ne scrivono Carlo Formenti (nel 2020) e Serge Latouche (nel 2012)
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Liberare l'Africa dalla trappola del debito - Carlo Formenti
La pandemia e il suo impatto su un’economia che non si era ancora ripresa dalla crisi del 2008 hanno ridotto l’attenzione di media e partiti politici sul tema dell’immigrazione. Negli anni precedenti questa questione aveva tenuto banco, opponendo la propaganda delle destre xenofobe agli appelli moralisti delle sinistre “no border”. Impegnati a mobilitare i rispettivi elettorati facendo leva su moti “di pancia” (da destra) e “di cuore” (da sinistra), entrambi gli schieramenti hanno sistematicamente eluso i problemi reali, come l’uso sistematico da parte delle classi imprenditoriali del fenomeno migratorio per scatenare una guerra fra poveri finalizzata a imporre tassi di sfruttamento disumani della forza lavoro straniera, indebolendo nel contempo il potere contrattuale della forza lavoro autoctona, o il peggioramento delle condizioni di vita delle periferie, già impoverite dalla crisi, provocato dall’invasione di masse ancora più miserabili.
Semplificando
drasticamente, si potrebbe dire che le sinistre, mentre da un lato hanno
colpevolmente sottovalutato quest’ultimo aspetto, regalando alla destra la
chance di tingere di nero la rabbia delle periferie, dall’altro non si sono
impegnate ad analizzare seriamente l’impatto sui livelli retributivi e
occupazionali della guerra fra poveri di cui sopra, né a elaborare politiche
orientate alla ricomposizione degli interessi delle classi subalterne. È
mancato totalmente, in particolare, un adeguato sforzo di comprensione delle
cause profonde dell’ondata migratoria, sforzo che la crisi pandemica renderebbe
ancora più urgente e necessario proprio nel momento in cui l’attenzione sul
fenomeno tende a calare, come già ricordato, perché la crisi non solo non
frenerà il flusso ma tenderà, al contrario, a renderne ancora più drammatici
sia le dimensioni che gli effetti socioeconomici e politici.
Una Lettera
Aperta firmata da cinque economisti di vari Paesi africani, e già sottoscritta
da centinaia di intellettuali di tutto il mondo (la lettera è
consultabile a questa pagina web dove si
trovano le sue traduzioni in varie lingue e il link per sottoscriverla e
consultare l’elenco dei firmatari) provvede a ricordarci la necessità e
l’urgenza del compito appena evocato, ma soprattutto ci induce a spostare
l’attenzione dalle spiagge su cui sbarcano i migranti africani ai problemi che
affliggono i Paesi da cui provengono.
Il
continente africano, scrivono gli autori della Lettera, dispone di risorse tali
che gli consentirebbero di offrire condizioni di vita dignitose a tutti i suoi
abitanti (assistenza sanitaria, istruzione, occupazione e salari decenti). Se
ciò non avviene è perché decenni di sconvolgimento socioeconomico coloniale e post
coloniale, esacerbato dalla svolta neoliberista imposta dai Paesi occidentali,
hanno incastrato i Paesi africani in un circolo vizioso che ha generato una
serie di croniche deficienze strutturali quali: la mancanza si sovranità
alimentare, la mancanza di sovranità energetica e un modello di (sotto)sviluppo
fondato sul manifatturiero a basso valore aggiunto e sulle industrie
estrattive.
Per far
fronte ai problemi provocati da questo circolo vizioso i governi africani hanno
dovuto indebitarsi sempre di più, accettando le condizioni capestro imposte dal
fondo Monetario Internazionale e dai Paesi creditori, e subendo in questo modo
ulteriori riduzioni della propria sovranità economica e politica. Per mettere
una pezza a questa situazione si sono adottate cinque strategie che, invece di
migliorarla, la hanno ulteriormente aggravata: 1) crescita orientata alle
esportazioni (che ha provocato l’aumento di importazioni di energia, beni
strumentali a elevato valore aggiunto a fronte dell’esportazione di prodotti a
basso valore aggiunto); 2) liberalizzazione degli investimenti diretti esteri
(che ha scatenato la concorrenza al ribasso fra governi per attirare gli
investitori stranieri tramite sgravi fiscali, sussidi, e riduzione delle tutele
dei lavoratori e dell’ambiente); 3) sovrainvestimenti nel settore turistico
(che aumenta le importazioni di energia e di cibo e contribuisce al
deterioramento dell’ambiente); 4) privatizzazioni di imprese pubbliche nei
settori strategici (con conseguente degrado delle reti di protezione sociale);
5) liberalizzazione dei mercati finanziari (che alimenta investimenti puramente
speculativi e predatori senza contribuire allo sviluppo dei Paesi in cui
vengono effettuati).
