La letteratura italiana della migrazione, cioè quella
letteratura espressa in italiano da scrittori di origine immigrata o prodotta
da emigranti italiani, ci parla dell’Italia in un modo inedito e inconsueto,
perché assume il punto di vista di chi guarda dalla giusta distanza.
Uno sguardo venuto da lontano è dentro e fuori insieme,
colpisce e destabilizza: specialmente se si esprime nella nostra lingua.
Ecco come letteratura italiana contemporanea ha spostato i confini.
Indice dell'articolo
·
L’immaginario
delle minoranze, dai Greci a noi
o
La letteratura italiana della migrazione: “allontanare
il vicino e avvicinare il lontano”
o
L’italiano:
una L2 (seconda lingua) complessa
o
Chi
sono gli scrittori italofoni?
·
La
letteratura italiana dell’emigrazione
·
La
letteratura italiana dell’immigrazione
o
La
“seconda generazione” di scritture migranti
·
Dall’autobiografia
alla narrativa
o
Le
identità multiple delle G2
·
L’italiano come “lingua del cuore”: l’unicità della
letteratura italiana migrante
·
La
poesia della migrazione in Italia
·
I
“cittadini della letteratura”
L’immaginario delle minoranze, dai Greci
a noi
Presso i Greci il termine μέτοικος, “meteco”, indicava
lo straniero residente nella città (“straniero domiciliato in città” dal Dizionario
Greco-Italiano Rocci) Secondo Armando Gnisci, uno dei
principali studiosi di letteratura della migrazione in Italia,
il meteco di oggi è “colui che vive nella casa del dopo”, il
migrante.
Le nostre città ospitano oggi moltissimi “meteci”: persone che sono dentro la
comunità, perché vivono, lavorano e si esprimono al suo interno ma, nello
stesso tempo, come ci spiega il filosofo e sociologo Simmel (1908)
nel suo Excursus sullo straniero, continuano a restarne fuori: messe
ai margini poiché vengono da altri mondi, sono minoranze e
come tali vanno considerate.
Chi immagina l’immigrato come un intellettuale, un poeta, un filosofo? L’immaginario
della migrazione rimanda a ben altro: barconi, piedi scalzi, difficoltà
linguistiche. Quello che ti aspetti è il “buon selvaggio” (secondo
un’espressione di Umberto Eco), e quando questo non avviene un po’ spiazza.
La letteratura italiana della
migrazione: “allontanare il vicino e avvicinare il lontano”
Se nella definizione dell’identità c’è un posto centrale
occupato dall’alterità, la letteratura della migrazione è
certamente un luogo privilegiato per questo’incontro.
Questi testi letterari creano, infatti, un “tessuto interlinguistico
dialogico”(Gnisci 1992-1993): nei testi scritti da stranieri in
italiano che non presentano la versione in lingua originale a fronte,
la dialettica della traduzione avviene all’interno
dell’autore e quello che possiamo vedere ne è il risultato. Questo
vale sia quando il testo è stato scritto con la collaborazione di un
giornalista/scrittore italiano, sia quando, come avviene con sempre
maggiore frequenza, non c’è più bisogno di questa mediazione. Le potenzialità
di questi testi sono enormi in termini di arricchimento dell’universo
lessicale e semantico della lingua italiana e in termini di
originalità.
L’italiano: una L2 (seconda lingua)
complessa
I primi corsi di italiano per stranieri furono istituiti
in Italia, a Siena, nel 1917.
Da allora, molte cose sono cambiate: a causa del processo di mobilità
globale, il numero di persone che entra in contatto con la nostra lingua è
enormemente aumentato e questo ha delle ripercussioni sul suo sviluppo e sul
sistema di insegnamento-apprendimento. In sostanza, l’italiano ha cessato di
essere una lingua limitata all’uso da parte dei suoi parlanti madrelingua,
per diventare una lingua comune, una L2 più complessa ed
eterogenea, già diffusa nel tessuto economico-produttivo del Paese e che ora
non può più essere ignorata dagli ambienti intellettuali.
Chi sono gli scrittori italofoni?
Lo studio della letteratura italiana della migrazione è fondamentale per la
comprensione della letteratura italiana di oggi, che ha assistito ad uno spostamento
dei suoi confini: essi si sono allargati ad includere nuovi testi
letterari italofoni,tra emigrazione ed immigrazione, che ne
fanno pienamente parte anche se sono nati gettando le radici al di fuori
dell’Italia.
