La questione della scarsa, scarsissima,
presenza di donne negli eventi culturali ha di recente raggiunto le prime
pagine dei grandi giornali, grazie alla denuncia dello scandaloso programma
del Festival della
Bellezza di Verona, dove su 24 ospiti c’era soltanto una
donna (Jasmine Trinca), due se si considera anche Gloria Campener, che
accompagnava al piano Alessandro Baricco (il quale era presente con due
appuntamenti). La denuncia è partita dal gruppo #boycottmanels (che,
come dice il nome stesso invita a boicottare i “manels” ossia i panel composti
quasi esclusivamente da uomini) e ha costretto alcuni dei partecipanti a
esprimersi pubblicamente sulla vicenda (vedi la risposta
di Michele Serra a Michela Murgia). Quello del Festival
della Bellezza non è il primo né sarà l’ultimo caso di festival, convegni,
congressi ma anche pagine di giornali e riviste (inclusa questa, cioè Micromega) dove la presenza di donne è largamente
sottodimensionata. Pochi giorni fa mi è stato segnalato per esempio che il
programma di Libropolis,
un festival dell’editoria e del giornalismo che si svolgerà a ottobre a
Pietrasanta, su circa 80 fra ospiti e moderatori vede solo 6 donne (e anche in
questo caso alcuni degli ospiti intervengono in più appuntamenti). Una di
queste 6 sono io.
Partiamo dal porci una domanda molto
semplice: il fatto che in questi contesti ci siano così poche donne è una
questione socialmente rilevante? E se sì, che cosa ci dice? Che sia una
questione socialmente rilevante è fuor di dubbio, visto che le donne, come ama
sottolineare Linda Laura Sabbadini, non sono una categoria di soggetti
svantaggiati, ma più della metà della popolazione ormai presente in tutti i
settori lavorativi. La questione è dunque rilevante perché ci dice diverse cose
sulla nostra società, che dobbiamo sforzarci di tenere tutte insieme, perché si intersecano, e volerne
estrapolare una sola, additandola come unico fattore causale, è fuorviante. Per
cui invito il lettore a non fermarsi ai singoli punti, ognuno dei quali dice
solo una parte della verità. Vediamoli.
1.
Il fatto che in questi contesti ci siano così poche donne ci dice
innanzitutto che le donne che ricoprono ruoli apicali nei diversi settori sono proporzionalmente
meno degli uomini per cui, per fare un esempio, se
si vuole organizzare un convegno fra amministratori delegati di aziende o fra
direttori di giornali la rosa fra cui scegliere avrà pochissimi petali
femminili.
2. E non parliamo soltanto dei vertici: se qualcuno volesse invitare un professore di filosofia della Goethe Universität di Francoforte (come vedete il discorso non riguarda solo l’Italia) anche con tutta la buona volontà del mondo sarebbe costretto a invitare un uomo: attualmente all’Istituto di filosofia della università tedesca su 17 professori non c’è neanche una donna. Donne che invece magicamente compaiono scendendo nella gerarchia della docenza (9 su 23 sono le ricercatrici). Il grafico 1 tratto dal Focus “Le carriere femminili in ambito accademico” del Miur mostra chiaramente il punto esatto dove le strade dei due generi si dividono e si inizia a costruire il tetto di cristallo.
3.
Se è vero che le donne sono ormai largamente presenti in quasi tutti i
settori, è anche vero che ce ne sono alcuni in cui sono ancora indubbiamente di
meno. Il grafico 2 tratto dallo stesso studio mostra per esempio come le
laureate nel settore Ingegneria e tecnologia siano solo il 30 per cento per
diventare l’80 nelle materie umanistiche.
4.
