Conferenza Provinciale Permanente - Tavolo di Coordinamento
Scuola - Trasporti - Documento operativo
(ai sensi dell’art. 1, comma 10, lett. s), del D.P.C.M in data 3 dicembre 2020)
Prefettura di Cagliari - U. T. G. Ufficio di Gabinetto 2
Partecipanti al Tavolo di Coordinamento:
Prefettura di Cagliari, Assessorato Regionale dei Trasporti, Assessorato Regionale della Pubblica Istruzione, Beni Culturali, Informazione, Spettacolo e Sport, Città metropolitana di Cagliari, Provincia del Sud Sardegna, Comune di Cagliari, Comune di Capoterra, Comune di Carbonia, Comune di Guspini, Comune di Iglesias, Comune di Quartu Sant’Elena, Comune di Selargius, ANCI Sardegna,Università degli Studi di Cagliari,Ufficio Scolastico Regionale – Ambito Territoriale di Cagliari, Ministero Infrastrutture e Trasporti- Direzione Territoriale Ufficio Motorizzazione Civile di Cagliari, Direzione Regionale Trenitalia Spa, Soc. ARST Spa Trasporti Regionali della Sardegna, Consorzio Trasporti e Mobilità (CTM) Cagliari, Associazione Nazionale Autotrasporto Viaggiatori (ANAV) Sardegna
Premesso...Considerato…Rilevato…Vista…Vista…Vista…Vista…Visti…Visti…Dato atto…Considerato…Ritenuto…Ravvisato…
Si prescrive che delle scuole superiori della città metropolitana la metà posticipa l’ingresso di un’ora
Geniale!!!
Altro che topolino, in questo caso la montagna ha partorito una cellula (oraria, naturalmente)
Se avessero invitato anche un po’ di dirigenti scolastici avrebbero ascoltato le loro parole; i dirigenti scolastici, pur con tutte le critiche, spesso giuste, che possono ricevere, sono stati anche insegnanti, ed entrano a scuola tutti i giorni, a differenza di tutti i partecipanti alla Conferenza Provinciale Permanente - Tavolo di Coordinamento - Scuola – Trasporti, che hanno fatto le scuole superiori, ai loro tempi, e forse hanno o hanno avuto un figlio che ha fatto le scuole superiori, ma questo non fa di loro degli esperti di scuola.
E magari qualche dirigente scolastico, con la giusta indignazione, avrebbe potuto eccepire sulla presenza di assessori della Regione che ha, vergognosamente, lasciato aprire le discoteche, ma non ci illudiamo troppo.
I partecipanti avrebbero sentito che tutti i pendolari sarebbero arrivati alla prima ora, i mezzi sono così, e avrebbero aspettato, ammucchiati come le pecore, per riscaldarsi, all'aperto, l’entrata un’ora dopo.
Mi chiedo se c’è bisogno di riunire le migliori menti, o forse quelle più burocratiche, della collettività per decidere un’entrata a scuola diversificata, forse bastava una monetina, tu prima, tu dopo.
E se è così risolutivo, non si poteva fare a marzo?
E io che mi aspettavo che questi Tavoli di Coordinamento - Scuola – Trasporti previsti dal D.P.C.M in data 3 dicembre 2020 avrebbero reso disponibili (non dico requisire, o acquisire, che sa tanto di bestemmia, come patrimoniale, e noi siamo un popolo, dicono, timorato della redistribuzione, magari solo affittare poteva bastare) gli autobus delle imprese private di trasporto, che in questi mesi si stanno arrugginendo inutilizzati.
Si è scoperto, finalmente, ma si sospettava, che l’acronimista del ministero della (non pubblica) istruzione si chiama Luigi Salomone Calibano Sallustio Semiramide, conosciuto come Eta Beta.
Fra i suoi acronimi il Piano triennale offerta formativa (PTOF), PEI, PAI, POI, PIA (una sigla non esiste, provate a capire quale.
Quando toccherà al Piano unitario triennale analogico nazionale Eta Beta si divertirà.
Il PCTO (percorsi per le competenze trasversali e per l'orientamento) è un gioco di prestigio, quello delle tre carte, per capirci. Dopo il fallimento dell’alternanza scuola-lavoro. anziché accettare la sconfitta, ampiamente prevista (non era né scuola né lavoro, nella maggior parte dei casi) di questo esperimento, è stato cambiato il nome (la colpa non è di Eta Beta, lui è solo l’ultima ruota della carretta), “se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi”, direbbe Tancredi, se fosse consulente del ministero .
Diceva Moravia: “Quando non si è sinceri bisogna fingere, a forza di fingere si finisce per credere; questo è il principio di ogni fede”.
Ecco servito un altro esempio di finzione didattica della scuola
I Banchi a rotelle: pare che la decisione, ratificata da chi di dovere, sia stata di Qui, Quo e Qua.
(ed è stata una pena vedere ammucchiati, nei cortili delle scuole, come fossero mucchi di libri da bruciare, centinaia di banchi ancora perfettamente funzionali, da portare in qualche discarica)
Tutte le scoperte della medicina si possono ricondurre alla breve formula: "l'acqua, bevuta moderatamente, non è nociva", dice Mark Twain)
Ci ho pensato, a Mark Twain, quando si è capito, per chi l’ha capito, che l’unico modo per bloccare la diffusione del virus era, ed è, come per l’influenza spagnola di un secolo prima, l’uso delle mascherine, ma ce n’è voluto per renderlo (semi)obbligatorio, sempre in ritardo, sempre a rincorrere.
Mi ricordo la storiella del metro di distanza “buccale” (che brutta parola), se c’era si poteva non usare la mascherina.
Secondo me questa è una regola fissata da Paperoga. Chi altri mai poteva pensare che le studentesse e gli studenti, se ancora in vita, possono tenere una distanza (fisica o sociale) come se fossero statue?
Eppure la mascherina non è stata resa obbligatoria per molto tempo, forse memori che ognuno, nel paese delle libertà, in nome della libertà, fa un po’ come cazzo vuole (è una citazione, non abbiate paura). Vi ricordate le battaglie per la libertà dei capelli al vento quando il casco in moto (purtroppo non ancora per la bicicletta) è stato reso obbligatorio? E le battaglie contro le pieghe sui maglioni o sulle camicie, e addirittura contro lo strangolamento, quando sono state rese obbligatorie le cinture di sicurezza?
E poiché la scuola nasce e vive con e per gli studenti e le studentesse ecco un'esortazione necessaria nelle parole di Pier Paolo Pasolini:
LA SPERANZA DEI GIOVANI E L’IMBECILLITÀ DEGLI ADULTI
In realtà lo schema delle crisi giovanili è sempre identico: si ricostruisce a ogni generazione. I ragazzi e i giovani sono in generale degli esseri adorabili, pieni di quella sostanza vergine dell’uomo che è la speranza, la buona volontà: mentre gli adulti sono in generale degli imbecilli, resi vili e ipocriti (alienati) dalle istituzioni sociali, in cui crescendo, sono venuti a poco a poco incastrandosi.
Mi esprimo un po’ coloritamente, lo so: ma purtroppo il giudizio che si può dare di una società come la nostra, è, più o meno coloritamente, questo. Voi giovani avete un unico dovere: quello di razionalizzare il senso di imbecillità che vi dànno i grandi, con le loro solenni Ipocrisie, le loro decrepite e faziose Istituzioni.
Purtroppo invece l’enorme maggioranza di voi finisce col capitolare, appena l’ingranaggio delle necessità economiche l’incastra, lo fa suo, l’aliena. A tutto ciò si sfugge solo attraverso una esercitazione puntigliosa e implacabile dell’intelligenza, dello spirito critico. Altro non saprei consigliare ai giovani. E sarebbe una ben noiosa litania, la mia.
(Tratto da: PIER PAOLO PASOLINI, Le belle bandiere. Dialoghi 1960-1965)
Elogio della lezione frontale. Il multimediale, le parole e il gesso - Roberto Contu
So utilizzare bene il pc
Lo so usare perché mi è sempre piaciuto farlo o semplicemente perché appartengo a una delle prime generazioni che l’ha usato fin dall’infanzia. A sette anni digitavo load/return su un Commodore 16 (ma avevo già messo le mani su un Vic 20), a dieci iniziavo a scrivere linee di Basic con il Commodore 64.
So montare e smontare file, creare archivi e database, gestire hardware e far funzionare al meglio i software.
Ho creato ipertesti, so costruire un sito web, abito naturalmente il mondo social. Mi tengo aggiornato, sto difronte ad un monitor molte ore al giorno. Insomma posso dire di usare il pc bene. Non a livello di un informatico certo, ma so utilizzare il pc bene.
Lo utilizzo a scuola
I miei alunni sono in rete con me, i gruppi classi on line sono da tempo una consuetudine nella mia prassi didattica. Mi sono presto interessato ai nuovi approcci didattici, possibili e immaginabili, che integrassero in modo intelligente passione per l’insegnamento, solidità degli obbiettivi e nuove tecnologie. Ho seguito corsi on line sulla flipped-classroom, capisco le potenzialità dell’e-learning, so gestire didatticamente un e-book. Utilizzo ogni risorsa che offre il registro elettronico apprezzandone la comodità e l’infinito risparmio di tempo che consente.
Nonostante il mio profilo sembrerebbe essere quello del cosiddetto docente 2.0/3.0/4.0/5.0 etc., continuo a considerare la lezione frontale come la pietra angolare su cui si fonda il mio mestiere di insegnante.
Lezione frontale come pietra angolare
Sì, proprio la lezione frontale, docente di fronte agli alunni, messi all’antica: l’uno in cattedra, gli altri seduti dietro i banchi a due, il libro o una fotocopia, nient’altro che voce e gessetto. Per scelta e aspirazione. Sebbene personalmente in grado di capire e mettere a sistema quanto di meglio le nuove tecnologie ma soprattutto le nuove metodologie possano offrire.
Io so che, per quanto mi riguarda e per via del tutto induttiva, i risultati migliori a scuola li ho ottenuti e li ottengo tuttora con lezioni frontali. Con una precisazione essenziale: a oggi, dopo diciassette anni di insegnamento, un dottorato e un impegno attivo nella ricerca letteraria e didattica, posso dire di saper fare lezione frontale, per come la intendo, solo su alcuni argomenti: quelli che conosco molto bene. Porto alcuni esempi.
Negli ultimi anni ho studiato a lungo alcuni autori della nostra letteratura moderna e contemporanea. Contestualmente ho insegnato in diverse quinte classi di istituti tecnici dove, ma tu guarda, ho fatto lezioni frontali ad esempio su Pasolini e Calvino, della durata anche di due ore, con un piccolo intervallo nel mezzo, senza problemi di cali di attenzione e con risultati ottimi alle verifiche. Ho letto passi da Che cos’è questo golpe o L’antitesi operaia e gli alunni non si sono annoiati: ne sono testimoni gli insegnanti di sostegno presenti.
Lezione frontale, gli alunni lo hanno capito
Gli studenti hanno capito, sì, hanno capito lo snodo dei Settanta e la perdita di centro della riflessione sul reale di fine anni Cinquanta. Ne hanno tratto beneficio all’Esame di Stato: sono testimoni i commissari esterni presenti alle tornate di esami. Alunni che studiavano Meccanica e Sistemi, Economia aziendale e Informatica.
Se l’insegnante è depositario di un’esperienza culturale compresa realmente e profondamente, la trasmissione di un tale tesoro non sarà mai troppo complicata. Occorreranno i ferri del mestiere, che sono tanti e andranno conosciuti e gestiti, ma se l’esperienza del docente è vera, questa non potrà non diventare vera anche per gli alunni. È questo a mio giudizio il grado zero della trasmissione didattica: sentire e sperimentare che tutto ciò che si conosce realmente e seriamente passi e arrivi senza troppo faticare, quasi per osmosi verbale.
Ma allora, alla luce di quanto affermato, sarebbe possibile fare lezioni convincenti solo su argomenti su cui ci siamo laureati o addottorati? Certo che no, ed è qui che viene il bello o il brutto, a seconda di come la si voglia vedere. Sono convinto che l’insegnante sia per definizione un essere che accetta di passare la vita a studiare ininterrottamente e in modo forsennato. È quello che ho sperimentato e che continuo a verificare ogni anno che passa, da diciassette che sono in cattedra, con un pizzico di timore di reggere alla lunga ai miei pomeriggi cinque giorni su sette, dalle tre alle sei chino sui libri, dopo le cinque ore mattutine di scuola.
Ogni anno che passa si amplia il ventaglio delle mie lezioni frontali che so arriveranno al traguardo. Ho in mente la mia personale lista di argomenti, autori e passi, per i quali so di avere bisogno giusto di un libro o di una fotocopia e una lavagna per portare a casa una lezione ben fatta: il nostro Novecento letterario ad esempio mi è sempre più semplice da trasmettere.
Ma ho in mente anche la mia personale lista nera di argomenti e autori rispetto ai quali so di aver bisogno di molti più strumenti per ottenere lo stesso risultato: quelle poche volte che ho dovuto insegnare storia antica ho vissuto veri e propri calvari didattici a fronte della mia preparazione meno qualificata. Del resto non è esperienza di ogni docente quella di conoscere e accrescere il numero delle proprie carte vincenti e dei propri argomenti a prova di classe, nonché quella di sanare i propri buchi formativi? So bene che il mio traguardo ideale, magari a fine carriera, dovrebbe essere quello di potermi muovere con sicurezza in tutto il panorama curricolare delle mie discipline. Così bene da poter sostenere, nel mio caso, anche una riuscitissima lezione frontale sulla cultura sumerica.
Mi rendo conto di come il discorso sia semplificatorio e forzato, ma forse ciò è inevitabile al fine di suscitare un confronto. Del resto l’ho presentata come provocazione e a questo punto mi rendo conto che di questo si tratta. Ho in mente le possibili obiezioni a una riduzione di questo tipo; occorrerebbe ad esempio specificare ed entrare nel merito di cosa significhi condurre con la parola e qualche colpo di gesso un’ora di lezione frontale. Occorrerebbe chiarire come la lezione frontale non implichi la passività, tantomeno verbale, dello studente e la sua esclusione dall’interazione con il docente. Occorrerebbe affrontare il tema dell’autorevolezza del docente e della sua costruzione al fine di consentire la prassi comunque forzata dell’ascolto unidirezionale. Concordo sul ritenere la pratica didattica migliore quella che integra in modo intelligente ogni risorsa spendibile in classe. Ma – inutile nascondermi – mi interessa anzitutto porre la questione con una presa di posizione chiara: ribadire la centralità dell’insegnante e del suo bagaglio insostituibile di conoscenza.
Sulla scuola digitale - RP McMurphy
Sono anni che il digitale è entrato nella scuola, sgomita, e cerca sempre più spazio. Ora il momento è propizio. L’emergenza del coronavirus ha sospeso la didattica tradizionale. Le scuole sono chiuse. Colossi come Amazon, Google, Wind, Fastweb, Microsoft, Connexia, Vodafone, Cisco, Pearson, infilato in fretta il vestito buono della pubblica utilità, vanno all’assalto del mercato della didattica duepuntozero, quella da fare a distanza. La chiamano perfino solidarietà digitale.
Le piattaforme digitali per una scuola online, o programmi di e-learning, come devi dire se ti prende la smania di infilare termini anglofoni con l’idea di cavalcare meglio la modernità, prolificano come funghi dopo una buia giornata di pioggia. Ce n’è per tutti i gusti: Fidenia, Edmodo, Ellie, Axios, Schoology, Otus, Weschool, Wiggio, Classmill, Kahoot, TinyTap. Un tripudio.
I piani degli ultimi governi, tutti orientati a semplificare il compito educativo e formativo della scuola, intervenendo finanche sul ruolo dell’insegnante, sempre più somministratore di competenze valutabili oggettivamente, sempre più oberato da formalismi e burocrazia, e sempre meno in grado di dedicarsi alla funzione propria dell’insegnamento, quella di offrire se stesso in un rapporto dialogico con i propri alunni, fanno di colpo un pericoloso balzo in avanti. Il rischio adesso è che, passato il momento di emergenza, la scuola digitale entri in qualche modo nella sintassi scolastica. Non a caso il ministro dell’Istruzione Lucia Azzolina si augura che l’emergenza sia la spinta per rilanciare l’innovazione didattica. Innovazione. La chiama così.
