“VI ASPETTO, LETTORI, CON UNA TORCIA ACCESA ALLE PORTE DEL LUKOMÒRIE, REMOTO PAESE RAVVOLTO IN BAMBAGIA DI NEBBIA…”. I LIBRI MERAVIGLIOSI (E INTROVABILI) DI ANGELO MARIA RIPELLINO
Alto, bello,
baffuto, magro, elegante, pronto all’arabesco retorico e all’altolà del
verbo, Angelo Maria Ripellino è riassunto, per lo più, in un
libro, Praga magica, ipnotico, per altro, ma parziale. Ripellino –
inutile ricamo – è nato il giorno in cui muore mio padre nell’anno in cui nasce
il padre di mio padre, nel paese natale della mamma di mio padre. Palermo, 4
dicembre 1923. L’incrocio delle casualità dovrebbe dare abito a un destino. Io
continuo a credere che un palermitano nell’allora Cecoslovacchia è lì a
fomentare rivoluzioni o per celebrare la propria marcia nel sogno. Ripellino pensava al fulgore della poesia, i
sovietici irruppero con le armate, “Non avrà fine la fascinazione, la vita di
Praga. Svaniranno in un bàratro i persecutori, i monatti. Ed io forse vi
ritornerò”. Ripellino non tornò più a Praga, la poesia prosegue,
tra sbadigli, a essere perseguita e perseguitata.
*
Ribadisco
ciò che si sa. Angelo Maria Ripellino è un genio. Allievo di Ettore Lo Gatto,
ha tradotto Andrej Belyj (Pietroburgo, romanzo che Vladimir Nabokov
mette, nel mazzo dei prediletti, tra Ulisse, ‘Recherche’ e
TuttoKafka) e Aleksandr Blok, Vladimír Holan e Velimir Chlebnikov. Gli
piacevano i poeti che forgiano neologismi, che scartavetrano la grammatica, che
fanno del vocabolario una giungla – che cercano la tigre, ecco. La sua sintonia con Majakovskij fu pressoché
totale – eppure Einaudi gioca a ripubblicare e a dimenticare quello studio
necessario, Majakovskij e il teatro russo d’avanguardia –; ha
tradotto con maestria Boris Pasternak, di cui adorava l’indole selvatica più
che la rassegnazione al romanzo. Incontrò il poeta nel 1957,
dandone nota in un articolo eccellente, riprodotto ora in Iridescenze. Note e recensioni
letterarie (1941-1976), edito da Aragno, a cura di Umberto Brunetti e
Antonio Pane.
“Le parole di Pasternàk avevano una gravità battesimale. Mi suona ancora
negli orecchi la sua cantilena discontinua, arrochita… Ci invitò a pranzo.
A capotavola, come un nero idolo, troneggiava la moglie. Un lunghissimo pranzo
all’antica: galline, funghi e verdura della sua villa. E cognac e brindisi. Intanto Borís Leonidovič
parlava della gioia che si prova nell’ospitare gli amici venuti da terre
lontane. Paragonò la figura del poeta ad un albero che stormisca nel vento.
Esortò Evtušenko a non stemperare il suo ingegno negli intrugli dei versi
servili. Ci narrò di Marina Cvetàeva; tracciò un parallelo fra Bunin e Čechov,
dando la palma a quest’ultimo. Mi sorprese il suo amore per le ariette banali
di Severjànin, che era stato per me sino allora il campione d’un bolso
decadentismo… Quando prendemmo congedo, mi regalò due quaderni con liriche
allora inedite; verdi quaderni, su cui rameggiava la sua scrittura antiquata,
tutta svolazzi ed occhielli. Benché
a poche verste da Mosca, Peredélkino era in realtà più remota di un villaggio
in Siberia. In quella dacia Pasternak coltivava, come una fragile pianta, la
sua solitudine, contrapponendo all’effimero brulichío degli «slogans» la ferma
meditazione dei problemi eterni. Eppure questa solitudine era
fertile, esemplare, ed agiva sui giovani stanchi delle false fanfare”.