Perché
stupirsi dunque, se gli effetti di queste strategie che i Paesi occidentali
hanno imposto a quelli africani hanno provocato l’effetto boomerang dell’ondata
migratoria (che, non a caso, vede come protagonisti non solo persone disperate
e ridotte in miseria, ma anche forza lavoro ad alto livello di qualificazione
che non trova sbocco nei modelli di sviluppo appena descritti). I firmatari
della Lettera tracciano le linee dei mutamenti di strategia che gli Stati
africani dovrebbero effettuare per rivendicare la propria sovranità monetaria
ed economica, e per ristrutturare le proprie economie adottando politiche
industriali centrate sul manifatturiero a elevato valore aggiunto. Ma
soprattutto presentano il conto alle potenze ex coloniali e post coloniali che
hanno contribuito a intrappolarli nella gabbia dell’economia del debito: non
volete che le migliaia di migranti che oggi vi invadono diventino domani
milioni? Prendete atto che l’unico modo per riuscirci è sviluppare nuove forme
di cooperazione che rimpiazzino la vecchia logica degli “aiuti” con quella
della cancellazione dei debiti sovrani.
Non mi
illudo che la lettura di questa Lettera, anche se il numero dei firmatari
dovesse aumentare esponenzialmente, possa cambiare l’inerzia di decenni di
politiche neoliberiste, spero solo che aiuti qualcuno a smetterla di pensare
alle persone che approdano sulle nostre coste come a singoli individui, vittime
o invasori a seconda degli opposti pregiudizi ideologici, per iniziare a
vederli come esponenti di comunità smembrate dalle dinamiche che stanno
distruggendo i loro Paesi e di cui non possiamo non sentirci corresponsabili
(nel senso squisitamente politico e non moralistico del termine).
L’Africa è in debito? Serge Latouche
La mondializzazione o globalizzazione, come dicono gli anglosassoni, è un concetto alla moda, imposto dalle recenti evoluzioni. Fa parte dello spirito del tempo. In pochi anni, se non in pochi mesi, tutti i problemi sono divenuti globali: la finanza e gli scambi economici anzitutto, ma anche l’ambiente, la tecnica, la comunicazione, la pubblicità, la cultura e persino la politica. Soprattutto negli Stati Uniti, l’aggettivo globale è stato all’improvviso affibbiato a tutti questi settori.
Si parla di inquinamenti globali, della televisione globale, della globalizzazione dello spazio politico, della società civile globale, del governo globale, del tecnoglobalismo, ecc.
Non c’è dubbio che il fenomeno nascosto dietro tali parole non è così nuovo come si vuol far credere. Alcune voci profetiche, come quella di Marshall Mc Luhan, annunciavano già da diversi decenni l’avvento di un “villaggio planetario” (global village). Alcuni specialisti hanno parlato di occidentalizzazione, di uniformazione o di modernizzazione del mondo e gli storici ne hanno scoperto tutti i sintomi dentro evoluzioni di lunga durata. Ma che cosa di nuovo?
La mondializzazione, sotto l’apparenza di una constatazione neutra del fenomeno, è anche, invece, uno slogan che incita e orienta ad agire in vista di una trasformazione considerata come auspicabile per tutti. Il termine che non è affatto “innocente”, lascia anzi intendere che ci si trova di fronte ad un processo anonimo e universale benefico per l’umanità e non invece che si è trascinati in una impresa, auspicata da certe persone, per i loro interessi, impresa che presenta rischi enormi e pericoli considerevoli per tutti, particolarmente per i popoli del Sud del mondo.
Come il capitale al quale è intimamente legata, la mondializzazione è in realtà un rapporto sociale di dominio e di sfruttamento nella scala planetaria.
Dietro l’anonimato del processo, ci sono dei beneficiari e delle vittime, i padroni e gli schiavi.
I principali rappresentati della megamacchina senza volto si chiamano G7, Club de Paris, complesso FMI/Banca Mondiale/OMC (W.T.O.), l’OCSE, la Camera di Commercio Internazionale, forum di Davos, ma vi sono anche delle istituzioni meno note, dalle sigle esoteriche, ma di enorme influenza: il Comitato di Bali per la supervisione bancaria e l’IOSCO (International Organisation of Securities Commissions), che è l’organizzazione internazionale delle Commissioni nazionali emettitrici di titoli obbligatori, l’ISMA (International Securities Market Association), che ha un noto equivalente per i titoli obbligatori, l’ISO (Industrial Standard Organisation), che l’incarico di definire gli standard industriali.
