancora una volta: chi è che sta provocando la diffusione del virus?

Anche i sindacati sono stati criticati, per la loro scarsa collaborazione. Quelli confederali, ovviamente, gli altri sono cattivi per definizione. Ma non è mai stato chiaro a cosa dovessero collaborare dato che sono stati fatti fuori dai tavoli importanti. Anzi, a dir la verità i tavoli decisionali non si sa nemmeno dove stanno. Oggettivamente l’unica accusa che si può muovere ai sindacati, e in particolare alla FLC-CGIL, è la mollezza di ogni loro presa di posizione che sembra scritta tre mesi prima. Col dovuto rispetto: datevi una svegliata.

Infine c’è un punto scivoloso, ma dirimente: bisogna porre il ruolo della ministra Azzolina nella sua giusta collocazione. Un Governo senza idee l’ha chiamata al ministero senza alcun piano sulla scuola, se non quello di non rompere le scatole sui soldi. E lei era la persona perfetta: «al Ministero lavoriamo per creare una task force che aiuti gli istituti a scrivere i progetti e a gestire meglio i finanziamenti», scriveva a gennaio. Il problema erano le singole scuole, o al massimo i fondi europei, mica il Bilancio. Ad oggi l’Italia è tra gli ultimi posti in Europa per il rapporto Fondi all’istruzione / PIL.

 

Un mese dopo, Azzolina è diventata un personaggio chiave nella gestione di una catastrofe mondiale e si è ritrovata in una simile situazione senza portafoglio, isolata rispetto alla questione della responsabilità ma circondata da organi oscuri che pensavano a come riorganizzare la scuola, scavalcandola. Conte l’ha scelta come punching ball: mandata al massacro nella consapevolezza che, essendo questo un paese infame, sarebbe stata attaccata anche in quanto donna, per di più con accento meridionale. Sono attacchi schifosi.

Non si tratta di sollevare la ministra dalle sue responsabilità evidenti, ma di dire che sulla scuola tutta la classe dirigente italiana continua a dimostrare la sua bassezza. La ministra sarà sollevata dall’incarico, forse diventerà dirigente e probabilmente sarà una pessima dirigente, ma i ministri dell’economia, i premier, i plurideputati che di mese in mese scelgono quale finta opposizione enunciare, gli industriali che investono sulla didattica online e quelli che sperano nella manodopera giovanile a costo zero, i finto-intellettuali dai doppi carpiati, i macho-governatori, i baroni che ancora ristagnano nelle università, la classe dirigente italiana che da anni lavora alla distruzione della scuola pubblica, loro si salveranno. Ed è da troppo tempo che va avanti così.

4. Intermezzo semiserio: le parole o le cose?

Prima di tentare di indirizzare in maniera intelligente il sano odio che è lecito esprimere in questa situazione, è d’uopo sciogliere la tensione, ripassando un po’ il gergo con cui negli ultimi mesi siamo stati turlupinati.

Ricordiamoci che non si tratta solo di parole: è tempo buttato e denaro sprecato.

Metro buccale: a tutti suonava come una pratica sessuale, invece era il metro che intercorreva da una bocca all’altra nel software promosso dalla ministra Azzolina. Ci siamo scervellati per spiegare che quello che conta non era il metro buccale, perché in realtà le classi sono insiemi dinamici e quando qualcuno si alza dal tavolo salta tutto e tocca mettere la mascherina. Ne consegue che possiamo dimenticarci dei gruppi di lavoro, dello studio collettivo, con buona pace della didattica innovativa. Inoltre nessuno sa bene cosa preveda il piano del Governo nel caso, certo remoto, in cui una pioggia, magari con un po’ di vento, obblighi a tenere chiuse le finestre.

Banchi monoposto: Rispetto a questo tema ammetto un mio limite e chiedo scusa in anticipo alle persone con cui mi sono confrontato. Capisco che in molte regioni un banco monoposto è una necessità effettiva, ma l’idea per cui il problema di un aumento del rischio di contagio dovuto al sovraffollamento delle classi possa essere risolto con dei banchi più piccoli, a me dà la sensazione che invece di adottare misure strutturali si stia giocando a Tetris.

Didattica integrata, o DDI: la chiamavano DAD, ma utilizzare un acronimo che significa “papà” deve aver ricordato a diversi personaggi che il Concilio di Trento aveva ragione e i lavori di casa, tipo aiutare i figli a parlare con uno schermo nero per il buffering, li deve fare la donna. Non solo la DAD è rimasta, ma nel decreto legislativo del 7 agosto e nelle linee guida si dà per assunto che sarà utilizzata nelle scuole secondarie (qui i testi). Ad oggi non c’è dibattito su questo.

5. La destra pervasiva: riconoscerla ed evitarla

Nel frattempo le destre stanno alla grande. Lasciamo stare le percentuali dei singoli partiti, quelle variano a seconda del momento, ma c’è una destra larga ed estesa che si sta espandendo, al punto da coprire l’intero arco parlamentare. E i suoi effetti stanno per ripercuotersi sulla scuola.

Salvini e compagnia stanno cavalcando un’onda facile. Dopo un lockdown che impediva di stare all’aria aperta, hanno buon gioco nel mostrare la contraddittorietà delle indicazioni e parlare di norme esagerate, magari riempiendosi la bocca con la scuola che deve accogliere e renderci vicini. È un problema chiaro, che si risolve col giusto equilibro, non con la corsa al controllo (che a Salvini peraltro va benissimo), né con l’abolizione della vita sociale (idem). Non è facile, ma quell’equilibrio va quantomeno cercato evitando certi svarioni.

La cosa più facile, almeno per chi frequenta questo blog, è evitare movimenti o pagine che riportano siti noti per le notizie-spazzatura o per tesi rossobrune. PandoraTV e Byoblu i più evidenti. Evitate pure quelli che per dirvi cosa fare in tempo di Covid si rifanno ai sindacati di polizia.

Più difficile, ma necessario, costruire discorsi in cui evitare trappole semplificatorie. Una su tutte: piantiamola di ragionare esclusivamente sulla necessità dei bambini di tornare a scuola. La scuola è un mondo sterminato: ragionare solo sui diritti e le necessità di un unico soggetto conduce inevitabilmente a sottostimare (nel migliore dei casi) o silenziare (nei casi più ipocriti) le esigenze degli altri. Il fatto che ci siano docenti che rischiano se vengono a contatto col virus è vero. Il fatto che il personale per la sanificazione è sottopagato e vessato è altrettanto vero. Che nessuno abbia parlato dei trasporti fino a pochi giorni fa è evidente. È difficile perché non siamo stati allenati a questo (le scuole che abbiamo fatto non ci hanno preparati), ma tocca fare un discorso strutturale, altrimenti è la guerra fra poveri.

Altro discorso peloso: l’innovazione. Sia chiaro: la scuola pubblica italiana rispecchia il classismo della società, è strutturalmente razzista, è lassista nei confronti del sessismo imperante, è inadeguata, le indicazioni ministeriali non aiutano a costruire la didattica, diversi docenti sono pericolosi, l’educazione ai dispositivi elettronici è inesistente. Detto ciò, la Didattica a Distanza non risolve questi problemi, ma li amplifica. Come suggerisce Girolamo De Michele sulla scia di Neil Selwyn: «bisogna finirla con le stronzate». Quindi piantiamola col dire «la DAD ha fatto anche cose buone», è un ritornello che crea un falso bilanciamento tra elementi positivi e negativi.

Infine, la preoccupazione per il contagio sta portando diversi genitori a vedere di buon occhio l’educazione a casa dei propri figli, homeschooling o educazione parentale. Questo discorso conduce dritto a una dismissione dal basso della scuola pubblica che, nonostante le mille aberrazioni, rimane un traguardo epocale: abbiamo bisogno che bambini e bambine escano dal nucleo familiare, abbiamo bisogno che si confrontino con altri adulti, abbiamo bisogno che interagiscano fra di loro, che non si capiscano, che conoscano chi è diverso da loro e anche che litighino coi propri genitori con gli strumenti che gli vengono dati da ciò che si trova fuori dalla famiglia, perché è anche così che si cresce.

«Ma la scuola pubblica è la Scuola dello Stato e io sono contro lo Stato», benissimo. Ma non dimentichiamoci che anche la famiglia è un’istituzione, ben più totale della scuola: è vero che anche la scuola, come la famiglia, è un luogo cardine della riproduzione sociale, ma permette ancora un margine di libertà radicalmente differente – a volte maggiore, a volte no, sicuramente diverso – da quello che una famiglia può garantire.

C’è poi l’elefante nella stanza: se qualcuno decide di fare educazione parentale ai propri figli è perché se lo può permettere culturalmente ed economicamente. Optare per questo modello significa avallare il privilegio di classe. E, mi spiace, ma per me questo è il nemico.

Glisso sulle scuole libertarie, che spesso utilizzano l’escamotage fornito dall’educazione parentale. Lo faccio perché ritorniamo al problema di fondo, ossia la promiscuità delle persone all’apertura delle scuole e quindi i problemi che incontriamo sono gli stessi. Ma ci tengo a sottolineare un nodo centrale: creiamo esperimenti, costruiamo scuole popolari, rinnoviamo le pratiche, bene, anzi, benissimo. Ma la scuola pubblica deve essere un campo di battaglia e su quel campo di battaglia ci dobbiamo stare. Costruire alternative e lottare per un rinnovamento di quello che c’è può essere una contraddizione, ma cerchiamo di tirarla dalla nostra parte e di non lasciare campo libero alle destre.

6. La rabbia o la depre

Non ho il tempo per soffermarmi sulla miriade di soggetti che in questo momento meriterebbero di stare alla sbarra di un tribunale per crimini contro l’umanità. La classe dirigente italiana, nella sua interezza, non merita il surreale clima di pace che si è instaurato negli ultimi mesi. Non si salva nessuno. Però il ruolo di alcuni soggetti va sottolineato.

Il “menopeggismo” ha lasciato campo libero a un premier che di fatto ha permesso che sulla riapertura della scuola si seminasse il panico. Tralasciando quanto fatto prima dell’epidemia, Giuseppe Conte non solo si è chinato agli speculatori di Confindustria durante i giorni di maggiore crisi, ma ha anche posto le basi per una futura emergenza.

 

I partiti che lo sostengono e quelli che lo contrastano sono pure peggio di lui. I parlamentari di “centrosinistra” che guardano con spocchia all’attuale Ministra sono stati complici della Riforma Renzi. Quelli di “centrodestra” sono complici delle Riforme Gelmini e Moratti. Senza bisogno di alcun complotto, il piano di dismissione della scuola pubblica parte da lontano, è condiviso e nessuno se ne è mai distaccato. Dei 5Stelle poco da dire dal momento che esprimono direttamente sia la Ministra dell’Istruzione che il Ministro del Lavoro e del Welfare.

 

Il nome di Mario Draghi è tornato spesso nei giorni passati per il suo discorso sui «giovani». Negli ultimi anni «Mario Draghi» è diventato come il «paracetamolo»: si consiglia di usarlo quando ci sono sintomi di malessere ma non si sa bene quali siano le cause. Mario Draghi è un protagonista del mercato internazionale, che rimane il mostro finale da affrontare. Lo abbiamo ben conosciuto nel 2011, quando scrisse una lettera con le indicazioni su come far uscire l’Italia dalla crisi.Quella batosta è stata dilaniante, tanto per i giovani dell’epoca quanto per quelli di oggi.

Chi ci ha visto lungo sono i privati interessati nella Ed-Tech e quindi nelle forme di didattica a distanza. Alcuni di loro hanno visto un aumento di capitale impressionante. «Ma è gratis!» ci è stato detto mesi fa in riferimento a Google: come se questo non permettesse di lucrare comunque sui dati acquisiti e dunque sulle nostre vite. Citando il Financial Times, Costanza Margiotta, Girolamo De Michele e Maddalena Fragnito, hanno sottolineato come negli ultimi mesi le piattaforme digitali abbiano quadruplicato le loro azioni. Non sorprendiamoci se Google propone le lauree in 6 mesi!

Altri privati non ci hanno visto così lungo, ma hanno saputo aspettare un aiuto dal cielo, o dalla Regione, come in Liguria, dove viene dato un voucher di 180 euro per l’iscrizione alle scuole private. L’attenzione alle scuole private è enorme, ma d’altronde, siamo anche un paese che non ha un piano nazionale per bambini e bambine da 0 a 6 anni: rivolgersi alle private per molti è un obbligo. Vogliamo esigere che questa mancanza sia coperta o preferiamo le parole di Patrizio Bianchi che, dal sito della COOP, ci ricorda che «la scuola non è un badantato»?

 

Per chi se lo fosse perso Patrizio Bianchi è un altro personaggio interessante: docente universitario, è anche il coordinatore della commissione esperti del ministero dell’Istruzione. Promotore di quell’autonomia scolastica regionale destinata a massacrare le scuole del centro-sud al rientro è anche uno dei massimi “spingitori” della DAD. In alcuni momenti è stato una sorta di ministro-ombra. È in quota PD e chi sta in Emilia-Romagna l’ha conosciuto come Assessore all’Istruzione della Regione durante il primo mandato di Stefano Bonaccini.

Quest’ultimo è anche il Presidente della Conferenza delle Regioni, che a Luglio è stata protagonista di un curioso siparietto: dopo aver rigettato con disprezzo le prime linee guida del Governo sulla riapertura delle scuole in nome della scarsità dei fondi erogati per il personale, la stessa Conferenza delle Regioni ha accettato pochi giorni dopo una seconda bozza. Non che i fondi fossero aumentati. Però dalla seconda bozza era scomparsa la partecipazione ai tavoli dei sindacati confederali. Il 13 Luglio, Priorità alla Scuola ha organizzato presidi alle regioni per protestare contro questa decisione. A Bologna, vista la posizione di spicco di Bonaccini, sono arrivati esponenti del comitato nazionale. Peccato che i giornalisti locali non fossero presenti quel giorno, avrebbero assistito ad un dialogo molto intenso in cui l’assessora Paola Salomoni mostrava una delle tecniche con cui la riapertura della scuola è pensata: un continuo rimando ad altri tavoli e ad altri decisori.

Questa tecnica di governo è così diffusa che i dirigenti scolastici si sono dissociati dalle responsabilità di cui il Governo li investiva. Peccato che la loro posizione sia scivolosa dato che il PD, grazie alla Riforma Renzi, li ha trasformati in wannabe manager, paladini di una scuola sempre più neoliberale che in piena emergenza riteneva prioritario ridimensionare gli organi collegiali «per evitare disfunzionali sovrapposizioni e conflitti con le prerogative dirigenziali» (dal documento dell’Associazione Nazionale Presidi, 25/05/2020). Esistono dirigenti sinceramente degni di stima. A loro sarà richiesta la fatica di dissociarsi da questi soggetti.

È questa la panoramica della classe dirigente che sta ponendo le basi per il ritorno a scuola. È lapalissiano che anche per chi è abituato a tapparsi il naso non c’è nulla da salvare. Tocca a noi invertire la tendenza.

Scrivo “noi” riferendomi a una comunità ampia, che include docenti, attiviste, educatori, studentesse, amministratori, personale delle pulizie, genitori e genitrici.

Ma la situazione in cui siamo ci obbliga a guardare a una comunità ben più ampia con cui possiamo e dobbiamo intrecciarci. Fatta dalle donne infuriate per essere lasciate a casa senza fonti di reddito, dagli antirazzisti scesi in piazza per la morte di George Floyd, dai migranti che hanno bloccato la produzione, dalle froce che ogni giorno ci mostrano quanto la normalità sia IL problema, da artisti che lottano per un minimo di riconoscimento, da chi porta in piazza il proprio corpo per una diversa politica sul clima.

Della rabbia di tutta questa comunità abbiamo bisogno, estremamente bisogno.

Perché c’è poco da girarci attorno, di fronte a noi abbiamo due possibilità: da una parte la rabbia da organizzare, incanalare, far esplodere; una rabbia che ci permetta di sperimentare, sbagliare, creare; dall’altra abbiamo la depressione, non solo e non tanto la connivenza ad un esercizio di potere sempre più ottenebrante, ma la chiusura in un nucleo sempre più chiuso e circoscritto. Fino ad una solitudine estrema.

La scuola è un pezzo della società da riconquistare, esattamente come la sanità. Che ci piaccia o no, se salta la scuola salta tutto.

Partiamo da lì e ripigliamoci questo mondo infame.

da qui

 

 

Dieci problemi in più per la scuola - Giancarlo Cavinato

 

Non si vuole negare l’importanza della tutela della salute di tutti coloro che intervengono a scuola. Né l’urgenza dei genitori di “affidare” i figli in luoghi sicuri. Ma ci sono anche ragioni pedagogiche, relazionali, psicologiche, umane. Freinet definiva acqua stagnante quella di un certo modo di fare scuola di contro allo sgorgare e scorrere libero di un ruscello. Noi vorremmo una scuola talmente sicura di se stessa, resiliente, che sappia decentrarsi, flessibilizzarsi, aprirsi all’esterno, farne oggetto di continua esplorazione e ricerca, andare a cercare chi non si fa raggiungere. Andare e tornare a piedi da casa a scuola in compagnia è già qualcosa, ma non basta. Con il post lockdown e la minaccia pendente di un acutizzarsi dei contagi ci sono alcuni nodi di cui si preferisce non parlare, nascondendoli come la polvere sotto il tappeto. Ma prima o poi rispuntano e dobbiamo imparare a farci i conti.

1. Apertura
Non si può tenere tutto e tutti sotto controllo e al chiuso per lungo tempo. Non è scuola ma reclusorio. Bisogna trovare i modi e le ragioni per uscire. L’incontro (con chi e cosa sta fuori) è una delle occasioni più favorevoli per l’apprendimento. Solo il fare esperienza ambientale, culturale, ludica, motoria può salvare dalla saturazione psicologica che contrassegnerà i mesi di immobilità. Ma bisogna bussare forte alle porte della scuola. Tanti sono i problemi, dai nidi alla secondaria, che caratterizzano un’apertura così spoglia di varietà percettive, spaziali, cromatiche, multimodali, che vanno affrontati e risolti cercando soluzioni meno dannose possibili.

2. Tempi
Una scuola di tempi brevi non può che approfondire distanze e divaricazioni, non stimola pensiero e non problematizza, assuefà alla ricezione passiva. È scuola? Quando si potrà quanto meno pensare e progettare una scuola aperta lungo tutta la giornata nonostante tutti i condizionamenti si potrà fuoriuscire da ragionamenti angusti e limitativi.

3. Spazi
Si è spesa parecchia retorica, nei mesi del lockdown, sulla mancanza dell’aula, di uno spazio strutturato consacrato alla lezione, cattedra inclusa. Ma l’aula può consentire solo determinate azioni dei soggetti, tutte prevedibili. Servono laboratori, spazi dove fare altre esperienze, dove rielaborare quanto si è visto e fatto fuori. Pensare solo a sistemare/ingrandire le aule è stato un grande errore pedagogico. Gli arredi non educano, ma possono avere funzione educativa se non sono prigioni. Con buona pace di chi si preoccupa della cattedra. Ma una scuola senza possibilità di educazione sensoriale, di manipolazione, di compiere trasformazioni, di sussidi per l’apprendimento, di strumenti per l’osservazione, che scuola è? Occorrono soluzioni creative, sostituzioni di attività con altre più “sicure”, ma garantendo l’apprendimento attivo. Ogni limite sfida a superarlo. Lewin analizzava lo spazio fisico e sociale in termini di valenze positive o negative, di barriere o facilitazioni. Che percezione della realtà ambientale potremo offrire se sarà ridotta a pochi metri, piena di controindicazioni e allarmi? Quale valenza positiva potrà assumere lo spazio scolastico?

4. Cooperazione
A vivere insieme si impara vivendo insieme. Non chiusi in tante bolle, non misurando i passi. È dallo sguardo dell’altro che acquisto maggior conoscenza di me stesso. È facendo insieme che si strutturano procedure, si stabiliscono connessioni, si assumono responsabilità. La cooperazione è un abito che ci si porterà dietro tutta la vita. Se avrà avuto modo di crescere, svilupparsi, arricchirsi, mettersi alla prova. Comprendendo che ognuno ha con gli altri debiti di ri-conoscenza e crediti di reciproca collaborazione. Bisogna sperimentare l’interdipendenza attraverso il gioco, la scrittura, le discussioni, per capire che non si può fare a meno degli altri, che non si è autoreferenziali senza che questo si traduca in un limite all’espansione della personalità. Oggi questo è in discussione seriamente. Troppo tempo senza gli altri non può non avere conseguenze. Tutti devono potersi ri-conoscere. Costruire insieme qualcosa di nuovo, di diverso.

5. Partecipazione
Non prevedere la consultazione dei ragazzi rispetto al loro vissuto scolastico è un grave errore e non potrà non avere conseguenze in una scuola in cui l’educazione alla cittadinanza attiva è spesso tutta da costruire. Tutte le forme di coinvolgimento in ragionamenti collettivi, di discussione, di assemblea, di consigli dei ragazzi sono quanto mai necessarie per istituire modalità che conducano al civismo attivo e al senso dell’etica pubblica. Una scuola con misure unicamente di prevenzione, di contenimento, di sospensione di diritti (previsti dalla Convenzione e dalla legge 176) è un danno per la comunità nel suo insieme.

6. I “diversi”
Franco Lorenzoni sottolinea giustamente il rischio di una reazione allarmata o penalizzante della scuola a fronte di comportamenti che non rientrino nelle procedure previste per il distanziamento, la sanificazione, la stanzialità sui banchi: il “disturbo”. Ma il problema riguarda anche i casi “silenti”, le forme di disagio inespresso, le tante piccole difficoltà che a volte vengono ingigantite e categorizzate come stigmi, e, come ha evidenziato drammaticamente il periodo del lockdown, riguarda i casi di disabilità, di disturbi della personalità, di handicap neurofisiologico, cui il lockdown ha sottratto tempo di esperienza, contatto, presenza preziosi. L’inclusione deve partire da una ripresa reale di contatto di e fra tutti i soggetti, da una volontà di tenere tutti dentro, di essere con loro prima di tutti per poter stare costituzionalmente con tutti.

7. I lontani
Una particolare attenzione va rivolta a chi non è stato raggiunto e non ha avuto e ancora non ha possibilità di connessione. I bambini stranieri in primis, i sinti e i rom, alcune zone del paese. Chi è rimasto, nell’accezione espressione di una mentalità obsoleta, “indietro”. Nessuno va lasciato “indietro” ma nello stesso tempo occorre tener presente che spesso la scuola è funzionale a coloro ai quali non è necessaria. Piuttosto che a una pedagogia della compensazione espressa dal termine “recupero” occorre pensare a una riconversione pedagogica complessiva che riequilibri le condizioni e le opportunità per tutti. Perché è la scuola che ha un groppo debito verso molti e serve un risarcimento che sia complessivo.

8. Conoscenza
Una conoscenza asettica e in pillole non può rispondere alle tante domande, alle emozioni vissute, alle esigenze formative del post lockdown. La conoscenza necessaria deve radicarsi nella realtà, affrontare i problemi del mondo, della povertà, dell’ambiente, dell’economia, della salute e della felicità. Partendo da esperienze condivise e rielaborate collettivamente. Non “situazioni reali” artificiosamente costruite. L’interconnessione mentale indispensabile per comprendere cause effetti degli eventi che ci circondano si crea sulla simbolizzazione e rielaborazione dei vissuti attraverso la metodologia dalla ricerca, la discussione, l’elaborazione di ipotesi.

9. Voti
Il nostro ministero è riuscito a produrre un “mostro pedagogico”: metà anno con verifiche e voti su registro elettronico, l’altra metà (?) con profili e giudizi. In un anno che inizia in modo così confuso e con tanti punti interrogativi, accompagnato da ansie, disorientamento, annunciare la sostituzione dei voti con un documento alternativo e due mesi dopo reintrodurli in forma così pesante e prescrittiva risulta un ulteriore elemento di disgregazione e disaffezione. Non si può non invitare i collegi a cercare soluzioni diverse e più coerenti sul piano educativo.