*
Morto nel
1978, nonostante gli sforzi di amici e studiosi – nel 2007, ormai un secolo
fa, Einaudi ha riprodotto le sue
poesie – mi
pare che Ripellino sia inacidito nell’oblio. Forse Ripellino è come una formula
magica, che rimbalza a contrario, eco incongrua, contro le pareti di una stanza
vuota, con vigna di lampadari. Ad esempio, l’antologia sulla Poesia
russa del 900, dedicata da Ripellino “a mio padre”, chiusa con quelle
parole d’emblema (“Questi lirici
ci offrono la testimonianza d’una poesia non rinchiusa fra schemi dottrinari,
non impacciata da intenti di propaganda, non ingolfata in cadenze di
superficiale esaltazione, una poesia nitida, luminosa, piena di ottimismo e di
aperta fiducia nella vita e nei destini del mondo”), va ristampata
immediatamente, la apri e ti salva il giorno, inchiodato ai versi di Anna
Achmatova, di Osip Mandel’stam, di Marina Cvetaeva… Come una P sul torsolo
della soglia di casa, al raduno degli irredenti.
“Non ho
ancora trovato il tema di questo racconto. Eppure non posso non scrivere.
Scrivere, prendere appunti è un’ossessione che ti corrode la vita. Me ne sto
qui sull’erba bruciata di Forte Antenne, a schizzare pigri disegni. Estrella mi
guarda ridendo. Riempirò molti fogli di graffiti e di sgorbi e di ghirigori. E
alla fine in un lampo mi si chiarirà l’argomento”. Così attacca Storie del bosco boemo, al crocevia di
un’ossessione, l’ultimo dei “Quattro capricci” del libro omonimo, stampato con
sfarzo da Einaudi nel 1975 (“Numeri baracconeschi, riquadri
sghimbesci da stampe folcloriche, tavolozze sgargianti da Ballets Russes,
sfondi da libri infantili illustrati a frastagli che si alzano aprendoli, una
certa bamboleria surrealistica, buffonaggini da vecchia novella italiana… tutto questo confluisce in un ardente giuoco
verbale, che tuttavia non si esercita a vuoto, ma è sempre sotteso di tenerezza
e rimpianti e calore umano”). Il libro mi è stato inviato –
insperabilmente – dalla Sicilia; in copertina una illustrazione di František
Tichý (1896-1961), artista di Praga, Il ventriloquo, forse indica
il perimetro di una poetica. Ci si adatta alla voce dando voce – chi dice è
sempre l’altro. Ma che libro bellissimo, innaturale, fresco perché
anomalo, questo, di chi crede, ancora, che il vocabolario non sia un giogo ma
un gioco, una mappa stellare, il primo passo di un viaggio nell’ignoto e
nell’incongruo.
*
Il
libro, Storie del bosco boemo, non si trova più nell’edizione
Einaudi, è
stato ripreso nel 2005 da Mesogea. Nel
mondo isterico, dal linguaggio sterilizzato, chi può amare l’istrione, chi ha
voglia di giocare il verbo, di pitturarsi la faccia di bianco? “Non c’è verso
di farsi capire”, dice a un certo punto il regista di un baraccone,
la scena si chiama Parapiglia, lui s’avventa nel “Museo dei Prodigi”,
sterza dal “rancore di fiabe assopite” e “sebbene maldestro come un Wunderrabbi
chassidico, un giorno tenterò di costruirvi un teatrino di burattini”. Forse
c’è l’estro dei pupi, l’audacia del No nipponico, l’estensione del futurismo
russo (la meccanica di Ripellino è riassunta in “Manichini a Pietroburgo”,
capitolo miliare del suo Majakovskij, chevvelodicoafare: “il
tessuto verbale è con rattrappito da continue contrazioni, si raggrinza, si
gonfia, si deforma con ritmo spasmodico”) nel gergo di Ripellino. Un giorno mi
dico, con brillio, Ripellino va letto ascoltando Paolo Conte – in assenza di un
Esenin nell’armadio.
*
Ci sono
sonnambuli e teatranti, clown ignari di esserlo e angeli di Klee, l’idea che il
tempo sia una sciocchezza e che si possa vivere nel sottoscala del secolo
defunto, che i morti non muoiono mai, che la lingua è acqua e tutti andiamo a
Manichinia. “Vi aspetto, lettori,
con una torcia accesa alle porte del Lukomòrie, remoto paese ravvolto in
bambagia di nebbia, invetriato nel velo verde bottiglia di una fittissima
nebbia che mai si dirada”, attacca Ripellino, gran maggiordomo della
letteratura, aeropagita del parlar materno, in Il gallo d’oro. “Se
non vi conducessi per mano, potreste perdervi in questo paese grande dieci
giornate, in questo intrico di madidi muri illusori…”. Che
desiderio di perdersi, appunto, tra nebbie e illegali illusioni; abbiamo
prediletto le virtù dell’ordine, l’ordinario, la comprensione. Bye, bye. (d.b.)
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