Goffredo Fofi ha più volte sostenuto che “il sessantotto più vero è stato
prima del sessantotto”: le sue origini risalirebbero alle inquietudini
giovanili dei primi anni Sessanta che si espressero inizialmente nelle arti,
specialmente nel cinema; la sua fine coincide invece con la nascita del
gruppetti marxisti-leninisti, e tutto il male che ne derivò.
Si può trovare una conferma a questa tesi in un libro uscito due anni fa, Il
sessantotto della scuola elementare (Unicopli 2018). Gli autori di
questo libro “collettivo”, Piero Fossati, Marcella Bacigalupi e Marina
Martignone, si sono concentrati su un argomento relativamente poco studiato. Se
esiste, infatti, un’ampia bibliografia sulla contestazione studentesca nelle
scuole superiori e nelle università, sulla scuola elementare, al contrario, si
è scritto poco, sebbene i primi concreti tentativi di abbattere l’autoritarismo
ancora dominante nella scuola italiana del dopoguerra siano iniziati almeno
dieci anni prima del Sessantotto, per opera di maestri e maestre, sulla scia
della ricezione delle pedagogie “attive” d’oltralpe (Freinet) e d’oltreoceano
(Dewey). Insomma, la ‘lunga marcia attraverso le istituzioni’, i maestri
l’avevano inventata e messa in atto prima che Rudi Dutschke ne coniasse la
formula.
Il libro raccoglie le testimonianze autobiografiche di maestri e maestre –
prevalentemente di area genovese – che hanno incrociato, durante il loro
percorso, l’onda lunga della contestazione. Non tutti allo stesso modo e con la
stessa intensità: c’è chi ha partecipato attivamente alle lotte politiche –
magari presentandosi, prima di entrare a scuola, davanti ai cancelli delle
fabbriche per distribuire volantini e copie de “Il manifesto” –, e c’è anche
chi, per ragioni generazionali o geografiche, del Sessantotto ha percepito solo
un’eco lontana; una di loro afferma addirittura: “Ho preso l’abilitazione
magistrale nel 1968!… e non mi sono accorta di nulla!”. Ma le differenze sono
anche di genere e di estrazione sociale: c’è chi proviene da famiglie operaie e
contadine e chi borghesi. Possiamo comunque riconoscere alcuni elementi comuni.
Tutti quanti hanno tentato di rompere con un modello tradizionale di scuola,
fondato sull’autoritarismo e sul nozionismo, e di mettere al centro del lavoro
educativo il bambino e i suoi diritti. Un cambiamento non facile che
necessitava (e necessita tuttora) di un grande lavoro su se stessi: non pochi
confessano di aver bocciato, all’inizio della loro carriera, e di essersi
sentiti in colpa per non avere avuto sempre il coraggio di seguire le proprie
idee. Ad aprire loro gli occhi e innescare il cambiamento nel loro modo di
lavorare è stato spesso l’incontro con maestri all’avanguardia, quasi sempre
legati in modo più o meno diretto al Movimento di Cooperazione Educativa, che
in questo libro riveste un ruolo di assoluto protagonista. Nato nel 1951, per
iniziativa di maestri come Giuseppe Tamagnini, Bruno Ciari e Mario Lodi, il MCE
aveva già messo in discussione la scuola tradizionale, prendendo in prestito
dalla pedagogia di Freinet strumenti e tecniche didattiche come il testo
libero, il giornalino di classe, il metodo globale, la corrispondenza,
l’insiemistica e la ricerca d’ambiente.
L’MCE aveva già messo in discussione la scuola tradizionale, prendendo in
prestito dalla pedagogia di Freinet strumenti e tecniche didattiche come il
testo libero, il giornalino di classe, il metodo globale, la corrispondenza,
l’insiemistica e la ricerca d’ambiente.
Oltre agli incontri fortunati con maestri “illuminati”, anche alcune
letture sono state importanti nella loro formazione. I titoli che ricorrono più
di frequente sono ovviamente Lettera a una professoressa (1967), Un
anno a Pietralata (1968) di Albino Bernardini e i libri di Mario
Lodi, C’è speranza se questo accade al Vho (1963) e Il
paese sbagliato (1970). Libri che facevano proposte didattiche
innovative e allo stesso tempo denunciavano le varie forme di esclusione messe
in atto dalla scuola italiana, tanto da diventare punti di riferimento
imprescindibili per un’intera generazione di maestri e maestre che, tra gli
anni Sessanta e Settanta, hanno preso parte alle battaglie per il tempo pieno,
contro l’uso del voto e le bocciature.
Per alcuni maestri il 1968 fu comunque una data spartiacque. La parabola di
Fossati è in questo senso emblematica. Già nei primi anni Sessanta si era
avvicinato alla politica, ma il suo attivismo aveva inizialmente poco a che
vedere con la scuola. A partire dal 1967 il modo di guardare la realtà
scolastica cambiò improvvisamente e si caricò di un significato politico. Ai
mesi successivi risalgano atti di disobbedienza come il rifiuto di insegnare la
religione o la scelta di dare a tutti i bambini lo stesso voto, e i tentativi
di rinnovare la didattica anche nei contenuti: alle poesie di Renzo Pezzani
subentrano Brecht e la Resistenza; la ricerca d’ambiente diventa inchiesta
sociale sui problemi del quartiere. Il progetto di una scuola nuova
concretamente democratica rendeva inoltre necessaria una nuova rielaborazione
dei riferimenti culturali. Da questa esigenza nascono lo Stupidario,
un libretto scritto insieme a un gruppo di insegnanti genovesi che raccoglieva
tutte le idiozie reazionarie contenute nei libri e nei manuali scolastici, e
l’enciclopedia Io e gli altri, che voleva essere un contributo alla
biblioteca di classe. Iniziative editoriali che oggi andrebbero riscoperte, e
per le quali rimandiamo al ben documentato saggio di Maria Luisa
Tornesello Il sogno di una scuola (2006).