10. Patti
Tutte le ragioni suddette inducono a ribadire l’esigenza di accordi e progettazioni reciproche a livello di territori per una città come scuola, costruendo reti collaborative che si costituiscano come buone proposte a disposizione delle scuole. Per sostenere la coesione sociale di cui il distanziamento ha ulteriormente allentato i legami. Con tutti gli accorgimenti del caso, lavorare con volontari, enti del terzo settore, associazioni professionali costituisce una risorsa ineludibile per dare spazio e respiro alla scuola. Visite a istituzioni culturali e strutture produttive, ricerche ambientali e passeggiate ecologiche, animazioni, frequentazione di biblioteche e ludoteche, di fattorie didattiche, di laboratori artigianali possono integrare un curricolo che per reagire all’isolamento e alla chiusura non può essere affidato a lezioni e verifiche.

Su questi punti vorremmo confrontarci con associazioni, scuole, enti locali, genitori, organizzazioni sindacali.

da qui

 

 

Scuola nel caos: la guerra di tutti contro tutti - Chiara Foà e Matteo Saudino

 

A pochi giorni dall’inizio del nuovo anno scolastico, fissato dal MIUR per il 14 settembre 2020, la scuola italiana vive una situazione di preoccupante caos che sembra divorare tutto e tutti, buon senso in primis. Il tema del diritto allo studio e della necessità di riaprire le scuole di ogni ordine e grado (dall’infanzia alle superiori), tema assolutamente centrale per la vita democratica di un Paese, ha generato uno scontro politico durissimo, dai tratti prevalentemente propagandistici ed elettorali, e un acceso dibattito pubblico, dai toni quasi sempre aggressivi e infarciti di imbarazzanti e denigratori luoghi comuni.

Dopo decenni di riforme scolastiche, fatte principalmente di riduzione della spesa e degli investimenti, accolte con indifferenza e superficialità dalla maggior parte dei cittadini, la scuola pubblica italiana sta avendo l’onore e l’onere di occupare, in modo del tutto strumentale e probabilmente passeggero, il centro della scena politica.

Di colpo la scuola sembra essere diventata ufficialmente importante per la nostro comunità. Ma discutere di un aspetto della vita associata così complesso e delicato in piena logica emergenziale sanitaria è il modo peggiore per affrontare e risolvere di colpo le innumerevoli problematicità strutturali e calcificate del sistema scolastico. Il Covid-19, infatti, ben lungi dal portare ponderatezza e lungimiranza nella classe dirigente e nella cittadinanza, ha sdoganato ancor di più le perverse logiche della cieca autoconservazione egoistica. Ora lo possiamo dire: è stata un’ingenua idiozia pensare, anche solo per alcuni giorni, che una pandemia globale avrebbe finalmente migliorato una società che da tempo ha archiviato i valori e i principi di solidarietà e comunanza, con l’assurda pretesa di fondarsi sulla ricerca individuale del profitto e della felicità, in un mondo in cui tutto è stato trasformato in merce, dalla cultura alla salute, dal lavoro all’istruzione. Il Covid-19 non poteva che peggiorarci e così pare sia stato. E un mondo fondato ancora su una dimensione di collettività e reciprocità, come è quello della scuola, non poteva che esserne drammaticamente travolto. La discussione intorno alla scuola, infatti, è diventato il luogo di una lacerante guerra di tutti contro tutti, dell’homo homini lupus est di plautiana e hobbesiana memoria. Proviamo ad analizzare alcune faglie di queste conflittualità che stanno logorando il terreno dell’istituzione scolastica.

1.

Innanzitutto il caos intorno alla scuola ha messo ancora una volta a nudo l’inadeguatezza della politica a partire primariamente dalla ministra Azzolina, la quale, in un contesto certamente anomalo, emergenziale e di difficile gestione, si è però mostrata inadeguata e fuori luogo. Dichiarazioni avventate poi smentite, imbarazzanti silenzi seguiti da fragorose e clamorose boutades (sparate), decisioni improvvisate, precipitose e poco razionali o motivabili: la Ministra dell’Istruzione in questi mesi ha detto e fatto tutto e il contrario di tutto. Ma vi è un importante nodo da evidenziare. La ministra Azzolina è stata, come spesso è capitato in passato, immediatamente e volutamente lasciata sola dal Governo, diventando il facile bersaglio polemico nonché il capro espiatorio dei media, dell’opposizione e dell’opinione pubblica tutta. Ridurre la complessità alle inefficienze di una sola persona è uno scaricabarile comodo e molto italico, ma è un’operazione storicamente ed esperienzialmente poco analitica; come se la ministra decidesse da sola la linea scolastica, per di più durante una crisi medico-sanitaria. Di fronte a una situazione così articolata, serviva e serve tutt’ora unire le migliori intelligenze del Paese per innovare la didattica e per mettere in sicurezza le scuole in modo affidabile e non approssimativo (con improbabili banchi a rotelle a seduta singola o fantascientifiche tonnellate di plexiglass o di legno per dare slancio all’artigianato), con investimenti di medio e lungo periodo per evitare di aprire le scuole e poi richiuderle frettolosamente, generando ancor più sconforto e disagio sociale. Le emergenze si affrontano attivando capacità di progettazione: nuovi edifici, più insegnanti, più collaboratori scolastici, più mezzi di trasporto. Invece il nanismo della classe dirigente ha scelto la via dello scontro sterile, senza mettere realmente al centro del dibattito gli studenti e il loro diritto a una formazione di qualità in piena sicurezza. Concentrarsi sul far naufragare la ministra significa non tanto far naufragare un personaggio politico, per quanto mediocre e confuso, quanto soprattutto danneggiare un anno scolastico e la vita di milioni di studenti e studentesse.

2.

La seconda faglia di conflittualità riguarda la società. L’emergenza Covid-19 lungi dallo sviluppare solidarietà e unità tra i lavoratori e tra i cittadini, ha acuito le acredini e i rancori di una società che, al di là della ideologica retorica nazionale, è profondamente atomizzata e divisa: partite IVA contro lavoratori dipendenti, commercianti e lavoratori autonomi contro statali, imprenditori contro operai. In particolare il caos della scuola ha mostrato ancora una volta che vi è una parte del Paese che considera gli insegnanti dei privilegiati, dei fannulloni, con quattro mesi di vacanze l’anno, che rubano lo stipendio. Nessuna empatia con chi è addetto alla formazione dei propri figli. L’insicurezza sociale generata dalla pandemia anziché portare i cittadini a chiedere maggior protezione e diritti per tutti ha, infatti, determinato la più becera e ottusa guerra tra poveri e tra categorie. Dunque ‒ mentre giornali, tv e web puntano subito il dito contro gli insegnanti che non vogliono sottoporsi all’esame sierologico o si dimostrano timorosi o ostili alle condizioni del rientro in aula ‒ faticano ad emergere le vere questioni che dovrebbero stare a cuore a tutti.

Perché una cassiera del supermercato o un idraulico hanno lavorato per tutto il lockdown, mentre i professori si nascondevano dietro le piattaforme comodamente in pantofole a casa e ancora si lamentano di dover tornare a scuola? Questa sembra essere la vulgata delle lamentele. Ma è questo il vero problema? Ricordiamo che una cassiera può essere maggiormente protetta, in quanto incontra un cliente pagante per volta, in un ambiente molto vasto e protetta dal plexiglas, mentre un insegnante sta a contatto (stretto) con minori (molti) che pare siano i principali veicoli della trasmissione del virus, in spazi angusti (pochi metri quadrati) per cinque o sei ore di seguito al giorno. Senza dimenticare che l’insegnamento presuppone la costruzione di un rapporto personale e che le misure intraprese per il distanziamento su indicazione del ministero sembrano essere davvero poche e di dubbia efficacia. E ricordiamo anche che buona parte del corpo insegnante ha un’età non propriamente giovane e dunque risulta maggiormente a rischio di contagio, soprattutto se esposta senza adeguate protezioni al contatto diretto con gli allievi e all’interno di un ambiente piccolo. Chi lavora all’interno della scuola conosce a menadito i problemi che possono emergere. È possibile tenere per ore e ore i bambini/ragazzi fermi e distanti tra loro? Seduti per ore con mascherine? Chi misurerà loro la febbre prima dell’ingresso in aula? E quando staranno male, come faremo a star loro vicini? Quando mangeranno, andranno al bagno, verranno interrogati toglieranno la mascherina: perché non dovrebbero essere pericolosi a livello di contagio? E se devono leggere?

Spaventa anche l’affermazione sbandierata dai politici secondo cui si aprirà assolutamente e ad ogni costo nella data stabilita. Perché questi costi dovrebbero essere pagati dal personale scolastico e dagli studenti per propagande politiche e per una manciata di voti? E se gli studenti saranno contagiati, non porteranno forse a casa, a genitori e nonni, il virus? Perché riaprire ad ogni costo se ci sono troppi rischi? Questo discorso alimenta le preoccupazioni. Se non sono state prese cautele e non ci si è mossi per tempo il buon senso direbbe di ripensarci poiché a scuola potrebbe capitare una diffusione rapida del virus. Come mai gli studenti non faranno il tampone?

Ma ragionando sulla reazione degli adulti, occorre anche soffermarsi sulla posizione assunta da molti genitori. Le famiglie degli allievi premono molto per la riapertura della scuole ma assai meno per la riapertura solo se in sicurezza. Se le aule diventano focolai, gli allievi tornando a casa diffondono il virus a macchia d’olio. Certamente il problema sotteso non è da poco ma, se analizzato attentamente, ci rivela anche qual è la funzione che per molte famiglie riveste la scuola. Intrattenere i figli, parcheggiati possibilmente almeno per otto ore senza i costi elevati che potrebbe avere una baby sitter o una struttura privata, mentre i genitori sono impegnati con il lavoro. Tutto ciò è comprensibile. Ma è anche lungimirante? La guerra di tutti contro tutti ha fatto sì che la salute non sia diventata un diritto da estendere il più possibile a tutti, ma che sia considerata un privilegio da togliere a chi lo rivendica. La scuola deve essere un luogo di inclusione e di risoluzione dei conflitti e delle disuguaglianze, in cui costruire una visione condivisa di comunità. Invece sta diventando un’arena in cui tutti si scannano senza esclusioni di colpi e in cui ancora una volta si decide scientificamente di delegittimare ancor di più gli insegnanti e di disgregare il tessuto sociale.

3.

Infine, vi è una terza faglia di conflittualità che riguarda l’essenza della scuola: l’emergenza Covid-19 ha evidenziato la crisi profonda delle istituzioni scolastiche, sempre più disorientate e alla ricerca di un senso. Il dibattito politico che si è innescato in questi mesi è miope e banale in quanto sorvola del tutto sulla principale delle questioni pedagogiche: a cosa serve oggi la scuola? La domanda è del tutto inascoltata da chi ha il potere di incidere sulla vita scolastica. La parte preponderante dello scontro è su questioni politiche di piccolo cabotaggio, da bar sport si potrebbe dire. Sarebbe importante lasciarsi alle spalle la logica della guerra e della competizione che attraversa il mondo della scuola per concentrarsi autenticamente su una rifondazione dell’istruzione. La sconfitta della scuola parte dal fatto che essa viene considerata sempre più un luogo dove realizzarsi come privato cittadino e non come membro di una comunità. Se le istituzioni scolastiche perdono il loro essere un bene comune e vengono fagocitate dalla logica dell’interesse individuale e del mercato non c’è nessun futuro per la scuola come luogo di realizzazione delle istanze democratiche contenute nella Costituzione.

La crisi in cui è precipitata la scuola è pericolosissima, perché si tratta di una stupida guerra di tutti contro tutti combattuta però sulla pelle della scuola stessa, al termine della quale non ci sarà nessun vincitore, ma solo una desolante sconfitta di tutti, nessuno escluso.

da qui

  

Perché il 5G non è necessario alla scuola – Alessandro Marescotti


La connessione ad alta velocità, sia ai PC sia agli smartphone, si può realizzare partendo dalla fibra e da reti WiFi che garantiscano l'accesso a tutti. La rete come bene comune va pensata come condivisione sociale. Per questo il WiFi è preferibile al 5G.


Presentare il 5G come il sistema che consente l'accesso generalizzato all'alta velocità è semplicemente una forma di propaganda.

E' un'abile propaganda verso una tecnologia, pur non essendo la più efficiente in assoluto, che promette profitti più alti e che quindi va presentata come una tecnologia per tutti, necessaria a tutti, strategica per tutti. La cosa non è vera e qui vedremo perché.

Connessione senza fili: in casa è meglio il 5G o il WiFi?

Al di là dell'aspetto sanitario, c'è un punto su cui riflettere: la connessione senza fili ad alta velocità c'è già ed è il WiFi. Il WiFi si sta evolvendo, diventando sempre più performante e veloce. Il WiFi può essere connesso alla fibra, propagandosi mediante hotspot ai dispositivi mobili. Gli ultimi cellulari si stanno ammodernando e oggi possono viaggiare a velocità elevatissime. Ciò avviene senza consumare la banda dell'abbonamento telefonico ma attingendo alla banda che proviene dalla fibra ottica. Tutto questo avviene senza aver bisogno del 5G.

Il 5G è una tecnologia che può superare il divario di velocita che si registrava in passato fra PC e cellulari. Potrà dare l'impressione di poter fare con il cellulare tutto ciò che si fa con il PC. E potrebbe far pensare che tutti i sistemi "fissi" (cavi in fibra, cablaggio degli edifici con reti) siano eredità del passato e che il futuro prescinda dalla fisicità delle reti fatte di cavi.

La tecnologia dal punto di vista della pigrizia

Molti si chiederanno: ma in casa non è meglio usare il 5G invece del WiFi?

E anche nella scuola questo ragionamento potrebbe replicarsi per pigrizia e per lo stato di fatiscenza dei cablaggi, oltre che per la fatica di progettare qualcosa di concreto e funzionante: megli affidarsi a chi posiziona le antennine 5G nei pressi delle scuole, che risolvono tutti i problemi. La componente "pigrizia" sta ormai diventando la vera componente strategica. WhatsApp si è diffusa per pigrizia, non perché le email non possano fare le stesse cose, e anche meglio. Ma se analizziamo la tecnologia non in base alla pigrizia le cose cambiano completamente.

A scuola senza il 5G 
Ad esempio in una scuola è possibile creare un'infrastruttura pubblica basata sulla fibra che garantisca il collegamento WiFi a tutti i dispositivi. A casa è possibile avere router che garantiscano una costante connessione ad alta velocità a tutti i dispositivi, sia fissi sia mobili. Stessa cosa nelle aziende.
E' quindi del tutto evidente che, già da ora - portanto la fibra in modo capillare nelle scuole, nelle case e nelle aziende - è possibile garantire l'accesso all'alta velocità sia ai computer sia ai dispositivi mobili.

Il 5G come rete unica di connessione globale

Vedere il 5G come accesso generalizzato all'alta velocità - fino a mettere il WiFi in secondo piano - è una scelta tecnologicamente sbagliata, ad esempio nella scuola.

"Come" connettersi alla rete è una scelta, anche politica.

E se si usa in modo intelligente la fibra e il WiFi si evitano inutili sprechi. Ma qui arriva il punto interessante: la tecnologia 5G viene proposta per avere più velocità o per alimentare un sistema di spreco in funzione del profitto? 

Il WiFi come alternativa al 5G a scuola e a casa

Se quindi l'obiettivo non è perseguire il profitto ma l'efficienza tecnologica e l'utilità sociale, e se l'efficienza tecnologica può essere ottenuta in altri modi, diversi dal 5G, qual è la ragione per cui il 5G viene presentato come treno strategico da non perdere?

Semplice: perché il 5G è la gallina dalle uova d'oro e non si vuole che le uova d'oro le faccia la Cina. Vorremmo avere noi la gallina che fa le uova d'oro.

Ma se il nostro ragionamento viene orientato su finalità sociale, allora il tutto cambia.

Ripeto: il WiFi è un sistema di connessione senza fili che rende inutile il 5G in vari contesti. Lo rende inutile perché più costoso e meno stabile. Oltre che più inquinante rispetto al WiFi in termini di sovvraccarico dei campi elettromagnetici.

La scuola non ha bisogno del 5G

Nella scuola non serve il 5G ma il WiFi veloce. Dal punto di vista del consumo critico stiamo abdicando alla nostra funzione se ci accodiamo alla grancassa del 5G presentato come unica soluzione per consentire l'alta velocità per il futuro.

Dobbiamo avere il coraggio di mettere in discussione il cosiddetto ruolo strategico del 5G. Nelle case e nelle scuole useremo il WiFi, non il 5G. E se non lo faremo è perché abbiamo abdicato alla nostra capacità critica fino a non comprendere che tecnicamente a casa e a scuola i nostri dispositivi vanno connessi wireless alla fibra tramite router e hotspot.

E chi userà il 5G sul cellulare lo farà al 99% non per reale necessità ma per semplice cedevolezza rispetto alla pubblicità. Una serie di articoli possono confermare le basi tecniche di questo ragionamento.

In uno di questi si legge ad esempio: "E' ovvio che i "provider" di linea telefonica vorrebbero che le aziende utilizzassero la rete mobile come tecnologia principale eliminando Ethernet e WiFi: sarebbe la gallina dalle uova d'oro del nuovo millennio".
E' chiaro il concetto?
La gallina dalle uova d'oro siamo noi, quando - per il nostro analfabetismo tecnologico e per la nostra cedevolezza verso la pubblicità - penseremo che senza il 5G non potremo partecipare all'alta velocità e che i nostri cellulari saranno lenti e vecchi senza il 5G. Una cosa da comprendere è che la fibra è in grado già da ora di fornire alta velocità non solo ai computer collegati a cavi ma anche ai cellulari.

Un 5G per utente o un WiFi per tutti?
Ad esempio nella scuola alcuni pensano di diffondere le connessioni wireless con SIM-card. Perché? Perché progettare una rete capace di sostenere le connessioni di tutta la scuola è cosa complessa da progettare. Ma se si sa fare, ed è possibile, si offre un WiFi condiviso e veloce per tutti. E soprattutto comune. E' la scelta dei beni comuni. Mentre andare verso le SIM-card e il 5G è la strada opposta rispetto ai beni comuni.
Infatti il 5G, si legge in una pubblicazione tecnica, è "payperuse" (necessità di abbonamento a pagamento per ogni singolo utente) mentre il WiFi può essere condiviso con tutti gratuitamente.
Precisiamo: anche il 5G può essere condiviso con appositi dispositivi. Ma con quali costi di banda?
Il WiFi in sostanza è più indicato ed economico rispetto al 5G per la banda larga e il suo uso sociale. Ed è anche più stabile.

Verso una società dei beni comuni
Se si vuole andare verso una società dei beni comuni - e la connessione ad alta velocità deve diventare un diritto di tutti - la scelta strategica vada fatta sulla fibra e sul wifi di nuova generazione.
L'uso sociale delle connessioni wireless è consentito dalla fibra e le scuole possono essere il luogo dove - senza il 5G - si può garantire l'accesso a tutti ad alta velocità.

L'accesso a Internet è stato riconosciuto come un diritto umano. E quindi va usata una tecnologia che consenta la condivisione di tale accesso.

La fibra consente l'alta velocità e la condivisione fra più utenti, sia in casa, sia a scuola, sia nelle aziende. Questo assetto basato sulla fibra garantisce una condivisione più veloce e stabile a costi minori e con un impatto elettromagnetico inferiore. Avere telefonini a 5G è una cosa non indispensabile se c'è una buona programmazione pubblica che garantisca la capillarità della fibra. E una volta arrivata la fibra capillarmente si creano delle aree di condivisione WiFi ad alta velocità. A questo punto lo spazio per il 5G si restringe ad usi di nicchia, lì dove la fibra non arriva, o per applicazioni molto specifiche e mirate, ad esempio nel settore delle automobili connesse a reti. Per diffondere il 5G bisognerà creare bisogni indotti, molti dai quali alienanti; vedremo ad esempio nelle pizzerie le persone usare il 5G per nuovi supervideogiochi e mostrarlo agli amici invece di parlare, discutere e socializzare il proprio vissuto. Ma sulla base delle attuali esigenze, si può portare l'alta velocità sul lavoro e in casa, anche senza fili, senza il 5G.

L'analfabetismo tecnologico: ragazzi senza PC ma col cellulare

Oggi si sta assistendo ad una distorsione dell'approccio alla tecnologia per ragioni commerciali ed extra tecnologiche. Ad esempio tanti studenti hanno il cellulare costoso ma non hanno il computer. Il mercato del cellulare è più redditizio e ha un indotto più interessante in termini di consumi connessi. Ecco perché molte famiglie comprano cellulari costosi ai figli invece di PC e normali cellulari, e ciò avviene sulla spinta dell'insistenza dei ragazzi che pensano di poter fare con il cellulare tutto ciò che si fa con il PC. Cosa non vera.

A scuola scopriamo che famiglie e ragazzi spendono i soldi non per ottenere risultati migliori ma solo perché abbindolati dalla pubblicità che li illude che il cellulare sia il futuro, mentre per gli usi educativi il PC rimane imprescondibile. Nelle famiglie italiane si spende di più per avere di meno e per scoprire ala fine che con i cellulari non si possono usare software ideonei a scopi professionali o educativi.Rispetto alle attuali esigenze come quelle di una scuola connessa in modo stabile e veloce occorre pertant rivedere completamente la cultura della rete e dei dispositivi.

E, sottolineiamolo fino alla noia, anche i cellulari degli studenti possono fruire del wifi veloce senza il 5G. Il 5g non serve a scuola. Ma, chissà perché, il futuro della scuola viene associato alla diffusione del 5G quando ciò non è vero.

Note: Fonti informative per questo articolo

5G o WiFi: come e cosa scegliere?
https://www.corrierecomunicazioni.it/whitepapers/wi-fi-o-5g-ecco-qual-e-la-scelta-migliore-per-le-imprese/

Ecco perché il WiFi sopravviverà anche al 5G
https://www.alfacod.it/blog-wifi-sopravvive-5g

Il 5G al posto della fibra ottica in casa? Non è ancora il momento, ecco perché
https://www.ilsole24ore.com/art/il-5g-posto-fibra-ottica-casa-non-e-ancora-momento-ecco-perche-AD1ggBX

Internet a casa, il 5G ancora non permette di rimpiazzare la connessione domestica
https://www.repubblica.it/tecnologia/mobile/2020/06/10/news/internet_a_casa_il_5g_ancora_non_permette_di_rimpiazzare_la_connessione_domestica-258847174/

Il 5G prenderà il posto delle connessioni casalinghe?
https://www.lastampa.it/tecnologia/news/2020/01/13/news/il-5g-prendera-il-posto-delle-connessioni-casalinghe-1.38315485

da qui

 

 

Foucault, Debord e i banchi a rotelle - Fernanda Mazzoli

 

Il Paese, prostrato dal Covid, riprende finalmente a correre, anzi a scivolare, sulle rotelline degli innovativi banchi fortemente voluti dalla ministra Azzolina, i quali, assieme al monopattino, rappresentano una significativa manifestazione di quello spirito creativo e un po’ sbarazzino al quale è affidata la tanto sospirata ripresa. Ma come rispondono, i banchi a rotelle, alla necessità di riprendere le lezioni in sicurezza? Non c’è sicurezza senza innovazione. E non c’è innovazione che non faccia rima con digitalizzazione. 

