Il trauma può essere definito come la reazione fisica del nostro corpo dopo aver vissuto o assistito a un evento estremamente sgradevole. Il disturbo da stress post-traumatico, o DSPT, è una condizione psicologica causata da un evento spiacevole “al di fuori dell’esperienza umana abituale”.
Una pandemia
globale. La conseguente crisi economica. Video di agenti della polizia che
uccidono persone nere disarmate. Immagini di militari federali che, armati di
fucili d’assalto, affrontano le masse di manifestanti ogni notte. La tragedia
climatica globale. L’incessante aumento di persone senza fissa dimora. Trump.
Si può
senz’altro sostenere che nessuna di quelle sopraelencate sia inseribile nella
gamma di esperienze umane “abituali”. Anche se non siamo stati personalmente
colpiti da questi eventi o non conosciamo nessuno che sia stato contagiato dal
virus Covid-19 – e magari godiamo di uno stipendio mensile decente, non siamo
mai stati attaccati dalla polizia e viviamo in un quartiere agiato – il
semplice fatto di assistere a questi episodi tramite i media può causare quello
che gli psicologici chiamano trauma indiretto. Lo assorbiamo semplicemente
perché l’aria ne è pregna.
Probabilmente,
ciascuno di noi ha riscontrato questo trauma nella propria vita quotidiana, nelle
relazioni umani e all’interno del contesto familiare. Tra gli innumerevoli
sintomi, sono comuni ansia, irascibilità, iper-vigilanza, ritiro sociale,
affaticamento, cinismo, mancanza di empatia e irrequietezza.
E negli
ultimi mesi, ho assistito personalmente a manifestazioni collettive di questo
trauma.
Quando il
trauma è innescato, perdiamo lo stimolo ad acquisire nuove informazioni, a
essere creativi e considerare l’esistenza di prospettive diverse, o anche
pensare al lungo periodo.
Forse
esagero, ma sento che nei miei 39 anni di esistenza su questo pianeta, non ho
mai vissuto un momento come questo, in cui tutto appare così frammentato e
polarizzato, e le situazioni sono così complicate che la società sembra cadere
a pezzi. Che sia per i manifestanti sparati e investiti nelle strade, per la
brutale violenza che aleggia sulla questione delle mascherine, o per la
situazione tragica che caratterizza i sistemi politici nell’ultimo periodo, mi
sento immerso nel pieno di un trauma collettivo.
Quando il
trauma è innescato, la nostra neuro-corteccia – la parte del cervello che ci
consente di ragionare, pensare alle conseguenze di ogni azione, risolvere
problemi e acquisire e generare nuove informazioni – viene disattivata.
Iniziamo a mettere in uso la parte meno evoluta del nostro encefalo: il sistema
limbico (responsabile delle emozioni) e il complesso rettiliano (responsabile
degli istinti di sopravvivenza).
Quando il
trauma è innescato, anche se le nostre vite non sono in reale pericolo, il
nostre cervello lo percepisce. Entra in gioco il nostro istinto di
sopravvivenza e perdiamo la capacità di vedere le sfumature… Tutto è bianco o
nero. O è una minaccia o non lo è. O è giusto o è sbagliato.
Quando il
trauma è innescato, perdiamo lo stimolo ad acquisire nuove informazioni, a
essere creativi e considerare l’esistenza di prospettive diverse, o anche
pensare al lungo periodo. Se le nostre vite sono in pericolo, non abbiamo tempo
da perdere per certe cose. Dobbiamo semplicemente reagire, combattere o
scappare, con l’unico obiettivo di rimanere vivi.
Quando il
trauma è innescato, tutto ci appare fuori controllo anche se non lo è. Il
cervello inonda il corpo di adrenalina e cortisolo, facendo irrigidire i
muscoli. Il pericolo sembra nascondersi dietro ogni angolo. E una sorta di
iper-vigilanza demolisce la nostra naturale resilienza.
Una visione
del mondo monocromatica. Bianco o nero. Nessuna sfumatura.