Infine, non si possono trascurare le grandi imprese, i grandi uffici di consulenza, i grandi studi legali e le fondazioni private. Società come Price e Watherhouse, Peat Marwick, Ernst e Yung o Arthur Andersen sono protagoniste essenziali della mondializzazione, anche se a prima vista il loro ruolo, come la certificazione della contabilità delle imprese, può apparire puramente tecnico.
E’ del tutto evidente che, lasciando credere che il fenomeno, buono o cattivo, sia incontrastabile, ci si rende complici del fatto che accada.
Una volta compreso quello che si nasconde dietro la sua manifestazione, non vi è alcun motivo di ritenere che il fenomeno sia irresistibile e in arginabile.
La mondializzazione non è positiva per tutto il mondo ed è pienamente possibile concepire un altro destino.
Bisogna dunque tentare di vedere i pericoli del mercato mondiale specialmente per i paesi del Sud del Mondo, analizzare la trappola del debito e, finalmente, come far fronte a questi pericoli.
I Le conseguenze negative per il Sud dell’economicizzazione del mondo
Sin dall’origine, il funzionamento del mercato è sopranazionale se non addirittura mondiale. Il trionfo recente del mercato non è altro che il trionfo del tout marché (tutto è mercato): Si tratta dell’ultima metamorfosi di una lunghissima storia mondiale.
La prima mondializzazione porta la data della conquista dell’America, quando l’Occidente prese coscienza della rotondità della Terra per scoprirla e imporre le proprie conquiste: Quando, secondo la formula di Paul Valery, “comincia il tempo del mondo finito”: Questa prima mondializzazione è stata forse più determinante delle successive: Con la conquista europea delle Americhe, sono stati accelerati gli scambi di piante, di animali, ma anche di malattie.
Una seconda mondializzazione risalirebbe alla Conferenza di Berlino e alla spartizione dell’Africa fra il 1885 ed il 1887,
Una terza sarebbe cominciata con la decolonizzazione e l’era degli “sviluppi”.
La globalizzazione, proprio perché è anzitutto globalizzazione dei mercati, allarga il campo della competitività e la intensifica fino al parossismo. In conseguenza, costringe le intrepresi ad una flessibilità più forte.
Sotto l’egida delle istituzioni di Bretton Woods, il mercato mondiale sta distruggendo il pianeta. Ritratta di una banale constatazione, confermata in modo uniforme dallo spettacolo quotidiano: i comportamenti delle multinazionali, le delocalizzazioni massicce (di impieghi, attività, eccetera), il genocidio degli indigeni dell’Amazzonia, la distruzione delle identità culturali e i conflitti etnici ricorrenti, la collusione tra i narcotrafficanti e i poteri pubblici in quasi tutti i paesi, l’eliminazione programmata degli organismi nazionali ed internazionali (il FMI, la Banca mondiale o quella dei regolamenti internazionali), degli ultimi freni alla flessibilità dei salari, la smantellamento dei sistemi di protezione sociale nei paesi del Nord, la scomparsa delle foreste, la desertificazione, l’agonia degli oceani e così via. Dietro tutti questi fenomeni, direttamente o indirettamente, si ritrova la mano invisibile del mercato mondiale.
Tuttavia, con la mondializzazione dell’economia, la concorrenza della miseria del Sud si ritorce contro il Nord e sta a sua volta per distruggerlo. Parti consistenti del tessuto industriale sono già lacerate; certe economie, certe regioni sono veramente devastate, e non ancora finita.
Mentre si continua a distruggere l’agricoltura alimentare e l’allevamento nei paesi africani, esportandovi a basso prezzo l’eccedenza dei nostri prodotti agricoli (peraltro sovvenzionati), i pescatori, o comunque le zone costiere di quegli stessi paesi, rovinano la nostra pesca, esportando a loro volta del pesce miserabile.
Di conseguenza, vengono dilapidati i modi di vita e i patrimoni sociali che si sono costituiti attraverso l’accumulazione di saperi tradizionali e di relazioni e si spezzano gli equilibri ecologici.
L’attuale mondializzazione sta completando l’opera di distruzione dell’Oikos planetario. Non fosse altro perché la concorrenza esacerbata spinge i paesi del Nord a manipolare la natura senza alcun controllo, e quelli del Sud ad esaurire le risorse non rinnovabili. In agricoltura, l’uso intensivo di concimi chimici e pesticidi, nonché l’irrigazione sistematica e il ricorso ad organismi geneticamente modificati, hanno avuto come conseguenza la distruzione dei suoli, l’esaurimento o l’inquinamento delle falde freatiche, la desertificazione, la diffusione dei parassiti, il rischio di epidemie catastrofiche….
