All’inizio del 1934, mentre gli Stati uniti e l’Europa erano impantanati nella Grande depressione, il leader fascista Benito Mussolini veniva acclamato da diversi magnati dei media e intellettuali pubblici occidentali. Di fronte al dramma della crisi economica, si elogiavano i «successi» dello stato corporativo mussoliniano – che teoricamente surclassava il modello economico delle democrazie occidentali.
Eminenti autori come Sir Philip Gibbs parlavano ai lettori
del New York Times della
«mente acuta, sottile e previdente» di Mussolini. Il re d’Inghilterra Giorgio V
descriveva l’Italia come una nazione «retta dalla saggia guida di un grande
statista». E fedeli accademici di tutto il mondo sfornavano numerosi articoli
in sostegno alla «creatività» di Mussolini nel dare slancio all’economia
interna italiana. Ma non tutti si erano lasciati ingannare. A. L. Rowse, un
accademico un po’ snob dell’All Souls College di Oxford, lo descrisse
oculatamente come un «macellaio basso e tarchiato, con una mascella prominente
e mal rasata».
Mussolini è stato a lungo il preferito di alcuni membri
dell’establishment inglese e statunitense, come il magnate dei media Lord
Beaverbrook, Adolph Ochs del New York
Times, Henry R. Luce del Time,
il rettore della Columbia University Nicholas Murray Butler e Winston
Churchill. Quest’ultimo nel 1927 diceva di non poter fare a meno di restare
affascinato «dai modi semplici e gentili di Mussolini». Persino i progressisti
americani, incluso Lincoln Steffens e il redattore del New Republic Herbert Croly, elogiavano
pubblicamente Mussolini.
Ammiratori di tal fatta riconoscevano a Mussolini il
successo nell’aver «salvato» l’Italia non solo dalla bancarotta dopo la Grande
guerra, ma anche dall’avanzata bolscevica. I due anni di scioperi tra il 1919 e
il 1920 conosciuti come «biennio rosso» avevano spaventato a morte banchieri,
industriali e proprietari terrieri italiani; la loro risposta era stata quella
di finanziarie le truppe paramilitari fasciste di recente formazione, per
distruggere il potente movimento dei lavoratori. Nelle elezioni del maggio
1921, Mussolini strinse un accordo politico con i partiti di governo e spazzò
via le paure di molti contadini e italiani di classe media riguardo alla
violenza e alla presa di potere dei radicali di sinistra. Il 28 ottobre del
1922, il re – secondo alcuni, spaventato all’idea di una guerra civile – invitò
Mussolini a formare il governo.
Un atto che ebbe conseguenze drastiche: per il 1926 il
regime a partito unico fascista aveva ormai preso forma. Per la fine del
decennio, la sfaccettata sinistra politica italiana, fatta da socialisti,
comunisti e anarchici, era stata cancellata. Erano stati uccisi, esiliati o
incarcerati, in una campagna dalla brutalità incessante e rimasta largamente
impunita in tutto l’occidente. La stampa internazionale non voleva essere
associata agli antifascisti; in ogni caso, si pensava che gli italiani fossero
politicamente troppo «immaturi» per vivere in democrazia.
La sinistra italiana aveva subito un trauma. Era stata la
morte cruenta del deputato socialista Giacomo Matteotti nel 1924 – rapito in
pieno giorno e ammazzato – a terrorizzarli davvero. Mussolini inizialmente si
disse dispiaciuto per la morte di Matteotti, sostenendo di non averci nulla a
che fare. L’esimio storico dell’Università di Firenze e socialista Gaetano
Salvemini presentò dei documenti che provavano il ruolo chiave di Mussolini nel
terribile omicidio. Ma anche lui fu presto arrestato e imprigionato.
Uomo dalla corporatura massiccia, con una barba lunga,
spessa e scura, Salvemini era originario di Molfetta, in Puglia, un paese del
profondo Mezzogiorno – origine atipica per un letterario o un accademico di
quegli anni. Prima dell’arresto, i fascisti avevano interrotto per settimane le
sue lezioni, agitando i manganelli e urlando insulti come «scimmia di Molfetta»
contro lo storico, mentre i suoi studenti provavano a difenderlo. Salvemini
disse a un amico che non sapeva se sarebbe tornato a casa vivo il giorno dopo;
aveva già subito un trauma terribile anni prima, nel 1908, quando sua moglie e
i suoi cinque figli erano morti in un terremoto.