E i docenti? I docenti cosa fanno? Fanno fronte tranquillizzando le famiglie sul fatto che se anche la scuola fosse chiusa per due mesi non succederebbe niente? Che la vita scolastica non è la corsa dei cento metri che se rallenti poi finisce che perdi? Che basterebbe che gli studenti ne approfittassero per riempire magari le lacune e riguardare le cose fatte? No, i docenti cascano nel tranello della didattica digitale, nella corsa a completare i programmi, nella febbre di un’attività a cui non si può rinunciare. Incalzati spesso dalle famiglie, inviano tutorial, preparano lezioni, vanno avanti nel programma, somministrano verifiche, correggono online e riempiono di voti il registro elettronico. La scuola insomma continua, anche senza le persone.
La scuola a distanza è una non scuola. Se insegnare fosse questo gli insegnanti non servirebbero neanche. E non servirebbero le classi. Insegnare non è indicare in quale video un personaggio di un cartone animato ci dice le regole di matematica o di italiano. I bambini, i ragazzi, alzano la mano. Non hanno capito, chiedono, hanno bisogno di altre parole, hanno bisogno di confronto, di dialogo, di amalgamare energia.
Per dirla con le parole di Zygmunt Bauman, non possiamo lasciare che la connessione si sostituisca sempre di più alla relazione. E allora per favore almeno non chiamiamola scuola digitale. La scuola è un’altra cosa.
L’ etica della Fondazione Agnelli e di Eduscopio in piena pandemia - Renata Puleo
Anche in questo pandemico anno 2020, la Fondazione Giovanni Agnelli di Torino non si è risparmiata e ha pubblicato il suo Eduscopio, la “sua graduatoria” degli istituti di secondaria di secondo grado. Il gioco, come definisce la Repubblica l’attività di Eduscopio, è giocato, ricordiamolo, da giocatori di parte: quei gruppi produttivi del nostro paese che hanno verso la scuola un interesse particolare, tutto focalizzato sulla crescita del capitale umano. Di questi gruppi produttivi, la fondazione torinese è da anni portavoce onnipresente, nel dibattito politico e pubblico sull’istruzione. Tuttavia, più che entrare nel merito dell’edizione 2020-2021 di Eduscopio, questa ennesima operazione di concorrenza applicata alla scuola pubblica merita una riflessione morale. Diciamo etica, orientata a leggere i comportamenti messi in atto da istituzioni pubbliche e private in uno dei momenti più drammatici della nostra recente storia. Per lo meno dal dopoguerra ad oggi. Un paese devastato economicamente, una scuola che ogni giorno appare sempre più come un edificio bombardato, abbisognerebbero di riflessioni improntate a compassione, alla pietas civile, che tutti ci accumuni nella ancora possibile cura della vita, nella speranza di poter ancora crescere creature libere e possibilmente volte ad una esistenza degna. Ma si sa, nei giocatori spesso si celano autentici ludopatici, e il gioco continua, anche quando tutto è perduto ed è evidente che persistere è deleterio. Avremmo, in questo momento bisogno di una sospensione di ogni giudizio, di ogni pratica, formulati con modalità non più all’altezza per descrivere l’entità di quel che la pandemia ha prodotto.
Anche in questo pandemico anno 2020, la Fondazione Giovanni Agnelli di Torino pubblica in Eduscopio, la graduatoria degli istituti di secondaria superiore. Citare la fondazione torinese è un atto metonimico, rinvia all’interesse che i più importanti gruppi produttivi del nostro paese hanno verso la scuola, attenzione saldamente legata all’ormai famoso nodo del mismatching fra mercato e formazione. Altrettanto evidente è il richiamo alla presenza costante del Presidente della FGA Andrea Gavosto sui media, attraverso i quali ammonisce e bacchetta insegnanti, sistema formativo, scelte di politica scolastica, forte della sua carriera di economista/econometrista, sedicente pedagogo ed educatore. Le parole chiave che ritornano nelle sue riflessioni, in un insistente e performativo motivetto, sono competenze, merito, test, successo formativo crediti/debiti, offerte al cliente, e quanto prodotto dalla neo-lingua ormai in uso per parlare di scuola. Il documento di Eduscopio le ha fatte proprie oramai da anni e le usa come chiave di lettura dei dati raccolti.
Il gioco, come definisce la Repubblica l’attività di Eduscopio, è giocato – come si è detto – da giocatori di parte, attenti alla crescita del capitale umano (capitale tout court: nella catena del profitto) e da quelli delle stesse scuole che forniscono l’adesione alla ricerca, nella frenetica corsa di dirigenti ad accaparrarsi medaglie di credibilità formativa e dunque, più iscrizioni e maggiore possibilità di accesso ai fondi.
Prima di passare al merito dell’indagine, questa ennesima operazione di concorrenza applicata alla scuola pubblica merita una riflessione morale. Diciamo etica, orientata a leggere i comportamenti messi in atto da istituzioni pubbliche e private in uno dei momenti più drammatici della nostra recente storia. Per lo meno dal dopoguerra ad oggi. Un paese devastato economicamente, una scuola che ogni giorno appare sempre più come un edificio bombardato, abbisognerebbero di riflessioni improntate a compassione, meglio pietas civile, che tutti ci accumuni nella ancora possibile cura della vita, nella speranza di poter ancora crescere creature libere e possibilmente volte ad una esistenza degna.
Ma si sa, nei giocatori spesso si celano autentici ludopatici, e il gioco continua, anche quando tutto è perduto ed è evidente che persistere è deleterio. Avremmo, in questo momento bisogno di una sospensione di ogni giudizio, di ogni pratica, formulati con modalità non più all’altezza per descrivere l’entità di quel che la pandemia ha prodotto. A marzo scorso la scuola ha smesso di essere quella che conoscevamo, ma la Fondazione Agnelli, l’INVALSI, l’INDIRE, e altri soggetti fra pubblico e privato, lavorano con le modalità di sempre. L’INVALSI diffonde le date dei test del 2021, propone la ricorrenza dei dati di un decennio di prove standardizzate, fornisce esempi di prove formative perché non si dica che l’istituto è interessato solo allo standard censuario.
Torniamo a Eduscopio.
I parametri utilizzati per comporre il ranking delle superiori italiane sono i consueti: media dei voti/crediti per i 1750.000 studenti del campione; tasso di immatricolazione e tipologia degli studi a cui accedono (anni dal 2015 al 2017) e, nell’ottica di censo e di provenienza sociale su cui è improntata l’architettura della scuola superiore, tasso di occupabilità/occupazione per gli uscenti dagli istituti tecnici e professionali. I contesti socio-economici in cui insistono le scuole graduate, i territori in cui abitano gli alunni, sembrano non avere importanza: la scuola se vuole può eccellere, purché lo sappia fare. Che l’abitare non sia solo un risiedere, un alloggiare, bensì un rapporto politico-esistenziale per sè, con agli altri, abbia a che vedere con lavoro, territorio, coabitazioni forzate, non è un fatto considerato [1].
Consideriamo Roma, la capitale, con una delle più estese periferie d’Europa. I primi due posti in graduatoria li guadagnano i licei Torquato Tasso e Augusto Righi , rispettivamente classico e scientifico. Entrambi insistono in una porzione del centro storico, ricco e prestigioso, appena dietro Via Veneto. Sappiamo per esperienza consolidata come in questi contesti si parta con un numero di iscritti e frequentanti le prime classi che si assottiglia nel corso degli anni: alla maturità si arriva in pochi, solo qualcuno ce la fa, i più meritevoli, par di capire.
Anche le scuole dell’immensa periferia e del disastrato hinterland romani concorrono. I dirigenti di quelle in bassa posizione lamentano l’inattendibilità dei dati raccolti, la scarsa considerazione delle difficoltà oggettive; altri, al vertice di scuole meglio piazzate, ci propongono una lettura interessante del buon risultato: organico stabile, dunque poco precariato e garanzia di continuità didattica; alta inclusività, ovvero meno severità nella valutazione, come chiave del buon rendimento. Volendo, per un momento, dar credito ai parametri e ai dati raccolti, si rilevano due effetti importantissimi, l’uno di legato agli investimenti e alla possibilità di fidelizzazione dei docenti, l’altro legato ad uno stile-docente attento davvero agli aspetti formativi del percorso, alle differenze individuali, alla cura di ogni situazione [2] .
Non può mancare uno sguardo alle scuole private, paritarie, visto che costano a tutti i contribuenti italiani un bel po’ di soldi. Vediamo Milano, città della sanità privata [dove] l’istruzione a pagamento forma gli universitari di maggior successo, attraverso il commento del Corriere meneghino. Troviamo il Sacro Cuore di Don Giussani, dunque Comunione e Liberazione, il confessionale Alexis Carrell, il San Raffaele. Come, in tutti questi anni di parificazione scolastica, di alte rette, di contributi di privati e statali, abbiamo assunto il loro personale e come lo retribuiscano lo apprendiamo dal quotidiano Avvenire. Commentando l’ordinanza della Sezione Lavoro della Cassazione, a conclusione di un lungo iter giudiziario sul riconoscimento del servizio prestato in pre-ruolo nelle paritarie, in cui si dà torto ai ricorrenti in quanto dipendenti di datori di lavoro diversi e con contratti non comparabili, il giornale della CEI sottolineava il carattere discriminatorio e ricordava come le scuole confessionali abbiamo pagato, negli ultimi vent’anni, stipendi più magri per 2,5 miliardi di euro. Ovviamente, essendo come si è detto fuor di contesto, l’indagine Eduscopio di questo aspetto non può curarsi.
[1] D.Di Cesare Il tempo della rivolta Bollati Boringhieri, Torino, 2020, pag 67
[2] Corriere della Sera Cronaca di Roma 13 novembre 2020 Licei di periferia, la stabilità paga. Crollo del Giulio Cesare.
La libertà di insegnamento a scuola in tempi di Covid-19 - Rossella Latempa
Che ne è della libertà di insegnamento in tempi di pandemia? Mai come in questa fase storica l’emergenza ha messo in luce quella che potremmo definire una vera e propria “riconfigurazione” del nostro lavoro di insegnanti. Una trasformazione che andava avanti da tempo e che la crisi sanitaria ha solo accelerato, aggiungendole quella connotazione di urgenza che conferisce quasi un imperativo morale: siamo in emergenza, non possiamo sottrarci; non possiamo creare troppi intoppi, dobbiamo accettare lo stato delle cose. In ambito scolastico, la libertà proclamata dall’articolo 33 della nostra Costituzione si intreccia in una trama di disposizioni creando un’ architettura coerente di valori: dalla centralità della persona umana alla dignità sociale, dal diritto allo studio e alla cultura alla libertà di espressione e di pensiero.
In particolare, proprio il diritto allo studio e all’apprendimento, spesso invocato da tanti interventi della burocrazia ministeriale – diritto inteso come garanzia di un apprendimento libero da qualsiasi forma di monopolio nella formazione culturale e delle coscienze degli studenti – è garantito solo in presenza di un insegnamento libero.
Scrive, a tal proposito, Roberta Calvano:
“Visto che l’istruzione è normalmente risultato dell’insegnamento, la libertà dell’una richiederebbe come condizione necessaria la libertà dell’altra”
E ancora, Giampaolo Fontana:
«Quanto un sistema efficace di istruzione dipenda dalle capacità e dalle qualità degli insegnanti è sin troppo ovvio [..] Mai abbastanza viene, tuttavia, ricordato che la libertà di insegnamento è componente indefettibile per un buon insegnante, il quale riuscirà ad essere e a comportarsi come tale solo se messo in condizione di corrispondere liberamente e pienamente ai propri convincimenti metodologici e comunicativI”
Difficile essere un buon insegnante, se non si è un insegnante libero.
Ma cosa significa essere liberi di insegnare, oggi?
Dall’autonomia scolastica in avanti la libertà di insegnamento ha subito una progressiva e costante compressione, operata attraverso condizionamenti e ostacoli imposti dall’interno stesso dell’istituzione scolastica. Una catena di interventi normativi secondari o amministrativi, sempre più minuziosi e invasivi. I Piani Nazionali: digitale o di formazione, oggi su metodologie specifiche; le Linee guida: della didattica digitale o dell’educazione civica, solo per citare le più recenti; i Sillabi: imprenditorialità, filosofia, educazione civica digitale..; i nuovi obblighi: quelli imposti dall’ Alternanza Scuola Lavoro (ora PCTO) , da svolgersi incredibilmente, anche in piena pandemia, o quelli imposti dal Sistema Nazionale di Valutazione, con tutto il corredo di test standard da somministrare e Rapporti da compilare. Tali interventi hanno progressivamente ridimensionato la libertà individuale, esaltandone l’aspetto “comunitario” in nome di un distorto principio di collegialità, che si traduce nei fatti in un moltiplicarsi di comportamenti subordinati e omologanti. Un ridimensionamento auspicato da più fronti: dall’Associazione Nazionale Presidi, ad esempio, – che da tempo invoca anche una differenziazione delle carriere docenti, in funzione del grado di adesione alle scelte del capo; oppure prefigurato da alcune prese di posizione della primavera scorsa. Non dimentichiamo l’esortazione a “Lavorare e stare zitti“, che un ristretto gruppo di dirigenti scolastici [1] rivolgeva alle scuole alle prese con la didattica a distanza in piena fase di emergenza.
Dunque, tornando alla domanda iniziale: cosa significa essere liberi di insegnare, oggi?
Se ci sono tecniche e metodologie preferenziali, se la formazione è organizzata di conseguenza, se la valutazione del singolo è subordinata al controllo di qualità INVALSI, se le piattaforme digitali da usare sono decise a monte, di libertà ne rimane ben poca.
A questa considerazione, si aggiunge la condizione di assoluta frammentazione e disomogeneità della geografia scolastica in piena crisi sanitaria: con regioni in cui le scuole operano interamente a distanza, in altre parzialmente; con pressioni gerarchiche (e politiche) dei vari Uffici Scolastici Regionali del ministero che si traducono – attraverso l’obbedienza dei dirigenti scolastici e l’avallo dei sindacati – in condizioni di lavoro fortemente diseguali da territorio a territorio.
Oggi, costernati, abbiamo dinanzi lo spettro di ciò che diventerà l’istruzione nel nostro paese se quell’ ipotesi di autonomia differenziata mai abbandonata, anzi ora “utile e pronta per l’uso“, dovesse trovare compimento.
In un simile scenario, parlare della libertà proclamata dal nostro art. 33 sembrerà definitivamente Passato.
[1] La prima firmataria del documento a cui ci riferiamo, incredibilmente ripreso dal sito dell’INDIRE, dirigente scolastica lombarda, è stata poi nominata dalla ministra Azzolina a far parte della Commissione presieduta dal prof. Patrizio Bianchi chiamata a “formulare e presentare idee e proposte per la scuola con riferimento all’emergenza sanitaria”.
“L’insegnamento è il più frustrante dei mestieri moderni” – intervista ad Alessandro Barbero
Gli insegnanti oggi sono una vera e propria categoria “sotto attacco”, da cosa crede che dipenda questo radicale cambiamento nei confronti di una classe che fino a dieci anni fa, era stimata e rispettata?
Intanto, io direi non dieci, ma venti o venticinque anni fa: l’aggressione è cominciata allora. Le cause sono: a livello immediato, la svolta a destra della politica italiana. Questo ha comportato l’antipatia evidente di molti governi nei confronti di un mondo, quello degli insegnanti, tradizionalmente considerato di sinistra. Ma più in profondità, e in modo più insidioso, la svolta a destra dell’intero mondo occidentale, l’ideologia unica del profitto, l’esaltazione dell’imprenditoria come sale della terra. Ne risulta una classe dirigente che non capisce letteralmente più a che cosa servano la cultura, l’insegnamento, lo spirito critico. Quando lo capisce, li considera dei pericoli da neutralizzare. La recente introduzione dell’alternanza scuola-lavoro è un passo importante nella distruzione del diritto allo studio per cui generazioni hanno combattuto: passare l’intera infanzia e adolescenza a scuola, senza essere obbligati a lavorare, non è più un diritto né un ideale, ma viene presentato come un lusso o una perdita di tempo, che allontana dal cosiddetto mondo reale. La scuola non deve produrre teste pensanti, ma esecutori, tecnici: è solo in questi termini che la classe dirigente riesce a concepirla.
L’insegnamento oggi, sia in ambito scolastico che universitario, significa doversi costantemente aggiornare. Crede che sia più complesso essere al passo con i tempi nella scuola o negli atenei?