Nel Sessantotto lo stesso MCE – come racconta Martignoni in un suo
contributo incluso nel volume – ebbe una svolta politica “che portò i suoi
iscritti a impegnarsi decisamente oltre lo stretto ambito pedagogico, didattico
e metodologico sostenendo rivendicazioni che investivano lo stesso
funzionamento e le strutture della scuola”. Avvenne dunque un curioso
cortocircuito: “il Sessantotto trasformò il MCE che gli aveva fornito i primi
attrezzi del mestiere”.
La contestazione studentesca nei suoi documenti programmatici ritraeva la
scuola come un’istituzione intrinsecamente, antioperaia, classista, funzionale
alle istanze del capitalismo e perciò irriformabile. Lo schematismo di quelle
analisi oggi fa un po’ sorridere. L’impressione è che, tuttavia, le spavalderie
estremistiche abbiano solo sfiorato il lavoro quotidiano dei maestri. Si pensi
ad esempio al concetto-feticcio sessantottino del “rifiuto del ruolo”: “se per
rifiuto del ruolo – si legge nella testimonianza di un maestro – si intende
rifiutare il ruolo di maestro o di insegnante delle medie, non arrivai a
tanto”. Il buon senso ha sempre prevalso, per fortuna.
Con il ‘riflusso’, dalla metà degli anni Settanta in avanti, morì ogni
speranza nell’avvento di una scuola nuova. Ma la delusione politica venne
vissuta in modo diverso dai mastri e dagli insegnanti dei gradi superiori. I
professori di liceo si sentirono frustrati e precocemente invecchiati di fronte
a una nuova generazione, che appariva ai loro occhi indifferente e cinica. Noi
“volevamo parlargli del nostro ’68 e dell’autunno caldo” e loro – gli studenti
– preferivano “il latino e la trigonometria”: così si legge in una
testimonianza (riportata da Fossati) uscita su “Ombre rosse” nel 1978. Che ne
ricorda a sua volta un’altra, uscita nello stesso anno su “Lotta continua”, di
Agilulfo – alias Alexander Langer – il quale confessava la sua tentazione di
mollare la scuola – allora insegnava in un liceo romano – deluso sia dal
“manifesto disinteresse degli studenti subentrato a una lunga stagione di lotte
e impegno» sia da quegli “insegnanti democratici” che non pensavano ad altro
che a “ripristinare serietà e fermezza”. (Forse non è esagerato parlare a
questo proposito di una vera e propria crisi d’identità del docente, che
persiste ancora oggi).
La fine della stagione dei movimenti fu molto meno traumatica per i
maestri, i quali trovarono rifugio nella didattica.
La fine della stagione dei movimenti fu molto meno traumatica per i
maestri, i quali trovarono rifugio nella didattica; una scelta che sarebbe
riduttivo considerare come una forma di ripiego, dal momento che, come osserva
Fossati, “occuparsi di didattica era prassi usuale e consolidata per i
maestri”. (Che sia anche questa una delle ragioni per cui oggi la scuola
primaria funziona meglio, nonostante tutto, rispetto alle scuole secondarie di
primo e secondo grado?)
Ma cosa rimane oggi di quella stagione?
Si può rispondere nel modo più ovvio facendo un breve elenco di riforme:
1) legge 820 del ’71 che introduce la sperimentazione del tempo pieno;
2) decreti delegati del ’73 che istituiscono gli organi collegiali e aprono
finalmente le scuole ai genitori;
3) legge 517 del ’77 che sopprime le classi differenziali e sostituisce il
voto numerico con le schede di valutazione.
Bisogna però ammettere che quelle riforme non ebbero l’effetto sperato non
essendo state in grado di incidere radicalmente nella vita quotidiana delle
scuole. Oggi le parole d’ordine della didattica attiva sono sì diventate senso
comune e sensibilità diffusa, ma su un piano retorico che non sempre si traduce
in prassi operativa quotidiana. Difficile contraddire quindi le parole
sconsolate scritte da Carla Ida Salviati in uno degli ultimi saggi del volume:
“i banchi sono tornati al loro posto, così come le cattedre”.
La delusione per questa sconfitta storica spinge molti a rimpiangere la ‘scuola
di una volta’. Ma attenzione: parafrasando quel che scriveva Francesco De
Bartolomeis in un saggio dei primi anni Settanta, coloro i quali oggi, accecati
da un pessimismo della ragione, diffuso anche a sinistra, negano il successo, o
quantomeno l’opportunità, di quelle riforme rischiano di cadere nel vuoto, dove
ad attenderli a braccia aperte, ci sono i reazionari, in piedi sulle loro
predelle.
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