I misfatti del liberismo economico sul Terzo mondo non sono certo nuovi né sconosciuti. Risalgono all’epoca in cui gli occidentali si sono arrogati il diritto di aprire a cannonate la via al libero commercio. Dalle guerre dell’oppio all’ammiraglio Perry, passando per l’eliminazione dei tessitori indiani, l’analisi delle disastrose conseguenze per i paesi deboli della divisione del lavoro non resta certo da fare. I processi attuali, stimolati dal Fondo monetario internazionale e dai piani di aggiustamento strutturale, i comportamenti della Banca mondiale e dell’Organizzazione mondiale del commercio sono una nuova versione della medesima tendenza. L’importazione massiccio di riso in Senegal, a scapito della risicoltura locale, e più in generale in Africa, i tentativi di smantellamento dell’uso collettivo della terra, poiché non consentono i prestiti ipotecari e la modernizzazione dell’agricoltura, fanno parte di questo schieramento di mezzi per garantire all’Africa una morte sicura.
Meriterebbe riflettere bene su due casi, quello del cacao e quello delle banane, per comprendere gli effetti della globalizzazione nel Sud. Quando il prezzo mondiale del cacao era al suo minimo, negli anni ’80, e le economie del Ghana e della Costa d’Avorio erano perciò immerse in una crisi drammatica, gli esperti della banca mondiale non trovarono niente di meglio che incoraggiare e finanziare la piantagione di migliaia di ettari di alberi di cacao in Indonesia, Malaysia e Filippine. Se ne poteva ancora trarre profitto speculando sulla miseria dei lavoratori di questi paesi, e a detrimento della natura..
Per coronare l’opera, gli europei di Bruxelles, allineandosi sulla sola Inghilterra, hanno capitolato davanti alla “lobby” del cioccolato. Definendo il cioccolato come un prodotto che può contenere fino al 15% di grassi vegetali (e ciò senza verifica possibile) oltre che burro di cacao, hanno fatto perdere alla Costa d’Avorio e al Ghana alcuni miliardi. Bisogna scandalizzarsi se alcuni piantatori hanno tolto le piante per rimpiazzarle con l’hashish?
Il caso delle banane è legato allo stabex, il meccanismo di garanzia di introiti da esportazione concesso dai paesi del mercato comune ai paesi A.C.P. (Africo, Carabo, Pacifico). Quel sistema messo in piedi delle convenzioni di Lome (da 1 a 5) era stato salutato come l’inizio di un nuovo ordine economico internazionale. Il prezzo della banana acquistata in Guadalupa, in Martinica, nelle Canarie o nell’Africa nera permette ai produttori locali di sopravvivere (in situazioni diversissime, ovviamente….). Senza essere nulli, i risultati sono stati modesti, con un certo numero di effetti perversi. Ad ogni modo, era ancora troppo. Spinti dalle multinazionali nordamericane, come la Chiquita Brands (ex United Fruit) e la Castel e Cooke, che controllano la gran parte della produzione e della distribuzione delle repubbliche delle banane e delle piantagioni della Colombia, i paesi dell’America Centrale hanno trascinato l’Europa davanti ai panels del GATT, poi del W.T.O., e denunciato le barriere e gli ostacoli al libero gioco del mercato. Vogliono ad ogni costo aumentare la loro quota di mercato grazie ai bassissimi salari dei contadini, centinaia dei quali sono morti in seguito al folle uso di pesticidi (contro i nematodi). Il W.T.O. ha dato loro ragione. “State conducendo la peggiore delle guerre economiche contro un popolo senza difesa. Importate le nostre banane e ci lasciate nella miseria, nei conflitti e nella sofferenza”, ha dichiarato il presidente dei piantatori di banane della piccola isola di Santa Lucia, commentando il verdetto e condannando la campagna politicamente scorretta dell’amministrazione Clinton: Evidentemente, i Tedeschi, grandi consumatori, per nulla intenzionati a pagare le loro banane ad un prezzo un po’ più alto di quelle della Colombia, non sono stati degli alleati a prova di bomba in quest’affare. A Jacques Chirac che rimproverava quel tradimento all’amico Kohl, e denunciava le conseguenze della produzione “ancora peggiori della schiavitù” sulle piantagioni americane, il cancelliere tedesco ha risposto: “La morale è una cosa, gli affari un’altra”.