Lottare per
pensare a una strategia a lungo termine. Essere incapaci di captare
informazioni diverse da quelle che abbiamo già assorbito.
Ti suona
familiare?
Sta
succedendo ovunque.
Credo che
Trump sia un individuo estremamente traumatizzato che non ha avuto nessuna
opportunità per guarire davvero. E dando sfogo a questo trauma, sta
risvegliando il trauma interiore di molti dei suoi seguaci e sostenitori.
I movimenti
attivisti si impegnano costantemente a contrastare la violenza della polizia e
a parlare di traumi storici – spesso, però, in modo impacciato, che riapre la
ferita ma non aiuta a guarirla.
Poi,
scendono in piazza. E lì il trauma s’incontra con il trauma.
E non è
un’interazione produttiva.
Per condurre
una produttiva azione nonviolenta è necessario ricorrere a strumenti di
regolazione emozionale e imparare come rinascere dalle nostre stesse ferite.
L’azione
nonviolenta diretta può essere intensa e allarmante, oltre a poter facilmente
innescare una reazione traumatica. Ma è di cruciale importanza per spingere
verso un reale cambiamento. La nostra risposta alla violenza e all’ingiustizia
deve corrispondere alla escalation derivante dall’azione che
mettiamo in pratica. Un’azione contro dei pericoli profondamente degenerati.
Niente di meno di un confronto diretto con i sistemi del potere sembra essere
più appropriato.
In che modo
possiamo intraprendere un’azione in grado di portarci alla guarigione? Come
evitare che il trauma si scontri con il trauma, il panico con il panico e la
lotta con altra lotta? Come facciamo a costruire dei movimenti che riescano a
“chiudere” tatticamente un’autostrada, mentre aprono nuove possibilità di
guarigione e trasformazione?
Analisi del trauma
Victor Lee
Lewis, avvocato della giustizia razziale e guaritore, dice che ogni attivista ha
bisogno di avere qualche competenza nel campo della neuroscienza per
comprendere l’impatto di un trauma sul corpo umano. Oltre alla letteratura
classica sulle strategie della nonviolenza, che comprende “The Politics of
Nonviolent Action” di Gene Sharp o “Rules for Radicals” di Saul Alinsky,
dovremmo analizzare i manuali di Resmaa Menakem, come “My Grandmother’s Hands”
o anche “The Body Keeps the Score” di Bessel van der Kolk e “The Politics of
Trauma” di Staci Haines.
Studiosi
come Peter Levine e Brené Brown dovrebbero essere frequentemente citati nei
circoli, così come Grace Lee Boggs o Leonard Peltier.
Questa
nazione sta sottovalutando l’eventualità di un trauma collettivo. Trauma che,
se dovesse manifestarsi in un individuo o in una collettività, presenterà le
stesse caratteristiche e richiederà strategie simili per poter guarire.
Se riusciamo a comprendere a fondo le dinamiche del trauma, saremo in grado di
gestirlo e di uscirne nel migliore dei modi.
Gestire il “traumatico”
Preparare le
comunità all’azione nonviolenta dovrebbe consistere non solo nelle tradizionali
metodologie di formazione – tra cui quella sanitaria e legale. Dovrebbe
includere anche strumenti di regolazione emozionale nel breve periodo e
l’impegno da parte di ciascuno di noi a riconoscere la causa scatenante del
malessere e provare a guarire le nostre stesse ferite.
Gandhi ha
parlato dell’importanza della “auto-purificazione” come parte fondamentale della
preparazione spirituale per un satyagrahi – un guerriero
nonviolento. Ai suoi tempi, non esisteva una parola per esprimere la
“guarigione dal trauma” ma, quando ci prepariamo ad affrontare eventi
potenzialmente traumatici (essere arrestati o aggrediti con gas lacrimogeni,
spray al peperoncino…), parte del nostro percorso spirituale ed emozionale
dovrebbe concentrarsi sull’acquisizione di consapevolezza circa la quantità di
dolore, tristezza e risentimento che coviamo dentro di noi, così da poter scendere
in strada con il cuore più leggero.