 

Il Paese, prostrato dal Covid, riprende finalmente a correre, anzi a scivolare, sulle rotelline degli innovativi banchi fortemente voluti dalla ministra Azzolina, i quali, assieme al monopattino, rappresentano una significativa manifestazione di quello spirito creativo e un po’ sbarazzino al quale è affidata la tanto sospirata ripresa.
Pochi, tuttavia, hanno accolto con entusiasmo la proposta che, al netto dei tempi richiesti dai bandi, dalla fabbricazione e dalla consegna, ancora troppo lenti per stare al passo con tanta vivacità progettuale, dovrebbe tramutarsi in realtà dal prossimo anno scolastico. Prevalgono i soliti gufi che si abbandonano chi al sarcasmo, chi alle dietrologie, chi a fosche previsioni sulle conseguenze in caso di terremoti.
E c’è chi evoca Foucault e la microfisica del potere, con la sua riorganizzazione degli spazi e il disciplinamento dei corpi che i nuovi banchi contribuirebbero a rimodellare.[1] Dubito che l’opera dell’insigne pensatore francese sia uno dei livres de chevet da cui la ministra e i suoi consiglieri traggano ispirazione per le loro mosse e contromosse, se non altro perché anche le analisi dell’ottimo Foucault (come ogni tentativo d’analisi, d’altronde) hanno quel sapore di vetusto che l’Azzolina si sforza di individuare ed esorcizzare ovunque ne scopra un qualche sentore. Assai meglio, per disegnare la scuola del futuro, approfittare delle risorse che offre Internet e pescare nuove idee dalle accattivanti immagini che si propongono all’attenzione di chi intraprenda un serio lavoro di ricerca che, come è noto, non può
prescindere dalle fonti dirette, su Google. Ed ecco snocciolarsi una dopo l’altra aule spaziose e luminose ove si dispongono, simpaticamente a cerchio, o in più tradizionali ranghi, i banchi a rotelle, vuoi colorati, laddove si tratti di stimolare con opportuni colori le facoltà intellettive, vuoi monocromi per allievi sufficientemente familiarizzati con le stesse. Pur nella varietà, non solo ricca di stimolazioni didattiche, ma rispettosa della libertà di scelta dei modelli costituzionalmente garantita dall’articolo 33, tutti i banchi ospitano orgogliosamente un computer, o un tablet.

Allora, io che non riuscivo a capire come i banchi a rotelle potessero rispondere alla necessità di riprendere le lezioni in sicurezza ( avevo sempre pensato che le ruote servissero per avvicinarsi a qualcuno/qualcosa e/o per allontanarsi da qualcuno/qualcosa con cui si è stati in recente contatto) e che avevo ricondotto le mie perplessità a quella che Debord chiamava “la dissolution de la logique” ho dovuto ricredermi. Né a dissuadermi sono valse le giubilanti dichiarazioni della ministra che, in sede di collaudo,
ha rassicurato gli Italiani che anche un vetusto e ponderoso Rocci riuscirebbe a trovar posto sulla ridotta superficie dei nuovi banchi. Infatti, nel frattempo, avevo sottoposto a riesame le fonti dirette e avevo potuto notare che in ogni aula spaziosa e luminosa campeggia una LIM su cui convergono gli sguardi in provenienza dai detti banchi, comunque disposti.
Mi sono allora ricordata che non è solo per il distanziamento di tutti- grandi e piccini- che la previdente Ministra ha optato per queste nuove strutture, ma per garantire in un unico magistrale colpo sicurezza ed innovazione. E vi è qualcuno che ancora ignori che innovazione fa rima obbligata con digitalizzazione ?
E’ doveroso, tuttavia, riconoscere che disfattismo e presunzione intellettuale mi avevano sviata, al punto da spingermi a dubitare delle capacità logiche di un intero Ministero, per scoprire invece che una ratio ineccepibile ne ha dettato la scelta: affrettare la sostituzione del libro cartaceo con i dispositivi digitali e la lezione frontale con la flipped class.
Comunque, niente paura: i nuovi ambienti di apprendimento sono fortemente inclusivi: c’è posto per tutti, dal Rocci ai docenti. Tanto più, che continuerà ad esserci ancora bisogno di qualcuno che intervenga, in caso le aule si trasformino in piste di autoscontro o salti la connessione.

 

[1] https://www.sinistrainrete.info/articoli-brevi/18420-salvatore-bravo-i-banchi-dell-azzolina.html

 

da qui

 

 

La scuola e il discorso digitale - Girolamo De Michele

 

Premessa: il diritto di lasciare le cose incompiute

 

C'è un apologo piuttosto noto, anche se non è chiaro chi ne sia l'autore. La storia è questa: il Direttore di una grande società, impossibilitato ad assistere a un concerto nel quale era in programma la Sinfonia N° 8 in si minore di Franz Schubert, nota come l’Incompiuta, fa dono dei biglietti al Responsabile delle risorse umane dell'azienda, un giovane laureato alla Bocconi con master in una London School, ma che non conosce la Grand Musique, nella speranza che Schubert gli apra un orizzonte. Il giorno dopo il Direttore generale gli chiede com'è stato il concerto, e si sente rispondere che riceverà una relazione; che, puntualmente, arriva a mezzogiorno, divisa in punti:

 

1.Durante considerevoli periodi di tempo i quattro oboe non fanno nulla: si potrebbe ridurne il numero e distribuirne il lavoro fra il resto dell’orchestra, eliminando i picchi d’impiego;

2. I dodici violini suonano la medesima nota: l’organico dei violinisti potrebbe quindi essere utilmente ridotto;

3. Gli ottoni ripetono suoni che sono già stati eseguiti dagli archi, il che appare inutilmente ridondante;

4. In conclusione: se Schubert avesse tenuto conto di queste osservazioni e avesse ottimizzato tempi e risorse, avrebbe ridotto di almeno il 25% la durata della sinfonia, e avrebbe quindi avuto il tempo di terminarla prima di morire.

 

La morale dell'apologo è che Schubert dovrebbe avere il diritto di fare quel che gli pare (per inciso, non è vero che l'Incompiuta è incompiuta a causa della morte dell'autore), e il pubblico di ascoltare Schubert (ma anche Otis Redding) così com'è. Nondimeno, i rilievi del giovane bocconiano sono tecnicamente esatti, presi uno per uno; quello che manca, è la comprensione del valore estetico, emotivo, artistico dell'opera di Schubert: tutti elementi che non sono suscettibili di una misurazione quantitativa.

 

L'ordine del discorso digitale e le sensate esperienze della DaD

 

Uno dei più acuti critici degli usi retorici che accompagnano e sostanziano la presunta necessità di far irrompere il digitale nel sistema educativo, Neil Selwyn, osservava nel 2013: «Public debate, commercial marketing, education policy texts and academic research are now replete with sets of phrases and slogans such as ‘twenty-first century skills’, ‘flipped classrooms’, ‘self organised learning environments’, ‘unschooling’, an ‘iPad for every child’, ‘massively online open courses’ and so on». E concludeva: «If we are to make sense of current forms of digital education, then it is necessary to consider the nature of these particular discourses». La natura scivolosa (slippery) dell'Ed-Tech Speak, secondo Selwyn, è evidente nell'operazione di re-branding con la quale vengono introdotti nel discorso educativo nuovi sintagmi che, dietro l'apparente neutralità del linguaggio tecnico, operano un vero e proprio sovvertimento delle pratiche e delle finalità scolastiche – uno per tutti, l'apprendimento (learning) in luogo dell'educazione – per cui si parla di "learnification dell'educazione"; o la ridefinizione, da parte della CRUI del compito dell'Università nello "Sviluppare ed erogare servizi e prodotti orientati al cittadino/cliente e altri portatori di interesse significativi" (p. 65). In realtà, questi nuovi sintagmi veicolano pratiche, significati e modalità di relazione fra educazione e uso della tecnologia. Nondimeno, nella maggior parte di questo rumore di fondo digitale l'innovazione viene presentata come un valore in sé – "l'innovazione per l'innovazione", come scrive Marco Meotto –, senza che sia esplicitata qual è la finalità che si attribuisce alla scuola, quali le strategie per conseguirla, e, in terzo luogo, se il digital disruption (preferisco non tradurre il termine disruption, per non privare la sua area semantica delle sue connotazioni negative) è uno strumento adeguato a conseguire queste finalità, e quali sono le evidenze che lo dimostrerebbero. Come il responsabile delle risorse umane che sforbicia l'orchestra per sfoltire l'Incompiuta di Schubert, la retorica digitale sembra non chiedersi qual è lo scopo della scuola. Ciò ha portato Selwin a sottolineare che l'Ed-Tech Speak è pieno di "stronzate" (bullshit), ovvero di sintagmi inverificabili, dei quali non è possibile accertare se siano veri o falsi. Selwin segue qui H.G. Frankfurt, che in un aureo libretto definiva "stronzata" un enunciato che non appartiene all'ordine del vero: «Uno che mente e uno che dice la verità giocano in campi opposti, per così dire, allo stesso gioco. Chi racconta stronzate ignora completamente tali esigenze».

 

Un'accurata decostruzione di questo ordine del discorso digitale è stata operata da Marco Gui nel suo Il digitale a scuola del 2019. In qualche modo, le sensate esperienze della didattica a distanza (DaD) hanno cambiato le cose: come lo stesso Gui ha riconosciuto in una recente intervista, «è risultata chiara la povertà comunicativa della didattica a distanza. Una volta esauritosi l’effetto novità, come dimostra la letteratura sui media, sono affiorati tutti i problemi: effetto distrattivo delle tecnologie, overload cognitivo, disuguaglianza digitale, elementi già ben descritti in letteratura ma ancora non sufficientemente noti all’opinione pubblica».

In questo senso il libro di Gui è importante anche per una ragione cronologica: la letteratura scientifica che passa in rassegna precede di un paio d'anni la DaD. Quello che, con parole semplici e in apparenza banali, hanno detto i docenti sull'esperienza della DaD coincide con quello che si scrive da anni su libri e riviste specializzate in mezzo mondo: scritture che sono a loro volta basate su prassi di digitalizzazione della didattica cominciate prima, e che proprio per questo mostrano la corda mentre da noi si inneggia all'innovazione. Con buona pace di chi ha liquidato il dibattito sulla scuola in lockdown come "enfasi della tautologia" e "filosofia alla Catalano", si è concretizzata una positiva sovrapposizione fra una prassi didattica che tutto il sistema-istruzione (docenti, discenti e famiglie) ha esperito con quello che la letteratura internazionale sull'argomento attesta da anni (bastava aver esperienza dell'una o dell'altra per accorgersene, ma che te lo dico a fare?).

Decostruire è spesso utile, quasi mai sufficiente: è necessario andare oltre, e indagare l'ordine del discorso digitale, ponendosi alcune domande: quali significati e concezioni dell'educazione sono veicolati dalle rappresentazioni del digital disruption? Fino a che punto queste enunciazioni del digital disruption sono situate all'interno di strutture dominanti di produzione e di potere? Quali libertà e restrizioni sono associate a tali enunciati? In che modo possono essere vissuti da individui e gruppi sociali diversi? Come questi discorsi inquadrano il rapporto fra l'individuo e comune, il pubblico e il privato?

 

Il digitale a scuola: alcune fake news che è utile conoscere

 

L'ordine del discorso digitale si avvale di una serie di luoghi comuni – nel doppio senso di affermazioni che vengono date per scontate in quanto condivise, senza che ne sia verificata la veridicità; e di territori nei quali bisogna esserci. Si aggiunga che in quei territori si incontrano non solo la gente che conta, ma anche i flussi di finanziamenti senza i quali la scuola dell'autonomia boccheggia. Ne elenco una sintesi dall'elenco fatto da Marco Gui nel quinto capitolo del suo Il digitale a scuola:

 

A. Si è invertita l'asimmetria educativa: gli studenti sanno più dei professori nel campo digitale

B. I nativi digitali hanno uno stile di apprendimento diverso, e migliore

C. I media sono neutri, tutto dipende da come li usiamo

D. La lezione frontale è un lascito del passato

E. La conoscenza è in rete, non serve più imparare nozioni

 

A queste cinque asserzioni si può rispondere agevolmente che:

 

A1. Questa affermazione è frutto di un errore percettivo: si scambia lo smanettare con una effettiva competenza digitale, e l'essere sui social con l'essere sul web. In realtà la maggior parte degli utenti dei social non esce mai dai limiti della propria infonicchia: i contenuti che condivide, le operazioni che compie (leggere un messaggio, aprire un video, ecc.) restano all'interno di questo spazio. La sensata esperienza didattica dimostra che questi apparenti smanettoni sono a volte in difficoltà nel compiere azioni elementari, come entrare nella propria casella di posta o aprire un drive, se non partono dal proprio social. Così come sanno quali tasti pigiare, ma non sanno cosa questo comporta: per citare un'esperienza personale, quando arrivo a scrivere alla lavagna col gesso in mano <a href="www.blablabla.com" /a>, per far vedere dove si arriva una volta avviata con Frege la scissione fra significato e significante, capita di rado che qualcuno sappia cosa significa questa stringa di codice html, o la sappia correlare all'immagine del pulsante con su scritto "link" o il disegno della graffetta (nondimeno, un ispettore che capitasse in quel momento potrebbe criticare il mio uso pervicace del gesso in luogo della più aggiornata LIM). In aggiunta, «molte ricerche hanno mostrato che l'abilità tecnologica e digitale dei giovani resta per lo più confinata nell'ambito delle competenze operazionale», laddove «la competenza digitale "content related", relativa cioè all'analisi dei contenuti veicolati dai media, è maggiore negli adulti che nei giovani» (p. 173): si sta parlando, per capirci, (anche) della capacità di interpretare criticamente un post, individuandone le distorsioni.

B1. Questa asserzione si basa su un doppio errore. In primo luogo, il presupposto che gli stili di apprendimento denotino due campi – per banalizzare: i docenti-boomers e i giovani-zoomers – separati da paratie stagne. L'esperienza della DaD ha invece dimostrato che i boomers sono stati in grado di convertirsi in zoomers o meeters. Questo ci porta al secondo pregiudizio: che lo stile di apprendimento caratterizzato da velocità, frammentazione, iperstimolazione e dal multitasking sia di per sé "migliore": vero è, invece, che questo stile comporta la rinuncia a importanti elementi cognitivi – approfondimento, analisi riflessiva, capacità di imparare dai propri errori, lentezza  (tutti elementi che non vengono misurati dai test di verifica degli apprendimenti, per inciso). In definitiva, questo luogo comune si basa sull'assolutizzazione di uno stile cognitivo, che è però funzionale solo a poche e determinate esperienze di apprendimento.

 

C1.  Qui si tratta di capire cosa si intende per "media": il mero accrocco, o gli ambienti mediali? Sappiamo bene che algoritmi e feedback sono progettati e programmati per veicolare certi comportamenti o pratiche, e limitarne altri. E che il loro inserimento all'interno di un contesto ne veicola la funzione: insomma, l'algoritmo sarà anche in apparenza neutro in quanto insieme di simboli/codici, ma dietro l'algoritmo c'è un programmatore umano. Anni fa, quando l'algoritmo che attribuiva le cattedre ai precari comportò una vera e propria deportazione di precari, il suo programmatore (che era stato precario anch'egli) rispose alle critiche dicendo: se la cattedra che ti spetta è a Terni, la colpa non è dell'algoritmo. Vero: la colpa era del taglio delle 100.000 cattedre operato dalla riforma Gelmini, sul quale la Buona Scuola glissava. Ma l'idea che esistesse un algoritmo imparziale impediva di vedere la foresta al di là dell'albero, e finiva col fornire una giustificazione smart all'ingiustizia.

D1. Qui si tratta in primo luogo di intendersi su cos'è una lezione frontale. Il docente in classe ha una certa varietà di modalità, che vanno dal leggere la stessa storia sullo stesso libro con le stesse parole di vendittiana memoria, fino al brainstorming, con tutte le varianti del caso: però è probabile che lo studente percepisca come frontale una lezione che il docente non considera tale. In altri termini, si tratterebbe di vedere se i presunti limiti della lezione frontale non siano in realtà limiti intrinseci a un uso parziale o limitato, come guidare un'auto senza mai ingranare le marce alte. Questo luogo comune si accompagna però a un implicito: che, essendo "vecchia" la lezione frontale, qualsiasi cosa, purché "nuova", sia di per sé migliore (per inciso: formulata così, è una fallacia logica); e dunque flipped classroomcollaborative learning, didattica per competenze: senza che di queste "novità" si dimostri la maggiore utilità.

E1. Questo luogo comune, che è stato alla base della Buona Scuola (lo stesso Matteo Renzi l'aveva in precedenza enunciato a Che tempo che fa con aria ispirata), è una modalità smart di enunciare la didattica per competenze, che si basa su un doppio fraintendimento: in primo luogo, si confondono le conoscenze con ciò che merita di essere conosciuto; in secondo, sovrappone il ruolo delle competenze con quello delle conoscenze. In rete, ma prima che la rete fosse nel mondo, c'è di tutto: il vero, il falso, l'utile e l'inutile. Non si possono mettere tutti i dati sullo stesso piano limitandosi a connetterli, senza operare una scrematura e una selezione: si formano altrimenti studenti (di nuovo, parlo per esperienza) abituati a scaricare la qualunque, e la qualunque a giustificare con affermazioni tipo "l'ho trovato in rete". Al tempo stesso, «le competenze di verifica delle informazioni non possono sostituire il confronto con una base di informazioni di cui si conoscono senza dubbio la validità e la coerenza» (p. 185): la grandinata di fake news, di negazionismi, di fallacie logiche e argomentative, di errori di traduzione, di equiparazione delle fonti che ha inquinato la discussione pubblica nei giorni del lockdown e oltre dovrebbe avercelo ultimativamente insegnato. Al fondo di questo luogo comune, in modo più evidente che negli altri, c'è la domanda su quale finalità vogliamo attribuire alla scuola. Di nuovo con le parole di Gui: «se vogliamo formare tecnici da mettere subito nel mercato del lavoro, l'idea di un utente che trova le informazioni a mano a mano che gli servono, può essere efficiente. Se, però, abbiamo in mente un cittadino autonomo, che sappia dare una lettura critica dei fatti che vive direttamente o che trova nei media, il ruolo della conoscenza pregressa e ben strutturata appare irrinunciabile» (p. 186).

 

Depotenziare e semplificare: la neolingua del digital disruption

 

Un'altra caratteristica del digital disruption è una marcata banalizzazione del linguaggio: la valenza comunicativa e cognitiva del linguaggio complesso sembra essere sottomessa alla maggiore funzionalità alla mera trasmissione di contenuti di un linguaggio elementare. Una conseguenza che getta luce sulla portata della learnification dell'educazione, che cercherò di argomentare con alcuni casi esemplari.

Il primo riguarda l'università, nella quale i processi di digitalizzazione della didattica sono molto più avanzati che nella scuola. In un recente documento, Federico Bertoni, Davide Borrelli, Maria Chiara Pievatolo, Valeria Pinto puntano il dito sulla cosiddetta didattica blended, a partire dai documenti CRUI (la Conferenza dei Rettori Universitari Italiani) che ne dettano le norme; ai docenti è chiesto di insegnare in un “blended learning environment” (un’aula predisposta per la registrazione e lo streaming):

 

La lezione si trasforma in un modulo riutilizzabile, fungibile, computabile. Si è arrivati a consigliare ai professori universitari di usare «parole chiave in maiuscolo» per un uso efficace delle slide», «periodi brevi, evitando quindi la narrazione prolissa», «elenchi puntati, per mettere in risalto dei concetti o chiarire argomenti complessi»; e ancora: «evitare di inserire riferimenti all’insegnamento», «evitare riferimenti temporali», «evitare di riferirsi alla numerazione delle lezioni (es. questa è la seconda parte dell’incontro)». Così, si dice esplicitamente, «le registrazioni possono essere riutilizzate per insegnamenti/corsi differenti»; si possono «riutilizzare i moduli didattici anche con un ordinamento differente»: unità di apprendimento «auto consistenti e indipendenti», ogni mattoncino «di durata compresa tra i 10 minuti e i 20 minuti max», ricombinabili secondo le esigenze del caso.

 

Sarà bene sottolineare che questa prassi, che trasforma gli studenti in utenti/ricettori di pillole preconfezionate recitate da «un docente che, una volta alienato il suo prodotto, non ha neppure bisogno di continuare a esistere», è alternativa a investimenti nel reclutamento dei docenti, nell’edilizia universitaria e in studentati.

Il secondo caso è un documento ministeriale, gli Orientamenti per l’apprendimento della filosofia nella società delle competenze prodotti nel 2017 da una commissione ministeriale per adattare alla Buona Scuola l'insegnamento della filosofia, in cui si pretende  di ridurre il sapere filosofico a un Sillabo di filosofia per competenze e il docente a facilitatore del processo di apprendimento», in nome di una filosofia che cede davanti al proprio desiderio e si acquatta nel ruolo di counseling filosofico: una filosofia buona per un debate, cioè per fare chiacchiere al tavolo del burraco. Il "lancio" di questo documento fu accompagnato da una improvvisa fioritura di manuali scolastici improntati alla semplificazione di linguaggio e contenuti – uno "stile limpido e lineare assistito da mappe, schemi, tabelle e disegni" –, per fare spazio a "contenuti digitali" quali booktrailer filosofici utilizzabili anche per la flipped classroom, lezioni LIM (presentazioni personalizzabili che sintetizzano i concetti chiave dei capitoli e ne riprendono schemi e cronologie), e un corredo di webinar di sconcertante banalità (ma certificabili come aggiornamento) per accompagnare il docente. Uno dei facitori di questa manualistica lo ritroviamo fra gli autori dei podcast prodotti dal MIUR per "facilitare" la preparazione degli studenti all'esame. Senza tema di sdoganare la parola "bigino" (dopo aver sdoganato "sillabo", del resto), questi podcast sono stati diffusi sul web player Spotify: una modernità che fa passare in secondo piano il classismo col quale "le dieci materie più importanti" sono state individuate nel curricolo del liceo classico. Basta aprire il primo, sulla Critica della Ragion pura di Kant (che è programma del quarto anno, ma tant'è...) e si può ascoltare un riassuntino di mezz'ora con un linguaggio che sembra presumere che le subordinate contengano olio di palma o glifosfato; in compenso, ricompare la bufala delle passeggiate di Kant sulle quali si regolavano gli orologi: che sarà un dettaglio, ma la dice lunga sulla considerazione per i contenuti sui quali si dovrebbero poi svolgere i debate – però vuoi mettere, scaricarlo da Spotify? Sopravvissuti a 6/7 cambi di ministro, gli Orientamenti ricompaiono nel Piano per la ripartenza della Regione Veneto, dove, reintroducendo dalla finestra la DaD in apparenza accompagnata alla porta, si forniscono "indicazioni metodologiche" per «una organizzazione della didattica centrata sugli apprendimenti attivi degli allievi, anche mediante la rimodulazione dei curricoli per nuclei fondanti essenziali, privilegiando lo sviluppo dei concetti chiave, delle relazioni interdisciplinari e dei metodi per costruire e organizzare gli apprendimenti»: esplicitando il fatto che la banalizzazione della filosofia ridotta a sillabo è funzionale a una lezione a distanza (si ricorderanno i moduli di 20 minuti sostitutivi di un'ora in presenza delle Linee Guida della CRUI), ovvero alla lectio brevis di un'ora ridotta a 40 minuti e in modalità blended.

 

L'ordine del discorso digitale e la logica del Realismo capitalista

 

Riprendo un passaggio dal documento CRUI CAF Università. Il modello europeo di autovalutazione delle performance per le università (p. 61):

 

Così come lo studente che si iscrive ad un corso di studio universitario costituisce l’input al processo formativo universitario (caratterizzato dal bagaglio di conoscenze e abilità acquisite nei processi formativi precedenti, che in tal senso costituisce a tutti gli effetti quello che potrebbe essere definito un “semilavorato pregiato in ingresso”), lo studente che si laurea costituisce l’output (il prodotto/risultato complessivo) del processo formativo universitario (caratterizzato dal bagaglio di conoscenze e abilità acquisite nel processo formativo universitario).