Con la deregulation in tutti i paesi del mondo, con lo smantellamento delle regolamentazioni nazionali, non vi è più alcun limite alla riduzione dei costi e al circolo vizioso suicida. E’ un vero e proprio gioco al massacro tra individui e tra popoli, a spese della natura.
Infine, l’attuale mercificazione totale non risparmia l’Africa. Qui essa assume la forma particolare della “zairizzazione”, vale a dire della mercificazione e la privatizzazione integrale della vita politica. I rapporti sociali, il notabilato e l’accesso al potere sono inglobati ad ogni livello nella sfera mercantile. Il mercato colonizza lo Stato, molto di più di quanto non avvenga il contrario. L’esito di questo processo è ciò che Jean-Francois Bayard chiama “via somala allo sviluppo”, fondata sul traffico di droga, criminalità di Stato, stoccaggio di rifiuti tossici industriali, e così via.
II La trappola del debito e lo strangolamento dell’Africa
E’ in questo contesto dei rapporti “imperialisti” di dominazione Nord-Sud che occorre collocare il problema del debito. Il debito non è che uno degli elementi dell’insieme che contribuisce al soffocamento dell’Africa: “C’è una vera ipocrisia nel pretendere di favorire lo sviluppo dei paesi poveri e nel medesimo tempo saccheggiarli senza vergogna” dice André Franqueville. Aggiunge: ” Le due facce del saccheggio attuale del Sud da parte dei paesi ricchi sono conosciute: da una parte, un rimborso esatto senza pietà di un debito esterno in realtà inestinguibile perché aumenta in proporzione alla restituzione, grazie a un ingranaggio finanziario davvero machiavellico, d’altra parte, un saccheggio delle risorse naturali, materie prime, minerali e energetiche, produzioni agricole (e in conseguenza rovina dei suoli) per obbligare a questa restituzione.
Inoltre, questo saccheggio si trova rinforzato dalla svalutazione dei pressi di queste materie prime, saggiamente organizzata sul mercato internazionale e dichiarata ineluttabile, e sottomessa all’ingiunzione neo-liberista di esportare sempre di più purché nuovi prestiti siano accordati. Dalle conquiste coloniali il saccheggio continua; la sua ultima forma è quella dell’accaparramento delle risorse genetiche di questi paesi grazie al deposito di brevetti usurpati, come quello dei Nord-Americani sulla quinoa in Bolivia”(1).
Non verranno qui sviluppati commenti sul modo in cui la trappola del debito s’è innescata, tra riciclaggio di petroldollari da parte delle banche dopo il 1974 ed innalzamento congiunturale dei tassi di interesse per finanziare il debito americano. I miti dello sviluppo basato sul credito diffusi dal Nord, spesso in perfetta buona fede, e le illusioni dello scambio indebitamento-crescita nutrite al Sud sono stati nel medesimo tempo alibi e prove del dramma. Così, come dicono Fottorino, Guillemin e Orsenna: “L’Africa è un cimitero di elefanti bianchi (…).
A differenza dei veri pachidermi, ahimè non sono però in via di estinzione. Si tratta di costruzioni sontuose, inutili, costose, che in più hanno la facoltà di aggravare il debito dei paesi africani, di non funzionare, di trasformarsi nel giro di pochi anni in rovine, in ruggine o in fantasmi: Dighe, cementifici, alberghi nel deserto, zuccherifici, centrali elettriche, i branchi di elefanti bianchi calpestano l’Africa, spremono la finanza pubblica, arricchiscono le imprese occidentali con la compiacenza, se non l’incoraggiamento, delle organizzazioni internazionali” (2). La perversione intrinseca dell’anatocismo (3) (interessi composti) strangola il debitore dal momento che questo utilizza il denaro per finanziare spese improduttive (armamenti o consumi) oppure fa cattivi affari. Ricordiamo che un soldo prestato al 3% all’epoca di Carlo Magno renderebbe oggi pianeti d’oro.
In un racconto di fantascienza intitolato “interesse composto” si immagina un eroe, che viaggia nel passato, proprio al fine di investire qualche spicciolo i cui interessi gli serviranno a costruire la sua macchina per risalire il tempo (4). Questa situazione potrebbe valere fino ad un certo punto per i fondi di pensione, non certo per l’Africa! Certamente anche la crescita obbedisce in teoria alla medesima legge, in un secolo il PIL sarebbe moltiplicato per 867 al tasso del 10%! Ma ahimè i piani di aggiustamento strutturale imposti dal FMI lasciano poche speranze di raggiungere stabilmente tassi simili! Bisogna esportare sempre più e far circolare le entrate da esportazione, il che però porta al risultato di far abbassare i corsi (svalutazione). Come per Sisifo, bisogna risalire una china senza fine ed il carico diventa sempre più pesante.