Un primo aspetto da sottolineare è il doppio binario indicato
dall’espressione “letteratura della migrazione”: questa rappresenta un
dittico, due fenomeni distinti ma che si ricongiungono andando
a chiudersi come un cerchio: la letteratura dell’emigrazione e la
letteratura dell’immigrazione.
La letteratura italiana dell’emigrazione
La letteratura dell’emigrazione ha una storia molto travagliata: nasce con
la massiccia emigrazione italiana, a cominciare dal periodo
post-unitario, inizialmente verso le Americhe e poi verso
paesi europei settentrionali come la Germania, e continua per anni
nell’oblio, ignorata dalla critica letteraria italiana del Novecento, quasi che
l’emigrazione italiana fosse un qualcosa da rimuovere, un aspetto
rifiutato dall’immagine che l’Italia vuole dare di sé.
Malgrado le loro qualità, molti autori sono rimasti così sconosciuti, salvo
alcune eccezioni dovute a un riconoscimento all’estero: è questo il caso
di Mario Puzo, autore de Il Padrino (The
Godfather, 1969) e di John Fante, molto apprezzato da Charles
Bukowski, (Aspetta Primavera Bandini, 1938, Chiedi alla polvere,
1939).
Paradossalmente, è stata proprio la nascita della letteratura
dell’immigrazione a riaccendere i riflettori su questi testi e a mettere in
evidenza quanto i due fenomeni siano correlati ed inscindibili: la letteratura
italiana già nell’Ottocento si era aperta al mondo, e gli scrittori
migranti ci riportano a questa dimensione globale e plurale della nostra
letteratura.
La letteratura italiana dell’immigrazione
La letteratura dell’immigrazione in Italia nasce all’inizio degli anni
Novanta del Novecento: in una prima fase, gli autori translingui,
ovvero quegli autori immigrati che abbandonano la lingua madre per scrivere in
quella del paese di accoglienza, scrivono in un italiano approssimato,
prevalentemente per raccontare la propria esperienza di vita, il
viaggio – non solo in senso fisico – e le proprie sensazioni, spesso
traumatiche, legate all’avventura migratoria, in genere in
collaborazione con scrittori autoctoni.
Si tratta di quella che Armando Gnisci definisce “prima ondata”
piuttosto che prima generazione, perché l’espressione richiama meglio il
riferimento all’altrove che questi scrittori portano con sé. Esempi importanti
ne sono i romanzi autobiografici Immigrato,del tunisino Salah
Methnani (1990), scritto con Mario Fortunato e Io,
venditore di elefanti (1990), di Pap Khouma con Oreste
Pivetta, e Dove lo stato non c’è. Racconti italiani (1991),
di Tahar Ben Jelloun (con Egi Volterrani), che racconta il viaggio
dell’autore nel sud Italia.
La “seconda generazione” di scritture
migranti
I testi della letteratura migrante “di seconda generazione”, cioè
quelli riferiti all’ultimo ventennio, esprimono un cambiamento e
propongono vere e proprie poetiche della migrazione: non vanno letti, cioè,
solo come scritture che descrivono un’esperienza migratoria, ma come testi che
pongono modelli di narrazione e ideologie in grado di esprimersi al di
là della tematica immigrazione.
In molti autori è avvenuto un passaggio dal figurante, cioè
dalla narrazione dell’avventura migratoria e quindi dal racconto
autobiografico puro, al figurale (Sinopoli 2001),
cioè all’espressione di ciò che il viaggio ha prodotto: un’esperienza
di sé che comprende anche la consapevolezza dell’Altro.
Dall’autobiografia alla narrativa
Caratteristica prevalente di queste scritture letterarie è dunque il carattere
autobiografico, di cui adottano lo stile e il lessico, ma sono in grado di
incrociare forme e generi diversi, che spesso vengono attraversati
trasversalmente e il cui denominatore comune rimane una poetica del
sentire e della transitorietà (Sinopoli 2001), che oltrepassa
l’esperienza migratoria e rende possibile il loro inserimento in un sistema
ipertestuale che ne permette la trasposizione in altri linguaggi
mediali.
Un caso esemplare da questo punto di vista sono i romanzi di Amara
Lakhous, autore, tra gli altri, di Scontro di civiltà per un
ascensore a Piazza Vittorio (2006), (di cui è stata realizzata una
versione cinematografica nel 2010, regia di Isotta Toso) e Divorzio
all’Islamica (2010), testi in cui l’esperienza migratoria si
inserisce nel genere giallo e si affianca ad altri caratteri
(pensiamo all’eterogeneo condominio di Piazza Vittorio a Roma e alla caratterizzazione
dei vari personaggi, quali, ad esempio, la portiera napoletana Benedetta).