 

La fredda logica cadaverica di questo testo, nel quale la prassi educativa è neutralizzata e spogliata di ogni passione, emozione, connotazione etica, sociale e risignificata in "erogazione di servizi e prodotti orientati al cittadino/cliente" procede come un manuale tecnico: il presupposto è che, seguendo la sequenza di procedure, eventualmente esemplificate in un diagramma di flusso, si ottiene il prodotto/risultato complessivo. Successo o insuccesso formativo saranno da addebitarsi alla corretta esecuzione della sequenza; in definitiva, alla individuale capacità del docente e del discente, ovvero alla loro incapacità: la struttura in sé, in quanto efficiente, è deresponsabilizzata.

È la logica di quello che Mark Fisher ha denominato "Realismo capitalista", fondato su tre enunciati fondamentali:

1. Non c’è altro modello di gestione della società possibile al di là di quello basato sulle regole del mercato: There Is No Anternative;

2. Le regole del mercato vanno estese anche a quegli ambiti della società dal quale il mercato era escluso: istruzione, sanità, pubblica amministrazione;

3. Il mercato non contempla un’entità come la società, ma singoli individui concepiti come consumatori-utenti, imprenditori di sé stessi, individualmente responsabili del proprio successo o insuccesso.

Questa logica, applicata alla sanità pubblica con esiti che hanno reso tragicamente nota la Lombardia nel mondo, è all'opera da tempo anche nel sistema-istruzione, e fonda la retorica dell'innovazione digitale.

Il primo enunciato legittima i sostenitori del digital disruption dall'esaminare le evidenze contrarie, i limiti cognitivi e sociali dell'interconnessione e dell'implementazione della tecnologia nell'educazione: se non c'è alternativa, perché occuparsene?

Il secondo enunciato, con un perverso feedback, fa retroagire l'autovalutazione positiva dell'innovazione Ed-Tech sui criteri di valutazione dell'innovazione stessa: che l'innovazione digitale sia in grado di migliorare i livelli di apprendimento in alcune materie (che per questo sono definite fondamentali, con buona pace delle intelligenze multiple e della natura poliedrica della mente umana), di sviluppare competenze digitali e di aumentare l'inclusività sociale della scuola, è una sorta di tormentone che, un po' come il "se l'amore è amore" in Notte prima degli esami, si reitera da sé indipendentemente dall'assenza di evidenze che supportino queste aspettative.

 

Il terzo enunciato individualizza la didattica e la responsabilità del suo successo/insuccesso: ignorando che il carattere classista della scuola e della società italiana incollano al pavimento sociale gli studenti, o bloccano con soffitti di plexiglass l'ascensore sociale. L'Italia è, nel cosiddetto mondo occidentale, seconda solo alla Gran Bretagna per rigidità sociale, con professioni che arrivano ad avere un traino familiare del 65%; dagli studi OCSE a quelli di De Mauro sulle competenze linguistiche, alle analisi della composizione sociale delle scuole italiane, possiamo definire un fatto acclarato che il destino, se non come professione quantomeno come collocazione sociale e livello di istruzione, sia in misura predominante determinato dalla famiglia d'origine. L’Italia resta un paese classista, dove il figlio del notaio studia legge come il padre, poi va a fare praticantato dai compagni di carte del sabato sera del padre, e una volta acquisita la professione aggiunge un “& figli” alla targa dell’ufficio del padre; mentre il figlio del proletario resta proletario, come il bambino povero della celebre gag di Giorgio Gaber al quale il padre, davanti a un paesaggio, diceva non: «guarda, un giorno tutto questo sarà tuo», ma soltanto: «guarda…». E mentre guarda si sente dire che se non ha saputo cogliere le opportunità che il libero mercato offre, la colpa è sua, così come se ti ammali la colpa è della tua costituzione fisica e del tuo stile di vita e non di un sistema sanitario carente e inadeguato: è il Realismo capitalista – There Is No Alternative.

Ma se la digitalizzazione dell'educazione non aggredisce la contraddizione sociale fondamentale, e men che meno la mette in discussione, non solo è impotente a modificare quegli esiti della contraddizione sociale, ma ne è di fatto complice, se non parte integrante.

 

The bullshit should stop here!, ovvero: cosa fare con l'Ed-Tech Speak?

 

I due studiosi cui ho fatto prevalentemente riferimento, Gui e Selwyn, sono più o meno concordi sul fatto che il digitale a scuola, il suo ordine del discorso e i suoi storytelling debbano essere rimessi in discussione. Selwyn propone due strategie: la più moderata consiste nel ricominciare a chiamare le cose col loro nome, al di là dell'enfasi tecno-modernista: tornare a dire "studenti" invece che "utenti" o "clienti", "lavori di gruppo" invece che "comunità di apprendimento", "problemi" piuttosto che "criticità". La seconda, «A more radical alternative», è una strategia di verità, o forse di parrhesia: «to broker deliberately ‘honest’ declarations of the likely consequences of digital technology use. Perhaps, we need a language of education and technology that unpacks more aptly the underlying functions of these technologies and exposes their political intent». In definiva, bisogna farla finire con le stronzate (The bullshit should stop here!).

Gui usa in modo consapevole la terminologia foucaultiana nel definire "discorso" un insieme di enunciati che veicola una certa idea di realtà: e il discorso sul digitale non fa certo eccezione. Ma gli enunciati, a loro volta, vanno a costituire un ordine discorsivo a partire da certe pratiche che ne costituiscono lo sfondo: e questo mette in questione l'insufficienza della pur necessaria strategia di chiarificazione delle opacità retoriche dell'Ed-Tech. Non c'è reale possibilità di mettere in discussione l'ordine del discorso digitale, senza mettere in discussione il Realismo capitalista col quale è intrecciato. Conviene allora ricordare che proprio Michel Foucault, nella sua ultima settimana di lezione tre mesi prima di morire, indicava nella filosofia cinica il modello di una militanza filosofica che ha intende la cura di sé come cura dell'altro, «la vita come una vita altra, una vita di lotta, per un mondo cambiato»; e concludeva: «non vi è instaurazione della verità senza una posizione essenziale dell'alterità; la verità non è mai il medesimo; non può esserci verità che nella forma dell'altro mondo e della vita altra».

 

[Nota: raccolgo in questo testo quanto ho esposto in tre appuntamenti pubblici: il workshop Diritto alla salute, vaccino del comune, riconversione ecologica, all’interno della seconda assemblea #ilmondocheverrà, 30 aprile 2020; il workshop Riapertura della scuola e scenari di innovazione: tempi, spazi e relazioni, 8 luglio 2020, Fondazione Feltrinelli Milano; la tavola rotonda Sapere per il futuro, organizzata dal Laboratorio di filosofia della tecnica "Mechane" dell'Università Federico II di Napoli, 9 luglio 2020]

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Campagna: Scuole Smilitarizzate (anticipazione del lancio ufficiale) - Sonia Zuccolotto

 

“Una società più giusta e solidale passa necessariamente attraverso una scuola in grado di educare le nuove generazioni a ideali, valori e modelli di comportamento ispirati alla Pace, ai Diritti, al dialogo e al rifiuto di ogni forma di di violenza e quindi della guerra”

Così potrete leggere nella presentazione del documento che accompagnerà il lancio della campagna SCUOLE SMILITARIZZATE. La scuola, che  in questi giorni è “sorvegliata speciale”, si sta organizzando minuziosamente per accogliere tanti bambini e ragazzi che dalla fine di febbraio non frequentano a causa del covid. Progettare gli spazi, i materiali, le mense in sicurezza… ma l’obiettivo primario è quello di recuperare la relazione con bambini e ragazzi. Fondamentale, in un rapporto educativo, rientrare in contatto, ripristinare relazioni  fatte di scambio, apertura, accoglienza reciproca, superando la diffidenza e la paura dell’altro che abbiamo rinforzato in questo tempo così impegnativo. Questo è un periodo fertile per costruire ponti, per guardare il Creato con rispetto, per abbattere muri, per imparare a vivere con più semplicità e rispetto per la difesa della vita. La crisi del covid può diventare  opportunità  per orientare la scuola a costruire  progetti di educazione alla pace e alla nonviolenza.

Il cuore del documento che avvierà la nuova campagna di SCUOLE SMILITARIZZATE, elenca  nove punti a cui i singoli insegnanti ma soprattutto i collegi docenti potranno aderire, impegnandosi in attività, progetti di educazione alla pace, pratiche di difesa civile nonviolenta, realizzarli, divulgarli, come, tra l’altro, indicato nelle “Linee guida per l’educazione alla Pace e alla cittadinanza glocale”.

Diventa importante mettersi in gioco, come Punti Pace, per collaborare, portare le esperienze e la testimonianza  di operatori di pace.

La campagna SCUOLE SMILITARIZZATE è promossa da Pax Christi, MIR con la collaborazione di Sos diritti, ma stanno aderendo molte associazioni, perché siamo certi che lavorare insieme, per dare voce alla Pace, ci aiuti a  rendere migliore la nostra casa comune, ferita da tante guerre e tanta violenza.

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Tornare a scuola non basta

 

#Finalmentescuola è un invito rivolto all’universo della scuola, a genitori, studenti e studentesse, ma anche ad associazioni, movimenti e singoli cittadini, “due proposte affinché questo primo giorno di scuola sia più che un inizio”. La prima: celebrare e raccontare quella giornata dedicandola non solo alla spiegazione delle nuove regole ma all’ascolto coinvolgendo il territorio. La seconda: documentare prima, durante, dopo il primo giorno di scuola le condizioni, quantitative e qualitative, della riapertura.

L’idea nasce da un gruppo di realtà tra cui Movimento “E tu da che parte stai?”, Maestri di Strada, Casa-laboratorio di Cenci, Mce, Rete di Cooperazione Educativa, Saltamuri, redazione di Comune-info. Nell’invito completo, tra l’altro, si legge: “Abbiamo bisogno di incontrarci, di ritrovarci tutte e tutti, di aiutare i bambini e le bambine a riprendersi i luoghi, nonostante le legittime preoccupazioni… La riapertura della scuola non è solo un problema tecnico, poiché non c’è questione tecnica che non abbia risvolti pedagogici e non comporti ricadute sulle scelte didattiche… La Scuola che vogliamo costruire ha orizzonti ampi e una visione lungimirante che ci permette di affrontare il futuro e altre emergenze…”.

Scarica e diffondi l’invito e le immagini della campagna:

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Tutelare i diritti di chi non si avvale dell’Irc. L’Uaar scrive ai ministri Azzolina e Speranza

 

In vista dell’apertura dell’anno scolastico e in considerazione dell’emergenza sanitaria che stiamo vivendo, l’Unione degli Atei e degli Agnostici Razionalisti (Uaar) ha scritto una lettera ai ministri di Salute e Istruzione per verificare come intendono tutelare i diritti degli studenti che, dalla scuola dell’infanzia alla secondaria di secondo grado, in misura sempre maggiore non intendono subire l’Insegnamento della religione cattolica (Irc).

L’emergenza sanitaria rende infatti non percorribile la già inaccettabile pratica dello “smistamento” in altre classi degli studenti non avvalentisi, spesso posta in essere per ovviare alla mancata attivazione delle attività didattiche alternative all’Irc.

«La normativa è chiara», si legge nella lettera, a firma del segretario, Roberto Grendene: «Non deve essere messa in atto alcuna forma di discriminazione tra chi sceglie l’insegnamento non obbligatorio dell’Irc e chi sceglie di non avvalersene. L’Uaar chiede che fin dal primo giorno di lezione a tutti gli studenti che hanno detto no all’Irc optando per la permanenza nella scuola sia garantito un insegnante, un’attività didattica alternativa e uno spazio sicuro dal punto di vista sanitario. L’anno scolastico 2020/21 non può registrare nessun caso di “smistamento” in altre classi, né tantomeno imporre in alcun modo un insegnamento dottrinale a chi lo rifiuta».

L’auspicio è che vengano presi tutti i provvedimenti necessari, «ricordando che l’Irc è una attività didattica non obbligatoria e che gli insegnanti di religione cattolica frequentano fino a 18 classi diverse: ciò in caso di positività ai test per il coronavirus comporterebbe il blocco di intere scuole per una attività didattica opzionale. Attivare la didattica a distanza e collocare l’Irc in orario extrascolastico sarebbe un provvedimento responsabile».

L’Uaar – che, in attesa che l’Irc sia finalmente abolito, difende i diritti delle famiglie e degli studenti che optano per non avvalervisi e da sempre si batte affinché siano ad essi garantiti i diritti all’istruzione e alla libertà di coscienza, combattendo le discriminazioni infantili che ancora interessano la scuola pubblica – sollecita quindi «un impegno concreto da parte dei Ministeri dell’Istruzione e della Salute per garantire il pieno diritto all’istruzione e la salvaguardia della salute di studenti, docenti e genitori, nel rispetto della laicità delle istituzioni e della libertà di coscienza di coloro che non si avvalgono dell’Irc».

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Nominativi fritti e mappamondi: didattica della ‘ripartenza’ e dichiarazioni d’agosto tra dire e fare - Orsetta Innocenti

La cosiddetta ‘ripartenza’ della scuola ha scandito i mesi estivi, tra una serie infinita di comunicati, note, smentite, da parte del Ministero dell’Istruzione, mentre, pedalando la loro autonomia, i presidi cercavano di far quadrare i metri, chiedendo più o meno disperatamente ai loro interlocutori provinciali, regionali e nazionali spazi, aule a norma, insegnanti in più (e dunque classi più piccole), che non sono arrivati.

Invece, molto si è parlato di banchi (più o meno rotelle) e di «rime buccali», di «didattica digitale integrata» (il nuovo nome della didattica a distanza) e di test sierologici; di capienza a scadenza (entro i 15 minuti non c’è assembramento) sui mezzi di trasporto. Molto ci sarebbe da eccepire, per ciascuno di questi punti, ognuno dei quali conferma l’impressione di provvisorietà con la quale si è guardato alla scuola nel suo complesso (e non è solo questione di emergenza sanitaria). Perché, è ovvio, gli spazi sono importanti, così come lo dovrebbe essere l’adozione di misure di prevenzione reali, conformi alla presente situazione epidemiologica e coerenti con quelle prese per ogni altro comparto: ma la verità è che, da giugno a fine agosto, per parlare di scuola, si è parlato di tutto, tranne che di scuola reale.

Abbiamo passato quasi quattro mesi in emergenza, facendo didattica di prossimità in una situazione inaudita prima ancora che anomala. Tutto questo ha lasciato – oltre che segni tangibili in ogni membro della comunità scolastica – tantissimi buchi neri, ha acuito distanze sociali e culturali, sottolineato differenze, per una serie di ragioni che iniziano a essere indagate in molti interventi da parte della comunità sociale e culturale[1].

Eppure, ancora il 27 giugno 2020, la ministra Azzolina ha mandato ai docenti una «Lettera alla comunità scolastica per la riapertura delle scuole a settembre»[2]. La lettera contiene slogan motivazionali, dichiarazioni di successo e buoni sentimenti; curiosamente, non contiene, per esempio, un Google Moduli con qualche domanda per i docenti: come ti sei trovato, quanti alunni ti hanno seguito bene, male o così così, che cosa salveresti, che cosa manderesti al macero: insomma, un banalissimo questionario di valutazione dell’esperienza.

Forse, Azzolina e il suo staff ritengono di non averne bisogno, dal momento che nella lettera la didattica a distanza viene definita: «Un patrimonio di esperienze e competenze di cui andare fieri e da non disperdere assolutamente: rappresenta un’eredità importante per il futuro». Eppure, qualche settimana prima non ne dovevano essere così certi, visto che l’OM 11/2020, «Ordinanza concernente la valutazione finale degli alunni per l’anno scolastico 2019/2020 e prime disposizioni per il recupero degli apprendimenti»[3], conteneva indicazioni riguardanti il recupero di quanto non appreso (dai singoli alunni) e di quanto non spiegato (dai docenti) in questo periodo di distanza: il “Piano di apprendimento individualizzato” e il “Piano di integrazione degli apprendimenti”, PAI e PIA, rispettivamente (al MI gli acronimi piacciono moltissimo). In quel documento il MI mette nero su bianco che, nonostante tutte le magnifiche e progressive sorti celebrate nella distanza, i docenti non sono riusciti a svolgere quello che avevano in mente come lo avevano in mente, e lo hanno svolto forzatamente ‘meno bene’ (se no non dovrebbero recuperarlo e integrarlo, art. 2, comma 1) e gli alunni non hanno avuto la possibilità e le condizioni di apprendere come avrebbero potuto e dovuto per diritto (altrimenti non sarebbero ammessi alla classe successiva in presenza di un numero a piacere di insufficienze, e non dovrebbero a loro volta avere un piano degli apprendimenti da recuperare nell’anno successivo, art. 3 e art. 4).

L’OM 11/2020, se sugli acronimi va fortissimo, è viceversa molto fumosa per quanto riguarda il “dove” e il “quando”. Logica vorrebbe che, per sanare le lacune create dalla didattica a distanza, questo recupero debba essere fatto con agio e in presenza. Così, nel DL 22 08/04/2020 (legge di conversione 41 06/06/2020[4]), all’art. 1 comma 2, il MI stabilisce «l’eventuale integrazione e recupero degli apprendimenti relativi all’anno scolastico 2019/2020 nel corso dell’anno scolastico successivo, a decorrere dal 1° settembre 2020, quale attività didattica ordinaria» le cui strategie e modalità di attuazione saranno «definite, programmate e organizzate dagli organi collegiali delle istituzioni scolastiche». Così, senza ulteriori parole, se non una generica (e scivolosa) indicazione di «didattica ordinaria» (che, in quanto tale, è soggetta a disciplina contrattuale, ogni tanto tocca ricordarlo). A questo si aggiunge la ferma intenzione di far partire l’inizio delle lezioni in anticipo e la data prescelta è quella del 14 settembre 2020. Nella mia regione, la Toscana, è ben 1 giorno prima del calendario regionale ufficiale, che prevedeva il 15/09, tutti gli anni; per molte regioni del nord e qualcuna del sud si tratta di qualche giorno dopo l’inizio usuale. Tutto questo, in mezzo al turno elettorale, e alla sessione straordinaria degli esami di Stato.

Ancora una volta, dunque, l’assenza di indicazioni chiare rovescia in modo ambiguo sull’autonomia delle singole istituzioni scolastiche (già impegnate a: raddoppiare aule, clonare insegnanti, abbattere alunni e inventare il teletrasporto) tutta l’organizzazione, creando l’ennesimo quadro progettuale e normativo assai opaco e – ciò che è più grave – bordeggiando pericolosamente coi diritti dei lavoratori della scuola. Infatti, la natura non occasionale delle azioni di recupero (che sono previste anche per l’intero anno scolastico) esige, se considerata “attività ordinaria” (cioè ricompresa nelle ore ‘normali’) di insegnamento anche per i docenti, una ricontrattazione del CCNL. Altrimenti, come per ogni altro corso di recupero extracurricolare, le ore di insegnamento devono essere considerate in più, dunque di lavoro straordinario, e come tali pagate e conteggiate.

Perché è chiaro che alla fine gli aspetti si legano, e i nodi vengono tutti al pettine: se la didattica a distanza ha avuto (come ha avuto) una natura esclusivamente suppletiva ed emergenziale, con una funzione di mantenimento di una relazione minima, non può sopperire alla dinamica pedagogica sottesa alla didattica in presenza. In altre parole, un recupero serio, progettato, cadenzato e personalizzato (sul gruppo classe e sugli studenti e sulle studentesse) può avvenire solo alla ripresa di una relazione didattica, comune e continuativa, in presenza, poiché progettare un recupero di obiettivi il cui mancato raggiungimento è stato determinato dalla forzata condizione di distanza con una ripetizione della stessa distanza si configurerebbe come una tautologia.

Allo stesso modo, un piano di recuperi che esuli dalla didattica ordinamentale (cioè quella che va, per gli alunni, dal primo giorno di scuola all’ultimo) prevista dal CCNL si può considerare, se ritenuto didatticamente valido, attività “ordinaria” per gli studenti, ma non certo per i docenti, che dal 1 al 14 settembre sono impegnati nelle attività funzionali propedeutiche all’avviamento dell’anno scolastico, che sono sempre molte, e quest’anno ancora di più, come è ovvio. La proposta di concentrare il buco nero di tre mesi e rotti a distanza in due settimane di corsi alla spicciolata, gratuiti e senza ricontrattazione, magari anche a online («in alcuni casi in presenza, in altri, per il secondo grado, a distanza» – è scritto nero su bianco nel comunicato del MI del 29/08/2020[5]), per i soli alunni ‘rimandati’ dovrebbe dunque suonare solo ridicola. Eppure è esattamente quello che è successo.

“Ma intanto si comincia, meglio che niente; la legge dice che poi là dove c’è bisogno si prosegue” – potrebbe essere una sensata obiezione da parte di chi a scuola non ci abita. Ed è importante cercare di spiegare perché questa soluzione è mera pubblicità per solide ragioni didattiche.

La prima argomentazione riguarda la assoluta assurdità di permettere il recupero a distanza delle lacune determinate dai limiti della didattica a distanza, che sono ancora gli stessi di metà giugno. In secondo luogo, ricordiamo che gli insegnanti e i loro alunni non si sono rivisti in presenza, in classe, dal 4 marzo (in alcune regioni da prima). La distanza ha messo in evidenza le difficoltà di sguardo connesse con il mezzo, di cui hanno fatto esperienza, e abbondantemente (stra)parlato, tutti. Per mettere in atto, per davvero, un piano di recupero che non sia «“un mero adempimento formale”, ma nasca dalla “necessità di garantire l’eventuale riallineamento degli apprendimenti” dato il particolare anno scolastico vissuto da marzo a giugno dai nostri ragazzi» (sempre comunicato MI del 29/08/2020) è necessario, prima, in classe, tornarci tutti e ripristinare la relazione didattica: incontrare i ragazzi, misurare lo spazio virtuale che ci ha separato nei mesi di scuola a distanza e quello reale dei mesi estivi, ascoltare, dialogare e provare a comprendere. Solo dopo questo primo e necessario atto, sarà possibile elaborare un piano serio che (lo dice l’OM 11, quando parla non solo di PAI, ma anche di PIA) non riguarda soltanto gli alunni insufficienti, ma, ancora prima, l’intera classe. Dal punto di vista didattico, è perfettamente ovvio che prima di procedere a corsi di recupero mirati per quegli alunni che abbiano lacune consistenti, io debba progettare un recupero complessivo per tutti gli alunni, il quale recupero dovrebbe, idealmente, già servire a colmare parte di quei disallineamenti presenti negli alunni più fragili.

Invece, il 26 agosto 2020 è stata diffusa la Nota MI 1494 “Piano di integrazione degli apprendimenti e Piano di apprendimento individualizzato. Indicazioni tecnico operative”, a firma del Capo Dipartimento per il sistema educativo di istruzione e formazione Marco ‘Max’ Bruschi. La Nota, giocando sul significato delle parole «attività ordinarie», andando contro a quanto previsto dal CCNL, non esita a dichiarare che i corsi di recupero compresi tra il 1 e il 14 settembre 2020 vanno intesi «nell’alveo degli adempimenti contrattuali ordinari correlati alla professione docente e non automaticamente assimilabili ad attività professionali aggiuntive da retribuire con emolumenti di carattere accessorio». Inoltre, sarebbero da pianificare non dagli organi collegiali (che si riunisce non prima del 1 settembre), come previsto dal CCNL e dallo stesso art. 1 comma 2 della L. 41/2020, ma dai dirigenti scolastici, «nell’esercizio del potere organizzativo loro riconosciuto dalle vigenti norme» e «con propri atti».