Anche se le entrate da esportazione faticosamente ottenute fossero confiscate, i nuovi prestiti non arriverebbero a liquidare gli interessi maturati. Una volta attivato, lo strangolamento si rafforza, il debito nutre il debito. La terapia infernale delle istituzioni finanziarie internazionali dà il colpo di grazia al malato, pretendendo di guarirlo. L’antica rappresentazione del vampirismo degli usurai viene rinnovata. La morsa del debito (per riprendere il titolo del libro di Aminata Traore) costituisce un eccellente mezzo per mantenere i paesi del Sud in stretta subordinazione.
“Grazie alla morsa del debito esterno e dell’abbassamento dei prezzi delle materie prime, scrive André Franqueville, una riconolizzazione si è messa in atto sotto il giogo degli organismi internazionali di cui gli Stati Uniti sono il capo” (5).
E’ stata proclamata con grande pubblicità la possibilità di annullare l’80% del debito dei paesi poveri nel giugno 1996 nel corso del G7 di Lione, poi in quello di Colonia il sacrificio dei ricchi è salito al 90%. Tuttavia, dietro l’annuncio ad effetto, si nasconde una grande truffa.
I dati sono impietosi e mettono in luce l’indecenza, o meglio l’oscenità della pretesa generosità. Tra il 1982 ed il1998 i paesi del Sud hanno rimborsato quattro volte l’ammontare del debito. Tuttavia, questo era quattro volte più elevato che nel 1982 ed arrivava a 1950 miliardi di dollari! Il Terzo mondo rimborsa ogni anno più di 200 miliardi di dollari, quando gli aiuti pubblici allo sviluppo (compresi prestiti rimborsabili) non oltrepassano i 45 miliardi di dollari l’anno. L’Africa subsahariana, dal canto suo, spende per rimborsare il suo debito quattro volte di più di quanto spenda per la salute e per l’istruzione.
Le misure d’annullamento rasentano l’effetto della peggior vaselina. Occorre, in effetti, distinguere tre tipi di debito: quello verso la Banca Mondiale ed il FMI, che non è negoziabile, ma che per i paesi africani rappresenta dal 30 al 75% dell’indebitamento; quello verso le istituzioni private che non è proprio questione d’annullare e che rappresenta più del 50% dell’indebitamento dei paesi latino-americani ed asiatici; quello infine tra Stato e Stato che è il solo per il quale è pensabile l’annullamento. Questo, per i paesi poveri e più indebitati, deve essere negoziato caso per caso con il Club di Parigi. In tal modo un paese dell’Africa nera che deve, per esempio, quattro miliardi di dollari, di cui due a Banca Mondiale-FMI ed uno a banche private, può sperare nell’annullamento dell’80-90% del restante miliardo dovuto al Club di Parigi.
Tuttavia un artificio tecnico riduce ancor di più quest’ultimo ammontare. Se ha già avuto luogo, com’è probabile, un riscaglionamento del debito (per esempio su 600 milioni), l’annullamento non riguarderà che la parte non scaglionata, al massimo relativa a 360 milioni, ovvero il 9% del totale del debito. E’ così che, fino ad oggi, l’ammontare annullato rappresenta 25 miliardi di dollari, ossia meno del 2% del totale! (6). Siamo ben lontani dall’iniziativa Jubilée 2000 che riguarderebbe circa 300 miliardi e che è ben al di qua dell’ampiezza del problema.
Anche se tutti i debiti fossero davvero annullati, tutti i “meccanismi” che hanno generato questa situazione perversa resterebbero al loro posto. La partita ricomincerebbe ancora più dura. Non è l’indebitamento che crea la povertà, ma è vero il contrario. A dispetto di quello che ci fanno credere, rifiutare il debito, come ho sempre sostenuto, non avrebbe probabilmente grossi effetti pregiudizievoli sul piano economico per i paesi interessati, anzi il ontrario. L’irrealismo della proposta è altrove. Per i paesi dell’Africa, in ogni caso, sarebbe semplicemente suicida: la loro indipendenza è infatti totalmente fittizia. Se il Cile di Allende, per aver toccato gli interessi americani, è stato vittima di un colpo si stato fomentato dalla CIA e dall’ATT, si consideri che tutti i regimi dell’Africa, infinitamente più fragili, sono sotto stretta sorveglianza. Essi debbono “filare a bacchetta”. Dal momento che la resistenza è votata alla sconfitta, non resta loro che la dissidenza.