E’ certamente molto più complesso nella scuola. La scuola è stata aggredita molto prima dalla nuova cultura della pianificazione, dell’offerta formativa, delle sigle ridicole, della burocrazia kafkiana e della perdita di tempo istituzionalizzata; l’università sta subendo questa aggressione solo adesso (senza, peraltro, aver imparato niente da quello che è successo alla scuola). Ma all’università c’è comunque una maggiore autonomia del docente, che se ha già fatto carriera, o se rinuncia a farla, può difendersi meglio dall’immensa mole di perdite di tempo e frustrazioni che schiaccia gli insegnanti.
Burnout. Come crede che si debba intervenire?
Io non ho nessuna idea su come si possa fare per combattere il fenomeno del burnout. O meglio, so benissimo che verrebbe ridotto drasticamente se gli insegnanti fossero assunti regolarmente, pagati bene e lasciati lavorare in pace. Siccome queste appaiono oggi condizioni da favola, del tutto irrealizzabili, e fare l’insegnamento non è più soltanto uno dei lavori più faticosi del mondo, come è sempre stato, ma anche uno dei più frustranti (cosa che non era fino a vent’anni fa) il dilagare del burnout è inevitabile. Prenderne atto sarebbe già molto.
Se potesse dare un consiglio alla classe docente di oggi, cosa indicherebbe?
Cominciare a combattere apertamente tutto ciò che in cuor loro riconoscono come offensivo, inutile, frustrante, senza avere il coraggio di dirlo. Non compilare le scartoffie superflue, non andare alle riunioni che fanno perdere tempo, togliere il saluto a chi parla di meritocrazia. Isolare nel disprezzo i dirigenti scolastici che si prestano alla distruzione della scuola e all’umiliazione degli insegnanti; e queste cose dirle e spiegarle ai ragazzi e alle loro famiglie. L’insegnamento non può morire. E’ una battaglia e le battaglie si rischia di perderle, ma quando è il momento bisogna comunque combatterle – o arrendersi.
Eduscopio e Fondazione Agnelli: classificare e competere, sempre - Marco Romito
In un’ Italia investita dalle conseguenze devastanti della pandemia, la scuola ha improvvisamente fatto irruzione nel dibattito pubblico mostrandosi in tutte le sue tensioni e contraddizioni strutturali. La chiusura delle istituzioni educative, la necessità di implementare una didattica da remoto e quella di dover necessariamente re-immaginare le modalità di ‘fare scuola’, stanno imponendo un momento di riflessione generalizzato sul significato dell’istruzione pubblica. Tra le famiglie, gli studenti, gli insegnanti si sta facendo strada la percezione della necessità di rimettere al centro il principio dell’eguaglianza delle opportunità educative. Le enormi disparità nel far fronte alle sfide poste dall’emergenza Covid-19, stanno facendo emergere la consapevolezza dell’importanza di politiche capaci di proteggere la scuola dalle logiche privatistiche e di mercato che tendono a esacerbare le differenze tra le istituzioni scolastiche. Ci si è accorti che nel ‘fare scuola’ c’è qualcosa che non può essere catturato dai test di competenza e dagli indicatori di qualità e che va tutelato, protetto, in quanto bene pubblico. In questo contesto, in misura maggiore rispetto agli anni passati, appare oltre ogni misura dissonante la riproposizione della classifica delle scuole italiane stilata dalla Fondazione Giovanni Agnelli attraverso il portale Eduscopio e ripresa, come ogni anno, dai principali giornali. Come riflettevo alcuni anni fa nell’intervento che ROARS ha voluto qui riproporre, Eduscopio presenta enormi problemi di carattere metodologico e corre il rischio di diventare uno strumento in grado di amplificare le già rilevanti disparità tra scuole e tra studenti. Ma Eduscopio è a mio avviso anche e soprattutto un oggetto culturale. Un oggetto che crea un discorso attorno alla scuola sia attraverso i significati incorporati nella sua logica di funzionamento, sia attraverso gli usi che ne fanno le famiglie, gli studenti e, non da ultimo, il sistema mediatico. Eduscopio trasforma la scuola in un grande torneo sportivo che i commentatori possono raccontare attraverso il suo specifico linguaggio incentrato sulla competizione: gli ‘exploit”, le “conferme”, le “standing ovation”, le “sorprese”. Questa è l’idea di scuola che è inscritta in questo strumento e in tutto ciò che gli si muove attorno. Qual è l’idea di scuola che vogliamo immaginare per il post-pandemia?
Riproponiamo un articolo pubblicato da Lavoroculturale di Marco Romito, scritto alla vigilia delle iscrizioni scolastiche del 2018, ma ancora attualissimo.
Entro la fine della giornata chiunque abbia un figlio o una figlia iscritti all’ultimo anno della scuola media, dovrà effettuare l’iscrizione a una scuola superiore. Si tratta di un momento nei percorsi scolastici di migliaia di ragazzi e ragazze spesso enfatizzato, caricato di significati fatali e fatalistici, del quale tuttavia non vengono quasi mai approfondite e indagate le motivazioni. Cosa sappiamo di come viene effettuata la scelta della scuola superiore?
Sappiamo che la scelta della scuola superiore condiziona la qualità dell’esperienza scolastica, culturale e relazionale dei ragazzi e delle ragazze, le probabilità di abbandono scolastico, le probabilità di accesso al mondo universitario, quelle di conseguire una laurea, il tipo di carriera occupazionale a cui si potrà avere accesso[1]. Sappiamo, inoltre, che il mondo delle scuole superiori è un mondo frammentato in cui alle più evidenti e profonde differenziazioni legate alla distinzione tra filiera liceale, tecnica e professionale, si sovrappone una stratificazione interna a ciascuna filiera e che, come la precedente, è anch’essa una stratificazione di classe[2].
Come in altri paesi, le divisioni sociali si inscrivono nei territori, nelle connotazioni sociali dei luoghi, dei quartieri di residenza, dei comuni, dei piccoli centri; cosicché le scuole rispecchiano in parte la composizione sociale dei territori in cui sono insediate. In parte. Poiché dove questi fenomeni sono stati studiati in modo approfondito dalla ricerca sociale, si è visto che le scuole si caratterizzano per un’omogeneità di classe che è ancor più rilevante di quella che è possibile individuare a livello territoriale[3]. Dove non arriva l’ecologia urbana, la struttura stratificata e diseguale delle città, i processi di segregazione sociale a livello scolastico vengono accelerati e rafforzati dalle scelte delle famiglie. Queste ultime, lo sappiamo da innumerevoli studi[4], si fanno guidare da criteri di affinità culturale e sociale. Quando si tratta di scegliere a quale scuola iscrivere i loro figli tendono dunque a innescare processi che amplificano la segregazione sociale a livello scolastico.
Un esito rilevante dei meccanismi di segregazione sociale a livello di scuola superiore può essere rappresentato dalla variabilità di alcuni risultati ottenuti dagli studenti dopo aver conseguito il diploma. Per quanto riguarda il ramo liceale, il tasso di prosecuzione e i risultati universitari vengono considerati generalmente di grande interesse.
Ma perché i risultati universitari degli studenti ci dicono qualcosa sulla segregazione sociale e scolastica? Non sono invece un semplice indice della qualità formativa di ogni singola scuola?
Il ragionamento può essere ripercorso in estrema sintesi nel modo seguente:
1) le origini sociali, il ceto o la classe sociale, che dir si voglia, hanno un legame molto forte con la probabilità di iscriversi all’università, con la rapidità degli studi e con i risultati ottenuti[5];
2) le carriere educative non sono determinate solo dalla singola volontà, impegno, intelligenza del singolo, ma sono l’esito di processi di costruzione sociale in cui i gruppi dei pari e la cultura orientativa di ciascun contesto formativo hanno un peso importantissimo[6];
3) la segregazione sociale a livello di scuola superiore produce una situazione nella quale i gruppi dei pari e la cultura orientativa di ciascuna scuola amplificano l’effetto delle origini sociali sulle carriere educative degli studenti[7].
La combinazione di questi tre elementi darà come risultato la possibilità, per ogni scuola, di fregiarsi di un vessillo di merito o demerito (come gli outcomes universitari dei suoi studenti), che in realtà è l’esito dei meccanismi sociali (e di classe) che l’anno prodotto.
La Fondazione Giovanni Agnelli a novembre 2016 ha aggiornato il portale Eduscopio. Attraverso l’utilizzo di una serie di indicatori relativi alle carriere universitarie o lavorative dei diplomati, Eduscopio assegna dei punteggi a ciascuna scuola superiore della penisola: “Eduscopio: Confronto, scelgo, studio”. Il progetto, si esplicita sul portale, è quello di fornire a studenti e famiglie un indice semplice per trarre delle “indicazioni di qualità sull’offerta formativa delle scuole”.
Il portale non permette confronti tra scuole che appartengono a filiere formative differenti. Confrontare gli esiti universitari degli studenti di un liceo classico con quelli degli studenti di un istituto tecnico non avrebbe naturalmente molto senso perché si assume che ciascuno specifico indirizzo abbia una vocazione orientativa differente. Si possono invece confrontare tra loro, ad esempio, tutti i licei scientifici (o classici, o delle scienze umane, o artistici, ecc.) entro un raggio di massimo 30 km da un comune scelto dall’utente oppure da un punto definito attraverso una funzione di geolocalizzazione. L’esito dell’interrogazione è una classifica, un ranking, una graduatoria, definita a partire da un indice che mette assieme la media dei voti e dei crediti ottenuti dagli studenti che si sono diplomati in ciascuna delle scuole individuate per lo specifico indirizzo scelto dall’utente.
C’è qualcosa che non va in tutto questo? Il portale è accessibile a tutti e fornisce a tutti, dunque, informazioni rilevanti sugli esiti universitari e occupazionali dei diplomati. Informazioni a cui probabilmente molte famiglie possono essere interessate e che potrebbero orientarle nel fare delle scelte adeguatamente informate. Si potrebbe anche aggiungere che il portale ha il pregio di rendere visibili alcuni dati che altrimenti circolerebbero solo all’interno di specifiche cerchie di genitori, cerchie che è facile immaginare siano fortemente connotate dal ceto sociale. Mi ripeto dunque, dov’è allora il problema?
Il primo problema è di ordine metodologico, e direi anche deontologico. Chi ha costruito Eduscopio non può non sapere che le classifiche prodotte possono dire molto poco sulle “basi formative”, sulla “bontà del metodo di studio” e sulla “utilità dei suggerimenti orientativi” acquisiti dagli studenti nelle scuole di provenienza. E non possono dire nulla sulla qualità specificatamente scolastica o didattica, o pedagogica, o orientativa delle scuole poiché questo ranking non tiene conto di una variabile centrale nel definire gli esiti universitari, ovvero delle origini sociali degli studenti.
Non possiamo dire dunque se il liceo scientifico Umberto I, sia la scuola migliore nella città di Torino per via delle sue specifiche qualità didattiche o per via delle specifiche qualità sociali degli studenti che la frequentano.
Dal punto di vista delle famiglie, poi, il problema è anche un altro, vale per tutte le classifiche di questo tipo, e rimanda al loro reale contenuto informativo. L’indicatore che definisce la posizione in classifica di ogni scuola è una media. Questa media, per definizione, ci fornisce delle informazioni che possono essere accurate in riferimento allo studente medio di ciascuna scuola. Se lo studente medio del liceo scientifico Umberto I di Torino è figlio di genitori laureati, qual è il contenuto informativo di questa media per un figlio di genitori analfabeti? Se la media dei voti universitari ottenuti da ex-studenti (figli di laureati) dell’Umberto I è di 27,5, è possibile assumere che questo valore medio possa avere un contenuto informativo utile anche per un figlio di genitori analfabeti? La risposta è: naturalmente no. Insomma Eduscopio fornisce un indicatore che misura una cosa per un’altra e inganna le famiglie omettendo di evidenziare i limiti intrinsechi nello strumento.
Il secondo problema di Eduscopio, a mio avviso ancor più rilevante del precedente, è invece di ordine politico e rimanda alle considerazioni fatte in premessa. Provate a digitare “Eduscopio” su un motore di ricerca e avrete una chiara percezione dei risultati a cui porta la sempre crescente ossessione per il ranking. Scuole che si fregiano del titolo di prime in classifica, giornalisti di importanti testate nazionali che riportano le pagelle città per città, e così via. Poco importa se spesso la differenza tra un posto in classifica e un altro sia determinata da uno zero virgola nella media dei voti d’esame ottenuti dagli studenti.
Ora, ciò che vorrei sottolineare è che questa ossessione per la classifica, anche quando non è in grado di fornire informazioni realmente utili per operare una distinzione tra gli oggetti classificati, è il segnale più evidente della prorompente crescita della competizione scolastica. Competizione tra scuole, che vogliono (se ci riescono) attrarre gli studenti “migliori”: quelli che consentiranno loro di primeggiare nelle classifiche e che, ricordiamolo, generalmente non sono quelli che provengono da contesti familiari più problematici, poveri e poco istruiti. Ma anche competizione tra famiglie, sempre più disposte a spendere tempo ed energie per offrire ai loro figli il meglio dell’esperienza scolastica e sociale anche al costo di far percorrere loro qualche chilometro in più ogni mattina.
In questo quadro altamente competitivo e in assenza di misure correttive in grado di controbilanciare il libero gioco degli attori in campo, è naturale che chi parta da posizioni di vantaggio tenda a rafforzarle[8]. Così, la competizione esaspera i processi di segregazione e dunque le disuguaglianze tra scuole anche all’interno della medesima filiera formativa. E la Fondazione Giovanni Agnelli, con la produzione dell’ennesima classifica, sceglie di entrare a gamba tesa in questa arena. Eduscopio è un’arma posata sul campo di battaglia, un’arma potente perché semplice, intuitiva e facile da usare, che consente agli attori in competizione di lottare con più efficacia; è un acceleratore di meccanismi competitivi già in atto che possono facilmente portare a una situazione di crescente frammentazione e disuguaglianza dell’offerta formativa.
Infatti, quando si tratta di scegliere una scuola, la capacità di reperire, immagazzinare, manipolare e usare le informazioni è fortemente influenzata dai contesti socio-culturali delle famiglie. In primo luogo possiamo dunque immaginare che le scuole “migliori” di Eduscopio inizieranno sempre più ad essere l’oggetto dei desideri di famiglie istruite e capaci di dedicare tempo ed energie per guidare i loro figli nella transizione verso la scuola superiore. In secondo luogo, queste scuole, dovranno iniziare a gestire una pressione crescente definendo barriere e criteri di selezione sulla cui equità occorrerebbe indagare in modo estremamente approfondito.
Ciò a cui si sta assistendo è peraltro un processo già pienamente sviluppatosi in paesi che hanno anticipato il nostro nell’implementazione di meccanismi di mercato nel governo del campo scolastico[9]. Questi meccanismi, assieme ai ranking che sollecitano la ricerca dell’eccellenza e la spinta competitiva, irrobustiscono le posizioni di forza e accrescono le divisioni sociali che attraversano il mondo della scuola. La crescente spinta competitiva alimenta processi che surrettiziamente tendono ad accrescere la chiusura sociale (e di classe) di alcune scuole e a distinguerle dalle altre – per il tipo di esperienza sociale, culturale, relazionale, e conseguentemente didattica – creando, anche all’interno delle medesime filiere formative, dei circuiti scolastici di serie A, di serie B, di serie C e così via.
[1] Sulla dispersione nella scuola secondaria si veda il Dossier Dispersione di Tutto Scuola, liberamente scaricabile da tuttoscuola; relativamente all’impatto della scelta della scuola superiore sugli esiti universitari e occupazionali si può vedere Ballarino e Checchi (a cura di), Sistema scolastico e disuguaglianza sociale. Scelte individuali e vincoli strutturali, Bologna: Il Mulino, 2006.
[2] Su questo si veda ad esempio la ricerca di Pitzalis, Effetti di campo. Spazio scolastico e riproduzione delle disuguaglianze, «Scuola Democratica», vol. 6, 2012.
[3] Oberti, M. (2007). L’école dans la ville, Paris: SciencesPo, les presses.
[4] Roda, A., & Wells, A. S. (2013), School Choice Policies and Racial Segregation: Where White Parents Good Intentions, Anxiety, and Privilege Collide, «American Journal of Education», 119(2), 261–293.