Solo in subordine, qualora (ma dai?!) 12 giorni non fossero sufficienti a recuperare tutti gli apprendimenti lasciati indietro nelle classi e per gli alunni più fragili, «per le attività che invece debbano svolgersi nel prosieguo dell’anno scolastico 2020/2021» è previsto di destinare a questa attività che a parole si dice prioritaria «i risparmi, dovuti alla diversa configurazione delle Commissioni degli esami di Stato, per metà all’incremento del Fondo per il funzionamento delle istituzioni scolastiche e “per la restante metà al recupero degli apprendimenti relativi all’anno scolastico 2019/2020 nel corso dell’anno scolastico 2020/2021”. La destinazione avverrà a seguito della ricognizione dei predetti risparmi, al termine della sessione straordinaria degli esami di Stato». In altre parole, nessun investimento ulteriore per sanare le lacune, culturali, relazionali e pedagogiche, intercorse nel periodo di distanza, ma solo i risparmi dovuti al fatto che all’esame di Stato (esame, e costi relativi, che poteva essere evitato tout court: mi concedo un “lo avevo detto”[6]) c’erano più commissari interni e l’invito ai presidi a violare il contratto collettivo nazionale[7].

E così si torna all’inizio: parole parole parole vs investimenti. Quelli che mancano, per ripartire. E quelli che sono mancati, sempre. L’esperienza è generalizzata e comune: nelle scuole italiane mancano le necessità di base: sapone, asciugatutto, penne e pennarelli, carta e carta igienica. Tutti materiali che sono stati pazientemente forniti, anno dopo anno, dalle famiglie: dall’infanzia a tutta la primaria, attraverso donazioni dirette che fanno parte delle richieste usuali delle scuole a inizio anno; alle medie e alle superiori attraverso l’istituto del “contributo volontario”, che spesso serve in questi casi a fornire alle scuole non più o non tanto carta, ma, per esempio, forniture di base ai laboratori nei tecnici e nei professionali, o altri materiali di prima necessità didattica. Lo spirito di sacrificio con il quale la società civile ha supplito a queste carenze strutturali riguarda tutti. Perché altrimenti la scuola dei nostri figli sarebbe stata priva di mezzi, perché il contributo richiesto era, diviso per tutti, una cifra relativamente piccola e affrontabile – e dunque pagarlo era il modo più veloce per risolvere un problema immediato e contingente, la cui mancata soluzione ne avrebbe causati altri, assai più gravi e pressanti: un’impossibilità sostanziale di garantire condizioni minime di praticabilità didattica. Ma bisognerebbe ricordare che la scuola noi cittadini la finanziamo già, in forma indiretta, con quel nobile istituto che prende il nome di fiscalità pubblica. E sarebbe dunque anche ora di fare, tutti, una enorme ammenda collettiva – magari per progettare una bella inversione di tendenza – e pensare che, sostituendoci a chi quei materiali doveva fornirli, non abbiamo fatto un atto di supplenza civica, ma abbiamo avallato la sostituzione individuale per beneficenza di un diritto sociale.


Note
[1] Segnalo, nel mucchio, il sintetico e acuto intervento di C. Foà – M. Saudino, La scuola è finita. E ora? Riflessioni sulla didattica a distanza, «Volere la luna», 19 aprile 2020: https://volerelaluna.it/in-primo-piano/2020/04/19/la-scuola-e-finita-e-ora-riflessioni-sulla-didattica-a-distanza/ (u.c. 13 luglio 2020).
[2] Cfr. https://www.miur.gov.it/documents/20182/0/Lettera+alla+comunit%C3%A0+scolastica.pdf/5794498d-4612-9e65-74f8-8a788fa2bfdf?version=1.0&t=1593257124535 (u.c. 13 luglio 2020).
[3] Cfr. https://www.miur.gov.it/documents/20182/2432359/OM+VALUTAZIONE+FINALE+ALUNNI+A.S.+19-20+RECUPERO+APPRENDIMENTI+.0000011.16-05-2020.pdf/c665ee9e-1752-c808-ce67-9f3e3c02ef7e?version=1.0&t=1589784478152 (u.c. 13 luglio 2020).
[4] Cfr. https://www.edscuola.eu/wordpress/wp-content/uploads/2020/06/Legge-6-giugno-2020-n.-41.pdf (u.c. 29/08/2020).
[5] Cfr. https://www.miur.gov.it/web/guest/-/scuola-recupero-apprendimenti-ci-sara?fbclid=IwAR0IKD-_HMk-fuQeS4ykjTYrIRcFQPuF-YDT_W-5ogSwUuLVRqMCmLINdDY (u.c. 29/08/2020).
[6] Cfr. O. Innocenti, Dov’era Gondor quando cadeva l’Ovestfalda, «La letteratura e noi», 9 giugno 2020: https://www.laletteraturaenoi.it/index.php/scuola_e_noi/1202-%E2%80%9Cdov%E2%80%99era-gondor,-quando-cadeva-l%E2%80%99ovestfalda%E2%80%9D-l%E2%80%99esame-di-stato-2020-tra-retorica,-simboli-ed-errori-di-calcolo.html (u.c. 29/08/2020).
[7] Sulla illegittimità della Nota Bruschi rimando al comunicato congiunto emanato dalle organizzazioni sindacali: http://www.gildains.it/public/documenti/10492DOC-207.pdf (u.c. 29/08/2020).

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Car* Prof, disobbediamo - Coord. Collettivi studenteschi Mi

 

Car* Prof, sono ormai passati sette mesi dalla chiusura delle scuole a causa della pandemia da Covid-19. La Fase 1 l’abbiamo passata tutt* chius* in casa e per noi “mondo della scuola” ha significato didattica a distanza. Durante la Fase 2 ci era concesso andare a correre, fare qualche giro in bicicletta e poco altro. Nella Fase 3 ha riaperto tutto. Tutto, tranne le scuole. Perché noi “mondo della scuola” siamo l’ultima ruota del carro, oramai da troppi anni. Ripartenza sì, ma per chi? Riparte il profitto dei soliti pochi, in barba a tutto il resto della popolazione, senza pensare alla formazione di quelli che saranno i futuri cittadini di questo paese.

Sulla riapertura, tutti hanno detto molte cose, ma nella migliore delle ipotesi tutte tese a salvaguardare le briciole che concedevano prima, un’ottica miope per un Paese che conta uno dei più alti tassi di dispersione scolastica, chi ridarà i suoi quindici anni o i suoi otto anni a Mohamed, Marco, Sofia o Jasmine? Qualcuno ci ridarà questi mesi o forse qualcuno pagherà per aver ritenuto più importante la produzione di F35 che la nostra formazione?

Non vogliamo difendere lo status quo, almeno la capacità di sognare e di immaginare altre scuole possibili vogliamo tenercela stretta. Non possiamo accettare che le scuole siano state chiuse ma non possiamo accettare neanche che nulla sia stato detto né tanto meno fatto su come cambiare una scuola che, da molto prima del Covid, fa acqua da tutte le parti a causa dei governi che, uno dopo l’altro, hanno tagliato miliardo dopo miliardo i fondi all’istruzione pubblica, preferendo il finanziamento del privato.

Un banco qua, una mascherina là, come se questo bastasse a eliminare i numerosissimi problemi che da anni denunciamo. Classi pollaio, precarietà, scuole che ci cadono in testa, insegnanti che mancano e, quando ci sono, con gli stipendi più bassi d’Europa, la percentuale di dispersione più alta d’Europa, la scuola-impresa, i presidi-manager, la retorica di studentesse e studenti “preparat*” al mondo del lavoro e la concretezza di non essere preparat* a essere cittadin* attiv*, la didattica frontale tale e quale a settanta anni fa, le pochissime gite. E ancora la valutazione quantitativa, i test invalsi, scuole di serie A e di serie B, le ripetizioni private, i soldi pubblici alle scuole private, la dote scuola alle scuole private, le scuole private, le scuole cattoliche, l’educazione sessuale mancante, la completa mancanza di educazione ecologica nonostante l’emergenza climatica.

Non una proposta su come cambiare la scuola, su come reinventarla per costruire una scuola equa, solidale, cosmopolita, su come costruire la scuola nell’era della pandemia globale e del mondo globalizzato, su come uscire insieme da questa situazione dove il profitto conta sempre più delle vite umane. Le possibilità sono tante, l’educazione all’aperto, nei parchi, nei luoghi pubblici, negli spazi dismessi delle caserme, difesi e tenuti inutilizzati in attesa della prossime speculazioni e mai considerati come spazi da restituire alla collettività.

Vogliamo tornare a scuola ma vogliamo anche tutta un’altra scuola con edifici adeguati, programmi rivisti e metodi di insegnamento diversi, una scuola che non lasci indietro nessuno, se no non è scuola. Abbiamo alcune domande che non possono più aspettare, questa scuola tutta tesa a una valutazione anacronistica e non alla comprensione della realtà, va cambiata.

Come studieremo l’ambiente e le scienze? L’economia? Qualcuno ci spiegherà mai il concetto di Spillover, il legame tra la crisi climatica e il virus che ci ha intrappolati e ci intrappolerà nelle nostre stanze? Chi ci spiegherà come funziona il mondo, a partire dai libri di storia? Chi ci racconterà che la rivoluzione è già stata fatta nel 1789 e che si può rifare? Chiusi, isolati per mesi o anni davanti a uno schermo come faremo a diventare le donne e gli uomini del futuro? Come faremo a imparare come va il mondo? Come faremo a imparare a rispettare tutte le persone, senza differenziazione data dal colore della pelle, rispettosi dell’orientamento sessuale di chiunque? Come impareremo a essere solidali con qualunque essere umano, non facendo morire delle persone nel Mediterraneo in nome di un nazionalismo inutile e ottuso, che ha il solo obiettivo di alimentare la guerra tra i poveri?

La nostra socialità, inter-azione, la nostra cospirazione di cervelli è necessaria. Siamo il mondo che verrà, se non volete un mondo di sociopatici, ignoranti, di persone sole e centrate solo su se stesse bisogna essere tutt* partigiane e partigiani, prendere parte, non stare a guardare, non pensare che oramai i giochi sono fatti e niente va più, tutto può ancora andare e cambiare, dipende da noi.

È necessario per noi studentesse e studenti, giovani e, senza retorica, futuro di questa italietta dei malati di Covid nella rsa e dei tamponi mancati, ma è necessario anche per tutti le e gli insegnanti, docenti, educatrici e educatori, ora più che mai, non dobbiamo lasciare indietro nessuno, a partire da una scuola che va re-immaginata come reale possibilità per tutti di vivere meglio, a partire dalle diverse capacità e possibilità.

Vi scriviamo per invitarvi a essere con noi, a immaginare insieme strade percorribili, per prendere parte, per continuare a fare a scuola e a farla meglio. Occupate con noi i parchi, le scuole, le strade! Apriamo le scuole alla città e la città alle scuole, stiamo in classe il pomeriggio e la sera, scioperate con noi facendo lezione in piazza, ribellatevi alla DAD, siate partigian*!

Non chiediamo di lavorare gratis, ma chiediamo di lottare assieme perché voi possiate avere un contratto dignitoso, ma allo stesso tempo riappropriamoci del tempo e degli spazi e dei contenuti scolastici!

Non sedetevi, non arrendetevi, non siate indifferenti! Disobbedite!

Abbiamo perso un sacco di tempo, nessuno ce lo ridarà. Voi non fermatevi ai vostri diritti di lavoratrici e lavoratori, siate insegnanti di vita: non diventate una corporazione chiusa, che difende le briciole, come nella peggiore guerra tra poveri. Non conquistate le briciole sulla nostra pelle, sacrificando sull’altare della DAD la nostra istruzione, il nostro futuro, il nostro diritto, la nostra scuola.

Lottiamo insieme per una scuola più giusta per tutt*!

[Coordinamento dei Collettivi Studenteschi di Milano e provincia]

da qui

 

 

La scuola e la pandemia secondo la Fondazione Agnelli: test INVALSI, capitale umano e PIL - Redazione ROARS

 

 Nessuno sembra prestare attenzione  alla perdita potenzialmente più grande di tutte: quella del capitale umano”, che al momento non è quantificabile, perché “quest’anno le prove standardizzate Invalsi sono state cancellate  [..e ..] la pandemia è stata una scusa per eliminare un passaggio scolastico particolarmente inviso a molti insegnanti e a una parte della politica, anche nella maggioranza“. La  Fondazione Agnelli  allude a vecchi retroscena contro i test standardizzati, antipatici agli insegnanti e a parte della maggioranza di governo. Eppure quei test sarebbero essenziali, ci spiega il direttore Gavosto. Sono i soli a consentire la misura del capitale umano perduto a causa della chiusura delle scuole. Non soffermiamoci, per adesso, sui calcoli effettuati dai ricercatori della Fondazione: una perdita di reddito, distribuita su 40 anni, complessivamente equivalente all’83% del reddito medio attuale. Di questi parleremo più avanti. Osserviamo, piuttosto, quanto la chiarezza tipica degli economisti dell’educazione, oggi onnipresenti nel dibattito pubblico e sulla scena politica, ancora una volta sia capace di riportarci ai fondamentali. Cancellati in un colpo solo i richiami e i discorsi su uguaglianza, equità e cittadinanza con cui l’Istituto di Valutazione ha giustificato in questi anni interventi sempre più invasivi nelle scuole, restano le misure di capitale umano, degli incrementi di reddito, i test INVALSI e il PIL. La scuola, in fondo, oggi, è tutta qui. Per fortuna, la Fondazione Agnelli ce lo ricorda sempre.

 

Questa è un’estate particolare per la scuola italiana. Troppe le incertezze sulla ripresa di settembre, tra carenza di organici, spazi, arredi scolastici, condizioni degli edifici e organizzazione didattica, previsioni sull’evoluzione della situazione sanitaria.

Poche le certezze. Una di queste è che la Fondazione Agnelli sta continuando alacremente a lavorare per noi.  Interventi e dichiarazioni con cadenza ormai più che settimanale sulle colonne dei maggiori quotidiani nazionali, interviste radio o tv,  incontri culturali tematici [1], iniziative socio-pedagogiche o gestionali.

“L’estate offre opportunità che non vanno sprecate per preparare il ritorno a scuola di tutti i ragazzi a settembre, cominciando a recuperare quanto hanno perso durante la lunga sospensione delle attività didattiche.”

ha affermato di recente il presidente della Fondazione, John Elkann.

Ma quanto hanno perso, e cosa, gli studenti durante la pandemia?...

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Come si insegna il Covid a scuola? - Paolo Cacciari

 

Alla fine, speriamo, arriveranno i banchi, gli spazi aggiuntivi, gli insegnati necessari e le scuole torneranno in qualche modo a funzionare. Ma bisognerebbe preoccuparsi anche di come verrà “insegnato” il Covid19 (abbreviazione per COronaVIrus Disease-2019). Verrà ripetuto anche in aula quello che da mesi affermano, come un disco rotto, tv, giornaloni e giornalini e cioè che siamo stati invasi da un “virus cattivo”, attaccati da un “nemico imprevedibile e invisibile” e via inventando un racconto di comodo che ignora le cause profonde, strutturali, scientifiche e sociali delle nuove pandemie emergenti da zoonosi? La drammatica esperienza vissuta da milioni di giovani di tutte le età andrebbe elaborata nelle scuole con amorevole cura e grandi competenze. Sia per contrastare la “pandemia depressiva” causata dalla desocializzazione da distanziamento fisico e da dipendenza da internet, sia per evitare l’imbroglio di una “ripresa” che non cambia nulla, anzi.

L’accurata analisi dei motivi che hanno scatenato l’epidemia sarebbe un formidabile banco di prova per ripensare i modelli pedagogici e didattici in uso nelle nostre scuole. Proprio quest’anno in cui dovrebbe iniziare l’ora di lezione di “educazione ambientale e alla sostenibilità” (voluta dall’ex ministro alla pubblica istruzione Lorenzo Fioramonti). Poca cosa e confinata nell’ambito della “educazione civica”, perciò stesso non idonea a “intrecciare saperi, competenze e pratiche innovative” di insegnati ed educatori/trici. Prendiamo per buoni, comunque, gli auspici del ministro all’ambiente Sergio Costa: “Con l’inserimento dell’educazione ambientale vogliamo far sì che le generazioni future abbiano una coscienza ambientale maggiore di quella che la mia generazione ha dimostrato di avere”. Quest’anno è anche il centocinquantesimo della nascita di Maria Montessori che diceva: “Il bambino è il maestro” (vedi il volume omonimo di Cristina De Stefano, Rizzoli, 2020). Cominciamo quindi con la pratica dell’ascolto e mettiamo in cattedra Greta Tumberg e le altre del suo movimento, che di “coscienza ambientale” sembrano averne già molta.

Per “spiegare” la diffusione delle nuove patologie virali e batteriche non bastano i virologi. Serve staccare l’occhio dal microscopio e guardare come funziona il mondo attorno a noi: naturale e culturale, biologico ed economico, emozionale-spirituale e fisiologico-cognitivo. Rompere gli steccati degli specialismi e acquisire una visione transdisciplinare. Se tutte le cose sono interdipendenti nella grande rete dei sistemi viventi, allora abbiamo bisogno di una “alfabetizzazione ecologica” (Fritjof Capra, Speaking Nature’s Language: Principles for Sustainability, 2011), che può esplicitarsi attraverso un progetto educativo unitario, un’opera ecopedagogica. Le Linee guida e le indicazioni del Miur per l’ora di educazione ambientale sono davvero poca e misera cosa. Per cominciare mi accontenterei di un corso rapido ai docenti sul “salto interspecifico” (spillover) dovuto alla distruzione degli ecosistemi e alla perdita di biodiversità, alla caccia e al commercio degli animali selvatici, agli allevamenti intensivi e al consumo di suolo, agli stili di vita e alla abitudini alimentari. Tutti effetti collaterali di un sistema di sviluppo controproducente.

Nei prossimi giorni non affideremo alla scuola solo l’igiene dei nostri figli, ma anche le loro inquietudini, la loro capacità di comprensione, il loro desiderio di sapere come agire per cambiare questo mondo malato.

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Costi della chiusura delle scuole: è affidabile la Fondazione Agnelli? - Redazione ROARS

 

In un precedente  post abbiamo raccontato come la Fondazione Agnelli (col supporto della pubblicistica nazionale) si sia impegnata durante tutta l’estate a promuovere la necessità di rimettere in piedi al più presto la valutazione standardizzata di tutti gli studenti italiani. Servono i test INVALSI, subito! – ci viene detto – indispensabili per misurare quanto capitale umano è “evaporato” a causa della chiusura delle scuole. Si tratta di una perdita rilevante, sostiene la Fondazione Agnelli: “78 miliardi di euro, ovvero circa il 10 per cento del Pil 2019″. Ma come sono giunti a questo risultato gli economisti più esperti del paese in tema di istruzione scolastica? Per i lettori che non abbiano familiarità con simili calcoli, proviamo a ricostruirne i passaggi più rilevanti. Così, ciascuno potrà giudicare se si tratti di stime attendibili e scientificamente robuste o piuttosto di valutazioni approssimative – anche nel panorama internazionale – che nel discorso pubblico italiano vengono spacciate per dati tecnici con cui il decisore deve confrontarsi. È la solita logica degli strumenti di intimidazione matematica, che servono a giustificare agende politiche predefinite da ristretti gruppi di pressione. Come tutti i salmi finiscono in gloria, altrettanto puntualmente i conti della Fondazione Agnelli servono a glorificare le ricette di sempre: test INVALSI a settembre e un po’ di pedagogia compassionevole di second’ordine…

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DIARIO DELLA PRIMA SETTIMANA DI SCUOLA - Massimo Gezzi

 

Lunedì 31 agosto, in Ticino, siamo tornati a scuola, tutti regolarmente in classe (è il modello che le autorità politiche hanno chiamato “scenario 1”) e senza aver fatto test sierologici o tamponi. Le disposizioni sono piuttosto semplici: a meno di 1 metro e mezzo di distanza da un’altra persona, è obbligatorio l’uso della mascherina. In classe, quindi, gli studenti devono indossarla sempre (tranne quelli situati in un pugno di aule molto ampie che assicurano un distanziamento tra i banchi singoli). Anche nei corridoi e negli spazi comuni si porta la mascherina, e anche nel piazzale antistante il liceo (a meno che ci si riesca a tenere a un metro e mezzo dagli altri). I docenti, opportunamente distanziati, in classe possono non indossarla. Nel caso in cui le cose peggiorassero, si passerebbe allo scenario 2: a turno, metà classe in presenza e metà a casa, a svolgere attività programmate. In caso di un altro lockdown, si passerebbe allo scenario 3: la didattica a distanza. Ho scritto di getto, giorno per giorno, un diario di questa prima settimana di scuola.

 

Lunedì 31 agosto

 

La prima cosa della giornata è mia figlia che viene nel letto, alle 7 in punto, e dice esattamente così: «Non vedo l’ora di tornare a scuola!». Andrà in seconda elementare, i materiali sono tutti pronti, e quando la accompagniamo facciamo appena in tempo a darle un bacio prima che lei si lanci dietro ai suoi compagni, in fila, impaziente di entrare nella sua nuova aula.

 

Chissà quanti dei nostri studenti avranno pensato o pronunciato quella frase, nei giorni scorsi. Pochi, forse. Eppure quest’anno è diverso, lo sappiamo tutti. Quest’anno non è solo tornare a scuola: è riconquistare un diritto, riprendersi il proprio posto. La prima cosa che dirò, quando oggi accoglierò le mie classi, sarà allora «Bentornati, bentornate», che è la parola con cui Andrea Pomella chiude un bel libro che ho letto quest’estate. Il libro si intitola I colpevoli, e quell’augurio viene rivolto dal  protagonista – che poi è anche l’autore del libro – al padre con cui non ha relazioni da trentasette anni. Ci siamo visti in classe l’ultima volta l’11 marzo, se ricordo bene, e mi sembrano trentasette anni che non ci si vede. Sarà faticoso, certo. Dovremo indossare le mascherine e i bronci, i sorrisi, le parole bisbigliate a bassa voce al compagno non si vedranno. Però ci saremo, ci guarderemo negli occhi e ci ascolteremo. Ristabiliremo la relazione didattica e umana senza la quale non esiste scuola.

 

Quando li rivedo, tutti diligentemente mascherati, è molto strano. Uno non lo riconosco. Forse è uno studente nuovo, mi dico; glielo chiedo anche, e lui sta al gioco: «Sì, sore [prof.], sono nuovo», risponde. Invece è N., e io faccio la prima figuraccia dell’anno. Senza cappellino e con la mascherina N. sembra un altro. Invece poi ride forte, per fortuna, e tutto torna al suo posto: sono usciti dal nero infernale delle videocamere spente, sono di nuovo vivi. Bentornato anche a te, N.

 

D. scuote la testa, quando elenco i punti del protocollo anti-covid. Questo scetticismo non vuol dire che si opporranno alle regole: sono certo che tutti indosseranno regolarmente la mascherina in aula e nei corridoi, come prescrivono le direttive. Non riescono a capire, forse, perché la scuola sia considerata quasi un mondo a parte: fuori pranzano insieme, escono, possono andare in discoteca (per un totale di cento a sera in un locale), nei negozi la mascherina non è obbligatoria e non la indossa quasi nessuno, mentre a scuola sì. Io la tolgo, vicino alla lavagna, perché le direttive me lo consentono: parlo con più agio, loro mi sentono meglio e seguono con più attenzione. I ragazzi invece non possono toglierla, né dentro né fuori. Ma quando li saluto e mi avvio, sul piazzale della scuola fioccano già gli abbracci. Forse dovrei farlo ma oggi, e in questo momento, non riesco a dissuaderli.

A domani, dunque. Sono curioso di vedere che succede in classe, con le lezioni normali.

 

Martedì 1 settembre

 

Ho cinque ore di fila, la prima mattina. Due classi del tutto nuove. Problema pratico: come farò a riconoscerli? Ho le foto che la scuola ha scattato a tutti in prima, d’accordo, ma a questa età i ragazzi cambiano rapidamente, e con la mascherina vedo occhi, occhiali, capelli, ma non volti, espressioni, facce.