III Far fronte: le lezioni dell’altra Africa (come laboratorio del doposviluppo)
L’economia mondiale, con l’aiuto delle istituzioni di Bretton Woods, ha escuso dalle campagne milioni e milioni di persone, ha distrutto il loro modo di vita tradizionale, soppresso i loro mezzi di sussistenza, per gettarli e ammucchiarli nelle “bidonville” nelle periferie del Terzo Mondo. Sono questi i “naufraghi dello sviluppo”. Condannati, nella logica dominante, a scomparire, non hanno altra scelta per sopravvivere che organizzarsi secondo un’altra logica. Devono inventare, e certi lo fanno davvero, un altro sistema, un’altra vita.
Vedere l’altra Africa come un laboratorio del doposviluppo, significa vedere l’informale in positivo, vederlo positivamente, di per se stesso per quanto possibile, cioè in funzione delle sue proprie norme, e non commisurato al paradigma dello sviluppo.
Si tratta di vedere con occhio diverso il modo stupefacente in cui sopravvivono gli esclusi dal mondo ufficiale. Nell’informale che ci interessa, non si in un’economia, sia pure altra, si è in un’altra società. L’economico non si è autonomizzato in quanto tale. Esso è dissolto, incorporato (embedded) nel sociale, in particolare nelle reti complesse che strutturano le città popolari dell’Africa. Per questo il termine di società vernacolare è più appropriato per parlare di questa realtà di quello di economia informale.
Tuttavia la società vernacolare non è sicuramente un paradiso ritrovato. Prima di tutto, si tratta dei modi in cui i naufraghi dello sviluppo producono e riproducono la loro vita, al di fuori del campo ufficiale, mediante strategie relazionali. Queste strategie incorporano ogni sorta di attività economiche, ma tali attività non sono ( o sono poco) professionalizzate. Gli espedienti, il bricolage, la capacità di arrangiarsi di ciascuno si iscrivono nelle reti. I “collegati” (reliés) formano dei “grappoli” (grappes). In fondo, queste strategie fondate su un gioco sottile si “cassetti” (tiroirs) sociali ed economici sono paragonabili alle strategie familiari, che sono nella maggior parte dei casi le strategie delle massaie, ma trasposte in una società in cui i membri della famiglia allargata si contano a centinaia.
Così la società vernacolare ( o l’oikonomia neo clanica come la chiamo nel libro) è a prima vista soprattutto femminile, fondata sulla pluriattività, sul non professionalismo e sulle strategie relazionali.
Gli esclusi della grande società realizzano il miracolo della loro sopravivenza reinventando il legame sociale e facendo funzionare tale legame sociale. Esclusi dalle forme canoniche della modernità, dalla cittadinanza dello Stato-nazione e dalla partecipazione al mercato nazionale, essi vivono, in effetti, grazie alle reti di solidarietà neoclaniche.
Al di là della pluriattività e della non professionalizzazione, quel che colpisce l’osservatore attento ai “grappoli” di “collegati” della società vernacolare è l’importanza del tempo, dell’energia e delle risorse destinate ai rapporti sociali. Se si dispiega un’attività intensa, sarebbe abusivo nella maggior parte dei casi parlare di vero lavoro. Gli incontri, le visite, i ricevimenti, le discussioni prendono molto tempo. Dare e prendere in prestito, donare, ricevere, aiutarsi reciprocamente, fare una ordinazione, consegnare, informarsi, occupano gran parte della giornata, senza parlare del tempo dedicato alla festa, alla danza, al sogno, al gioco… “La festa, osserva Eric de Rosny, occupa un posto smisurato in proporzione ai mezzi finanziari della popolazione, tutti gli economisti lo dicono, ma essa è appropriata ai suoi bisogni affettivi” (7).
Si sarà riconosciuta facilmente in questo funzionamento della società neoclanica una logica molto diversa della logica mercantile, quella del dono e dei rituali oblativi. Qui, come ovunque, il legame sociale funziona sulla base dello scambio: m lo scambio, con o senza moneta, si basa più sul dono che sul mercato. Ci si trova di fronte al triplice obbligo di donare, ricevere e restituire così come lo analizza Marcel Mauss. La cosa centrale e fondamentale in questa logica del dono è il fatto che il legame sostituisce il bene.
Conclusione
La società vernacolare, ma anche in Europa le banche del tempo, i LETS (local exchange trade system), i SEL (systémes d’échange locaux) sono forme di dissenso dalla norma. Questi ultimi più coscienti, ma anche più fragili della società vernacolare. Sono anche forme di resistenza alla mondializzazione dell’economia e all’economicizzazione del mondo. Sono tutti dei laboratori del futuro, laboratori del dopo sviluppo.