[5] Trivellato, P., & Triventi, M. (2008), Le onde lunghe dell’università italiana. Partecipazione e risultati accademici degli studenti nel Novecento, «Polis», 22(1), 85–116.
[6] Smyth, E., & Banks, J. (2012). “There was never really any question of anything else”: young people’s agency, institutional habitus and the transition to higher education, «British Journal of Sociology of Education», 33 (2), 263–281.
[7] Reay, D., David, M. E., & Ball, S. J. (2005), Degrees of Choice: Class, Race, Gender and Higher Education. Trentham Books; Roksa, J., & Robinson, K. J. (2016), Cultural capital and habitus in context: the importance of high school college-going culture, «British Journal of Sociology of Education», 1–14.
[8] Fiel, J. (2015), Closing Ranks: Closure, Status Competition, and School Segregation, «American Journal of Sociology», 121(1), 126-170.
[9] Reay, D. (2004), Exclusivity, Exclusion, and Social Class in Urban Education Markets in the United Kingdom, «Urban Education», 39(5), 537–560.
Per il futuro della scuola, Stati Generali dal basso - Matteo Saudino
Come era prevedibile la scuola non ha retto alla seconda durissima ondata autunnale di Covid-19. Nonostante i distanziamenti fisici, le mascherine, gli orari di ingresso e di uscita differenziati, i banchi con le rotelle e i flaconi di igienizzante dislocati ovunque, dalle aule ai corridoi, il nuovo lockdown all’italiana, quello del semaforo regionale rosso, arancione e giallo, ha travolto le scuole italiane. Le superiori di secondo grado sono tornate ovunque alla didattica in remoto, le scuole medie, con l’eccezione delle classi prime, sono in modalità on line in quasi tutta Italia, mentre rimangono aperte in molte regioni le scuole primarie e le scuole dell’infanzia. E vista la crescita dei contagi, chissà per quanto poco tempo ancora.
Troppo si è tagliato e poco o nulla si è investito negli ultimi decenni per la qualità e sicurezza del sistema scolastico italiano: una scuola così depauperata non era oggettivamente in grado di contrastare o perlomeno limitare l’impatto di una pandemia virale così aggressiva. L’eccezionale violenza del Covid ha infatti messo a nudo il re, smascherando le mancanze strutturali del sistema scolastico italiano: dagli edifici angusti ai trasporti per studenti inadeguati, dal reclutamento del personale al numero di allievi per classe. Per ridurre i contagi e i malati, alla fine, è stato necessario chiudere gran parte degli istituti e rifugiarsi nella didattica a distanza.
Il secondo lockdown, atteso ma sottovalutato, ha generato la fondata convinzione e la legittima paura che tale situazione possa durare molto a lungo e soprattutto che in futuro altre pandemie possano ripetersi con maggiore frequenza. Il tempo dell’andrà tutto bene appartiene ormai al passato remoto. E ciò pone le comunità politiche di fronte a un tragico dilemma, che non dovrebbe sussistere in una democrazia avanzata: dover scegliere tra il diritto allo studio e il diritto alla salute, oppure tra il diritto al lavoro e al diritto alla salute. Detto che quest’ultima è il bene primario, è altrettanto evidente che tali bivi sono dei veri e propri ricatti soprattutto per le classi sociali economicamente più deboli e per le nazioni più povere. Il rischio concreto è di finire in un labirinto da cui non si riesce a uscire.
Cosa si poteva fare per la scuola e non si è fatto, sia negli anni precedenti sia in questi mesi estivi, vissuti con immotivato ottimismo, va certamente ricordato con forza e lucidità critica, ma ormai rappresenta un passato immodificabile. La drammatica e distopica realtà in cui siamo precipitati richiede di elaborare delle soluzioni che ridiano slancio e forza vitale a un sistema scolastico sempre più in crisi di identità, in cui il diritto alla studio rischia di naufragare e con esso quelle poche speranze di mobilità e riscossa sociale e di genere che passano attraverso l’istruzione pubblica. Per questo la domanda politica impellente diventa oggi più che mai: e ora cosa fare? Ecco alcune proposte e riflessioni per continuare a discutere e agire.
Innanzitutto dobbiamo prendere atto che la scuola a distanza (tralasciando l’ipocrisia dell’aggettivo integrata – integrata a che cosa?) ha ben poco a che fare con una scuola democratica. Essa, infatti, riduce i processi di inclusione, aumenta le disparità tra ricchi e poveri, acuisce il disagio di chi vive in famiglie attraversate da problemi e marginalizza chi è culturalmente più debole. Inoltre, accresce la passività degli studenti, crea assuefazione tecnologica, muta ancor più il docente in un compilatore di form e in un somministratore di materiali digitali e test, oltre a trasformare le scuole in luoghi in cui le grandi multinazionali globali dell’high tech realizzano ingenti profitti, vendendo contratti e accumulando dati, nonostante i regolamenti sulla privacy.
Certamente se oggi non avessimo questo strumento la situazione sarebbe peggiore, ma quello che si profila all’orizzonte è uno scenario ricco di grigie nubi cariche di pioggia. La didattica a distanza sta aiutando i sistemi di istruzione in un momento di emergenza, ma il rischio di trasformarla, in un futuro prossimo al presente, da una modalità didattica extra-ordinaria o da una risorsa per ampliare e arricchire l’offerta formativa a una pratica didattica sempre più ordinaria per supplire alle carenze croniche della scuola o per ridurre la partecipazione democratica è reale ed estremamente pericoloso. Perché un conto è fare una riunione di dipartimento attraverso una call, un altro è fare a distanza un collegio docenti, organo in cui si misura la vita democratica di una scuola e in cui è fondamentale avere tempi e spazi per poter discutere, confrontarsi e decidere. Incontrarsi on line per incontri di lavoro o di studio quando si è a centinaia o migliaia di km di distanza rappresenta un oggettivo miglioramento delle opportunità e condizioni lavorative e di studio, ma cosa ben diversa è costruire un percorso educativo e formativo in una classe virtuale, in assenza o quasi di empatia, di sguardi, di emozioni e di relazione, composta da bambini e adolescenti. Il punto di partenza, per il presente e per il futuro, deve pertanto essere la centralità della scuola come luogo fisico di crescita umana, culturale e sociale. La scuola, in un mondo in cui tutto è privato e mercificato, è un bene pubblico e politico essenziale da difendere con le unghie e con i denti in quanto rappresenta uno degli ultimi spazi in cui provare a trasformare i principi costituzionali di uguaglianza, solidarietà ed emancipazione da dichiarazioni formali a pratiche sostanziali e condizioni reali. La scuola in remoto è un non luogo anonimo, un luogo in cui soprattutto le allieve e gli allievi più giovani rischiano di cadere nell’apatia, senza poter sviluppare le molte intelligenze di cui sono potenzialmente dotati. La didattica a distanza non è certamente il principale dei problemi, ma non è neanche la soluzione per il futuro della scuola.
Inoltre, il secondo lockdown ha evidenziato ancor di più, come se ve ne fosse bisogno, l’inadeguatezza di gran parte della classe politica italiana, divisa su tutto, incapace di dialogare, di prendere decisioni con unità di intenti e soprattutto di immaginare un progetto complessivo di società giusta da provare a costruire. Governo rissoso e confuso, opposizione demagogicamente urlatrice e in permanente campagna elettorale, presidenti di regione smaniosi di visibilità mediatica e in polemica con tutto e tutti, Confindustria che vuole approfittare della crisi per abbassare ancora di più il costo del lavoro e dunque i salari, dirigenti pubblici incompetenti che pensano alla loro carriera, imprenditori e politici che speculano o addirittura prendono tangenti per materiali sanitari, medici e infermieri lasciati da soli, cinema, teatri e cultura in grandissima sofferenza: siamo di fronte a un quadro desolante, in cui la scuola sembra abbandonata al proprio triste destino, sempre in bilico tra essere un inutile parcheggio o un’arida azienda privatizzata. Ciò rende indispensabile uscire dal torpore e dare vita a una grande mobilitazione della parte più sana e lungimirante della società civile a sostegno di un profondo rinnovamento dell’istruzione pubblica. Basta lamentarsi. Bisogna chiedere a gran voce ingenti investimenti e progetti per edifici, laboratori, mense, aree verdi, palestre, aule e supporti informatici. La scuola è lo scheletro di una società; se lo scheletro è sano e robusto la società tutta sarà più sana e robusta.
Infine, è giunta l’ora di organizzare dal basso gli Stati generali della Scuola, in cui gettare le basi di una riforma e di un potenziamento del sistema di istruzione nazionale, che sia in grado di garantire il diritto allo studio anche in una società sempre più liquida, spaventata e fragile. Urge gettare le basi per una scuola che sappia vivere e prosperare anche in presenza di crisi sanitarie. Il coronavirus è una campana che suona per tutti coloro che hanno a cuore la sopravvivenza della scuola pubblica democratica nei fatti, dopo decenni di tagli economici e umiliazioni politiche. Ma non è e non sarà facile. La crisi del Covid, infatti, lungi dal produrre solidarietà sociale e una visione alta di riformismo politico progressista, sta alimentando frammentazioni, individualismo, cinismo e lotte di tutti contro tutti: tra ricchi per diventare ancora più ricchi, tra poveri per sopravvivere e soprattutto dei ricchi contro i poveri per continuare a rimanere ricchi, attraverso l’accumulo di profitto, l’accentramento del potere e la marginalizzazione dei più deboli. In questa prospettiva la scuola non è percepita come un luogo aggregante e di crescita individuale e collettiva, bensì è letta e vissuta come l’ennesima questione privata che riguarda le singole vite, la singole giornate e i singoli interessi. Così non vi è futuro per la scuola.
Per uscire da questa situazione bisogna contrapporre alla scuola dei tanti individualismi una scuola pubblica intesa come comunità educante, come luogo di uguaglianza di diritti e doveri, di crescita nella differenza e nel rispetto reciproco. Gli Stati generali dal basso dovranno essere aperti e plurali e dovranno coinvolgere rappresentanti di insegnanti, di studenti, di presidi, di personale tecnico-amministrativo, di genitori, del mondo universitario scientifico e umanistico e della cultura. L’obiettivo deve essere quello di pensare e immaginare la scuola italiana per i prossimi vent’anni: programmi, didattica, metodologie, processi decisionali, spazi, valutazione, formazione e reclutamento dei docenti, edifici, borse di studio, aperture delle scuole al pomeriggio, protagonismo studentesco, raccordo tra i vari gradi di istruzione. Occorre aprire un dibattito nazionale che non sia il solito teatrino convocato dai vertici ministeriali. Per far questo servono però uomini e donne di buona volontà dotati di una visione di mondo che non sia solo amministrare l’esistente, senza prendere rischi, nella più grigia obbedienza a regole che stanno trasformando la scuola in luogo senza anima, in uno spazio di emozioni tristi e di dittatura della burocrazia degna del Processo di Kafka o di Brazil di Terry Gilliam. Attiviamoci.
Insegnare il pensiero critico è possibile, fin dalla scuola primaria - Camilla Alderighi, Raffaele Rasoini
Il progetto Informed Health Choices ha lo scopo di trasmettere alle persone, fin dalla giovanissima età, la capacità di filtrare in modo critico e consapevole i contenuti scientifici che riguardano la salute. Le risorse sviluppate sono state applicate, nell'ambito di un progetto pilota, anche in Italia e, in un incontro online organizzato dall'Associazione Alessandro Liberati, si discuteranno le possibili ipotesi per una sua diffusione sistematica nelle scuole italiane. L'incontro verrà trasmesso in diretta anche su Scienza in rete il 25 novembre dalle 17:00 alle 19:00.
«Un ricercatore ha studiato un nuovo farmaco contro la malattia Covid-19. Ha selezionato 26 persone affette dalla malattia e ha somministrato loro il nuovo farmaco. Altre 16 persone con la malattia ricoverate in vari ospedali della zona non hanno ricevuto il farmaco. Dopo pochi giorni ha osservato che circa il 70% delle persone che hanno ricevuto il nuovo farmaco stavano meglio rispetto al 12,5% di coloro che non l’avevano ricevuto. Cosa potresti dire su questo studio?»
«Direi che non sembra un giusto confronto perché: 1) le persone sapevano che stavano assumendo un nuovo farmaco e questo poteva influenzare il modo in cui si sentivano. 2) Non c’è un vero gruppo di controllo (altre 26 persone con caratteristiche simili al primo gruppo). 3) Il confronto è troppo piccolo, hanno partecipato troppe poche persone».
Quelle sopra sono rispettivamente una delle domande finali di un progetto sulla salute poste ai bambini di una classe quinta elementare a Firenze, e la risposta di Giacomo, 10 anni, uno dei bambini partecipanti. Il progetto si chiama Informed Health Choices ed è stato sviluppato, a partire dal 2013, grazie a un finanziamento da parte del Consiglio di Ricerca norvegese. Lo scopo di questo progetto è quello di trasmettere alle persone, fin dalla giovanissima età, la capacità di filtrare in modo critico e consapevole, in una parola informato, i contenuti scientifici che riguardano la salute.
Sappiamo bene – e la pandemia da SARS-CoV-2 ha certamente rafforzato questa consapevolezza – come non sempre possiamo contare su affermazioni sulla salute (diffuse da media, giornali o riviste scientifiche, ma anche da siti web, social network, blog) che siano basate su contenuti scientifici corretti: anzi, per quanto siamo raggiunti quotidianamente da informazioni sulla salute, molte di queste risultano in ultima analisi essere scorrette, false e persino fuorvianti. Da un’indagine sull’alfabetizzazione sanitaria europea sappiamo inoltre che, in media, il 47% della popolazione adulta europea ha un’alfabetizzazione sui contenuti di salute problematica o insufficiente, e questa percentuale sale al 54% se consideriamo l’Italia.
Purtroppo, alcune ricerche sottolineano come non sia semplice veicolare agli adulti questa alfabetizzazione, in considerazione dei pregiudizi, mis-concetti e narrative consolidate che li caratterizzano. Allo stesso tempo, alcuni studi hanno invece dimostrato come sia possibile insegnare ai bambini le basi del pensiero critico fin dalla scuola primaria. Peraltro, questo tipo di obiettivo è ormai inserito nei curricula formativi di molte scuole nel mondo, inclusa quella italiana. I bambini sono più aperti e flessibili rispetto agli adulti riguardo all’apprendimento di nuovi concetti, soprattutto di nuove metodologie, e rappresentano quindi soggetti ideali per questo tipo di insegnamento.
I fondatori del progetto Informed Health Choices, medici ma anche insegnanti, designer, giornalisti, esperti di salute pubblica, sono partiti da questo presupposto per costituire un gruppo internazionale (dalla Norvegia si è esteso a 26 Paesi nel mondo) e multidisciplinare con l’obiettivo di verificare se veramente fosse possibile insegnare il pensiero critico sui trattamenti per la salute ai bambini della scuola primaria. Il loro presupposto è che, per prendere buone decisioni sulla salute, non è necessario essere un medico o uno scienziato, ma è sufficiente la conoscenza di alcuni “concetti chiave”.
Il primo passo del gruppo è stato quindi quello di elaborare una serie di concetti chiave che servissero come una mappa concettuale. Tali concetti sono stati rivisti e ampliati attraverso un processo di feedback iterativo e trasparente da parte di tutti i membri del gruppo: attualmente i concetti chiave sono 49, e quelli scelti poiché adeguati a essere veicolati ai bambini della scuola primaria sono 12. I concetti sono stati suddivisi a seconda dell’appartenenza a tre aree tematiche fondamentali (affermazioni, evidenze e decisioni) che coincidono con le tre aree di competenza che il progetto vuole stimolare:
Come valutare se un’affermazione sui trattamenti di salute è o meno affidabile
- Come i ricercatori sulla salute studiano i trattamenti
- Come prendere decisioni informate sulla propria salute
Sulla base dei 12 concetti chiave, i ricercatori hanno elaborato un libro di testo (The Health Choices Book, Trad. italiana Il Libro delle Decisioni sulla Salute) che è la storia a fumetti di due bambini, John e Julie, ricca di esempi realistici, un libro degli esercizi per la verifica passo dopo passo dei concetti appresi, una guida per gli insegnanti (in corso di traduzione in italiano) e un questionario finale con domande a risposta multipla con l’obiettivo di valutare l’acquisizione delle tre competenze e quindi dei concetti chiave.