 

Mi presento, poi chiedo loro chi sono, quali sono i loro interessi. Chiedo cos’hanno letto durante le vacanze. Nella prima classe quasi nessuno ha letto un libro (tra le eccezioni A., che ha scelto Kundera, e pochi altri). Nella seconda idem (a parte A., che ha letto Belli e dannati di Fitzgerald). Nella terza va meglio: hanno letto Vonnegut, Orwell, persino La vita oscena di Aldo Nove. Li chiamo tutti, li faccio parlare, li invito a raccontare la loro estate (molti hanno guardato serie su Netflix anche di giorno, purtroppo). Poi tocca a me, con il piccolo numero di prestigio che di solito provoca borbottii e qualche scompiglio: rovescio il mio zaino e butto sulla cattedra le mie letture estive. C’è il libro di Pomella; quelli di Daniele Garbuglia (Fare fuoco), di Giovanni Montanaro (Tutti i colori del mondo), di Fuani Marino (Svegliami a mezzanotte); c’è L’educazione sentimentale di Flaubert nella traduzione di Lalla Romano; ci sono i saggi di Mario Lavagetto (Oltre le usate leggi. Una lettura del Decameron) e di Massimo Bucciantini (Addio Lugano bella. Storia di ribelli, anarchici e lombrosiani); ci sono i libri di poesia di Andrea Bajani (Dimora naturale), di Tommaso Di Dio (Verso le stelle glaciali), di Marco Villa (Un paese di soli guardiani). Qualche altra cosa. Comincio a raccontare Montanaro, Pomella, Garbuglia; con la classe che conosco meglio – e con cui abbiamo già studiato Boccaccio – parlo del libro di Lavagetto, leggo qualche poesia. Non so spiegare perché, ma sto bene. Ho vissuto con angoscia e frustrazione i mesi che vanno da marzo a giugno, la cosiddetta “scuola a distanza” (che scuola non potrà mai essere: al massimo didattica). Sto bene perché ci guardiamo, perché vedo, percepisco l’interesse o la noia (una già smanetta sotto il banco con il cellulare: faccio finta di non vedere); perché sento di avere riconquistato anch’io il mio posto e la mia funzione. Voglio ripartire da qui. Quest’anno voglio provare a costruire, nel mio piccolo, una scuola meno basata sulla valutazione e più sulla relazione, sulla mediazione culturale e anche umana. Vorrei che l’esperienza dell’anno scorso avesse davvero lasciato qualcosa anche a noi che insegniamo. Lo spero.

 

Mercoledì 2

 

Gli studenti che ho davanti oggi sono quelli dell’Opzione complementare (OC) Storia della cultura: un percorso di letture attraverso la grande letteratura europea dell’Otto e del Novecento che al liceo, purtroppo e paradossalmente, rischia di rimanere fuori dai programmi. Durante il periodo di scuola a distanza li ho lasciati molto liberi: potevano scegliere un libro, leggerlo, e raccontarmi le loro impressioni di lettura in un diario elettronico visibile solo a me, senza alcuna valutazione. In pochi l’hanno fatto. Eppure dovrebbero aver scelto questa Opzione – ognuno sceglie liberamente la propria OC – perché interessati alla lettura, alla letteratura. Chiedo loro come mai. Cos’è successo. Mi rispondono quello che già temo: K. mi dice che le sembrava di sottomettere la lettura, che deve rimanere un gesto libero, al vaglio di un professore. Giusto, penso. Ma qui non c’era valutazione, ribatto: solo il gusto, forse la necessità di condividere qualcosa tra di noi (noi chi? L’illusione del “noi” a volte è più perniciosa di quella del “tu”, come sanno bene i poeti). A. mi spiega che si sentiva prigioniera della sua testa, e che leggere non le consentiva di evadere, di allentare le catene. Ma certo: è successo anche a me, a molti. Durante il lockdown non si riusciva a leggere. La realtà, composta da una faccia effettuale e da una fantasmatica alimentata dai media, era più forte di qualsiasi libro. Era impossibile distrarsi, staccare (o collegare) la spina. Allora l’estate sarà servita anche per ricominciare a leggere, insinuo. E infatti sì, loro hanno letto molto. Chi in tedesco, chi in inglese, chi in italiano. L., per esempio, ha letto tutti I promessi sposi in tre giorni: senza il pungolo e l’imposizione di un professore di italiano, mi dice, li ha letti con grande piacere: è un libro bellissimo, conclude. Me ne rallegro, anche se mi convinco sempre di più che il mestiere che faccio rischia di mettermi nelle condizioni del borghese di Teorema di Pasolini (che «in qualsiasi modo agisce, sbaglia»).  E comunque, ricominciare a leggere dopo un periodo di cecità: forse abbiamo fatto anche questo. La prossima settimana parliamo di Madame Bovary, che faceva l’esatto contrario di quel che abbiamo vissuto noi: costruiva la propria vita a partire dall’immaginazione, dalle fantasticherie alimentate dai libri. Chissà cosa ne penseranno.

 

Giovedì 3

 

Questi sono gli allievi del Lavoro di maturità (LAM), una tesina che gli studenti devono scrivere tra il secondo semestre della terza e il primo della quarta, che in Svizzera (nella maggioranza dei cantoni) è l’ultima classe di liceo. Ho ereditato questo LAM da Fabio Pusterla, che ha insegnato per vent’anni nella mia scuola e l’anno scorso è andato in pensione (anche se continua a insegnare all’università, per fortuna). Si intitola Le storie di qualcuno ed è un lavoro di scrittura narrativa. A. mi racconta che durante il lockdown non ce l’ha fatta: non riusciva a scrivere, non le veniva proprio nulla. L’estate è andata meglio, invece. Anch’io non ho scritto nulla, le dico, quando ero a casa. A volte desideriamo l’isolamento, per scrivere meglio e di più, e invece il confinamento ci ha prosciugato di tutte le parole, lette o scritte. L’importante è essersi sbloccati, la incoraggio. Sì, sorride lei da dietro la mascherina.

 

D. invece ha passato l’estate in giro per l’Europa. Ha fatto un interrail, proprio quest’anno, evitando i Paesi più a rischio. Ma doveva farlo, per molti motivi, ed è filato tutto liscio. È partito da solo. Ha letto molto, sul treno. Gli è piaciuto in particolare Walden di Thoreau. Ha più di 30.000 parole da farmi leggere: le leggerò tutte con grande attenzione e trasporto, ne sono certo.

 

Rieccoci, insomma. Il giro delle classi è concluso. Il primo contatto è stato positivo. Cerchiamo di prenderci cura di questo luogo e di questo tempo, penso mentre chiudo la porta dell’aula e torno a casa.

 

Venerdì 4

 

Oggi succede quello che molti si aspettavano: a metà mattina circola la notizia che due studenti di due scuole del settore post-obbligatorio (non la nostra) sono positivi al coronavirus. L’hanno contratto fuori dalla scuola, forse in una discoteca, ma poi sono stati in aula con tutti gli altri. Vediamo che succede ora, penso. La reazione generale è ragionevole e pacata: l’Ufficio del Medico Cantonale non ordina la quarantena per tutta la classe (e per i relativi docenti), ma si limita a contattare alcuni compagni con i quali i due hanno pranzato o passato del tempo senza accorgimenti al di fuori della scuola. Le misure di protezione (obbligo di mascherina o distanza di 1.5 metri) garantiscono una certa tranquillità per le scuole. Per i prossimi dieci giorni (non quattordici, come in Italia) i ragazzi che sono stati a stretto contatto con i due positivi dovranno rimanere a casa. Succederà ancora, prevede il medico cantonale, ma le misure che abbiamo adottato e che dobbiamo rispettare tutti ci consentiranno (speriamo!) di andare avanti e di non precipitare nel caos. Noi insegnanti dovremo essere comprensivi, flessibili, consentire a chi è in quarantena di non restare indietro e di non sentirsi minacciato dalle lacune accumulate nelle varie materie (molte di più rispetto a quelle insegnate in un liceo italiano). Un bell’esercizio per tutti. E d’altronde è una cosa che dovremmo già saper fare, non solo in relazione alle condizioni sanitarie ma anche a quelle sociali e familiari degli studenti.

 

Così la prima settimana è passata senza grandi intoppi, a quanto pare. Sono stanco, ma sereno. La macchina è ripartita. Ho acceso il computer per scrivere questo diario, rispondere alle mail, lavorare per le lezioni o per «Le parole e le cose». In aula ho scritto con il gesso sulla lavagna di ardesia.

 

da qui

 

 

RIENTRO A SCUOLA: COME NON SCHIANTARSI - Mauro Piras

 

Che cosa succede con la scuola, a pochi giorni dal rientro in aula? L’impressione generale, nei media e nell’opinione pubblica, è di una grande confusione. Forse i media esagerano, e certo la paura della pandemia provoca reazioni irrazionali. Ma l’incertezza è condivisa anche dagli addetti ai lavori. Molte cose non vanno per il verso giusto, ci sono gravi ritardi. Perché?

 

Che cosa è andato storto?

 

In primo luogo, paghiamo gli errori della politica scolastica. C’è un grande bisogno di docenti di ruolo, ma non li abbiamo, perché i concorsi previsti fin dal 2017 dalla Buona scuola, e che si sarebbero già conclusi, sono stati invece bloccati e rinviati dai governi successivi. E così partiremo con un gran numero di supplenze, in piena emergenza.

 

Secondo, paghiamo i ritardi delle decisioni politiche. Durante il lockdown è stato fatto un decreto scuola che prevedeva due scenari: rientro a scuola entro il 18 maggio, oppure scuole chiuse fino a settembre. Sappiamo come è finita. Ma a quella data, quando si è deciso, dovevano essere già pronti i primi documenti per tornare in aula. Due soprattutto: il Documento tecnico del Comitato tecnico scientifico (CTS), con le misure di sicurezza e contenimento, e le Linee guida del Ministero dell’Istruzione (MI), per organizzare le attività didattiche. Intorno al 18 maggio bisognava avviare tutte le azioni per ripartire a settembre: definire le distanze di sicurezza tra gli alunni, misurare le aule, trovare i banchi, trovare nuovi spazi, trovare nuovi docenti, studiare le forme di flessibilità orarie ecc. Invece niente. Il Documento tecnico del CTS è uscito il 28 maggio, forse c’era ancora qualche speranza di recuperare il tempo perso. Invece no. Le Linee guida del MI sono uscite il 26 giugno, con enorme ritardo. Tutte le cose da fare erano ancora davanti alle scuole, alle Regioni e agli enti locali. Dopo si sono accumulati altri ritardi; è inspiegabile, per esempio, perché le Linee guida sulla Didattica digitale siano uscite solo il 7 agosto, e perché i tavoli tra Regioni e CTS per i trasporti si siano aperti solo in questi giorni. Non si poteva fare prima tutto questo?

 

Il populismo No DAD

 

Ma la terza ragione di questo caos è un’altra. Il CTS a fine maggio aveva chiesto esigenti misure di distanziamento e suggerito, tra l’altro, la riduzione del monte ore e l’uso della didattica a distanza, a partire dalla scuola media, a integrazione di quella in presenza. Nel frattempo, però, si è sviluppato un movimento, di famiglie, docenti, associazioni e ahimè anche sindacati, che ha pestato su un unico pedale: “la vera scuola è quella in presenza, la didattica a distanza (DAD) è il demonio, a settembre tutti a scuola, nessuno deve perdere un’ora”. Aspirazioni sacrosante, ma si dimentica che l’emergenza non è passata, il virus circola e stare riuniti in tanti per molte ore in un luogo chiuso non aiuta. I numeri in risalita di questi giorni lo provano. Certo, sappiamo che ci sono situazioni in cui la DAD non si può usare: gli alunni della scuola dell’infanzia e della primaria, i disabili. Situazioni per cui bisogna trovare altre soluzioni. Ma questo non giustifica la demonizzazione della DAD. Invece la maggioranza di governo, a un certo punto, ha deciso di schiacciarsi su questo “populismo No DAD-Tutti in classe”.

 

Le conseguenze sono evidenti. Le Linee guida sono uscite con grande ritardo. Come già è stato osservato più volte, per esempio da Andrea Gavosto (Fondazione Agnelli), non hanno previsto scenari intermedi, ma solo il rientro per tutti (rischio basso) e il lockdown (rischio alto). E se il rischio è medio? Nessuna soluzione flessibile? Inoltre, si è immaginata una scuola in cui, pur con la pandemia in corso, si è tutti presenti. Il governo ha spinto il CTS a ridurre le misure di distanziamento; ha puntato sugli arredi delle aule; ha limitato la didattica a distanza, come integrazione di quella in presenza, alle sole scuole superiori; non ha mai preso in considerazione la proposta di ridurre il monte ore obbligatorio, per permettere più facilmente delle turnazioni. Il mito è “tornare in classe”. In che condizioni? Senza sicurezza, inchiodati ai banchi e da mille regole rigidissime?

 

Si è detto, da molte parti: se troviamo gli spazi e i docenti, possiamo fare tutti didattica in presenza, è solo questione di investire più risorse. Quando è stato detto era già troppo tardi. Per trovare gli spazi ci vuole molto tempo. Anche per trovare i docenti ci vuole tempo. Invece tutte queste cose sono state pensate dopo che l’ordinaria amministrazione era già partita, che erano state formate le classi con i soliti criteri, assegnati gli organici con i soliti criteri. Un’operazione di tale portata andava messa in cantiere il 9 marzo.

 

Che fare?

 

Che cosa si può fare, ora? Avviare l’anno scolastico con le norme previste, semplificandole. Nell’ambito delle norme approvate, lo screening per il personale scolastico sarebbe più utile se fosse obbligatorio, e si potrebbero fare dei test  a campione (anche su campioni aggregati, i cosiddetti pooled test), periodicamente, su studenti e personale della scuola, come già suggerito a suo tempo dal CTS.

 

Ma bisogna prevedere anche uno scenario intermedio rispetto al lockdown. La soluzione è quella che hanno realizzato altri paesi: didattica per piccoli gruppi, alternando momenti in presenza e momenti a distanza, con grande flessibilità; autorizzare quindi la didattica a distanza anche per le medie; possibilità di convertire una parte del monte ore obbligatorio in attività a distanza (il ritornello, che i politici ripetono come dischi rotti, “non si perderà un’ora di scuola”, ci sta portando dritti a schiantarci contro un muro).

 

Se vogliamo tenere aperta la scuola, se vogliamo convivere in modo intelligente con il virus, invece di buttarci a capofitto in un’altra chiusura delle attività didattiche, il movimento No-DAD non va seguito. Altrimenti si conferma che questo governo vive sotto il ricatto del populismo, sia interno che esterno alla sua maggioranza.

da qui

 

 

Il virus del panico - Linda Maggiori

 

La scuola inizia con provvedimenti diversi a seconda di regione, comune e istituto, rischiando in molti casi di fare passi indietro da gigante in fatto di rispetto dell’ambiente e dei diritti dei bambini.

Sebbene le linee guida nazionali siano abbastanza ragionevoli, ogni regione e dirigente può restringere le maglie a piacimento. Un esempio è il delicato momento del distacco “inserimento” dei bimbi piccoli: le linee guida tutelano “l’inserimento di bimbi materna e asilo… con la presenza di un solo genitore, nel rispetto delle regole generali di prevenzione dal contagio… durante tutta la permanenza all’interno della struttura”. Nella scuola di mia figlia di tre anni, a Faenza, questo non avviene. Nessun genitore può varcare il portone della scuola e il bimbo è lasciato direttamente alla maestra senza alcun momento di inserimento. Non è certo la pedagogia della lentezza e del rispetto che abbiamo studiato all’università.

Scrive Teresa, maestra in una scuola materna in Lombardia: “Dobbiamo portarli in bagno in fila indiana con le braccia incrociate, stando attenti che lungo i corridoi non tocchino nulla e non invadano lo spazio degli altri bambini. La didattica con i “campi di esperienza per la scuola dell’infanzia” è andata letteralmente a farsi friggere. Impossibile reggere questi ritmi fino a fine anno”.

Eleonora mamma di Faenza, aggiunge: “È tutto assurdo, a noi hanno detto che se fuori vediamo bambini di altre sezioni è vietato che giocano insieme, perché devono restare delle bolle. Se vado al parco quindi devo decidere con chi può giocare o no? Questo non l’ho ancora capito”.

In alcune scuole materne non sono più permessi riposini, perché “poco igienici” e neppure i canti perché cantare “emana troppi virus”.

Un disastro non solo pedagogico ma anche ambientale. Sulle mascherine è una saga senza esclusione di colpi: fino a qualche settimana fa era obbligatorio l’usa e getta, poi il CTS attaccato dagli ambientalisti ha fatto marcia indietro e permesso anche quelle lavabili di comunità, ma alcune regioni restano all’obbligo dell’usa e getta. Racconta Giuliana, di Marradi (Firenze): “Da mesi stanno distribuendo gratuitamente trenta mascherine al mese per ogni cittadino, obbligatorie le usa e getta, non sono ammesse quelle in tessuto, se non come scorta”.

In molte scuole addirittura verranno concesse solo merendine confezionate per la ricreazione, vietata la frutta (senza alcuna motivazione scientifica), in altre scuole si richiedono sacchi di plastica per contenere vestiti e giubbotti. Gli imballi a quanto pare, trionferanno un po’ ovunque. Il gel disinfettante (usato in abbondanza sui bambini e su ogni superficie) comporterà un ulteriore consumo di imballaggi plastici e sostanze inquinanti.

Molte scuole prevedono vassoi e contenitori monouso per la mensa, anche se le linee guida lasciano spazio a stoviglie lavabili. La caraffa purtroppo non è più permessa in nessuna mensa.

Anche sul piano della mobilità sostenibile è un delirio. Quest’anno alla ripresa 2,5 milioni di bambini e ragazzi cambieranno mezzo di trasporto. Dai mezzi pubblici alle auto, per paura del Covid, per ridotta capacità mezzi pubblici, per ingressi scaglionati (facile.it).

La recente riforma del Codice della Strada purtroppo non ha reso obbligatorie a livello nazionale le strade scolastiche, come più volte richiesto dalle associazioni (sono state inserite come mera definizione ma nulla di più). Rarissime inoltre sono le scuole primarie che garantiscono il diritto di uscita autonoma ai bambini più grandicelli. E così nonni e genitori si accalcheranno davanti ai portoni (alla faccia del Covid) per accompagnare a casa ragazzini di dieci anni rigorosamente in auto.

Alcune scuole particolarmente zelanti, considerano infette anche le bici e vietano di parcheggiare la bici nei cortili interni. Roberta di Como sottolinea: “Ci hanno detto che non si possono più parcheggiare le bici in cortile, perché sono oggetti personali dei bambini. Però le auto delle maestre, dei collaboratori e dei fornitori non creano problemi”. Irene, di Treviso aggiunge, spaesata: “Non so come fare. Fuori dalla scuola non ci sono rastrelliere, cercherò dei pali sicuri”. Ad Arcore hanno messo nastri adesivi sulle rastrelliere (eliminando un posto sì e uno no) per garantire il distanziamento delle biciclette…

Dalla Svizzera, Carlo (che ha due bimbe e una moglie insegnante) ci guarda stupefatto: “Da noi la scuola è iniziata con serenità. I nostri bambini fin dalle materne a scuola ci vanno da soli e tornano da soli in bici o a piedi. I bambini stanno spesso fuori, anche alle primarie, si lavano le mani in classe, la maestra non ha la mascherina, la mette solo se si avvicina molto. Due volte alla settimana disinfettano le superfici”.

da qui

 

 

Barbiana e la scuola 2020 - Dimitris Argiropoulos

 

L’edizione in lingua araba di Lettera a una professoressa comprende una prefazione di Francesco Gesualdi e una di Dimitris Argiropoulos, tradotte in inglese e francese. Pubblichiamo uno dei paragrafi della prefazione, dal titolo “La pedagogia della Scuola di Barbiana in Lettera a una professoressa“. In questo link invece è leggibile la versione araba.

 

La pedagogia di Barbiana

Lorenzo Milani ha dedicato la vita alla formazione dei giovani delle classi popolari. La sua azione educativa era ispirata al Vangelo e partiva dalla valutazione dell’inferiorità sociale e culturale dei giovani montanari, con l’obiettivo di emanciparli dalla timidezza1, e aiutarli nello sviluppo di personalità libere e autonome.

La sua concezione pedagogica emerge dagli scritti e dalle Lettere collettive, tuttavia è nella strutturazione della scuola di Barbiana che trova la sua più chiara espressione. La sua idea di educazione non è concettualizzata in modo rigoroso e inflessibile, il priore non era un improvvisatore: la sua azione educativa restò sempre sottesa da pensiero costante, studio, attenzione e cura. Nonostante fosse isolato sul monte Giovi, leggeva2 molto, si confrontava con amici e intellettuali, contribuendo al dibattito europeo del suo tempo, intuendo verità che anni più tardi avrebbero trovato conferma e riconoscimento scientifico.

Con il suo operato don Milani ha incarnato il proprium della pedagogia, cioè «quello di essere disciplina prassica che deve continuamente porre le teorie al vaglio della prassi, autoregolando il “pensare su… con l’agire per…»3Il pensiero pedagogico del priore si sviluppa in due direzioni.

1. Critica del sistema scolastico: a partire dall’esperienza di San Donato don Milani comprende il legame tra origine sociale ed esito scolastico, rapporto che diventa palese nelle sue drammatiche conseguenze con l’avvio della scuola media unica.

Don Lorenzo è convinto che per adempiere al dettato costituzionale l’uguaglianza non vada calcolata sulla libertà di accesso ma sulle opportunità di riuscita (uguaglianza sostanziale). Sviluppando queste riflessioni il priore, lettore accanito di saggistica francese4, si trova in linea con le idee su cui dibattevano in quegli anni i cosiddetti sociologi della “riproduzione sociale”: Louis Althusser, Pierre Bourdieu, Raymond Boudon e Claude Passeron. In particolare Bourdieu e Passeron con i concetti di capitale culturale ed ethos di classe dimostravano che la scuola non riconosce le disuguaglianze di base degli allievi, riproducendo in questo modo le classi sociali esistenti e perpetuando le disuguaglianze5.

2. Manifesto di istruzione alternativa a quella istituzionale ufficiale e pubblica, espressione di un modo inconsueto di guardare al sapere e alla formazione, che mette al centro la persona e la varietà di competenze e culture6. Don Milani è portatore di istanze egualitarie: lotta alla dispersione scolastica, valorizzazione della dimensione educativa comunitaria e promozione di una coscienza critica e autonoma. Dona tutto il suo tempo alla scuola perché è convinto di poter migliorare l’esistente: crede nell’istanza trasformativa dell’educazione, che richiede impegno, personale e seducente7. Per questo costruisce una scuola a pieno tempo basata sulla cura e sulla responsabilità reciproca, dove nessuno è “negato per gli studi”8 e dove ognuno è allievo e contemporaneamente maestro9. Un’educazione appropriata a fornire i mezzi per l’emancipazione sociale. Questa impresa si trova in linea con le idee dei teorici dell’attivismo pedagogico e del movimento delle “scuole nuove”: Dewey10, Claparède (e la scuola di Ginevra), Decroly, Montessori, Freinet11e il gruppo dei pedagogisti fiorentini12.

Don Milani è conscio dell’immenso valore della persona, di ogni persona. Concepisce l’educazione come emancipazione, un processo che non è conformazione, cioè adattamento acritico alla società, che è, invece, l’opposto dell’indottrinamento13.

«Tentiamo invece di educare i ragazzi a più ambizione. Diventare sovrani! Altro che medico o ingegnere»14.

Per don Lorenzo l’educazione è liberazione – di pensieri e identità – dai soprusi, dall’ignoranza, dalle ingiustizie. Pur considerando le differenze di contesto, la sua era un’idea di paideia, cioè di formazione all’interezza, all’integrità dell’uomo. Una formazione vista come processo educativo, come personalizzazione della cultura che sviluppa l’io e gli dà una forma personale, dura tutta la vita e si sviluppa attraverso la cura di sé. Formare significa “dare forma” (in greco Morphepoiesis – μορφοποίηση): la formazione per divenire tale richiede attivazione, il soggetto è parte attiva del processo: è formato e contemporaneamente si dà forma15. Per questo il fine della sua opera educativa era quello di formare cittadini sovrani16, in grado di analizzare la realtà a mente aperta e prendere coscienza della propria condizione, per uscire dai condizionamenti e autodeterminarsi.