Nel caso dei SEL, si tratta invece piuttosto di una risposta locale a una sfida globale. Come dicono i fondatori del SEL dell’Ariege; “In qualche modo noi rispondiamo a problemi mondiali con una soluzione locale”. Un SEL stimola la produzione locale e risponde a bisogni locali. Permette di rivitalizzare la società locale senza apporto di capitali esterni. Aiuta a prendere coscienza dei problemi locali, a cercare soluzioni pratiche, concrete e realistiche. Riduce le importazioni, gli sprechi e l’inquinamento conseguente ai trasporti. Senza chiasso e senza dichiarazioni, gli “informali” dell’altra Africa non fanno nulla di diverso.
C’è una lezione dell’esperienza africana della società vernacolare che può servire anche per tutti coloro che sono impiegati in imprese alternative.
La nostra riflessione conduce alla realizzazione di una coerenza globale dell’insieme delle innovazioni alternative: cooperative autogestite, comunità neo-rurali, LETS (Local Exchange Trade Systems) e SEL (Systémes d’Echange Locaux), auto-organizzazione degli esclusi al Sud. Queste esperienze ci interessano soprattutto in quanto forme di resistenza e di dissidenza al processo di crescita e potenziamento dell’omnimercificazione del mondo. Il pericolo della maggior parte delle iniziative alternative volontarie è, infatti, di rinchiudersi nella fortezza che ha permesso loro di nascere e svilupparsi invece di lavorare alla costruzione e al rafforzamento di una nicchia. La “fortezza” è un concetto di strategia militare di conquista e di aggressione, legata alla nazionalità economica dominante.
Ciò che può fare vivere l’impresa alternativa è piuttosto la nicchia, un concetto ecologico molto più vicino all’antica prudenza (la phronesis di Aristotele) e a una concezione sociale dell’efficacia, estranea all’efficienza economica. L’impresa alternativa sopravvive in un contesto che è e deve essere diverso dal mercato mondializzato.
E’ questo contesto dissidente che occorre definire, proteggere, mantenere, rinforzare e sviluppare per la resistenza. Invece di battersi disperatamente per conservare la propria fortezza all’interno del mercato mondiale, occorre militare per ingrandire e approfondire la nicchia a margine dell’economia globale. Riuscire a imporre i prodotti del commercio equo-solidale o dell’agricoltura biologica sugli scaffali dei supermercati, a fianco dei prodotti “non equi” o “anti-biologici” non è un obbiettivo in sé. Va inscritto più in una strategia di fortezza che nell’ottica del rafforzamento della nicchia.
E’ più importante assicurarsi del carattere equo della totalità del processo, dal trasporto alla commercializzazione, cosa che esclude in prima battuta il supermercato e allarga il tessuto organizzativo. L’estensione e l’approfondimento della rete di complicità è il segreto di riuscita e deve essere la preoccupazione principale di queste imprese. I Consum-attori (consumatori e cittadini) non sono che un elemento di un insieme che deve essere articolato: SEL, produttori alternativi, neo-rurali, movimenti associativi impegnati su questa strada. E’ questa coerenza che rappresenta vera alternativa al sistema. Si tratta di coordinare la protesta sociale con la protesta ecologica, con la solidarietà verso gli esclusi del Nord e del Sud, tramite tutte le iniziative per articolare la resistenza e la dissidenza e per sfociare, in fine, in una società autonoma. Non si tratta di concepire la “nicchia” come un’oasi conviviale nel deserto umano del mercato mondiale, ma come un organismo in crescita che fa arretrare il deserto.
(1) – André Franqueville, op. cit. Pp. 17-18
(2) – E. Fattorino, Chr. Guillemin, E. Orsenna, “Besoin d’Afrique », Paris, Fayard 1992, pp 32-33
(3) – Anatocismo : il fatto che gli interessi già scaduti (cioè maturati) e non pagati diventino bene capitale e come suscettibili di produrre interesse a loro volta (dal greco anatokismos = usura). Ndt.
(4) – Citato da Rex Butler in “Acheter le temps”, Traverscs n° 33-34, Politique fin de siécle, Paris 1982
(5) – Anurée Franqueville, “Du Cameroun à la Bolivie. Retours sur u itinèraire », Karthala, Paris 2000, p. 13
(6) – Eric Toussaint, « Briser la spirale infernale de la dette », Le Monde diplomatique, Paris, septembre 1999
(7) – La nuit les yeux ouverts, Seuil 1996, p. 276
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