Il processo contro Salvemini ebbe un esito sorprendente: il
giudice gli concesse la «libertà provvisoria» e, attraverso una diffusa rete di
antifascisti, Salvemini riuscì a scappare in esilio nel 1925. Dopo nove anni
passati tra Londra e Parigi, nel 1934 si trasferì negli Stati uniti, dove
insegnò ad Harvard. La prima cattedra di storia della civilizzazione italiana
fu creata appositamente per lui – un pulpito particolarmente prestigioso dal
quale continuò la sua battaglia indefessa contro Mussolini. A questo scopo
furono decisivi gli eventi della guerra italo-etiope, un massacro brutale di
violenza coloniale che servì da preludio al più grande conflitto della Seconda
guerra mondiale.
Un diversivo
Già nel 1927, Salvemini aveva pubblicato The Fascist Dictatorship in Italy,
che contraddiceva la visione per cui Mussolini aveva «salvato» l’Italia dal
bolscevismo. Ma l’opinione pubblica estera non era cambiata. Iniziò a cambiare
nel 1934, quando Mussolini annunciò di voler invadere l’Etiopia per
«civilizzare» il suo popolo. Questo mise la Lega delle Nazioni in agitazione;
malgrado l’Etiopia fosse l’unico membro africano della Lega, ci fu ben poca
reazione a livello internazionale. Nell’ottobre del 1935 Mussolini iniziò
l’invasione.
Già prima dell’invasione, Salvemini aveva finito di
scrivere Under the Axe of Fascism, che fu
pubblicato qualche mese dopo l’inizio della guerra. Offriva una critica
meticolosamente documentata del fascismo, indirizzata a quelli che un Salvemini
profondamente frustrato riteneva essere europei e statunitensi completamente
ignari – malgrado il libro fosse diventato subito un best seller.
Nel libro, Salvemini descriveva la grave disoccupazione e i
tagli salariali che avevano colpito gli italiani della classe lavoratrice, e la
brutalità senza fine della polizia e dell’Ovra, i servizi segreti fascisti.
Supportato da risme di statistiche e aneddoti su singole vite distrutte dal
regime, il libro concludeva che l’invasione dell’Etiopia era pensata per
deviare l’attenzione pubblica da un’economia domestica fallimentare – era, in
pratica, una bufala politica, del tipo reso famoso dal film dei tardi anni
Novanta Sesso e potere. E, per la
prima volta dal colpo di stato di Mussolini nel 1922, l’opinione pubblica
iniziò a cambiare.
Per decenni, la guerra italo-etiope è stata largamente
ignorata, almeno dall’accademia anglofona. Ma negli ultimi due decenni c’è
stato un numero crescente di studi importanti, insieme a lavori letterari
originali in lingua inglese che hanno dato corpo alla vecchia visione
salveminiana sulla brutalità come tratto essenziale del fascismo italiano.
Smentendo la visione per cui Mussolini sarebbe stato relativamente mansueto se
paragonato a Hitler o Stalin, questi studi e lavori letterari sempre più
numerosi hanno aiutato a produrre un quadro dettagliato e chiaro – anche se
profondamente doloroso – di un’invasione che si stima abbia ucciso circa 760
mila etiopi e ne abbia feriti innumerevoli altri.
Solo negli ultimi due anni, due donne etiopi di alto
profilo hanno prodotto lavori acclamati che descrivono la guerra, così com’è
vista dai loro parenti che l’hanno vissuta (molti altri, soprattutto uomini
etiopi, avevano già pubblicato sul tema, in particolare sulle loro esperienze
«di crescita»). Il memoir di Aida Edemariam, The Wife’s Tale, e il romanzo The Shadow King di
Maaza Mengiste – quest’ultimo in lizza per il Booker Prize – sottolineano
l’importanza di questa guerra coloniale per comprendere la violenza fascista e
il razzismo contemporaneo.
La prospettiva etiope
The Wife’s Tale: A
Personal History è la storia della
nonna paterna di Edemariam, Yetemengu, che l’ha cresciuta, e di cui ha
ripercorso la vita pian piano durante gli anni dell’infanzia. In seguito,
Edemariam ha lasciato l’Etiopia per studiare a Oxford e diventare infine
articolista e redattrice del Guardian.