Sentimenti
come l’angoscia e la collera non solo sono naturali, ma è importante celebrarli
e incarnarli. E non posso fare a meno di pensare che l’azione diretta – con le
grida, i gas lacrimogeni, la natura pubblica e frenetica di questi spazi – non
sia il modo più produttivo o sicuro per noi per liberare il dolore non
processato e la rabbia.
Invece,
abbiamo bisogno di creare più spazi sicuri, gestiti da mediatori
professionisti, il cui compito è proprio quello di prendersi cura della nostra
sofferenza e irascibilità. Una volta che queste emozioni vengono elaborate, il
loro furioso inferno può depositarsi in un pezzo di carbone: energia
concentrata e duratura, più semplice da utilizzare in modo sapiente.
Non intendo
in alcun modo giudicare lo sfogo di dolore e rabbia nelle piazze. Per le
comunità marginalizzate, in modo particolare, ogni caso di ingiustizia si rifà
a generazioni di violenza perpetuata dallo stato che l’ha sempre fatta franca.
È
semplicemente un invito a pensare di più all’influenza che lo spazio può avere
sul rendimento finale di un lavoro. Non tutti gli spazi sono adatti a noi o,
almeno, non in ogni momento. L’azione diretta dovrebbe essere uno “spazio” in
cui la società viene spinta a guardare in faccia i suoi traumi.
Ovviamente,
elaborare un trauma è un processo a lungo termine. Nel frattempo, la formazione
nonviolenta dovrebbe enfatizzare l’utilizzo di strumenti di regolazione
emozionale, come imparare a riconoscere le cause scatenanti, praticare esercizi
di respirazione e titolazione o svolgere attività di
gruppo (cantare, per esempio). Queste pratiche possono aiutarci a stimolare la
nostra corteccia cerebrale in un momento particolarmente burrascoso.
Zittire vs. accogliere
Infine,
dobbiamo essere consapevoli dello scopo delle nostre azioni. Si tratta
semplicemente di sopraffare “l’altra parte” e imporle il cambiamento o è
l’obiettivo finale a determinare la guarigione sociale, la trasformazione e la
liberazione per tutti?
Stiamo
cercando di “zittire”, oppure vogliamo riaprire le ferite di questa nazione e
disinfettarne le infezioni – la supremazia bianca, il patriarcato, il
capitalismo e tutte le altre forme di segregazionismo e dominazione – così che
tutti possano veramente guarire?
Se questo è
lo scopo, allora dobbiamo essere pienamente consapevoli del tipo di azioni da
condurre. Come possiamo bilanciare il potere e l’assertività di cui sentiamo un
disperato bisogno negli ultimi tempi, con l’amore e le relazioni umane
essenziali per guarire?
Spesso mi
capita di pensare al potere delle marce di protesta silenziosa, dei blocchi di meditazione, o dei riti di
riconciliazione spirituale, come la Reparations
Procession che sta attualmente organizzando le sue passeggiate
quotidiane nell’East Bay.
Quando ero a
Standing Rock, prima che scendessi in strada per condurre insieme agli altri
un’azione diretta, gli anziani mi dissero: «Ricorda, stai partecipando a una
cerimonia».
Che livelli
di creatività potremmo raggiungere se vedessimo l’azione diretta come una
cerimonia o come una strategia per affrontare un trauma e guarire le ferite?
Che opportunità potrebbero aprirsi davanti a noi?
Per capirlo,
non possiamo restare immobili nel nostro stato di trauma. Il trauma non stimola
affatto la creatività. E questo ci porta a un altro paradosso dei nostri
giorni… Come possiamo mollare un po’ la presa così da sfruttare al massimo la
nostra corteccia cerebrale e riuscire finalmente ad ascoltare il nostro
istinto, mentre ci impegniamo ad affrontare le urgenze e a cogliere le
opportunità di questo momento?
Credo che il
primo passo da fare sia molto semplice. Come disse il Rev. René August, «La
lotta per la giustizia è una maratona, non una gara di velocità. La differenza
tra una maratona e uno sprint sta nel modo in cui respiri. Impara a
respirare».
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