Tuttavia, i ricercatori del gruppo Informed Health Choices non si sono fermati qui. Essi erano ben consapevoli che, senza un vero e proprio studio scientifico, la loro affermazione “è possibile insegnare ai bambini della scuola primaria il pensiero critico sui concetti di salute” sarebbe rimasta non verificata nella pratica. Hanno quindi messo in pratica quello che insegnano ai bambini: per affermare che un trattamento funziona, i ricercatori della salute devono valutarlo attraverso un “giusto confronto”.
In Uganda, Paese con un basso livello di alfabetizzazione sanitaria, hanno quindi selezionato 120 scuole, per un totale di più di 10.000 bambini dai 10 ai 12 anni, e li hanno divisi in due gruppi di 60 scuole. In un gruppo sono state svolte nove lezioni sull’apprendimento dei concetti chiave mediante le risorse didattiche tra cui il libro-fumetto, nell’altro gruppo queste lezioni non sono state svolte. Alla fine, a entrambi i gruppi è stato somministrato il questionario di verifica: i risultati dello studio sono stati pubblicati nel 2017 sulla rivista Lancet e hanno dimostrato che i bambini a cui sono state veicolate le lezioni sono risultati nettamente più orientati nell’ambito dei concetti sulla salute, più in grado di esercitare un filtro critico dei contenuti inaffidabili e più in grado di prendere decisioni informate sulla propria salute.
Da allora, le risorse didattiche del progetto sono state tradotte e diffuse in molti paesi. In alcuni, come la Norvegia, il progetto è entrato a far parte del curriculum formativo della scuola primaria. Anche in Italia, alcuni gruppi di ricerca, come il Dipartimento di Epidemiologia della Regione Lazio, il Dipartimento di Ricerca per la Salute Pubblica, Istituto Mario Negri, e il Centro Cochrane Italiano lavorano da tempo alle risorse didattiche del progetto Informed Health Choices.
È stato richiesto un finanziamento nell'ambito di un Bando per la Ricerca Finalizzata del Ministero della Salute ma il progetto non è stato tra quelli selezionati. Data tuttavia l’importanza di un progetto del genere esteso alle scuole italiane, nel febbraio 2019 abbiamo intrapreso senza finanziamenti la traduzione italiana delle risorse didattiche con la finalità di proporle in una scuola primaria. Il Pensiero Scientifico Editore ha pubblicato senza oneri le risorse didattiche in un numero limitato di copie e, da gennaio a giugno 2020, abbiamo applicato queste risorse, per la prima volta, nell’ambito di un progetto pilota, in una scuola primaria italiana, a Firenze.
Il 25 novembre prossimo, l’Associazione Alessandro Liberati (Centro affiliato alla Cochrane Italia) riunirà in un incontro online tutti coloro che hanno cercato in questi anni di diffondere in Italia questo progetto (la diretta è disponbile anche sulla home page di Scienza in Rete, ndr.). La finalità è quella di raccontare il progetto stesso con la sua contestualizzazione in Italia e discutere insieme possibili ipotesi per una sua diffusione sistematica nelle scuole italiane. L’incontro è diretto al settore educazionale (dirigenti scolastici e insegnanti, per esempio), quanto al settore sanitario: l’intento, infatti, è quello di porre le basi per un’intersezione virtuosa tra due ambiti con importanti denominatori comuni, come quello sanitario e quello educazionale, con lo scopo di fondare le basi di un futuro approccio critico delle persone alle decisioni sulla salute.
Con l’aiuto del dirigente della scuola, delle docenti e di quattro bambini delle due classi quinte coinvolte, racconteremo anche l’esperienza delle lezioni ai bambini dell’Istituto Comprensivo Poliziano, a Firenze. La domanda che introduce questo articolo è una delle domande finali di verifica di fine corso e la risposta del bambino, 10 anni, è una delle tante soddisfazioni che hanno arricchito quei mesi. In definitiva, sì, è possibile - e allora è doveroso - insegnare ai bambini a prendere decisioni di salute informate, fin dalla scuola primaria.
Un banco nell’abisso - Gianluca Virgilio
Un’immagine, per iniziare: un cumulo di banchi dismessi nel cortile di un edificio scolastico, coi piedi in su e il piano da lavoro in giù.
Ho inciso non pochi banchi nella mia vita di studente, sempre attento a nascondermi dietro il compagno davanti, come vedevo fare ai miei compagni di classe, tutti muniti di coltellino o altro utensile utile all’intaglio: parole d’amore, bestemmie, i nostri nomi immortali, figure più o meno oscene che la nostra moralità ci suggeriva, chissà cosa incidevamo! Non era ancora il tempo dei pennarelli ad inchiostro indelebile. Il banco era il nostro personale territorio e noi ne eravamo molto gelosi. Quando capitava di doverlo dividere con un compagno, allora, fin dall’inizio della scuola, bisognava far patti chiari, misurarlo e dividerlo in parti uguali, segnando per lungo la linea di confine oltre la quale era proibito portarsi. I confini sono fatti per separare, è vero, ma anche per sconfinare. Non era raro vedere, durante la lezione, due compagni seduti allo stesso banco darsi di gomito e, sottovoce, prendersi a male parole, cercando sempre di stare nascosti, per evitare d’essere interrogati dal professore: interrogazione come sinonimo di ritorsione. Contendersi la linea di confine, proprio come fanno gli stati che vorrebbero una porzione di territorio in più, questo era l’oggetto del borbottio. E come gli stati muovono in avanti i carri armati e subito dopo le truppe di occupazione, così c’era sempre qualcuno che faceva avanzare oltreconfine una matita, una gomma per cancellare, un temperamatite, e poi un gomito o un intero avambraccio, esponendosi alle inevitabili azioni di contrattacco. Si rischiava d’essere interrogati, ma non si desisteva dall’azione invadente e dalla strenua difesa. Oh grande audacia degli studenti antichi!
Il banco individuale dei nostri tempi pandemici evita ogni conflitto, separa e distanzia i corpi con nettezza scientifica, almeno un metro da rima buccale a rima buccale, garantendo il distanziamento e la sicurezza, almeno così ci viene detto. Siamo proprio sicuri che lo studente rinuncerà senza resistere alle antiche pratiche scolastiche? Già vedo banchi e sedie a rotelle muoversi nell’aula scolastica trasformata in una pista per macchina da scontro; quando non c’è il professore, s’intende. Appena egli entra in aula, tutti zitti e in ordine, allineati e coperti dalla mascherina. Ognuno ora potrà nascondersi dietro la propria mascherina chirurgica. Tu, insegnante, dunque, dovrai indagare bene l’espressione degli occhi che, come sai, sono le specchio dell’anima, se vorrai capire qualcosa di chi ti sta davanti; e tu, studente, se l’intenzione del tuo prof ti interessa, dovrai fare altrettanto: a lui, infatti, ora sarà più facile nascondersi.
Tra tutti questi nascondimenti, certamente il rapporto pedagogico diventa più intrigante, come il vecchio gioco del nascondino.
Intanto, che studenti e professori mantengano le distanze! Un mio vecchio professore, per intimidirci, ripeteva: “Tra me e voi c’è un abisso”, e nessuno osava contraddirlo. Poi ho ritrovato questa cosa in Maurice Blanchot: l’abisso incolmabile del rapporto docente-studente, l’abisso della conoscenza, del desiderio, della ricerca, che unisce docente a studente e viceversa. Non aveva poi tutti i torti il mio vecchio professore, sebbene fosse un po’ gonfio!
L’abisso tra il prof e gli studenti dobbiamo immaginarcelo tutto punteggiato di atomi pandemici invisibili, che si chiamano Covid 19. Si entra in classe disciplinatamente, seguendo percorsi obbligati, ognuno siede al suo banco, mascherato, e ognuno sa d’essere in un luogo abissale, dove potenzialmente atomi patogeni si muovono nelle più diverse direzioni, a bordo delle goccioline, seguendo un clinamen che potrebbe portarli a lui, proprio a lui, così, casualmente, come voleva Democrito. L’abisso della conoscenza sarà un abisso popolato da atomi pandemici, la scuola un luogo malato. Rinnovare gli antichi giochi, probabilmente, avrà ora una funzione scaramantica. Mentre la didattica cova la sua malattia, bruciano i vecchi banchi in un grande falò settembrino. I nuovi banchi sono tutti consegnati, o lo saranno presto. Il primo giorno di scuola, gli insegnanti raccomandano agli studenti di farne buon uso.
La scuola è salute
Daniele Novara, Giancarlo Cerini, Roberto Farné, Ivo Lizzola, Raffaele Mantegazza, Anna Oliverio Ferraris, Bruno Tognolini e Silvia Vegetti Finzi hanno lanciato un appello alle Istituzioni e all’opinione pubblica per sottolineare il ruolo imprescindibile della scuola come comunità di apprendimento, luogo di incontro e crescita per bambini e ragazzi, ribadendo la necessità di mantenere aperte le scuole.
Al Consiglio dei Ministri
Ai Presidenti delle Regioni
MANIFESTO PER LA DIDATTICA IN PRESENZA
contro la chiusura delle scuole
- La scuola è presenza fisica: i corpi sono veicolo insostituibile dell’apprendimento, della comunicazione, dello scambio.
- La scuola è incontro: la relazione per i giovani è l’unico antidoto all’alienazione esistenziale.
- La scuola è un luogo controllato: i protocolli anti Covid nelle scuole sono rigidi e seriamente applicati.
- La scuola è un luogo sicuro: gli indici di contagio nella scuola sono bassissimi.
L’esperienza dei mesi in lockdown ha dimostrato chiaramente che:
- La Dad non è vera scuola: è un surrogato gravemente riduttivo della didattica in presenza.
- La Dad non è democratica: fa crescere gli squilibri sociali e impedisce l’accesso alla cultura alle fasce più basse.
- L’isolamento e la scuola a distanza sono una condizione pericolosa per la salute mentale degli studenti che sono a serio rischio depressivo e di ritiro sociale.
La scuola è indispensabile. Teniamo aperte le scuole!
Cile. Educazione: Insegnamenti nefasti - Marcelo Trivelli
L’educazione di qualità deve farsi carico degli insegnamenti nefasti che bambini e giovani acquisiscono nel proprio percorso scolastico. Si tratta di tutte quelle conoscenze, abilità e comportamenti messi in atto dalla scuola e che non contribuiscono allo sviluppo personale e sociale degli individui. Imprimere una svolta all’educazione oggi è possibile se si ha il coraggio di smettere di guardare al breve periodo e di scrollarsi di dosso la comodità di continuare a fare quello che si è fatto per molti, forse troppi, anni.
È idea diffusa che lo studente modello è colui che si comporta bene e che ottiene buoni risultati. Ancora meglio, se è ordinato e risponde agli standard richiesti dagli adulti. Quando i giovani incarnano questo stereotipo di sistema, di solito vengono valutati positivamente dai docenti e questo non fa altro che rafforzare il loro comportamento. Si tratta di un feedback che uccide il senso critico, trasformando i giovani in esseri sottomessi, in cittadini passivi e individualisti che non contribuiscono affatto alla costruzione di comunità (community-building).
L’altra faccia della medaglia mostra coloro, per i quali non è facile incarnare questo modello di studente esemplare; essi sviluppano le proprie competenze senza alcuna etica e a distinguersi è il più forte, il più furbo o colui che esibisce prodotti considerati di valore nella nostra società consumistica.
Il punto in comune tra questi due modelli di comportamento, ai quali appartiene la maggioranza dei bambini e dei giovani, è un certo timore di deludere le aspettative del mondo adulto o la paura di essere vittima di bullismo o violenza fisica. Si tratta di un gruppo umano che sviluppa dei meccanismi di autodifesa, emarginandosi dal resto del mondo. Agiscono con diffidenza, senza speranza e diventano facili prede di leader senza scrupoli che cercano solo il proprio interesse in quanto setta e questo si manifesta, per esempio, nella politica, nella religione, nella delinquenza o, più semplicemente, nel mondo del lavoro.
A qualsiasi classe sociale appartengano, sia gli uomini che le donne, sin dalla più tenera età, attraverso il sistema scolastico acquisiscono insegnamenti nefasti che si normalizzano, come per esempio il linguaggio e il comportamento maschilista a discapito della promozione di una cultura non sessista, la violenza come mezzo per risolvere i conflitti invece del dialogo e della partecipazione, le emozioni represse invece della loro esteriorizzazione e condivisione e la ricerca individuale a discapito di un senso di comunità o collettivo.
Gli insegnamenti vanno molto oltre la scuola. Contraddistinguono la società che stiamo costruendo o distruggendo. Non è un caso la crisi istituzionale e la minaccia populista alla democrazia che si vive in Cile e in molto altri Paesi del mondo. In entrambi i casi, la responsabilità è di coloro che non hanno mai acquisito insegnamenti integrali durante i percorsi educativi.
La buona notizia è che non tutto è perso. Certamente la soluzione non è a portata di mano, ma nell’esperienza della Fondazione Semilla vediamo che sia gli adulti che gli studenti reagiscono in modo molto positivo quando viene mostrato loro un tipo di percorso alternativo, attraverso il quale hanno percezione degli insegnamenti dannosi, concepiscono l’educazione da un nuovo punto di vista e vengono sostenuti con materiale pedagogico idoneo a tale scopo. E, infine, viene ridefinito il concetto di qualità.
(Traduzione dallo spagnolo di Ada De Micheli. Revisione: Silvia Nocera)
RACCONTIAMO LA SCUOLA E LA FASE 2!
Il mondo si è fermato e le nostre vite con esso.
Sono mesi ormai che ci ritroviamo a vivere in una condizione di totale instabilità: il COVID-19 non ha fatto altro che evidenziare problematiche che da sempre colpiscono il nostro mondo.
In una società da sempre dedita all’ individualismo spietato e caratterizzata da un perenne senso di competizione, ci ritroviamo a lottare per la collettività e la socialità di cui vivono i nostri luoghi di istruzione.
Noi studenti e studentesse ci siamo visti privati del nostro diritto allo studio, chiusi tra le nostre quattro mura, costretti a sostituire la collettività dei nostri luoghi di istruzione con un freddo monitor.
Una società basata sulle disparità sociali ha fatto sì che molti studenti e studentesse rimanessero indietro, abbandonati dallo Stato che dovrebbe in realtà tutelarli.
Anni di politiche sbagliate sono usciti fuori grazie alla pandemia: ci sono stati, infatti, infiniti tagli al mondo dell'istruzione fatti da chi non ha fatto altro che speculare sul nostro futuro.
La scuola non è mai stata priorità e ancora meno noi che la viviamo.
- COSA SUCCEDE?
Nei mesi che hanno separato l’inizio dell’emergenza e la riapertura delle scuole a settembre, il governo, sia a livello nazionale che a livello regionale, avrebbe potuto muoversi in funzione di una ripartenza in presenza che fosse sicura per tutti coloro che vivono la scuola come propria quotidianità.
Durante il primo lockdown, la DAD è entrata per la prima volta nella vita di tutti noi come una misura a breve termine per fronteggiare l’emergenza. Non si è tenuto però conto del classismo insito in questo tipo di soluzione, che ha tagliato fuori tutti coloro che non avevano a disposizione gli strumenti per seguire le lezioni telematicamente. I fondi per l’acquisto di strumenti necessari per seguire la dad sono stati poi stanziati con un enorme ritardo, e quelli per il ritorno a scuola sono stati messi in secondo piano.
Ora ci ritroviamo a dover seguire nuovamente dalle nostre case, e tutti coloro che precedentemente avevano riscontrato difficoltà nel seguire le lezioni sono stati di nuovo lasciati soli nel loro disagio. Stando alle cifre, sono stati stanziati, secondo il decreto di agosto, circa 1,3 miliardi di euro per l’istruzione pubblica, a fronte dei 38 miliardi invece stanziati per le aziende private.
- COSA PRETENDEVAMO, COSA È SUCCESSO?
Sulla base di tutte le contraddizioni che la DAD porta con se, l'obiettivo sarebbe dovuto essere una sicura ripartenza in presenza. In questo senso, sarebbero potuti essere riqualificati spazi già in mano a comuni o regioni, per adibirli a strutture scolastiche d’emergenza. Di pari passo con la ricerca e la riqualificazione di nuovi spazi, si sarebbe potuto lavorare sull’assunzione di nuovi docenti e nuovi membri del personale ATA, che, a causa della pandemia, hanno visto fermarsi i concorsi pubblici. Così, si sarebbero anche potuti tutelare tutti coloro che, a causa dell’emergenza sanitaria, rientrano tra i soggetti a rischio. Sappiamo bene purtroppo che tutto ciò non è stato messo in pratica dal governo, poiché l’istruzione, così come la sanità, in quanto istituzione pubblica, non porta profitti.