Don Lorenzo è convinto che la scuola e la politica non debbano riprodurre le gerarchie esistenti ma essere comunità aperte che interagiscono con la società civile per la crescita di tutta la popolazione17. Ha fiducia nella cittadinanza democratica e nel progresso come elementi di cambiamento qualitativo dell’esistente. Le ingiustizie sociali restano tali a causa del consenso che il potere riceve dal basso, da parte di chi non ha gli strumenti per capire e prendere una posizione. Il sapere consente invece la presa di coscienza dei meccanismi dell’ingiustizia e deve essere usato dalle persone per liberarsi insieme dalla sopraffazione, essendo strumento di forza per organizzarsi, rivendicare i propri diritti, correggere l’esistente18. È questa la concezione di rivoluzione non violenta di don Milani, «per il bene dei poveri. Perché si facciano strada senza che scorra il sangue»19.

La scuola è concepita dal priore come un ponte tra passato e futuro: «deve formare al senso di legalità (rispetto delle leggi) e formare al senso politico (volere leggi migliori)»20. Fino a quando le classi popolari continueranno a restare in posizione di subalternità rispetto alla classe dirigente, non avranno un ruolo nella decisione politica:

«quando la nuova scuola media fu discussa in Parlamento, noi i muti si stette zitti perché non c’eravamo. L’Italia contadina assente là dove si parlava della scuola per lei»21,

«ma in Parlamento bisogna andarci noi. I bianchi non faranno mai le leggi che occorrono per i negri»22.

L’insegnamento fondamentale che lascia ai ragazzi di Barbiana coincide con la motivazione per strutturare il loro impegno.

«Il fine giusto è dedicarsi al prossimo […]. Siamo sovrani, non è più il tempo delle elemosine, ma delle scelte. Contro i classisti che siete voi, contro la fame, l’analfabetismo, il razzismo, le guerre coloniali»23.

Per formare cittadini sovrani non basta trasmettere una serie predefinita di saperi: serve che i ragazzi abbiano gli strumenti critici per analizzare la realtà.

La scuola dovrebbe essere come una palestra, che allena i suoi alunni all’esercizio della democrazia, alla discussione, a far valere i propri diritti nel confronto con gli altri, in una prospettiva creativa e dagli esiti non definiti24. Per questo Lorenzo Milani scrive all’amico Meucci:

«Non consegneremo dunque loro le cose che abbiamo costruito e che stanno cadendo da tutte le parti, ma solo gli arnesi del mestiere (cioè più che altro la lingua, le lingue ecc.) perché costruiscano loro cose tutte diverse dalle nostre e non sotto il nostro alto patronato né paterna compiacenza»25.

Si tratta dell’esigenza di formare nei ragazzi una coscienza critica, in grado di valutare la realtà rendendosi conto delle contraddizioni, sviluppando un pensiero autonomo che può arrivare a mutare l’esistente.26

«E qui è il fine ultimo di ogni scuola: tirar su dei figlioli più grandi di lei, così grandi che la possano deridere. Solo allora la vita di quella scuola o di quel maestro ha raggiunto il suo compimento e nel mondo c’è progresso”27.

 

1 «Due anni fa, in prima magistrale lei mi intimidiva. Del resto la timidezza ha accompagnato tutta la mia vita. Da ragazzo non alzavo gli occhi da terra. Strisciavo alle pareti per non essere visto». Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa,cit., p. 9.

2 In una lettera del 1962 all’amico Giorgio Pecorini don Lorenzo richiede libri di pedagogia per i ragazzi, con riferimenti a testi di Dewey e Makarenko. Cfr. E. Butturini, Lorenzo e Adriano Milani: un’identica passione educativa, in Don Lorenzo Milani e la scuola della parola, cit.

3 Cfr. Riccardo Pagano, La pedagogia generale. Fondamenti ontologici e orizzonti ermeneutici, in R. Pagano La pedagogia generale,Monduzzi, Milano, 2011.

4 Cfr. Peter Mayo, I contributi di Don Lorenzo Milani e Paulo Freire per una pedagogia critica, in Don Lorenzo Milani e la Scuola della parola, cit., p. 250.

5 Cfr. Elena Besozzi, Società, cultura, educazione,Carocci, Roma 2006, p.173.

6 Crf. Roberto Sani e Domenico Simeone (a cura di), Don Lorenzo Milani e la scuola della parola, cit., p. 8.

7 Cfr. Antonio Michelin Salomon, In difesa della pedagogia, attualità di don Milani, in L’eredità pedagogica di don Milani, a cura di De cit., p. 39.

8 Ivi, p.11.

9 «Il più vecchio di quei maestri aveva sedici anni. Il più piccolo dodici e mi riempiva di ammirazione». Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, cit. p.12.

10 Col grande pedagogista americano il priore di Barbiana condivide l’idea che l’insegnamento democratico debba partire dall’esperienza della vita quotidiana e debba essere incentrato sull’attività (learning by doing), sull’interesse e sulla cooperazione sociale. Cfr. C. Laneve, I modelli didattici del XX secolo, in R. Pagano, La pedagogia generale,cit., p.128.

11 Cfr. Franco Cambi, Manuale di storia della pedagogia, Laterza, Bari 2011, pp. 274-291. Il pensiero di Celéstin Freinet e il suo modello didattico basato sulla cooperazione e sulla Stamperie à l’ecole, fu diffuso in Italia dal Movimento di Cooperazione Educativa (MCE), che annoverava Lodi tra i suoi seguaci. Col maestro di Piadena don Milani ebbe una fitta corrispondenza e grazie a lui introdusse a Barbiana il metodo della scrittura collettiva.

12 Cfr. Ivi, p.290. Ernesto Codignola, Lamberto Borghi, Aldo Visalberghi, Raffaele Laporta svilupparono la lezione deweiana, in particolare il collegamento tra educazione e democrazia.

13 L’indottrinamento è «la perversione dell’educazione, capace di presentarsi come educazione ma di seguire […] modalità e procedimenti razionali che non tengono conto degli effettivi bisogni dei soggetti, ma solo di questioni di principio: presentando, ad esempio, in veste di conoscenza, ciò che altro non è che un credo o, peggio, legittimando l’odio e conseguentemente la violenza». In Alessia Malta, Sul significato attuale de L’obbedienza non è più una virtù, in «Quaderni di Intercultura», a. III, 2011, numero monografico L’eredità pedagogica di don Milani, a cura di Dario De Salvo, p. 26.

14 Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, cit. p. 96.

15 Cfr. F. Cambi, Pedagogia generale, cit., p. 35.

16 Art.1 della Costituzione italiana: «La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione».

17 Cfr. Maria Quartarone, Don Milani tra pedagogia e impegno sociale, in L’eredità pedagogica di don Milani, a cura di D. De Salvo, cit., p. 56.

18 Cfr. Patrizia Panarello, Il consumo critico viene da BarbianaIvi, p. 45.

19 L. Milani, Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana, cit., p.79.

20 L. Milani, L’obbedienza non è più una virtù, cit., p. 46.

21 Scuola di Barbiana, Lettera a una professoressa, cit., p. 93.

22 Ivi, p. 92.

23 Ivi, p. 94.

24 Cfr. A. Malta, Sul significato attuale de L’obbedienza non è più una virtù, cit. p. 28.

25 L. Milani, Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana, cit., p.54.

26 Cfr. M. Quartarone, Don Milani, tra pedagogia e impegno sociale, cit., p. 56.

27 L. Milani, Lettere di don Lorenzo Milani priore di Barbiana, cit., p. 200.

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La scuola: un diritto o una lotteria? - Francesca Marcellan

 

«Ti pare giusto? L’istruzione è obbligatoria,
ma la scuola non è un diritto: è una lotteria!»
C’eravamo tanto amati, Ettore Scola, 1974

 

In questo clima apocalittico segnato dal Coronavirus, sono tornate di attualità diverse suggestioni bibliche: il capro espiatorio, il sacrificio di Isacco, ammazzare il vitello grasso e così via. Oggi si dà per scontato, infatti, che per salvaguardare una collettività sia lecito ledere i diritti di un singolo o di una minoranza, fatto che viene tranquillamente accettato in base al principio del male minore.

Si è iniziato, a febbraio, con l’istituzione della zona rossa nel basso lodigiano. La creazione di un ghetto avrebbe dovuto preservare il resto d’Italia, quando in realtà era semplicemente un chiudere la stalla a buoi già scappati. E l’effetto placebo psicologico (il male è circoscritto) è stato controproducente, visto che il senso di sicurezza ha autorizzato comportamenti disinvolti in zone che erano già altrettanto compromesse, ma senza saperlo.

Ora questa stessa logica si adotta alla riapertura delle scuole. Ricercare spazi adeguati e incrementare il numero del corpo docente avrebbe permesso di garantire a tutti gli alunni lezioni in presenza ed equità di trattamento. E questa era, a parole, la linea del Governo. Purtroppo per fare queste cose servono soldi, che sono stati stanziati in modo assolutamente insufficiente. Quindi la soluzione più semplice, che il ministero dell’Istruzione ha autorizzato in modo più largo per le scuole secondarie di II grado (le cosiddette superiori, ossia gli adolescenti che si possono serenamente lasciare in casa incustoditi), è la didattica a distanza. La DAD, infatti, è una parola magica: permette alla scuola di fare scuola anche senza scuola, come quelle torte dietetiche senza burro né uova né farina. Di cosa siano fatte non si sa, ma intanto la torta esce dal forno, così come la DAD permette di servire sul piatto un anno scolastico formalmente completo.

Non tocca però a tutti un’eguale fetta di DAD, perché qui interviene il prettamente italico fattore lotteria, come da citazione del film di Scola. Così capita che l’assegnazione delle aule sia un gioco ad incastro che combina capienza potenziale e numero di alunni di una classe: se coincidono è fatta, se sono di più si salta un turno e gli alunni in più retrocedono di qualche casella (un tot di giorni al mese), venendo mandati a studiare soli soletti a casa, ma col caldo conforto della tecnologia. La cosa buffa è che non va bene neppure se sono di meno, perché occuperebbero abusivamente spazi eccessivi, quindi devono lasciare l’aula ad altri e andare alla ricerca di un’altra casella, col rischio di trovarne una troppo piccola e quindi essere anch’essi lasciati a casa in rotazione.

Ci troveremo quindi, a giugno, con alunni che hanno usufruito di nove veri mesi di scuola, altri di sei, di sette o di cinque, con differenze generate esclusivamente dal caso, dalla fortuna, dal destino, da Dio (a scelta, in base alla posizione filosofica adottata).

Ma sarà tutto a posto. Formalmente. Quindi, di che ci preoccupiamo?

da qui

 

Si poteva fare - Giuseppe Campagnoli

 

Occorreva un po‘ di decisione e manifestazione di coraggio pur tenendo conto di ciò che si sta prospettando a livello istituzionale: ci sono stati circa cinque mesi di tempo per cominciare a oltrepassare la scuola tradizionale, pur sempre conservatrice, e siamo ahinoi arrivati al banco singolo, alle misurazioni e a cercare anche palestre, cinema, stanzoni e capannoni. Non mi sembra né utile né risolutivo per la prevenzione (che deve pur esserci…) limitarsi ai banchi, alle fettucce metriche oppure allo sparpagliamento puro e semplice in altri spazi per fare grosso modo le stesse cose di prima.

I dirigenti scolastici, che so per esperienza diretta avere spesso molta paura “burocratica”, per via del loro ruolo addensatosi perigliosamente, nel tempo, più sulle procedure e sugli adempimenti che sull’educazione, sanno bene che si possono percorrere alcune strade dell’autonomia scolastica e della sperimentazione per rispondere a esigenze di tutela della salute ma anche a quelle dell’avvio sottile ma deciso di una rivoluzione in educazione. Pochi adattamenti avrebbero garantito libertà, esperienze efficaci e apprendimenti diffusi oltre che la tutela della salute di tutti, lavorando per piccolissimi gruppi in luoghi significativi, educanti aperti o ampi insieme all’edificio tradizionale che in questa fase assumerebbe il  ruolo di “portale” verso le esperienze altrove. Avrebbe qualche senso mischiare la didattica a distanza (che non avrebbe avuto, come pare, i risultati aspettati) con la didattica in presenza sempre con le stesse materie, gli orari, gli appelli, i controlli, con lo stesso vetusto modello di organizzazione di tempi e modi adattato all’ultimo momento alle esigenze dettate dalle regole di prevenzione applicate in modo meccanico e confuso?

Non vi è un momento migliore invece per sperimentare e mettere alla prova strade che si possono rinvenire anche nelle pieghe dell’autonomia scolastica, troppo parzialmente praticata nelle chances innovative. Non cogliere questa opportunità è un vero peccato e una plateale rinuncia al cambiamento. Sarebbe il caso di riflettere su tante esperienze rivoluzionarie che si sono dimostrate decisamente positive e stimolanti per mutare lentamente ma radicalmente un paradigma scolastico da tempo obsoleto e decisamente superato. Si poteva cominciare eccome

Ad esempio:

1. Eliminazione graduale dell’edilizia scolastica verso la città educante fatta di una rete di luoghi per l’esperienza e l’apprendimento pubblici o privati, aperti o chiusi ma trasparenti e ampi. Certamente non per fare le stesse cose che si facevano in classe o nelle «uscite didattiche».

2Attività in gruppi di 5-7-9 a seconda delle età o misti.

3Creatività massima per sussidi didattici.

4. Destrutturazione delle discipline sconnesse e separate a favore di aree esperienziali e campi di educazione incidentale dove il bambino, il giovane, l’adulto che crescono e apprendono sono soggetti protagonisti che «si educano» non che «vengono educati».

5. Smontaggio dell’orario scolastico a favore di tempi flessibili e «orari di prossimità», con l’anno educativo che dura dodici mesi con pause di tempo libero diluite e diffuse.

Le cose da apprendere, l’educazione e la crescita non sono indifferenti ai luoghi in cui avvengono. La marcia di avvicinamento a un nuovo modello di scuola potrebbe integrare mirabilmente, in tante sperimentazioni brevi che facessero tesoro delle eventuali buone pratiche nel territorio, l’insieme dei progetti-scuola dei tempi-scuola e dei luoghi-scuola sfruttando anche quel poco che offre l’organico potenziato. Se si trasformassero, riducendoli anche di numero, gli edifici scolastici per un uso misto e flessibile (museo e scuola, biblioteca e scuola, terziario e scuola…) e si usassero gli spazi di cultura e non solo, pubblici e privati della città per “fare scuola”, persino bar, negozi e centri commerciali; se si abolissero le materie e si apprendesse per mappe concettuali, per argomenti e temi trasversali (gestiti dai docenti disponibili e competenti), il quadro potrebbe cambiare radicalmente e allora un organico sarebbe veramente funzionale.

Gli orari della settimana, del mese o del semestre potrebbero essere realmente smontati e resi flessibili e adattati a un canovaccio plurisettimanale di aree tematiche multidisciplinari e interdisciplinari, progetti ed eventi, nel quadro di un progetto di istituto o di rete territoriale, da sviluppare in diversi luoghi, anche utilizzando tablet e audiovisivi, docenti esterni e interni, mentori e maestri oltre che tutors negli ambiti di apprendimento, che possono essere anche un laboratorio artigiano, una fabbrica, un ufficio pubblico, un museo, un laboratorio, una mostra…

Un’utopia? Non tanto e non proprio.

Chiudo con un commento di un anonimo scritto da uno dei sempre più numerosi firmatari del Manifesto della educazione diffusa:

“L’infanzia e adolescenza sono fasi di vita ricche di opportunità, di crescita e di sfide evolutive. Quanti sogni quando si è bambini e adolescenti, ma dove vanno a finire i loro sogni, i loro desideri e i loro talenti? C’è un mercato che vuole decidere il prototipo del giovane perfetto e allora … quanta fatica vivere con pienezza la realtà quotidiana da parte di un adolescente. Ogni giorno qualcuno gli apre orizzonti paradisiaci da raggiungere e spesso gli stessi genitori spingono verso questi obiettivi impossibili. Dove abbiamo sbagliato? Viene da chiedersi. I giovani hanno bisogno di fare esperienze che diano loro una maggiore autonomia, penso sia necessario riproporre una cultura del corpo intelligente, inteso come veicolo dell’apprendere e crescere. Credo in una concezione del corpo che comprende il rapporto tra corpo e psiche, corpo e azione, corpo ed emozione, vita e conoscenza. La grande lezione montessoriana appare quanto mai moderna e attuale, il bisogno di muoversi, di sperimentare.. Il corpo non si riduce alla dimensione fisica, soltanto un insieme biologico di organi. È il luogo vissuto di piacere o di dolore, luogo in cui ogni persona vive, sente, esiste; luogo del proprio essere. Sì all’educazione diffusa!…”.

da qui

 

Il mito dello staff del dirigente scolastico: divide et impera - Teresa Celestino

 

Nel corso di una intervista del 2017 Alessandro Barbero, noto professore di Storia medievale presso l’Università del Piemonte Orientale Amedeo Avogadro, si è espresso in modo chiaro e sintetico sulla retribuzione degli insegnanti in base al merito, criterio difficilissimo da stabilire nell’ambito della docenza:


Di parere opposto sembra essere la prof.ssa Elisabetta Nigris, presidente del CdL in Scienze della Formazione Primaria dell’Università Milano Bicocca, che in una recente dichiarazione pubblicata su IoDonna del 23 agosto 2020 dice:

«Sarebbe giusto dare incentivi, economici e di carriera ai docenti innovatori, ai vicari (gli ex vicepresidi), e agli insegnanti che si occupano di progetti. E basta considerare i presidi solo dei manager: sono professionisti dell’educazione. Infine, non se ne può più delle sanatorie: negli ultimi due anni sono entrati 45mila diplomati senza titolo con un concorso “non selettivo”, bastava che avessero due anni di supplenza alle spalle».

Non è chiaro il riferimento alle sanatorie; probabilmente riguarda l’annosa vicenda delle maestre con il vecchio diploma magistrale, peraltro escluse dalle graduatorie utili per l’immissione in ruolo dopo una lunga vicenda giudiziaria. Giova ricordare che, parallelamente al progressivo passaggio da funzioni di direzione didattica a quelle di gestione amministrativa, le sanatorie hanno riguardato anche la categoria dei Dirigenti scolastici (DS); [1] basti pensare ai concorsi che riservavano una quota variabile di posti a favore di coloro che avessero esercitato per qualche anno la funzione di “preside incaricato”, assunta da insegnanti senza alcuna qualifica dirigenziale e spesso già operanti nel ruolo di vicepresidi.

Consideriamo ora il ruolo degli ex vicepresidi (oggi “collaboratori del DS”), ritenuto così importante dalla professoressa Nigris. Si tratta di insegnanti che collaborano con il dirigente e da questo individuati a sua discrezione, sebbene previa formale approvazione del collegio dei docenti (che rarissimamente contesta la scelta del DS). Da qualche anno essi sono rappresentati dall’A.N.Co.Di.S.Associazione Nazionale dei Collaboratori dei Dirigenti Scolastici. L’Associazione comprende le cosiddette figure “di sistema” o “di staff” (secondo le diciture in voga al momento): il primo collaboratore (figura la cui evoluzione normativa [2] ne ha via via definito compiti e funzioni), il secondo collaboratore, i responsabili di plesso; una recente apertura [3] prevede la prossima accoglienza di altri insegnanti che svolgono le funzioni più disparate: si va da coloro che assumono le cosiddette “Funzioni strumentali” agli “Animatori digitali”, passando per i Responsabili del servizio di prevenzione e protezione e i Coordinatori di dipartimento. Si tratta dunque di docenti che svolgono funzioni profondamente diverse per mansioni e responsabilità.

Questo articolo si concentra sulla figura dei più stretti collaboratori del DS, i soli che hanno diritto all’esonero totale o parziale dall’attività in aula. È superfluo precisare (ma è bene farlo comunque) che le criticità qui evidenziate non riguardano l’intera categoria, ma solo una parte di essa. Si tratta di aspetti che i collaboratori del DS onesti e competenti avrebbero il dovere di evidenziare, se non altro per evitare di alimentare il sospetto di interessi corporativi a esclusivo sostegno delle loro richieste di miglioramento di status professionale.

Il concetto di “merito” è la bandiera dell’Associazione: la convinzione di essere insegnanti meritevoli per la particolarità del ruolo sinora ricoperto ha dato luogo alle reiterate richieste dell’A.N.Co.Di.S., i cui rappresentanti sono stati recentemente ricevuti dal Ministro Lucia Azzolina e da altri rappresentanti politici.

L’Associazione chiede un riconoscimento di natura diversa dal semplice incremento della retribuzione prelevata dal FIS (Fondo Integrativo d’Istituto, di provenienza statale), o dalla estensione dell’esonero dalle attività di insegnamento per svolgere al meglio tutte quelle funzioni considerate indispensabili nella scuola dell’autonomia.

[Vale la pena aggiungere, a proposito di autonomia, che la stessa distribuzione del salario accessorio destinato ai collaboratori del dirigente non è affatto uniforme tra i vari istituti e ordini scolastici, o tra le diverse zone del paese. L’incremento retributivo proveniente dal FIS, infatti, sebbene attualmente assai misero nella maggior parte dei casi, in altri viene invece “integrato” con una prassi assai discutibile: usando i fondi privati provenienti dal “contributo volontario” versato dalle famiglie, [4] formalmente utilizzati per la retribuzione relativa a progetti di varia natura (genericamente considerati “ampliamento dell’offerta formativa”). In questo modo le famiglie, in alcune realtà territoriali molto munifiche, di fatto contribuiscono non solo alla dotazione e al funzionamento degli istituti scolastici, ma alimentano una diversificazione salariale autonomamente gestita dai dirigenti scolastici e avallata dalle stesse organizzazioni sindacali.]

Cosa chiede dunque l’A.N.Co.Di.S.? L’associazione si batte per l’istituzione di una vera e propria figura contrattuale sinora inesistente nella normativa scolastica: il cosiddetto “quadro intermedio”, la cui introduzione renderebbe finalmente possibile una prospettiva di avanzamento di carriera per una parte degli insegnanti.

Si noti che l’introduzione del “middle management” [5] (già auspicata dall’ANP [6]) non è di fatto osteggiata da sindacati come la CISL (che pubblicizza convegni promossi dall’A.N.Co.Di.S.) o la FLC-CGIL (il cui sito ospita articoli in cui si discutono ambiguamente le proposte a riguardo di TreeLLLe [7]) a conferma dell’endemica propensione italica all’ope legis – nel caso l’esperienza accumulata (e mai sottoposta a valutazione) diventi il principale requisito per l’accesso a questo ipotetico ruolo semi-dirigenziale. Ciò è altamente probabile, come dimostrano i criteri richiesti dai concorsi riservati per DS prima accennati. A ulteriore conferma, si riportano di seguito due punti della proposta A.N.Co.Di.S. presentata al Senato: [8]

·         nuova progressione di carriera (parallela/integrata) che – oltre l’anzianità di servizio – riconosca il lavoro e la professionalità di tutti i Collaboratori dei DS;

·         previsione dell’accesso alla carriera dirigenziale – attraverso concorso regionale – di quanti hanno assunto ruoli e mansioni nell’ambito del funzionamento gestionale ed organizzativo di una scuola.

Dunque, una sanatoria a tutti gli effetti ben ammantata dalla parola “concorso” (regionale e riservato alle sole figure che hanno prima usufruito di una apposita e discrezionale nomina dirigenziale!). Per non parlare della proposta di “riapertura delle graduatorie per gli incarichi di gestione nelle scuole prive di DS per qualsiasi ragione”, importante premessa di una ulteriore probabile sanatoria come viatico per accedere alla dirigenza con i famigerati “concorsi riservati”.