Ma naturalmente questi contesti non ospitano solo e sempre ruoli apicali né
professori universitari né il fenomeno riguarda solo i settori con una minore
presenza femminile, per cui il fatto che le donne siano quasi sempre in netta
minoranza anche nei contesti in cui sarebbe invece possibile averle ci dice che
il “radar” di chi organizza questi eventi o di chi mette insieme le pagine di
un giornale non è tarato per intercettare le competenze quando queste sono
incarnate da una donna (attenzione, non “competenze femminili”, che è
espressione ridicola: non esistono competenze “maschili” e competenze
“femminili”). Perché? Banalmente perché non ci siamo abituati e il nostro
cervello lavora in gran parte per pattern e meccanismi automatici. Il “bias di
conferma” – quel fenomeno psichico ormai dimostrato per il quale tendiamo a
credere alle affermazioni che confermano le nostre convinzioni – agisce anche
in questo contesto: tendiamo a “vedere” e “riconoscere” quello che ci
aspettiamo di vedere e che conferma il mondo a cui siamo abituati da millenni.
Fino a che non smascheriamo il meccanismo e ce ne rendiamo consapevoli.
5.
Il combinato disposto di 1, 2 e 3 fa sì che già in partenza i nomi di donne
che “vengono in mente” sia nettamente inferiore a quello degli uomini. Su
questa base già non confortante interviene poi un terzo elemento: sulle spalle
delle donne – come sappiamo –
pesa in maniera decisamente sproporzionata il cosiddetto lavoro di cura, cioè
quel tempo speso a occuparsi della casa, della famiglia, dei figli piccoli o
dei genitori anziani. Questo enorme squilibrio riguarda anche le donne più
istruite, che svolgono lavori intellettuali, le professioniste, le scienziate,
le giornaliste ecc. Cosa c’entra questo con la loro scarsa presenza negli
eventi culturali? C’entra nei limiti in cui il monte ore complessivo che le
donne hanno a disposizione per il loro lavoro (e andare a un convegno è
lavoro!) è mediamente inferiore a quello dei colleghi uomini. I quali, dunque,
di fronte a un invito a un evento più raramente si porranno il problema di a
chi lasciare i bambini o chi si prenderà cura del padre anziano durante la loro
assenza. (Astenersi osservazioni come: “Ma ci sono anche uomini che…”. Certo
che ci sono, e per fortuna sono sempre di più. Ma qui si parla di un fenomeno
sociale, non di singole persone. Anzi aggiungo: ci sono e sono sempre di più
proprio perché questo fenomeno è stato portato alla luce dalle donne, che della
redistribuzione del carico del lavoro domestico e di cura hanno fatto uno dei
temi principali della loro battaglia per la parità). Questo peraltro spiega
anche perché durante il lockdown il
numero di articoli scientifici presentati alle riviste specialistiche da donne
sia nettamente diminuito, come ha rilevato un recente studio (cit.
in I. Colanicchia, “Se le donne e gli uomini non sono uguali di fronte al
virus”, in MicroMega 4/2020).
6.
Infine c’è un elemento difficilmente quantificabile, che forse nessuno
studio può dimostrare ma che molte di noi vivono sulla propria pelle e
verificano nelle colleghe. Le donne in media tendono a esporsi solo quando sono
sicure al 100 per cento di poter fare un lavoro all’altezza delle aspettative
(proprie e altrui). Un atteggiamento che è strettamente legato al punto 2:
poiché quel radar di norma non “ci vede”, per “farci vedere” abbiamo alzato di
molto le nostre asticelle e pretendiamo (e viene preteso) da noi molto più di
quello che si pretende da un uomo, con la conseguenza che più spesso ci tiriamo
indietro.
Se dunque la situazione a monte è
questa, non sorprende che a valle accada che le donne spariscano o quasi. Fino
a qui l’analisi. A questo punto interviene però l’azione: che fare? Le risposte
a questa domanda sono in realtà diverse a seconda del soggetto che agisce.