Questa cattiva gestione dell’emergenza da parte del governo, non tenendo conto di moltissime realtà di fatto esistenti, ha fatto sì che si amplificassero fenomeni come la dispersione scolastica e l'emarginazione sociale, soprattutto nei quartieri popolari e di periferia, già afflitti da simili problematiche da molto tempo.
Infatti, è da ben prima dell’inizio della pandemia che le scuole si trovano divise in “scuole di serie A” e “scuole di serie B”, per via di meccanismi ormai insiti al sistema dell’istruzione, basati su individualismo e competizione tra studenti, che portano questi ultimi a percepirsi sempre meno come membri di una collettività e sempre più come merce valutata nei termini del profitto (come di fatto accade con le prove invalsi). Così, si crea un paradosso per il quale le “scuole di serie B”, che più necessiterebbero di fondi e sussidi, sono quelle che ne ricevono meno spesso.
La conseguenza diretta di tutto ciò è che, anche sullo stesso territorio, le scuole presentano tra di loro notevoli differenze, amplificate da questa emergenza. Un esempio potrebbe essere la situazione che ha interessato 2 scuole del territorio campano, la Francesco Gesué di Caserta e l’Istituto Vilfredo Pareto di Arco Felice. La prima ha ricevuto dallo Stato dei fondi per l’acquisto di materiale e per la ristrutturazione dell’edificio, cosa a cui il premier Conte e la ministra Azzolina non hanno mancato a dare forte risonanza mediatica, andando a far visita all’istituto. Nella seconda invece, caso di cui però nessuno parla, si stava verificando parallelamente una situazione ai limiti dell’assurdo: gli studenti erano costretti, in mancanza di banchi delle dimensioni adeguate, a seguire le lezioni utilizzando sedie come appoggio per quaderni e libri, affinché il distanziamento tra di loro fosse garantito.
Non vi è alcuna ragione giustificata per la quale ci debba essere una distribuzione ineguale delle risorse, dove degli studenti debbano trovarsi in condizioni di maggiore disagio rispetto ad altri.
- RAPPORTI TRA DOCENTI E ALUNNI.
L’assenza di contatto umano che deriva da tutto ciò ha portato lo studente al totale isolamento rispetto ai propri compagni: la mancanza di comunicazione, di confronto, di condivisione d’interessi, conoscenze ed esperienze ha condotto all’annullamento totale della dimensione sociale della scuola, che sta alla base del modello che noi immaginiamo, costruito sulla crescita e sulla formazione collettiva. Infatti, il contatto fra realtà diverse che la scuola permetteva è necessario affinché gli studenti possano sviluppare uno spirito critico che permetta loro di analizzare il mondo che li circonda, diventando consapevoli delle ingiustizie sociali ormai così profondamente radicate nella società da essere normalizzate, soffocando di fatto la lotta contro di esse, di cui gli studenti sono sempre stati il motore principale.
Inoltre, le modalità con cui noi studenti, così come i docenti, siamo costretti a vivere la scuola, sono frustranti e causano un forte stress, che ha portato a mancanza di comunicazione e collaborazione tra le varie componenti della scuola, come alunni e corpo docenti. Ciò conduce a una forte demotivazione, che viene scambiata per poca disponibilità ad ascoltare e ad apprendere, ma che in realtà non è altro che lo specchio del disagio che stiamo vivendo attualmente sulla nostra pelle.
Oltre a ciò, poiché la qualità delle lezioni a distanza dipende in gran misura anche dagli strumenti che ognuno ha a disposizione, è chiaro che possano esserci problemi legati proprio a questi ultimi: questi vanno al di là della possibilità di una risoluzione tempestiva e dunque dovrebbero essere tenuti in considerazione nella valutazione di ciascuno studente, nell’ottica di ritardi alle lezioni, possibilità di partecipazione e di tutto ciò che riguarda la condotta in questa didattica telematica.
- IL FUTURO È ORA, RIPRENDIAMOCELO!
È ormai evidente che, dopo questa situazione d’emergenza, la dispersione scolastica aumenterà in modo esponenziale, poiché molti degli studenti e delle studentesse che non hanno seguito le lezioni online avranno molte difficoltà a tornare a scuola, che c’è bisogno di fornire le scuole con nuovi spazi, riqualificando luoghi già esistenti, e che sia necessario un aumento delle assunzioni e dello stanziamento di fondi per l’istruzione pubblica.
Ora più che mai pensiamo sia necessario riappropriarci del diritto di decidere delle nostre vite e della nostra formazione, immaginare e costruire insieme un nuovo modello di scuola, che sia luogo di aggregazione e crescita collettiva. Quando torneremo nelle nostre aule e alle nostre abitudini, non dovremmo dimenticarci dei silenzi del governo e della Ministra, delle insufficienze e della disattenzione che sono state destinate alla scuola in questo momento di crisi. Noi, come studenti, dobbiamo cercare di non assuefarci all’isolamento e all’individualismo che ci sono stati imposti, ora in maniera evidente, prima in maniera subdola, ma soprattutto dobbiamo cercare di creare una nuova normalità, che non sia più fatta di competizione e sopraffazione.
Usiamo le consapevolezze acquisite oggi per costruire insieme una scuola diversa e migliore domani, che sia veramente a misura di noi studenti e studentesse e che non lasci indietro nessuno: riprendiamoci il nostro futuro!
Di scuola e di incendio - Dario Falconi
Come si fa a parlare di scuola?
Se ne è parlato talmente tanto che il tacere sarebbe la risposta più esteticamente accettabile.
Come si fa a non parlare di scuola?
Se ne è parlato talmente tanto che il parlarne ancora sarebbe la risposta più eticamente accettabile.
Forse è proprio il logos che stanca, il logos e basta intendo, questo tipo umano che sa solo parlare, questa bolla di parole nevrotizzante, l’incubo panottico d’una perpetua conferenza stampa.
C’è chi parla, chi fa domande, chi scrive dell’incendio, appuntamento al giorno dopo.
E così via, l’incendio sempre più inarrestabile, fino all’ultimo. Bruceranno gli studi televisivi, bruceremo tutti in diretta Facebook, per un paio d’ore risuoneranno le notifiche dai nostri smartphone, lugubre tintinnio, saranno le nostre campane a morto.
L’incendio ecco, può essere un primo livello del discorso, dal quale partire o ricominciare: questo tempo-limite che soffia sul collo, tutto divorante, ambiente, politica, lavoro, società, economia, sembra quasi di sentire il sibilo del novecento risucchiato a velocità vorticose dallo scarico della storia.
Noi forse non ce ne curiamo o, peggio, non ce ne accorgiamo ma bambini e ragazzi lo sentono eccome questo affanno del mondo che brucia sotto i loro piedi. Magari non lo sanno intuire, comprendere, verbalizzare ma captano le onde di questa radio millenarista, la incarnano.
Lo sento nei loro discorsi, lo leggo nei loro temi, dalla ricorsività della parola ansia; ricordo quella volta che G., 11 anni, durante una lezione di storia alzò la mano e disse: “prof, perché studiamo se tra quarant’anni saremo tutti morti?”. Tutta la classe è ammutolita. Me compreso. Quella che fino a un decennio prima sarebbe risultata tutt’al più una provocazione, qualcosa di cui tenere poco conto, oggi è una domanda da prendere tragicamente sul serio.
Quanto incide retrospettivamente su bambini e ragazzi un orizzonte di futuro così incerto?
Se non c’è promessa di mondo come può esserci promessa di vita?
La scuola, come luogo di formazione dei più giovani, ospita questa domanda di senso, direzione o significato che sia, e non potrebbe essere altrimenti. Non può quindi disconoscerla, evaderla come se non esistesse. Non può rimuoverla perché questa è una dimensione che più la rimuovi – non sai proprio dove metterla, allora la rimuovi ancora, niente da fare, troppo voluminosa – più fa rumore, chiasso assordante da rinchiudere maldestramente nel proliferare di quelle gabbie insonorizzate anche dette certificazioni.
Questo è un primo stadio (terminale?) che va frequentato per potersi orientare nella babele della complessità che stiamo attraversando, è un punto di partenza ideale anche per parlare di scuola. Una dimensione preliminare dalla quale ne sorgeranno possibilmente altre, politiche, sociali, educative, tutte certamente utili a spiegare come la scuola si sia ridotta in queste condizioni.
Questa però, esattamente questa, non si può ridurre né eliminare perché è la nostra condizione umana.
Scrive Giuseppe Acone ne La paideia introvabile. Lo sguardo pedagogico sulla post-modernità: “la negazione della persona, come fondamento istitutore di linguaggio etico, giuridico e pedagogico fa sì che salti al tempo stesso qualsiasi istanza che dia al linguaggio educativo la sua unica linfa vitale; il suo essere intreccio di relazione e di senso”.
Mi pare che non ci sia un tempo più propizio di questo – forse un’ultima occasione, chissà – per ridefinire problematicamente la persona umana; per ricordare, in primo luogo a noi stessi, di che pasta siamo fatti. Il nostro stare al mondo è sempre un sapere di stare al mondo, benedetta maledizione, un immaginario che presto si fa coscienza.
Che idea di futuro stiamo immaginando adesso? Che donne e che uomini potranno abitarla domani?
Ci aspetta una deriva post-umanista su basi tecno-scientifiche o un riposizionamento della persona umana al centro d’una società nuova?
Forse sono divagazioni inattuali eppure ne sento addosso tutta la loro vibratile urgenza: se la scuola ignora la domanda di futuro che accoglie, come può pretendere di fornirle risposte adeguate?
Non neghiamola quindi questa condizione umana, la domanda sempre nuova che ci interroga, questo tempo-limite che divampa futuro, questo spazio che inaridendosi si fa presente deserto.
Per parlare di scuola non occorre sapere solo chi la abita ma anche come.
Formazione permanente e l’eredità delle 150 ore - Fiorella Farinelli
Sarebbe una buona cosa se col rinnovo del contratto dei metalmeccanici si facessero progressi sulla formazione continua, definita già nel testo del 2016 come “diritto soggettivo” ( la stessa definizione è in una normativa nazionale del 2012, largamente inapplicata, sull’apprendimento permanente) [nota 1]. Diritto soggettivo significa che la formazione sul lavoro è esigibile da tutti i lavoratori, anche i non coinvolti nelle azioni formative delle aziende. Viene perciò previsto un pacchetto di 24 ore di congedo retribuito utilizzabile anche individualmente. Assicurarne l’attuazione, e anche qualche sviluppo, sarebbe importante.
Sebbene ingabbiato in varie condizionalità ( i lavoratori interessati, per esempio, sono solo quelli a tempo indeterminato ), quel modesto pacchetto di ore fruibile anche a richiesta individuale potrebbe fare da contrappeso all’avarizia sociale di gran parte delle politiche formative aziendali. Nella definizione vivono infatti due finalità, entrambe strategiche, e nessuna granché apprezzata dalle imprese. La prima, di profilo universalistico, è che alla formazione devono poter accedere tutti i lavoratori, anche quelli che, in tutta la loro vita lavorativa conoscono, se va bene, solo quella obbligatoria sulla sicurezza: i tanti esclusi dai progetti aziendali ( anche concordati col sindacato) che privilegiano solitamente le figure di livello professionale più alto, dirigenti, quadri, tecnici, impiegati, e poi più i maschi che le femmine, più le fasce di età centrali che le altre, più i nativi che gli immigrati. La seconda finalità è che la formazione non dovrebbe tradursi solo in adattamento alle trasformazioni organizzative e tecnologiche dell’azienda ma andare oltre, contribuendo a sviluppare nei lavoratori le competenze, specifiche o trasversali, e spesso anche di base, necessarie a rafforzarne “l’occupabilità”, cioè ad essere più forti e preparati a misurarsi con la mobilità, necessitata o scelta, e con la riconversione professionale. Con le “transizioni”, le incertezze e gli agguati di un lavoro sempre meno stabile, oltre che con le prospettive, quando ci sono, di carriere interne.
Nell’accordo del 2016 si annunciava infatti anche una campagna per lo sviluppo delle competenze digitali, divenute ormai di base, almeno nel senso che chi non le ha è di sicuro svantaggiato nel mondo del lavoro di oggi. Possono certo apparire secondari, a fronte di tanti altri problemi, i piccoli passi avanti della contrattazione in materia di formazione ( e, viceversa, lo scarso utilizzo dei congedi di “diritto allo studio”, che nei contratti ci sono ma vengono per lo più regalati alle aziende ), ma non lo è. Le politiche attive del lavoro di cui si tanto si parla non hanno a che fare solo con l’incrocio tra domanda e offerta di lavoro, ma dovrebbero essere fatte anche di formazione. Non solo per chi è stato messo fuori dal lavoro o per chi un lavoro, come si deve non l’ha mai incontrato, ma anche per chi nel lavoro c’è già ma ha buone ragioni per prevedere che sarà prima o poi costretto a cercarne un altro. A sollecitare l’attenzione per i contenuti dell’accordo del 2016, è però anche che è stato ancora una volta il contratto dei metalmeccanici a introdurre per primo qualcosa di innovativo in campo formativo.
Ancora una volta. E a quasi cinquant’anni dallo storico rinnovo contrattuale in cui i metalmeccanici, e poi di seguito tutte le altre categorie, comprese quelle del terziario e del lavoro pubblico, conquistarono le “150 ore”. Cosa sono state e cosa hanno prodotto, perché furono appassionatamente volute, direttamente gestite e infine abbandonate dal sindacato, non lo sa quasi più nessuno. Non lo sanno, e forse neppure interessa, i delegati e gli operai, e neppure i sindacalisti che sembrano non sapere cosa farsene di quel congedo formativo retribuito – una riduzione del tempo di lavoro, una irruzione nel tempo di lavoro del tempo di vita – ha depositato nei contratti. Nate dalle lotte di fabbrica, oggi le “150 ore”, variamente ritoccate in tanti rinnovi contrattuali, vengono infatti utilizzate soprattutto nel pubblico, di solito per via individuale o, per meglio dire, solitaria. E invece in quella lontana esperienza di utilizzo del congedo – collettivo perché ispirato alla volontà di una emancipazione collettiva – non c’è solo un pezzo importante della storia sindacale, sociale, scolastica degli anni Settanta. Vi sono diritti, idee, pratiche sociali, contenuti utili anche oggi, in un mondo del lavoro pur irriconoscibile rispetto ad allora. Sarebbe utilissimo, per esempio, tener fermo che la “domanda” dei lavoratori, fosse anche solo di tipo individuale deve, per poter emergere e contare, essere ascoltata, capita, rappresentata, negoziata. Circolarono ai tempi un bel po’ di storie su chi nella Flm, a ridosso dell’Autunno caldo del 1969, ebbe per primo l’idea, forse anche sulla scorta di esperienze francesi ( e allora è Bruno Trentin il primo indiziato ), di buttare sul tavolo della trattativa anche un congedo retribuito per “studiare”. Sulle reazioni di una controparte ostile e arrogante, e su come gli si seppe rispondere. “Per studiare che cosa ? Gli operai non vorranno mica imparare il clavicembalo?”. “Perché no, se lo vogliono? anche il clavicembalo.“
Fu così che lo sconosciuto strumento musicale divenne per anni il logo, fin nei volantini, di una rivendicazione felicemente trasgressiva – una specie di versione operaia dell’immaginazione al potere – che era stata prima di tutto di libertà, uguaglianza, autonomia. Anche se c’è chi ancora ricorda un corso sul rock di grande successo per giovani delegati, la musica che poi si suonò fu tutta un’altra. Anch’essa indigesta a gran parte del padronato , e ovviamente anche al ministero dell’Istruzione, che cercò di ridurne la portata innovativa tentando di assimilarla a vecchi corsetti di tipo assistenziale per analfabeti. Le richieste su come utilizzare il congedo ( 150 ore non bastavano per i percorsi lunghi e gli operai dovettero aggiungerci un bel pò del proprio tempo di vita ) erano di più tipi. C’era la formazione di livello alto, ma senza riferimento a titoli di studio, come i seminari universitari (ce ne furono tanti, affollati di delegati, che trattarono di economia, diritto, storia, medicina del lavoro… ). E c’era quella di livello intermedio collocabile nel primo biennio della secondaria superiore. Ma il fuoco fu da subito sulla scuola media e sul diritto a concluderla in un anno. Già nel 1973, a trattative ancora aperte, Cgil Cisl e Uil avviarono il negoziato per ottenere in tutto il Paese corsi statali per lavoratori di durata annuale per la licenza media ( e, quando necessario, e in molti casi lo era, anche per la licenza elementare). I corsi, a centinaia, gradualmente si ottennero e, anche grazie a una singolare alleanza con tanti insegnanti affascinati dall’idea di far vivere nella scuola degli operai la scoperta sessantottina del Don Milani della “Lettera a una professoressa”, l’esperimento si sviluppò un po’ ovunque e tenne alla grande per più di una quindicina d’anni.