Il suo libro è un memoir lirico, finemente scritto, che si snoda per gran parte
del Ventesimo secolo, anche se l’invasione e l’occupazione italiana giocano un
ruolo chiave nella storia di sua nonna (nel 2019, Edemariam ha vinto l’ambito
premio letterario Ondaatje, assegnato all’opera letteraria che riesce meglio ad
evocare lo «spirito del luogo»). Attraverso la voce della nonna, ha descritto
il momento dell’attacco italiano:
La città si era
svuotata e un giorno, finalmente, capimmo perché: comparvero sei macchie nel
cielo, più veloci e precise di qualunque uccello, e diventavano grandi, sempre
più grandi, finché non si udì il boato… Le strade si riempirono di donne,
bambini, preti, malati, e mentre il frastuono aumentava la gente si buttava nei
fossi, si schiacciava contro le pareti, dietro gli alberi… una pioggia scura
iniziò a cadere dall’alto, una grandine metallica che esplodeva con un rumore
orribile quando colpiva terra. Quante capanne presero fuoco, con donne e
bambini ancora dentro.
Il romanzo di Mengiste, The
Shadow King, ha come protagonista una donna ispirata alla sua bisnonna
Getey – chiamata nel romanzo Hirut. Mengiste, nata in Etiopia, si è trasferita
a New York con i genitori da bambina, ma è ritornata spesso nella terra natale.
Con una borsa Fulbright, ha passato anni a fare ricerche tra Addis Ababa e
Roma. Solo molto tempo dopo aver iniziato i suoi studi Mengiste ha saputo che
la sua bisnonna era una guerriera. Come ha fatto notare lo storico Bahru Zewde in A History of Modern Ethiopia:
Non solo ci sono
state molte donne guerriere etiopi, ma hanno giocato un ruolo fondamentale nel
movimento di resistenza nato dopo la presa del potere italiana. In ragione
della loro capacità di passare inosservate, avevano un ruolo cruciale…
[infiltrate] nelle reti organizzative dei nemici, passavano informazioni
fondamentali sui punti di forza del nemico, i movimenti di truppe e le
operazioni pianificate.
Nel romanzo di Mengiste, Hirut viene catturata, svestita, e
fotografata per delle cartoline che i soldati italiani potevano mandare a casa
– probabilmente pensate per mostrare le «caratteristiche da troietta» delle
donne africane. Hirut è stata un’adolescente orfana e impoverita, che ha
combattuto per il suo paese pistola alla mano dal 1896. Suo padre aveva usato
quella stessa arma per decenni, nella resistenza vittoriosa contro una
precedente invasione italiana – una resistenza che aveva umiliato l’estrema
destra italiana e garantito a Mussolini il sostegno necessario all’invasione
ingiustificata del 1935.
«Lo Stato italiano era quasi in bancarotta quando nel 1936
fu proclamato ufficialmente l’Impero Italiano», scrivono Ruth Ben-Chiat,
professore alla New York University, e Mia Fuller, professoressa a Berkeley,
nell’introduzione al volume del 2005 Italian Colonialism. «A quegli
italiani che credevano nel colonialismo, l’impero promise una via di fuga da
una posizione internazionale subordinata e uno strumento per propagandare la
potenza italiana e la modernità». Come spiegano gli autori, questa «modernità»
assumeva le forme più brutali:
Gli italiani
utilizzavano metodi di uccisione industriali (come l’irpite, cioè il gas
mostarda) che vengono più comunemente associati ai soldati di Hitler o Stalin e
non alle truppe di Mussolini… In realtà, il massacro in Etiopia era così
distante dall’auto-percezione italiana di una dittatura «umana» che è stato
cancellato dalla memoria popolare e ufficiale. Fino al 1995, il governo
italiano e gli ex-combattenti… hanno negato l’utilizzo di gas mortali
nell’Africa orientale.
In un articolo tratto dalla stessa raccolta, l’accademico
Alberto Sbacchi scrive di come:
il 23 dicembre del
1935, le truppe italiane rovesciarono dei barili progettati per rompersi al
contatto col suolo… che sparavano un liquido incolore… e un ufficiale commentò,
“qualche decina dei miei uomini ne furono investiti, i loro piedi, le loro
mani, le loro facce erano coperte da vesciche… non sapevo come combattere
questa pioggia che bruciava e uccideva”… Per la fine del gennaio 1936, soldati,
donne, bambini, bestiame, fiumi, laghi e pascoli erano stati sistematicamente
spruzzati col gas.