Iniziamo dal fondo, ossia dalle persone che partecipano a questi eventi:
andare? Non andare? Andare e protestare? È chiaro che un gesto come quello del
ministro Provenzano che qualche mese fa ha ritirato
la propria partecipazione a un incontro dopo aver scoperto che erano presenti
solo uomini, adducendo come ragione che “è l’immagine non di uno squilibrio, ma
di una rimozione di genere”, è un gesto di grandissima rilevanza, essendo
compiuto da un uomo di potere che lo usa a sostegno di una causa. Da quel gesto
Provenzano non ha subìto nessuna conseguenza negativa, mentre la causa ne ha
guadagnato molto. Stessa cosa si può dire in generale di uomini e donne che nel
mondo della cultura hanno una certa notorietà, che è anch’essa una forma di potere
e che potrebbero far valere mostrando la
loro assenza. Non si può però pretendere da tutti un gesto simile. Non tutti
hanno il medesimo potere (politico e mediatico) di far “fallire una festa”,
ciascuno ha le proprie ragioni per decidere di accettare o non accettare gli
inviti che riceve e non si può scaricare sulle spalle delle singole persone –
ciascuna con la propria storia, le proprie capacità, le proprie aspirazioni e
anche i propri limiti – una battaglia che è e deve rimanere collettiva e alla quale
ognuno può contribuire in modi diversi. Quello che è certo è che nessuno può
girarsi dall’altra parte facendo finta di non vedere la punta dell’iceberg.
Un iceberg enorme che spetta
innanzitutto alla politica aggredire rimuovendo, come impone la Costituzione,
“gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà
e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona
umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione
politica, economica e sociale del paese”. Affrontare finalmente in maniera
radicale il macigno del lavoro di cura che grava sulle donne, per esempio
utilizzando una parte del Recovery Fund per garantire finalmente una copertura
di posti negli asili nido degna di un paese civile, non avrebbe solo come
effetto quello di promuovere la parità di genere, ma anche, come sottolinea
spesso la già menzionata Sabbadini, quello più generale di diminuire le
diseguaglianze sociali. Se vogliamo che secoli di diseguaglianze vengano superati
senza dover attendere altrettanti secoli, sono necessarie misure molto decise,
e anche politiche differenziate possono essere d’aiuto. Così come
indispensabili sono misure miranti a superare gli stereotipi di genere che
ancora impediscono a una bambina di pensarsi ingegnera, dato che tutto il mondo
attorno a lei – dai giocattoli ai libri di testo – le dice che gli ingegneri
sono maschi.
Ma l’immagine dell’iceberg in realtà non
calza adeguatamente al nostro caso, perché qui si tratta più di un sistema complesso
in cui quello che accade a valle ha un effetto di retroazione sulla situazione
a monte, effetto che può essere di rafforzamento di quei meccanismi o di loro
erosione. In altri termini – e qui entrano in gioco gli operatori del mondo
della cultura (organizzatori di festival, direttori di giornali, editori ecc)
che hanno potere decisionale – iniziare a settare il radar in maniera da
intercettare le competenze incarnate dalle donne (punto 2) avrà come effetto
indiretto quello di aumentare il numero di donne anche nei ruoli apicali (punto
1): più i nomi di donne inizieranno a circolare, più aumenterà la loro
autorevolezza (che non è una caratteristica genetica che si eredita alla
nascita, ma un valore aggiunto che si conquista sul campo grazie anche al riconoscimento
sociale del proprio lavoro) e più saranno le possibilità che, per esempio,
quando si fonda un nuovo giornale – ogni riferimento a fatti reali e recenti è
interamente voluto – “verranno in mente” anche nomi di ottime, qualificate e
competenti giornaliste in grado di dirigerlo. Non scegliere facendo spallucce e
scaricando esclusivamente la responsabilità sul “sistema” significa in realtà
porsi dalla parte del mantenimento dello status quo. La
scelta dunque è fra essere passivi ingranaggi di un circolo vizioso o diventare
soggetti attivi di un circolo virtuoso.
PS: Qualcuno forse si starà chiedendo se
parteciperò a Libropolis o no. Ho qualche dubbio sulla legittimità stessa della
domanda, intrecciando essa questioni pubbliche ma anche motivazioni personali.
In ogni caso: sì, parteciperò. Da due anni sto investendo tutto il mio tempo
libero, le mie capacità, le mie energie nella battaglia contro il relativismo
culturale, per la laicità e i diritti umani (e quelli delle donne in
particolare), tema su cui ho scritto un libro e sul quale sono stata invitata a
parlare a Pietrasanta. Come scritto sopra, penso che ciascuno possa scegliere
liberamente la modalità che ritiene più confacente a sé per dare il proprio
contributo alle battaglie politiche in cui crede. Questo articolo, che farò
avere anche agli organizzatori di Libropolis, è la mia.
(*) ripreso da www.animabella.it
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