Un gioco di sguardi che pone più volte un quesito:
“Amedeo è italiano?
Qualsiasi risposta non risolverà il problema. Ma poi chi è italiano? Chi è nato
in Italia, ha il passaporto italiano, carta d’identità, conosce bene la lingua,
porta un nome italiano e risiede in Italia? Come vedete la questione è molto
complessa…”
(Lakhous 2006).
Le identità multiple delle G2
Ciò che caratterizza la scrittura migrante il suo provenire da identità
multiple, in trasformazione, stratificate e complesse più di qualsiasi
altre. Esempio ne è il romanzo Madre Piccola, di Cristina Ali
Farah (2007), immigrata di origine somala, madre italiana, fuggita in
Italia a causa della guerra civile nel suo Paese: ci troviamo di fronte a una
scrittura ibrida, un buon italiano mescolato con le poesie dell’oralità
somala e riecheggiante suggestioni brasiliane.
Un italiano che chiama molte cose in lingua somala, la lingua
dell’infanzia, dell’anima: così l’amata cugina della protagonista, Barni,
è chiamata abbaayo, “sorella”, ma non è una semplice
traduzione. Nel termine somalo si racchiude un universo di significato
legato al fatto di sentirsi sorelle in quella situazione e in quel momento:
“Desideravo fondere
tra loro le voci che ascoltavo e cercare di renderle in un componimento che
conservasse in qualche modo quell’aura misteriosa che mi sembravano emanare i
componimenti poetici popolari.”
(Ali Farah, in Lecomte
2006).
L’italiano come “lingua del cuore”:
l’unicità della letteratura italiana migrante
L’aspetto della scelta linguistica è molto importante: non avendo un
passato coloniale, la lingua italiana non può che essere scelta da
questi autori come lingua neutra, “lingua del cuore”, come la definisce
Mia Lecomte, cioè una lingua che viene prescelta tra la lingua madre,
la lingua coloniale e l’inglese, idioma della globalizzazione che permette
di rapportarsi con il mondo, per comunicare la propria esperienza del sé.
Se la struttura di una lingua riflette la visione del mondo data dalla
cultura di chi la parla (Whorf 1956) si può capire quanto sia rilevante e
sofferto per lo scrittore immigrato rinunciare all’uso della lingua
madre e del suo universo simbolico per intraprendere il difficile
percorso di padroneggiare la lingua del paese di accoglienza, e quindi di
aderire, in un certo senso, al suo sistema di valori:
“Anche se talvolta
pensiamo che l’articolo e i generi siano invenzioni diaboliche fatte per
impedire l’integrazione culturale, non abbiamo mai mollato”
(Wadia 2007).
Per questo la scelta dell’italiano come forma di espressione, assolutamente
libera e autonoma, dà alla letteratura italiana della migrazione un
valore aggiunto unico nel panorama delle altre letterature della migrazione
europee, che sono prevalentemente letterature post-coloniali, e quindi
caratterizzate da scelte linguistiche “obbligate”o, se non altro,
“indirizzate”.
La poesia della migrazione in Italia
Il percorso dell’espressione poetica è stato invece più lento e
travagliato: ha avuto bisogno di una maggiore maturazione per svilupparsi, cosa
avvenuta propriamente solo negli ultimi anni.
Caratteristica principale ne è l’uso dei versi liberi, aspetto
che, trattandosi in molti casi di autori di origine africana o afroitaliani, riflette la tradizione
poetica legata all’oralità tipica della cultura africana. Questa
poesia acquista, però, una musicalità particolare, inedita, tramite
l’espressione in lingua italiana.
I poeti migranti
Ecco alcuni poeti migranti: Ndjock Ngana, autore di varie raccolte di poesie, tra cui Nhindo Nero (1994), Il segreto della capanna (1998), Maeba. Dialoghi con mia figlia (2005) e La nostra Africa (2017). Nato in Camerun da una famiglia contadina di etnia basaa, fortemente impegnata politicamente nella lotta per l’indipendenza del Paese, Ngana, detto Teodoro, ha trasposto il suo impegno politico e gli echi dell’oralità africana nella sua poesia in italiano. Il senso di esclusione e la volontà di rivalsa, propria di chi proviene da un continente che ha vissuto la sopraffazione del colonialismo, lo hanno portato ad impegnarsi per la mediazione culturale e l’intercultura, esprimendo nella sua poesia due anime a confronto, in una dialettica infinita...
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