Solo nei primi dieci, dal 1973 al 1983, i lavoratori coinvolti furono più di 500 mila. Ma perché proprio la scuola media, perché la Flm non puntò anche , o solo, sulla qualificazione professionale? Si è a lungo sostenuto che l’identificazione della formazione professionale con “lo strumento del padrone” fosse effetto di un eccesso di ideologia. Di risvolti ideologici, certo, ce n’erano, in questo e in altri aspetti della vicenda, ma in quella scelta che suscitò discussioni anche dentro le stanze della Flm, c’era soprattutto altro. Da un lato l’imprescindibile riflesso della distruzione delle professionalità operaie imposta dall’organizzazione fordista della grande fabbrica, dove bastavano due giorni di affiancamento perché gli addetti alla “catena” imparassero i contenuti della prestazione. Dall’altro il bisogno di una proposta adeguata a una classe operaia affamata di uguaglianza, quella che aveva ottenuto l’inquadramento unico e gli aumenti salariali eguali per tutti, quella che rivendicava una sua cultura con cui trasformare “l’organizzazione capitalista del lavoro”. L’obiettivo, allora, non poteva essere che il “diritto allo studio”, allora incarnato nella scuola che, cancellato con la riforma del 1962 il doppio binario tra “il ginnasio” dei figli dei ricchi e “l’avviamento professionale” ( o anche niente ) degli altri, era diventata l’emblema dell’istruzione per tutti. L’attuazione, finalmente, degli “almeno otto anni “ di obbligo scolastico scritti in Costituzione, il sapere come via per l’emancipazione sociale, nel lavoro e fuori. Tutti ne avevano diritto, dunque anche gli operai che non avevano potuto avere che pochi anni di scuola elementare, anche loro, proprio come i loro figli. Ma la scuola media degli operai doveva essere un’altra rispetto ai programmi e ai metodi della scuola ordinaria che continuava a bocciare i figli dei più poveri. Bisognava partire dall’esperienza e dai bisogni dei lavoratori, valorizzare il tanto che già sapevano e avevano imparato insieme, costruire una didattica nuova, conoscere quello che serve per poter trasformare la realtà. Della fabbrica, e anche oltre. Una sfida alta anche per gli insegnanti, che portò spesso a pratiche educative e strumentazioni didattiche, concordate con il sindacato, davvero innovative per l’italia e la scuola del tempo.
Ma la sfida era evidentemente anche politica, e non poteva restare la stessa quando il vento cominciò a cambiare. Quando, negli anni Ottanta, e dopo la traumatica sconfitta alla Fiat, il sindacalismo industriale dovette misurarsi con le ristrutturazioni e le crisi aziendali. Non resse, in verità, anche al fatto che i corsi 150 ore venivano sempre più frequentati da figure diverse dagli operai-massa della grande fabbrica (anche perché la riforma della scuola media stava poco a poco avendo i suoi benefici effetti, almeno per i più giovani). Tanti operai delle piccole fabbriche dove il sindacato non c’era o non riusciva a far riconoscere il diritto al congedo, tanti artigiani, disoccupati, casalinghe, cassaintegrati, bidelli e commessi del lavoro pubblico, giovani drop out della scuola dell’obbligo. E poi anche i primi immigrati a imparare l’italiano.
Sarebbe potuto essere motivo di orgoglio che una conquista operaia si stesse trasformando in una conquista civile, ma furono in molti a non vederla affatto in questo modo. Le Confederazioni avrebbero potuto, di fronte alle trasformazioni, rilanciare la palla per fare della scuola per i lavoratori il primo nucleo attorno a cui far crescere quel sistema di apprendimento permanente per adulti, lavoratori e non, che in Italia non c’era, e che ancora ci manca. Ma per tanti motivi non andò così. E la gestione dei corsi, passata di fatto ai sindacati Scuola, diventò sempre più questione di organici, concorsi, stabilità e orari del personale. Tra gli effetti indiretti della dismissione, ci fu anche l’appannarsi del ruolo protagonista sul diritto allo studio e sulla scuola che le Confederazioni si erano conquistate negli anni Settanta. Le dismissioni senza alternativa – i sindacati dell’industria sono i primi a saperlo – lasciano sempre dei brutti segni.
Fu persa, insomma, un’occasione importante. Non è di sicuro per questo, visti i tanti anni trascorsi, che sulla formazione continua, sulla formazione professionale tra lavoro e non lavoro e da un lavoro all’altro, e più in generale sull’apprendimento permanente, si debbano registrare risultati molto modesti e vistosi ritardi rispetto ad altri grandi Paesi dell’area europea. Ma è certo che da allora il movimento sindacale e quello che a lungo gli si è mosso attorno non ha più saputo sviluppare con continuità iniziative coerenti e lungimiranti su questi temi. E che – in verità paradossalmente, in una fase in cui la formazione per il lavoro e per la cittadinanza attiva ha acquisito un’urgenza che allora non c’era – ha lasciato troppo spazio a culture sociali miopi e a politiche mediocri, delle imprese come delle istituzioni. Tutt’altro che attente a innalzare il livello di istruzione e di qualificazione della popolazione adulta, a offrire una seconda chance ai tanti giovani inguaiati dagli abbandoni scolastici precoci, a rendere attraente e praticabile la partecipazione all’apprendimento “lungo tutto il corso della vita”. Ad attivare , come prevede la legge del 2012 e come sollecitato dalle politiche europee, i dispositivi di validazione delle competenze acquisite nel lavoro, nel volontariato, nella vita sociale, come strumento di accorciamento dei percorsi e come incoraggiamento a rientrare in formazione.
Eppure i numeri, confermati anno dopo anno da studi, indagini, comparazioni in area UE e OCSE dicono con chiarezza la gravità della situazione italiana. La “povertà educativa” di cui si parla non è solo “minorile”, non riguarda solo le aree più svantaggiate del Paese, i tanti ragazzi con background migratorio, il 22% dei Neet. E non è fatta solo di quel 15% di early school leavers che non concludono i percorsi formali. Nasce anche dal non lavoro, dal lavoro poco qualificato e senza seri processi di qualificazione, dagli apprendistati senza veri investimenti formativi, dai tirocini in cui non si impara niente, da una formazione professionale inadeguata per numeri e qualità, da interventi per gli occupati che trascurano, più che in altri Paesi, i più deboli. Dall’incapacità o non volontà di giocare la carta della formazione, si tratti del programma europeo “Garanzia Giovani”, del reddito di cittadinanza, della cassa integrazione, e di tanti altri contesti.
Pesa del resto l’ostinata assenza di un sistema effettivo di apprendimento permanente. Ciò di cui disponiamo, in un’Italia che occupa l’ultimo posto nelle classifiche OCSE per possesso delle competenze di base in italiano e matematica degli adulti tra 25 e 64 anni (con gravi carenze anche tra i giovani fino ai 35 anni), è fatto di spezzoni scoordinati che non fanno sistema, di un insieme che non sa mettersi in sintonia con l’intera gamma dei bisogni di istruzione, formazione professionale, educazione in età adulta. E che lascia sistematicamente fuori quelli che, per motivi soggettivi o oggettivi, alla formazione non possono arrivarci da soli.
Il tasso di partecipazione degli adulti alle opportunità formative, comprese quelle non connesse con motivazioni professionali, vede l’Italia al 17° posto in area europea ( 7,9% ) ed è fortemente condizionato per età, genere, titoli di studio, condizione sociale. I laureati partecipano due volte di più dei diplomati, e sei volte di più dei senza diploma. Ma le responsabilità non stanno solo nella sottovalutazione da parte delle imprese ( solo il 62% si dichiarano impegnate nella formazione dei dipendenti, contro il 78,7 della media UE, l’84,6 della Germania, l’80,5 della Francia, l’81 del Regno Unito ) e, prima ancora, in un sistema produttivo che esprimendo una domanda di lavoro connotata per lo più da qualificazioni medio-basse, non richiede né intende formare competenze trasversali e specifiche di alto livello. Anche il sistema pubblico è lontano, per quantità, qualità, articolazione dell’offerta, dalla capacità di intercettare l’insieme delle esigenze dei pubblici adulti.
Non è solo un problema di risorse finanziarie, di investimenti pubblici e privati, che pure c’è rispetto ad altri Paesi europei, perché criticità e limiti ci sono anche per la formazione continua finanziata dai Fondi interprofessionali gestiti dalle parti sociali che non sempre riescono a spendere i 900 milioni di cui dispongono annualmente. Ciò che soprattutto manca è l’investimento politico, e perfino la capacità di dare un’identità e una rappresentanza collettiva alla miriade di bisogni individuali di tipo formativo. Di capire che cosa rivela il diffuso impegno in questo campo del Terzo settore, dell’associazionismo, del volontariato, cui accedono con le motivazioni più diverse moltissime persone, lavoratori e non, e delle più diverse fasce di età. Anche qui, si direbbe, la distanza tra politica e cittadini ha fatto passi da gigante.
Note:
1 Riforma del Lavoro Fornero. Ulteriori disposizioni del mercato del lavoro. Legge 92/2012
2 ANPAL,INAPP. IXX Rapporto al Parlamento sulla formazione continua (2020)
Unicovid.it: l’Università, la didattica on-line, il Mezzogiorno - Alfio Mastropaolo e Rocco Sciarrone
Tra i mille problemi esasperati dall’emergenza Covid spicca la condizione dell’Università, su cui gravano da tempo due scelte fondamentali compiute da chi ha governato il paese in questi anni. La prima, e la più nota, è stata quella di sottofinanziarla. I dati sono risaputi: mettendo a confronto già solo i paesi dell’Unione europea, l’Italia sta in coda. È tra i paesi in cui l’università, e dunque la ricerca, sono state più maltrattate. Per fortuna esistono le inerzie e nel confronto delle performances l’una e l’altra faticosamente, ma dignitosamente, resistono.
I costi sono tuttavia altissimi per chi lavora nelle università e negli enti di ricerca. Per i docenti in particolare è aumentato considerevolmente il carico didattico e sono cresciute enormemente le incombenze amministrative. Tra cui l’enorme burocrazia che circonda la didattica e la ricerca, corrispondente alla volontà di misurare le prestazioni di docenti e ricercatori in omaggio alla dottrina del New Public Management. Il criterio di valutazione specifico degli studiosi è da sempre la reputazione presso i loro pari. Lo ha sostituito il calcolo ragionieristico del numero di articoli che ciascuno ha sottoscritto, accertato mediante un enorme carico di moduli da compilare e tenere aggiornati. Una modulistica non meno estenuante è richiesta per disputarsi i pochi fondi disponibili per le attività di ricerca.
Aggiungiamo il vizio drammatico del precariato: una parte cospicua dell’insegnamento e della stessa ricerca è affidata a figure precarie. Il numero di posti messi a concorso è insufficiente e di parecchio sottodimensionato rispetto sia alle esigenze, sia alle competenze disponibili, in particolare rispetto al numero di giovani studiosi che hanno faticosamente completato la loro formazione di dottorato, in Italia e all’estero, spesso producendo risultati di rilievo. Ne consegue fra l’altro una condizione di perenne affanno nei meccanismi di reclutamento delle nuove leve di docenti e ricercatori.
È inadeguato anche l’ammontare di risorse destinate a finanziare non solo bandi di ricerca di una certa rilevanza scientifica, ma anche le attività più ordinarie, come quelle necessarie a organizzare o a partecipare a convegni, a seminari, a riunioni ecc. Simili attività sono comunque indispensabili per fare buona ricerca.
La seconda grande scelta che ha messo in gravissima difficoltà l’università italiana consiste nell’avere cessato di pensarsi e di funzionare come un sistema universitario nazionale e nell’avere introdotto uno spietato regime competitivo tra atenei. È successo, come sappiamo, anche al sistema sanitario, con pesanti conseguenze sul piano delle prestazioni e del benessere collettivo. Non si parte più dal presupposto che tutti i cittadini italiani abbiano diritto a fruire del medesimo servizio, ovunque gli capiti di vivere. Per quanto possibile, le università dovrebbero in tal caso erogare tutte prestazioni di elevata qualità, ferma restando la possibilità per gli studenti, alla luce di valutazioni personali, di studiare da qualche altra parte, magari senza sostenere costi eccessivi per una simile preferenza. Se non che, da alcuni anni le università sono in accanita competizione tra loro. Si disputano gli studenti, si disputano le risorse destinate alla ricerca, si disputano il personale docente e i ricercatori.
Questa scelta di policy, illuminata dal principio dell’autonomia e della responsabilizzazione degli atenei, ma dettata molto più realisticamente da esigenze di spesa, è stata disastrosa in special modo per le università del Mezzogiorno. Lo ha ben documentato in numerose occasioni Gianfranco Viesti (Università in declino, 2016; La laurea negata, 2018; https://www.eticaeconomia.it/la-questione-territoriale-delluniversita-italiana/). Il perché è facile da comprendere. Le autorità di governo si sono convinte a distribuire le risorse sulla base o delle performances accertate, o di criteri competitivi. Si sono però, com’era ovvio, avvantaggiati gli atenei che quando si è aperta la gara disponevano di un capitale più elevato, anzitutto di risorse finanziarie – fornito dal territorio circostante, dalle imprese, dalle grandi fondazioni bancarie – e di personale. Le università settentrionali hanno così agevolmente preso il sopravvento, lasciando dietro ad arrancare le università meridionali. Da allora piove sempre sul bagnato. Le università meridionali sono oggi largamente sottodotate sia in termini di mezzi per la didattica e per la ricerca, sia di personale. Ciò ha alimentato un cospicuo flusso di studenti dal Sud verso il Nord. Il flusso ha un costo enorme per le famiglie, che si dissanguano per offrire ai loro figli prospettive occupazionali più rosee tramite la migrazione accademica, ed è un danno grave per il Mezzogiorno: coloro che migrano per studiare, è dubbio che tornino, depauperando le regioni meridionali proprio dei giovani più ricchi di iniziativa e più disponibili al cambiamento.
Per contro un ulteriore e cospicuo beneficio è offerto alle università settentrionali, che vedono aumentare i loro introiti, grazie alle tasse universitarie, non senza alimentare il circolo vizioso che danneggia le università meridionali, che perdono studenti, mezzi finanziari e anche personale docente e ricercatori, attratti da più favorevoli – comparativamente – condizioni di lavoro. Su quest’ultimo punto il Decreto legge sulla semplificazione contiene nientemeno che paradossale previsione che facilita la mobilità dei docenti dalle università meno floride a quelle più floride, depauperando ovviamente le prime
La pandemia rischia di infliggere un grave colpo più che alle università alle giovani generazioni. Come hanno efficacemente argomentato Domenico Cersosimo e Felice Cimatti(https://www.internazionale.it/opinione/domenico-cersosimo/2020/05/25/universita-gratuita-tasse), gli studi universitari sono costosi e in uno sfondo di impoverimento il rischio che una leva di potenziali studenti sia costretta a rinunciare a tali studi è elevato. Con l’effetto di ridurre ancor di più la percentuale di laureati, che in Italia è anch’essa più bassa che nella stragrande maggioranza dei paesi europei. Il rimedio suggerito da Cersosimo e Cimatti è universalistico: abolire le tasse universitarie. Sarebbe un sollievo per i giovani, per le famiglie e per le stesse università. Solo che i problemi non si fermano qui.