Questa barbarie fu perpetrata per la più infima delle
cause. «La guerra etiope non fu voluta né dai comandanti in campo né dagli
industriali», scrisse Salvemini in Under
the Axe of Fascism:
Questa guerra fu voluta
principalmente da Mussolini e dai leader del Partito fascista… perché qualcosa
doveva esser fatto per restaurare il prestigio del regime… Sempre più persone
in Italia si chiedevano a cosa servisse quella dittatura… Durante il 1934
un’inerzia mortale e invincibile si stava diffondendo sempre più nella gran
parte della popolazione italiana.
La guerra arriva a casa
Nell’estate del 1935 la guerra imminente aveva attirato
giornalisti da tutto il mondo nella capitale etiope. Molti si annoiavano ad
Addis Abeba, mentre le truppe italiane erano bloccate in aree remote del paese
a causa del cattivo tempo, dei dissidenti locali o di problemi logistici.
Evelyn Waugh – a quel tempo un giovane reporter del Daily
Mail londinese – era noto per essere favorevole al regime. Scrisse
che gli etiopi erano «ingenui come bambini con i nasi schiacciati alle finestre
dell’asilo nido che aspettano l’arrivo della pioggia». Lo scenario, aggiungeva,
«era di uno squallore fatiscente». Waugh credeva con tutto il cuore che la
colonizzazione avrebbe portato grandi benefici a quella «nazione indisciplinata
dalla pelle nera».
Ma George Lowther Steer, un reporter molto stimato del Times di Londra (che un osservatore
definì «ardentemente pro-etiope») non si lasciò convincere dalle bugie di
Mussolini, furioso com’era per la palese ingiustizia della guerra. Scrisse che
l’esercito etiope «non somigliava affatto a nessun altro esercito del mondo», e
notò che:
Vestiti ciascuno
secondo il proprio gusto, senza alcuna insegna militare, seguiti da branchi di
animali – scimmie e asini – e dalle loro donne, dai loro bambini che portavano
i fucili, dai loro servitori e schiavi, [questi soldati] somigliavano più a un
popolo che sta migrando.
La violenza della guerra si trasferì presto all’Europa.
Come spiega Neela Srivastava nel suo recente libro Italian
Colonialism and Resistances to Empire, 1930-1970, quando
Steer ultimò il suo Caesar in Abyssinia, libro in cui
esprimeva la sua condanna a Mussolini, stava ormai seguendo la Guerra civile
spagnola. Fu l’articolo di Steer sul «bombardamento di Guernica da parte
dell’aviazione tedesca che causò un’ondata di indignazione globale e ispirò
Picasso a dipingere uno dei suoi capolavori più famosi, Guernica». Ma
Srivastava fa anche capire quanto sia stata piccola la finestra d’opportunità
che gli antifascisti ebbero per attirare l’attenzione sugli orrori della guerra
etiope. I membri della stampa internazionale erano ansiosi di spostarsi in
Spagna e in Germania – considerati luoghi in cui avvenivano eventi di gran
lunga più importanti.
Tutte le strade portano a Roma
È stato durante quel periodo che il New Times and
Ethiopia News, o Nten,
divenne uno degli strumenti principali della campagna per attirare l’attenzione
sull’Etiopia. Fu scritto e pubblicato dall’ex-suffragetta Sylvia Pankhurst,
buona amica di Salvemini e compagna da tanti anni dell’anarchico italiano
Silvio Corio, che aveva complottato per rovesciare Mussolini.
I lettori di Pankhurst erano pochi ma influenti, per certi
versi simili a quelli dell’I.F. Stone’s Weekly, che sarebbe
apparso quindici anni dopo. Malgrado i tanti soldi investiti dalle più
importanti testate occidentali, fu l’Nten di
Parkhurst che gli attivisti neri come Marcus Garvey e i molti abitanti di
Harlem leggevano per carpire cause ed eventi che avrebbero aiutato a formare un movimento Pan-Africano.
Il ruolo di Pankhurst è spiegato nella sua ottima,
stringata biografia del 2013, scritta dalla storica Katherine Connelly: Sylvia Pankhurst: Suffragette, Socialist and Scourge
of Empire. Malgrado la censura e la sospensione dei servizi
del telegrafo da parte dei fascisti, l’Nten fece
dei servizi incredibili sulla furia omicida durata tre giorni ad Addis Ababa,
una rappresaglia per il tentativo di omicidio del comandante fascista Rodolfo
Graziani – ben noto dalle sue precedenti azioni in Libia per il suo sadismo
contro gli Africani.