Una sostanziale differenza rende questo scenario qualcosa di diverso e più grave di una sanatoria ope legis: non si tratterebbe infatti di una regolarizzazione all’interno di ruoli già esistenti, ma della istituzione di una nuova figura che sarebbe occupata d’emblée da un gruppo di insegnanti selezionato in partenza, in ragione di una loro esperienza considerata positiva e fruttuosa a prescindere. È questo il senso del riconoscimento dell’esperienza: quest’ultima potrebbe diventare la sola chiave di volta nella distinzione tra insegnanti meritevoli e non di un ruolo maggiormente prestigioso all’interno della scuola.

Questo aspetto è abilmente nascosto dalla proposta [3] di un “percorso annuale di formazione e specializzazione, anche universitaria, su temi relativi ai modelli organizzativi e gestionali nella PA, al diritto del lavoro, alla gestione delle risorse umane, seguito da un tirocinio conclusivo di un anno”. Non è infatti ben chiara l’utilità di un corso universitario di questo tipo per l’accesso nella specifica area contrattuale, se finora i membri dell’A.N.Co.Di.S. hanno svolto egregiamente le loro funzioni. Piuttosto, è ragionevole temere una deriva mercantilistica di questo tipo di corsi, come accaduto nel caso dell’acquisto (in senso letterale) dei 24 CFU e delle certificazioni linguistiche accreditate dal MIUR.

Torniamo alla questione della valorizzazione dell’esperienza acquisita, le cui implicazioni sono di grossa portata e si riassumono nell’interrogativo: la funzione crea l’oggetto o l’oggetto è creato per l’uso?

I coltelli da cucina esistono per tagliare gli alimenti nel modo più efficace; a un certo punto qualcuno decide che anche le forchette possano essere utilizzate per il medesimo scopo. Così molti coltelli finiscono con il giacere inutilizzati tra gli arnesi culinari con gran soddisfazione delle forchette, stanche del ruolo per cui erano state originariamente fabbricate. Passato un po’ di tempo le forchette, avendo imparato a tagliare (ma non certo come i coltelli) si riuniscono in una associazione per “valorizzare l’esperienza acquisita”. Assumendo a pieno titolo la funzione di tagliare in modo permanente.

Battezzerei questo processo come “evoluzione professionale lamarckiana”: nel caso il prof. Rossi desideri assumere una determinata funzione all’interno della sua scuola, egli non è selezionato in base al suo percorso accademico, alle sue credenziali professionali o all’attività pubblicistica. Piuttosto, è l’esercizio della funzione a priori che modifica il prof. Rossi e lo rende adatto a esercitare un certo ruolo.

[In realtà, a un esame più attento ci si accorge che anche in questo caso le teorie darwiniane hanno la meglio, in quanto la selezione a monte esiste comunque: a volte (spesso?) favorisce chi possiede le caratteristiche che lo rendono particolarmente in grado di adattarsi all’ambiente clientelare, ad esempio.]

È innegabile che la sola prassi comporti alla lunga l’acquisizione di alcune abilità ad essa connesse; tuttavia una forchetta resta una forchetta, un coltello resta un coltello….

Come si riconosce un coltello? Forse cominciando a considerare il curriculum di un docente?

L’istituzione scolastica è preposta all’acquisizione di conoscenze e all’erogazione di titoli culturali con valore legale. Quale esempio è dato agli studenti nel momento in cui le figure di responsabilità della scuola che frequentano sono scelte senza alcun riguardo per gli studi compiuti? Si dirà loro che le conoscenze degli insegnanti non contano quanto le fumose competenze? Quali competenze?

Perché si parla da anni di valorizzazione del dottorato di ricerca nella P.A., senza che nessuno muova un dito perché questo titolo assuma una effettiva rilevanza nella scuola?

Perché la pubblicazione di libri di testo, articoli e saggi è così sottostimata?

Come è possibile che i docenti che svolgono o hanno svolto professioni di elevato profilo in ambito tecnico-scientifico, artistico o musicale non siano considerati una risorsa, a parte alcune lodevoli eccezioni?

Chi saprà porre un argine alle logiche servilistiche animate dalla mera necessità di soggetti che assicurino appoggi politici, sindacali, economici?

Si potrebbe obiettare che le questioni poste sul tavolo dall’A.N.Co.Di.S. investono in realtà problematiche ben diverse da quelle strettamente inerenti alla funzione docente, relegando in secondo piano l’aspetto culturale: come ben sa chi lavora nella scuola, i collaboratori del DS si occupano per lo più di aspetti organizzativi e gestionali, spesso resi improbi da valanghe di compiti burocratici. Tuttavia sarebbe un errore ridurre a mera burocrazia compiti che il più delle volte rivelano in diversa misura la loro natura politica. La gestione della scuola, soprattutto della scuola pubblica, è un atto politico: negare la fondamentale importanza della sensibilità culturale di chi se ne prende la responsabilità indica una preoccupante disonestà intellettuale. Lo stereotipo dello studioso negato nei rapporti con il personale è troppo ingenuo e scontato; quando accade, chiediamoci piuttosto perché gli insegnanti particolarmente preparati si sentano spesso a disagio nell’habitat lavorativo che sono costretti a frequentare.

La situazione dell’attuale pandemia non ha fatto che complicare ulteriormente la confusione nel guazzabuglio di norme e circolari, indicazioni e linee guida ministeriali ai fini del rientro in sicurezza nelle nostre scuole. E l’A.N.Co.Di.S. rivendica un ruolo chiave nel supportare i DS in questo delicato e difficile periodo. [9] Dunque non si tratterebbe di “ammanicarsi il preside, accettare incarichi aggiuntivi e vuoti, inventarsi progetti inutili”, secondo le colorite espressioni pre-pandemia del prof. Barbero? Questioni più serie sarebbero in ballo, ora che il Covid-19 sta imponendo un diverso assetto organizzativo: la sicurezza, innanzitutto; la didattica digitale; le problematiche dovute alla mancata o parziale inclusione degli studenti svantaggiati, coloro che più risentono dell’assenza di un contatto diretto con la scuola.

Ma attenzione: la recente situazione di crisi può indurre a non considerare le richieste dell’A.N.Co.Di.S. nella giusta prospettiva. Un conto è circoscrivere il problema in termini emergenziali, un altro è la messa a regime di un congegno che continuerà a funzionare quando questa emergenza sarà un lontano ricordo. Alla luce di quanto riportato, non è difficile valutare se le modifiche richieste dai collaboratori dei DS potranno contribuire a migliorare realmente la scuola italiana. Bene ha fatto l’A.N.Co.Di.S. a sfruttare astutamente la recente emergenza Covid-19 per cercare di ottenere un riconoscimento richiesto a gran voce ormai da qualche anno. Una pandemia può paradossalmente rivelarsi un’ottima occasione di avanzamento di carriera. Ma poi? Cosa accadrà quando le richieste avanzate in stato di emergenza saranno esaudite e continueranno a sussistere oltre la situazione contingente?

Proviamo a inquadrare i termini della questione dapprima con una prospettiva a grandangolo, in seguito regolando l’obiettivo per una migliore messa a fuoco (anche nell’ottica di motivare alcune proposte finali di effettivo riconoscimento del merito non lesive della dignità di tutti gli insegnanti).

Originariamente i vicepresidi erano eletti dal collegio dei docenti; questa modalità garantiva l’assunzione dell’incarico da parte di insegnanti considerati espressione della comunità di appartenenza, spesso con molti anni di servizio nell’istituto e mediamente capaci di mediare tra i colleghi e il preside. Il meccanismo elettivo, infatti, scoraggiava i comportamenti caratteristici del cosiddetto mobbing scolastico verticale; [10] quest’ultimo è sovente messo in atto da figure che non detengono un reale potere sanzionatorio, ma che esercitano la loro influenza soprattutto presso le figure apicali, specialmente se queste sono inesperte e/o deboli; o, più semplicemente, tendono a delegare per garantirsi una minore esposizione ad eventuali critiche con conseguente perdita in termini di consenso.

Il meccanismo elettivo costituiva però un grosso impedimento per i DS, talvolta costretti a collaborare fianco a fianco con docenti la cui diversità di vedute poteva costituire un serio intralcio alla loro funzione dirigenziale. Questo era particolarmente evidente quando il vicepreside era anche un RSU maggiormente attento a incrementare il numero di tessere del proprio sindacato che non a contribuire al buon andamento della macchina scolastica. Dunque, nel 2001 la figura del vicepreside è stata abolita a favore di quella del “collaboratore” di esclusiva nomina dirigenziale. Ciò ha comportato nuovi inconvenienti: innanzitutto i DS, soprattutto negli istituti sotto-dimensionati, non sono realmente liberi nella scelta dei collaboratori: occorre tenere conto delle figure destinate al cosiddetto potenziamento dell’offerta formativa, [11] onde evitare di travalicare i limiti di spesa pubblica. Non è infrequente che validi DS freschi di nomina si trovino a dover interagire quotidianamente con collaboratori non solo poco competenti, ma impegnati in una continua opera di ostracismo volta a mantenere un potere ombra con mezzi più raffinati di quanto si possa immaginare. Di contro, la libertà di nomina da parte di dirigenti non esemplari ha dato luogo ad attività poco trasparenti, nelle quali la stessa cricca si spartisce per anni gran parte del FIS pur muovendosi formalmente nel recinto della legalità (non sempre, come sopra accennato). Non tutti gli istituti scolastici pubblicano il bilancio sul proprio sito web, complice il silenzio del Consiglio di Istituto – la cui omertà rende in molti casi inutile la funzione alla quale è preposto. Altro inconveniente è rappresentato dalla impunità dello staff dirigenziale, per i cui componenti sono tacitamente ammessi ritardi, comportamenti poco rispettosi dell’etica professionale e, ahimè, la non presenza in aula durante le lezioni; quest’ultima infrazione è spesso commessa approfittando di eventuali collaboratori in compresenza, o semplicemente lasciando le classi incustodite.

Questa “libertà di non insegnamento” e tutti i su citati comportamenti pesano come un macigno sulle spalle della maggioranza silenziosa degli insegnanti validi, ormai tristemente avvezzi alla presenza di un “cerchio magico” negato da chi ne fa parte con tutti i possibili artifici retorici. Questi insegnanti sanno infatti che denunciare determinate prassi comporta isolamento e stress. Non è un caso che negli ultimi anni si sia verificato un consistente aumento del numero di contenziosi nella scuola, [12] in particolare dovuti a mobbing orizzontale e verticale.

Dunque non sempre è il puro spirito di servizio a indurre molti insegnanti ad assumere incarichi mal pagati che di fatto costituiscono un secondo lavoro. Non è infrequente la spinta di altre motivazioni: l’esercizio di una certa influenza verso il DS e i colleghi; le agevolazioni nell’accaparrarsi parte del FIS con un progettificio permanente; la possibilità di far valere l’esperienza acquisita per futuri ruoli dirigenziali (come già accaduto); il prestigio agli occhi  di studenti, genitori e, in generale, del territorio; l’esonero parziale o totale dall’insegnamento che, non dimentichiamolo, è una attività faticosissima soprattutto nelle scuole inserite in contesti socio-economici svantaggiati.

A dimostrazione dell’appetibilità di tali vantaggi, è noto che la funzione di collaboratore del DS è generalmente molto ambita da una parte dei docenti; non molti, ma certamente in numero superiore a coloro che la esercitano. Non stupisce dunque l’insofferenza verso incarichi di collaborazione che si protraggono talvolta ben oltre il decennio, magari con esonero totale dalle attività didattiche; incarichi che potrebbero terminare da un anno all’altro, ad esempio per l’arrivo di un nuovo DS, e che comporterebbero il ritorno nelle aule di docenti che hanno sospeso l’insegnamento per molti anni: cosa rimarrà della loro preparazione disciplinare?

Una valorizzazione delle funzioni di collaborazione del DS è possibile senza invocare l’istituzione di figure contrattuali ulteriormente divisive in una comunità professionale già frammentata, che continua a esercitare un lavoro difficile con stipendi da manovale.

I collaboratori del DS dovrebbero essere individuati all’interno di una ristretta cerchia di insegnanti distinti per meriti culturali, attività pubblicistica (con particolare riguardo a lavori di natura didattica e di ricerca), esperienze professionali di un certo calibro, anni di permanenza nell’istituto.

Questi potranno candidarsi per essere eletti dal collegio dei docenti, ponendo un limite al numero delle candidature per favorire la rotazione dei collaboratori.

È certamente necessario un incremento e un utilizzo più trasparente e razionale del FIS, così come una estensione dell’esonero dall’insegnamento. Tuttavia queste misure da sole non possono garantire qualità senza la presenza di professionisti di alto profilo.

Dimensione culturale, eleggibilità e rotazione delle cariche potrebbero senza dubbio scoraggiare la deriva verticistica delle nostre scuole i cui collegi dei docenti, nati come luogo di confronto democratico, somigliano sempre più a organi di ratifica di decisioni prese altrove dal capo e dai suoi fedelissimi.

L’immagine di copertina è tratta da:

Riferimenti

[1] Si legga l’articolo “Procedure concorsuali per i dirigenti scolastici”, pubblicato sul sito dell’Associazione Docenti e Dirigenti Scolastici Italiani all’indirizzo:

http://adiscuola.it/Pubblicazioni/Fin2007/Fin07_530_reclutamento.htm

[2] “ANCODIS: da vicepreside a “Collaboratore principale”, una evoluzione semantica che non corrisponde ad una innovazione giuridica”, pubblicato su Orizzonte Scuola il 04/08/2018:

[3] “ANCODIS: il futuro dei Collaboratori dei DS e delle figure di sistema verso l’orizzonte sindacale”, pubblicato su La Tecnica della Scuola in data 08/06/2020:

[4] “Fondo di Istituto: illegittimi i progetti intramoenia che gonfiano il FIS”, articolo di Lucio Ficara pubblicato su La Tecnica della Scuola in data 08/02/2020:

[5] “Ancodis: convegno nazionale sul middle management nella scuola italiana”, articolo di Lucio Ficara pubblicato su La Tecnica della Scuola il 14/05/2019:

[6] “Associazione Nazionale Presidi: fine della scuola della Costituzione e pieni poteri al capo”, articolo di Giovanni Carosotti e Rossella Latempa pubblicato su ROARS il 28/05/2020:

[7] L’articolo, comparso sul sito della FLC-CGIL il 6 luglio 2019 (http://www.flcgil.it/rassegna-stampa/nazionale/governo-della-scuola-e-middle-management-tra-dubbi-e-immagini-di-futuro.flc), “Governo della scuola e Middle Management: tra dubbi e immagini di futuro”, a firma di Antonio Valentino, è stato originariamente pubblicato su Scuola Oggi il 05/07/2019:

Governo della scuola e Middle Management. Tra dubbi e immagini di futuro

[8] La proposta è reperibile all’indirizzo:

http://www.senato.it/application/xmanager/projects/leg18/attachments/documento_evento_procedura_commissione/files/000/117/701/Ancodis.pdf

[9] “ANCoDiS: la scuola deve ripartire e ciascuno deve poter dire di aver contribuito a vincere la grande sfida”, articolo pubblicato su Orizzonte Scuola il 31/08/2020:

[10] “Il mobbing nelle istituzioni scolastiche”, di Daniela Giannini. Articolo pubblicato su Diritto dei Lavori, Anno VI, n. 2, giugno 2012, reperibile all’indirizzo: http://www.csddl.it/csddl/attachments/764_Il%20mobbing%20nelle%20istituzioni%20scolastiche.pdf

[11] “Collaboratori dirigente scolastico, quanti se ne possono individuare? Come e quanti retribuirne?” Articolo pubblicato su Orizzonte Scuola il 18/02/2018:

[12] “Aumentano contenziosi disciplinari docenti, costi per difendersi elevati: ci vuole una Camera della Conciliazione”, articolo di Marco Barone pubblicato su Orizzonte Scuola in data 11/11/2019:

da qui

 

 

Il futuro non è la normalità nella scuola - Giacomo Cossu

 

Negli scorsi mesi a Santiago del Cile spiccava un grattacielo la scritta “non torneremo alla normalità, perché la normalità era il problema”. Nel pieno dell’emergenza sanitaria, di fronte alle enormi difficoltà nel riaprire le scuole e le università in condizioni di sicurezza, questo slogan dovrebbe essere la bussola di ogni riflessione riguardo l’istruzione. La garanzia del diritto allo studio e la tutela della funzione democratica dell’istruzione possono realizzarsi solamente se si guarda alle difficoltà di questi giorni con attenzione a quali sono le radici strutturali di questa crisi. Ci sono tre aspetti particolarmente significativi da analizzare, che permettono di inquadrare gli ostacoli ad una ripartenza in sicurezza all’interno di una seria e concreta visione organica per il rilancio dell’istruzione: le possibilità di accesso alla formazione, la condizione delle lavoratrici e dei lavoratori della conoscenza, lo stato dell’edilizia scolastica e universitaria. Questi focus permettono di individuare i principali danni causati dal taglio dei finanziamenti alla scuola e all’università – rispettivamente di 8 miliardi e 1,5 miliardi – operati da Tremonti e Gelmini dieci fa e mai più compensati dai Governi successivi. 

L’accesso all’istruzione nel nostro Paese è solo formalmente garantito, ma non ci sono adeguati strumenti per garantire a tutte e tutti gli studenti le stesse possibilità e la libertà di studiare. Secondo il Rapporto BES 2019 dell’ISTAT, l’uscita precoce dagli studi riguarda il 14,5% dei giovani, un dato che arriva ad oltre il doppio nelle regioni meridionali. Nel corso degli ultimi mesi questa drammatica esclusione di centinaia di migliaia di giovani dalla formazione è esplosa a causa dell’introduzione emergenziale della didattica a distanza. Infatti il sistema scolastico ed universitario, già privo di adeguati strumenti per garantire a tutti la partecipazione alla formazione, ha ulteriormente escluso ampie fasce di studenti privi dei dispositivi tecnologici o di un contesto familiare che potesse supportare la partecipazione alle lezioni in condizioni straordinarie. Secondo l’indagine Italia sotto sforzo. Diario della transizione 2020/1 del CENSIS, solo l’11% dei dirigenti scolastici intervistati ritiene che tutti gli studenti delle loro scuole abbiano partecipato alle lezioni online, mentre risulta che nel 40% delle scuole oltre il 5% degli studenti non abbia avuto accesso alla didattica a distanza – anche in questo caso al Meridione si riscontrano dati nettamente peggiori. Lo stesso ministero dell’Istruzione a luglio 2019 pubblicava un report in cui si sostiene che la dispersione scolastica sia direttamente connessa ai livelli di povertà e ai livelli di istruzione della famiglia di provenienza. Gli interventi dello Stato per risanare questa ingiustizia e mancata applicazione della Costituzione si sono mostrati fallimentari in tempi ordinari e ancor più nella pandemia. Occorre approvare una legge nazionale per il diritto allo studio che garantisca l’abolizione dei costi diretti legati all’istruzione – dal contributo volontario alle tasse universitarie – così come i costi indiretti, fornendo i materiali didattici tradizionali e digitali in comodato d’uso a tutti gli studenti che ne abbiano necessità, oltre che rendendo gratuiti i servizi indispensabili alla frequenza delle lezioni e allo studio, dall’abbonamento per il trasporto pubblico alla connessione personale ad internet. Insieme all’abolizione di questi ostacoli economici, devono essere risolte le disparità territoriali nell’offerta didattica, in particolare garantendo l’apertura delle scuole di tutto il Paese per tutta la giornata, finanziando il tempo pieno e progetti didattici e autogestiti da parte degli studenti, in modo da coinvolgere gli studenti che provengono dalle condizioni socio-culturali che più spingono ad abbandonare l’istruzione.  

La necessità di potenziare l’offerta didattica e la qualità della formazione evidenzia un altro enorme fallimento dello Stato in materia di istruzione. Il nostro Paese ha infatti un’età media del corpo docente tra le più alte nell’area OCSE, accanto ad un rapporto tra docenti e studenti molto elevato. I tagli alla spesa in istruzione hanno comportato una forte riduzione del personale docente e amministrativo, causando fenomeni dannosi per la didattica – e per la sicurezza – come le “classi pollaio” e privando le scuole del personale necessario per ampliare l’offerta didattica e innovare i metodi di insegnamento. Nell’università il calo del numero dei docenti e il dimezzamento del numero dei ricercatori a tempo indeterminato causati dalla riforma Gelmini hanno comportato un eguale problema di carenza di personale. La pandemia ha spinto il Governo ad un intervento emergenziale, con la programmazione di un nuovo concorso straordinario da 70 mila cattedre e con l’assunzione di 50 mila precari per colmare una parte della carenza di organico nella scuola, dimostrando ancora una volta quanto la classe dirigente del nostro Paese non abbia la minima capacità di affrontare i problemi strutturali dell’istruzione. Una seria politica dell’istruzione dovrebbe prevedere la stabilizzazione di tutte le migliaia di lavoratori che hanno 36 mesi di servizio alle spalle – come peraltro prevede il diritto dell’UE – insieme ad una programmazione delle assunzioni calibrata sul fabbisogno delle scuole, uscendo dal metodo dei concorsi straordinari e dalla trappola della precarietà in cui sono costretti tantissimi lavoratori della conoscenza.

Il rispetto dei diritti dei lavoratori della conoscenza e maggiori assunzioni permetterebbero di appianare grandi disuguaglianze presenti nel sistema di istruzione del Paese, ma non sarebbero sufficienti senza un piano radicale per l’edilizia scolastica e universitaria. Metà degli edifici scolastici è stato costruito prima del 1970 e presentano una struttura degli edifici assolutamente inadeguata a metodi didattici innovativi e alle esigenze di studenti e docenti. Se guardiamo all’edilizia universitaria, notiamo che l’espansione del numero programmato e del numero chiuso – che oggi con la pandemia dimostra la sua pericolosità data la carenza di medici – è stata in gran parte la risposta delle autorità accademiche e del governo nazionale alla carenza di strutture per la didattica, nonostante la falsa retorica inaccettabile sull’esclusione dagli studi per motivi meritocratici. Oggi paghiamo i mancati investimenti nell’edilizia scolastica e universitaria, non avendo a disposizione spazi adeguati per garantire il distanziamento sociale e la tutela della salute di studenti e lavoratori della conoscenza. La pandemia avrebbe dovuto indurre all’elaborazione di un piano urgente di ristrutturazione degli edifici scolastici e universitari, una politica che avrebbe effetti positivi sull’occupazione e sulla riconversione ecologica del patrimonio pubblico, come richiesto da sindacati e associazioni, ma l’attenzione del Governo è stata rivolta alla deregolamentazione degli appalti con il DL Semplificazioni, anziché alla pianificazione di un intervento pubblico per rispondere alle reali necessità della popolazione. 

Questi tre fondamentali aspetti della crisi dell’istruzione avrebbero dovuto indurre il Governo ad evitare slogan e approssimazione, riconoscendo immediatamente che il sistema scolastico e universitario non hanno gli strumenti per rispondere alle necessarie tutele della salute pubblica. Da questa consapevolezza si deve partire per elaborare un programma di governo serio e concreto, per garantire innanzitutto l’accesso alla formazione a distanza, mentre si predispone la stabilizzazione del personale necessario e un piano di edilizia scolastica e universitaria urgente. Le risorse necessarie sarebbero ingenti, come denunciano da anni studenti e lavoratori della conoscenza. Le risorse stanziate dal Governo sono irrisorie rispetto alle necessità e nettamente inferiori alle risorse destinate agli sgravi fiscali a pioggia per le imprese come il taglio dell’IRAP. Approfittando degli stanziamenti del Next Generation EU, lo Stato dovrebbe investire oltre 20 miliardi in istruzione, portando la quota di PIL destinato alla formazione al 5%, in linea con la media dell’area OCSE, in cui siamo stabilmente agli ultimi posti per investimenti in istruzione con solamente il 3,6% del PIL. Si tratta di scelte coraggiose ma indispensabili, per non tornare ad una normalità dominata da ingiustizia e contraddizioni, bensì per costruire un futuro migliore per tutto il Paese. 

da qui

 

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