una ragazza si innamora di un barbone, ma non dura per sempre.
poi i due si cercano ancora, fra la vita e la morte, con un confine non impossibile da attraversare.
tutte le cose, prima che succedano, si possono solo immaginare, e si chiamano fiabe.
un altro mondo è possibile, nelle fiabe di sicuro, nella vita vera è più complicato, ma non impossibile, forse.
un libro che si legge bene.
Spiazzante per la capacità di seguire una linea
priva del respiro dei capitoli e delle partizioni tradizionali ma non per
questo eccentrica (nell'etimologia astronomica) o spezzata: tutt'altro, perché
la trama, scarna, e gli accadimenti "collaterali", molti,
costituiscono una realtà in sé, coerente, circolare, perfetta. Il decadimento
fisico e psichico di Antonio, poi seguito da quello della "meravigliosa
ragazza" Rosa non sono gratuiti, come mostrano di credere vari lettori, ma
inestricabilmente e specularmente legati al fulgore di alcune immagini ed odori
(scene d'amore, luminosità dell'ambiente, voli del colombo che osserva le
vicissitudini della coppia dall'alto): insomma, una connessione per
opposizione. I passaggi dalla vita alla morte alla vita, inoltre, non sono mai
banali, anzi, sono anch'essi spiazzanti, con il raggiungimento di una diversa
"quota" della narrazione, impensabile qualche pagina prima
… Ogni scrittore, se è davvero uno scrittore, non scrive
mai “opere minori”. In attesa della pubblicazione del monumentale Gli
increati, conclusione di un’opera-mondo iniziata decenni addietro, Moresco,
con questa sua fiaba che parla di vita, di morte, di tradimento e redenzione,
si comporta come un pittore che, in attesa di portare a termine l’affresco
della cattedrale, continua a vergare bozzetti, disegni, acquarelli. Non per
puro intrattenimento personale, ma come desiderio di fissare immagini,
sperimentare forme. E non è un caso che spesso in queste opere, quasi più
svincolate dal programma monumentale, si svela una libertà immaginifica che
commuove.
È una fiaba crudele e dolce assieme, rivolta ad un
pubblico che non ha età, scritta con una lingua che non nasconde nulla,
esplicita fino all’ossessione nelle descrizioni tattili, eppure spesso pudica
nei sentimenti; scrittura pura come quella di un bambino che non ha problemi ad
immaginare una luminosa città dei vivi attraversata da morti inconsapevoli, e
una buia città dei morti, così tanto simile alla sua gemella, dove però, quando
tutto è perduto, si può tornare a vivere per davvero.
… Si potrebbe pensare,
sbagliando, che le fiabe non siano una lettura per adulti. Dipende da cosa
chiediamo e da cosa ci aspettiamo dalla letteratura.
Antonio Moresco alla letteratura chiede
meraviglia, capacità di aprire un varco, di accendere una lucina (titolo di un
altro suo romanzo poeticissimo), di compiere un miracolo. Se la letteratura
rinuncia all’impossibile tradisce il suo mandato. Perché la realtà sa essere
molto meno verosimile di un racconto verosimile, perché la realtà conosce anche
l’impossibile, il varco, la lucina, il miracolo: una letteratura che non
contempli tutto questo fallisce.
Di Moresco amiamo spesso ricordare la
polemica contro la letteratura post-moderna ripiegata su se stessa, fredda e
cervellotica, quella che gioca con le infinite possibilità dell’arte
combinatoria e si auto-compiace, una letteratura - a suo dire – che tradisce
Omero e Dante. A me piace anche ricordare che dietro questa polemica si
nasconde una fiducia generosa nei confronti della parola poetica, nella sua
forza incantatrice, capace non solo di leggere il mondo, ma di farlo più bello
e più buono.
Perciò sono felice di aver ritrovato
oggi questo romanzo e di poterlo consigliare a tutti.
Questo popolo, che vediamo così da vicino ma che ci sembra
tanto remoto, siamo noi. Il popolo perduto è il nostro popolo. Siamo noi, se
non cambieremo la nostra rotta suicida che sta rendendo invivibile la vita e
inabitabile il mondo. Gli appartenenti a questo popolo non sono solo quelli che
non hanno saputo tenere il passo, sono anche quelli che ci stanno dicendo che
il nostro passo è sbagliato. Non sono la nostra retroguardia, sono la nostra
avanguardia.
Così ha scritto Antonio Moresco su Vanity Fair (sì, Vanity
Fair) in un articolo che accompagna l'uscita del suo nuovo romanzo, Fiaba d'amore. Il «popolo perduto» dell'articolo sono i barboni,
categoria cui appartiene il protagonista del romanzo, uno «straccione», per
l'appunto. Moresco non è interessato a teorie economiche, quando parla di
«avanguardia», né alla povertà assoluta o relativa, ai
dibattiti sulla crisi reale o percepita. Moresco rovescia la gerarchia
apparente con cui l'uomo comune guarda ai «disadattati» perché coglie una
verità che può germogliare in tutta la sua forza solo nel terreno della
letteratura: lì la protesta contro la ferocia della civiltà tecnica e
capitalista si tramuta in persuasione estetica, volontà verticale dello
spirito…
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