Accaddero alcune cose sorprendenti. Nel gennaio del 1936,
il Time nominò Haile
Selassie, l’imperatore dell’Etiopia, come Uomo dell’Anno. Questo dopo aver
riverito Mussolini per oltre un decennio. Il caporedattore degli esteri del Time, Laird Goldsborough, uomo di estrema destra, iniziò a
essere emarginato dall’editore della rivista, Henry Luce. Lasciò
infine la rivista nel 1938 dopo aver provato – e aver fallito – a candidare
Mussolini per il Premio Nobel per la Pace, una mossa esagerata persino per un
uomo di destra come Luce.
Come sottolineano James Dugan e Laurence Lafore in Days of Emperor and Clown, «la
vecchia tradizione liberale di simpatia verso il fascismo era ancora viva alla
fine del 1935, ma le cose stavano cominciando a cambiare». Nel novembre di
quell’anno, il New Republic propose
una spiegazione più sofisticata della guerra, che mostrava in modo più chiaro e
con maggiore ostilità di aver compreso la natura del fascismo. E, nel gennaio
del 1936, aveva dato grande importanza a un articolo di Salvemini e Max Ascoli
che criticava duramente Mussolini.
«Lo strano destino dell’Etiopia aveva iniziato a
realizzarsi», aggiungono Dugan e Lafore. «Stava paradossalmente creando l’Asse
Roma-Berlino, rendendola terrificante e dunque potente. Ma stava anche
cominciando quel lavoro che prima o poi avrebbe smosso le coscienze
dell’occidente e avrebbe posto fine al fascismo…».
Ci sarebbero voluti ancora molti anni prima che questo
scontro avesse luogo. Da parte sua, la determinazione antifascista di Salvemini
non fece che acuirsi nel 1937, quando Mussolini fece uccidere il suo caro amico
Carlo Rosselli e suo fratello Nello in un attentato in Normandia, in Francia.
Come al solito, fu Salvemini, fra i tanti amici dei fratelli Rosselli, a
pubblicare un articolo che accusava formalmente Mussolini di averli fatti
assassinare, come Stanislao Pugliese spiega nel suo libro Carlo Rosselli: Socialist Heretic and Antifascist
Exile. «L’idea
di Salvemini era che ‘tutte le strade portano a Roma’». E, aggiunge Pugliese:
La stampa fascista
provò a collegare gli assassinii ai conflitti interni alla comunità
antifascista. Il recente omicidio degli anarchici Camilo Berber e Francesco
Barbieri per mano degli agenti di Stalin in Spagna diede ‘credibilità’ a questa
storia. E tuttavia divenne presto evidente che gli assassini erano membri del
Cagoule francese, una setta segreta di estrema destra. Malgrado i tentativi del
regime di accusare la sinistra, la prova della mano fascista (se non proprio di
Mussolini) nell’assassinio fu fornita dal regime stesso.
Nonostante le crescenti conferme delle sue accuse contro il
regime di Mussolini, Salvemini fu odiato da molti esponenti della destra in
tutto l’occidente, inclusi gli Stati uniti. Qui, molti emigrati italiani erano
pro-Vaticano e pro-Mussolini. Ma Harvard fu, per molti aspetti, un santuario
dell’antifascismo italiano. Un collega ricorda: «[Salvemini] ha avuto solo
amici qui, nessun nemico».
Nel 1945, il regime fascista finalmente finì. Dopo aver
vissuto in esilio per quasi venticinque anni, nel 1948 Salvemini tornò a casa e
fu invitato a riprendere la sua vecchia cattedra universitaria, anche se aveva
ormai più di settant’anni. Ricominciò a insegnare, iniziando con le parole
«come ho detto nella scorsa lezione». Insegnò per alcuni anni, circondato da
studenti e amici antifascisti, felici di averlo di nuovo a casa. Ma la morte di
Mussolini non significò la fine dell’impegno politico di Salvemini. A quel
punto, il socialista dedicò la sua attenzione agli onnipresenti Stati uniti – e
all’inizio della Guerra fredda.
*Anne Colamosca è una
critica e scrittrice indipendente. Questo
articolo è uscito su JacobinMag. La traduzione è di Gaia Benzi.
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