Uno degli handicap maggiori del Mezzogiorno è notoriamente il suo deficit di infrastrutture. Università e ricerca rientrano tra le infrastrutture fondamentali. Quindi nel Mezzogiorno anche questo è deficit da colmare. Si sarebbe potuto sperare che il Covid sollecitasse un ripensamento e che sollecitasse la ricostituzione di un sistema universitario nazionale, colmando il gap profondo che si è aperto tra Nord e Sud. Non sta succedendo niente di tutto questo. Piuttosto il governo sembra orientato a adottare ancora una volta norme destinate a ribadire e accentuare la competizione tra le istituzioni universitarie e perciò ad aggravare il gap. Il già citato Decreto sulla semplificazione vorrebbe estendere la possibilità per gli atenei di dotarsi di una propria organizzazione interna. Si potrebbe così realizzare quanto già previsto, ma finora mai attuato, dalla Legge Gelmini. Sarebbe di fatto una variante dell’autonomia differenziata. È singolare che questa proposta venga rilanciata da un ministro che è stato rettore di una delle maggiori università del Mezzogiorno.
In attesa di una simile innovazione normativa, è intanto esploso il bellum omnium contra omnes tra gli atenei. Tutti a Nord e a Sud ragionano della possibilità di ridurre le tasse universitarie o lo hanno già fatto. Sarà un costo per tutte, ma sarà necessariamente più elevato per le università economicamente più deboli, che sono quelle situate nel Mezzogiorno. La Regione Sicilia ha inoltre introdotto un contributo finanziario per gli studenti che decidessero di iscriversi negli atenei dell’Isola, spingendo gli atenei settentrionali a strapparsi le vesti per lesa concorrenza. La Regione Sardegna pare intenzionata a finanziarie un ennesimo polo universitario senza radici in quel di Olbia. Vedremo gli altri.
Molti atenei stanno inoltre investendo risorse per trasferire parte delle attività didattiche on line: gli studenti meridionali, un po’ perché preoccupati da un ritorno di fiamma del Covid, un po’ perché meno in grado di sostenere i costi del soggiorno in un’altra città, potrebbero preferire non muoversi. La didattica on line sarebbe un modo per tenersi anche a distanza gli studenti meridionali. Qualcosa sulla didattica on line stanno facendo anche gli atenei meridionali, che però hanno meno risorse da investire in un’impresa indubbiamente costosa. L’effetto più grande comunque è un generalizzato scadimento qualitativo della didattica. La didattica on line può essere una buona tecnica di insegnamento in condizioni particolari: l’emergenza Covid è un caso. Potrebbe essere un’utile sostituto per gli studenti che lavorano e un’integrazione per quelli a tempo pieno. Ma è inutile girarci attorno: come hanno sostenuto in tanti la didattica on line è tutt’altra forma d’insegnamento, nella quale si perde completamente il valore dell’interazione diretta tra docenti e studenti e tra gli stessi studenti. Che è un elemento irrinunciabile, da qualche secolo, di ogni formazione universitaria. Di didattica on line ne offrono a sufficienza le università private. Perché mai dovrebbero offrirla pure le università pubbliche anche in tempi e condizioni normali?
Una recente ricerca, coordinata da Francesco Ramella e Michele Rostan (Universi-Dad. La didattica a distanza degli accademici italiani durante il semestre Covid-19, Unires e Centro Luigi Bobbio, Cps-Unito, 2020), ha evidenziato la grande soddisfazione dei docenti per la risposta che l’università è riuscita a dare rispetto all’emergenza sanitaria, garantendo lezioni, esami e tesi. La quasi totalità dei docenti ritiene però che la didattica a distanza non possa e non debba sostituire la didattica in presenza. Sono tanti coloro che vedono vantaggioso predisporre forme di didattica integrativa e complementare, ma sono ancor di più coloro che sono preoccupati di una espansione generalizzata e sostitutiva della prima rispetto alla seconda. In effetti, uno dei rischi della diffusione e della normalizzazione della didattica on line è che una strategia “imprenditoriale” adottata da alcuni atenei per salvaguardare il proprio bacino di studenti si risolva in uno scadimento diffuso e duraturo dell’insegnamento universitario.
Va da sé che si potrebbe anche seguire tutt’altra strada. Il Covid potrebbe costituire l’occasione per ripristinare un sistema universitario nazionale coerente con quanto è previsto dalla Costituzione, senza serie a e serie b. Ovviamente reinvestendo sulle università meridionali. Non si tratta di concedere finanziamenti a fondo perduto. Il loro impiego va accuratamente programmato e rendicontato e va valutata la resa dell’investimento. In alcuni casi gli atenei possono dividersi il lavoro su scala regionale. Mentre università al momento meglio attrezzate possono aiutare quelle che lo sono meno, attivando politiche di collaborazione finalizzate a colmare l’attuale gap. Ma tutto questo forse chiederebbe agli universitari di mobilitarsi. Ai docenti e agli studenti. E non è questa l’aria che tira.
Testo apparso anche nella edizione on-line de Il Mulino.
Automatizzare la scuola - Chiara Sabelli
La pandemia ha portato, a marzo, alla chiusura anticipata delle scuole in molti stati europei e non solo. Oltre 500 000 studenti italiani hanno sostenuto la maturità e il loro voto è stato calcolato per il 60% sulla base del percorso degli ultimi tre anni e per il 40% sulla base della sola prova orale (le prove scritte non si sono tenute). In tempi normali l'esame, con due prove scritte e una orale, serve ad assegnare 60 dei 100 punti in palio, mentre i voti ottenuti durante gli ultimi tre anni possono generare massimo 40 punti. Il risultato è stato un generale aumento dei voti. Se nel 2019 i diplomati con voto superiore a 80 erano il 32,8%, quest'anno sono stati il 49,6% del totale. Hanno preso 100, il voto massimo, il 9,9% dei maturandi contro il 5,6% del 2019.
In Gran Bretagna le cose sono andate diversamente. Gli esami finali degli studenti all'uscita dalle scuole superiori, chiamati A-level, non si sono tenuti e la loro valutazione è stata affidata a un algoritmo sulla base dei voti intermedi e della perfomance storica di ciascuna scuola. Il 40% degli studenti ha ricevuto voti più bassi rispetto a quelli proposti dai loro insegnanti e nel pomeriggio del 16 agosto le strade di Londra si sono riempite di ragazzi che agitavano cartelli con su scritto 'fuck the algorithm'. C'è da sottolineare che il peso degli A-level nel sistema dell'istruzione britannico è molto più grande della nostra maturità. Sulla base di quei voti si decide infatti l'accesso all'università e, come conseguenza, al mondo del lavoro. L'algoritmo però non ha penalizzato ugualmente tutti gli studenti, come vedremo. Quelli appartenenti a contesti socioeconomici più svantaggiati hanno pagato il prezzo più salato.
Anche le università hanno trasferito lezioni ed esami online. E se la didattica a distanza ha funzionato meglio rispetto ai gradi inferiori di istruzione, i problemi si sono presentati nelle procedure di valutazione. Un grande numero di università, anche in Italia, ha cominciato a utilizzare sistemi di sorveglianza automatica durante gli esami. Le proteste degli studenti sono state numerose e hanno riguardato diversi temi, dall'eccessiva pressione psicologica a cui sono stati sottoposti, alla discriminazione verso studenti neri su cui i software di riconoscimento facciale funzionano ancora molto male, fino ai dubbi sul rispetto delle leggi sulla privacy. Diverse università hanno deciso di sospenderne l'utilizzo e di ricorrere a personale aggiuntivo per monitorare il comportamento degli studenti da remoto.
Il fiasco degli A-level
Nessuno si sarebbe aspettato di vedere invase le strade del centro di Londra in un pomeriggio di agosto da parte di migliaia si studenti delle scuole superiori. Brandendo cartelli con la scritta 'fuck the algorithm', manifestavano davanti alla sede del ministero dell'istruzione protestando contro i voti assegnati agli A-level, una sorta di esami di maturità da cui però dipende l'accesso all'università. Ogni studente sceglie tre o quattro materie su cui sostenere questi esami e riceve una valutazione in lettere: A*, A, B, C, D, E, U. A* è il voto più alto, C è considerato la sufficienza, U equivale a non classificato. Per accedere alle università più prestigiose come Oxford o Cambridge è necessario avere tutte A e almeno una A*. Gli studenti devono formalizzare le loro domande di iscrizione all'università prima di sostenere gli A-level e possono inviare fino a cinque candidature. Cercheranno di scegliere in modo che anche nel caso di una performance non eccezionale riescano comunque ad accedere a un corso universitario, anche se meno ambizioso. Insomma, la pressione è alta.
Per via della pandemia non è stato possibile organizzare gli A-level e Ofqual, l'ufficio che si occupa delle valutazioni degli studenti, ha deciso di affidarsi a un algoritmo. Il motivo della protesta è che il 40% degli studenti si sono visti assegnare voti più bassi di almeno un grado rispetto a quelli richiesti dai loro professori. Solo il 2,2% dei voti assegnati dall'algoritmo è stato più alto di quello richiesto dagli insegnanti. Questa penalizzazione però non è stata uniforme. Gli studenti in situazioni socioeconomiche più svantaggiate hanno ricevuto voti più bassi rispetto a quelli proposti dai loro professori più frequentemente di quanto non sia successo ai meno svantaggiati. Infatti, mentre i professori avrebbero assegnato all'85% degli studenti più svantaggiati un voto uguale o superiore a C (la sufficienza), l'algoritmo lo ha fatto solo per il 74,6% di loro. Una differenza del 10,4%. Tra gli studenti meno svantaggiati l'8,3% in meno ha ricevuto almeno una C e tra i mediamente svantaggiati sono stati il 9,5% in meno coloro che hanno ricevuto un voto superiore alla sufficienza. Se poi si studiano i risultati per tipologia di scuola, distinguendo tra scuole private e pubbliche, si vede che quasi il 49% degli studenti delle scuole private hanno ricevuto complessivamente A*/A, contro uno scarso 22% degli studenti delle scuole pubbliche. Le differenze si vedono anche guardando al miglioramento dei voti rispetto al 2019. Gli studenti delle scuole private hanno migliorato la loro performance nella fascia alta di voti del 4,7%, mentre quelli delle scuole pubbliche solo del 2%. Questa dinamica si vede anche a livello geografico. Gli studenti residenti nelle Midlands, a Londra e nella zona sud occidentale hanno migliorato di più il loro voto rispetto all'anno precedente in confronto alle altre zone dell'Inghilterra. Infine la differenza tra percentuale di studenti bianchi (25,5%) e di studenti neri (17,7%) che hanno ricevuto A o A* è rimasta sostanzialmente invariata rispetto all'anno precedente. Questi risultati indicano in buona sostanza i due aspetti del problema: una tendenza generale all'abbassamento dei voti e un peso eccessivo dei dati storici.
Il primo difetto è in realtà una scelta esplicita di Ofqual, che ha progettato l'algoritmo in modo da evitare voti eccessivamente gonfiati. Il secondo difetto è inevitabile ogni volta che per prevedere il presente si usa il passato. Chiaramente si può dare un peso più o meno importante ai dati storici, ma in quei dati sono scritte le disuguaglianze sociali che spiegano i risultati che abbiamo appena esposto.
Come funziona l'algoritmo? Partiamo dai suoi ingredienti, immaginando di considerare una singola materia.
Il primo ingrediente è costituito dai voti che l'insegnante assegnerebbe a ciascuno studente della sua classe. Da questi voti viene stilata una classifica.
Il secondo ingrediente sono i voti ricevuti dagli studenti di quella stessa scuola nei tre anni scolastici precedenti. Si organizzano questi dati in forma di percentuali di studenti che hanno ottenuto almeno A, almeno B, almeno C, e così via.
Il terzo ingrediente è quello più complicato, perché progettato per tenere conto del grado di aderenza tra i voti che gli studenti ottengono alla fine di ciascun anno delle scuole superiori (i cosiddetti GCSE) e i voti dei corrispondenti A-level. In altre parole ci si chiede quanto i voti dei GCSE, che di solito si esprimono con un numero da 1 (il voto più alto) a 10 (il voto più basso), sono capaci di prevedere il voto degli A-level. Per rispondere a questa domanda si considera l'insieme di tutti gli studenti inglesi che negli ultimi tre anni hanno sostenuto i GCSE e gli A-level in quella materia. Su questo campione nazionale si calcolano le percentuali di studenti che avendo ricevuto 1 al GCSE hanno ottenuto agli A-level almeno una A, almeno una B, almeno una C, e così via. Lo stesso si fa per tutti gli altri voti da 2 fino a 10.
Ciascuna di queste percentuali viene usata per fare una previsione dei voti presi agli A-level dagli studenti della scuola che stiamo considerando nei tre anni precedenti, basandosi sui loro risultati ai GCSE (quando questi sono disponibili). Le stesse percentuali si usano per prevedere quali sarebbero gli A-level degli studenti di quest'anno sulla base dei risultati ottenuti ai GCSE. Il confronto tra queste due previsioni viene utilizzato per correggere la distribuzione dei voti basata esclusivamente sugli A-level degli anni precedenti in quella scuola (il secondo ingrediente).
Facciamo un esempio. Supponiamo che sulla base dei risultati degli esami intermedi, i GCSE, la percentuale di studenti dei tre anni precedenti con voto agli A-level maggiore o uguale a B sia stimata al 38,4% e quella degli studenti di quest'anno al 43,9%. Questo confronto suggerisce che gli studenti di quest'anno sono più bravi rispetto a quelli che hanno frequentato la stessa scuola negli anni precedenti e dunque si corregge al rialzo la distribuzione dei voti ottenuti storicamente agli A-level. Se la percentuale di studenti di quella scuola con voto maggiore o uguale a B è stata negli ultimi anni del 42,7% quella stimata per quest'anno sarà il 5,5% (43,9% meno 38,4%) in più, ovvero 48,2%. Lo stesso calcolo si fa per tutti i voti da A fino a U e si ottiene così la distribuzione obiettivo, quella su cui vengono calcolati i voti finali. C'è una precisazione da fare. Questo meccanismo di aggiustamento è più o meno importante a seconda di quale sia il numero di studenti per cui sono disponibili i voti ottenuti ai GCSE in ciascuna materia.
In questo meccanismo di aggiustamento è codificato l'obiettivo di non 'gonfiare' i voti. Consideriamo il caso della classe di 27 studenti raccontato in questo articolo del think tank FFT Education Lab, in cui la distribuzione obiettivo prevede che il 5,7% degli studenti ottenga A* (il voto più alto) e che la percentuale di studenti con voto maggiore o uguale a E sia il 97,7%. L'algoritmo ragiona sulla distribuzione cumulata e prevede che la percentuale di studenti che alla fine ottengono un voto almeno uguale ad A*, A, B, C, e così via non debba eccedere quella fissata dalla distribuzione obiettivo. Dato che uno studente, in una classe di 27 persone, conta il 3,7% e due rappresentano il 7,4%, una percentuale maggiore del 5,7% fissata dalla distribuzione obiettivo per il voto A*, solo uno di loro prenderà A*. Allo stesso modo, visto che se nessuno studente ricevesse una U la percentuale con voto maggiore o uguale a E sarebbe il 100%, maggiore del 97,7% indicato dalla distribuzione obiettivo, almeno uno deve ricevere U. Questo vuol dire che anche se la distribuzione obiettivo indicherebbe che gli studenti con voto U debbano essere il 2,3% (100% meno 97,7%), cioè meno di uno studente (che come abbiamo detto rappresenta il 3,7% del totale), uno studente riceverà U. Al contrario, anche se la distribuzione obiettivo indicherebbe che gli studenti con voto A* debbano essere il 5,7%, ovvero più di uno studente, solo a uno verrà assegnato il voto massimo. Questa regola scritta nell'algoritmo ha causato il generale abbassamento dei voti negli A-level automatizzati del 2020.
In una intervista a MIT Technology Review, la matematica, giornalista e scrittrice Hannah Fry, autrice del libro 'Hello World: How to Be Human in the Age of the Machine' ha sottolineato come la decisione di avere come obiettivo prioritario dell'algoritmo quello di non 'gonfiare' i voti è il nocciolo del problema nella vicenda degli A-level 2020.
Il secondo difetto è quello più comune nell'utilizzo di questi sistemi, ovvero l'idea che il futuro debba in qualche modo ripetere il passato. Uno studente che si discosta troppo dalle performance media dei suoi compagni negli anni precedenti sarà in qualche modo forzato a replicare quella media attraverso i passaggi che abbiamo descritto prima. Tanto più che l'aggiustamento della distribuzione dei voti rispetto a quella storica ha pesato poco nei casi in cui i voti dei GCSE non fossero disponibili per tutti gli studenti della classe in una specifica materia.
"L'esperienza degli A-level 2020 è forse stata la prima volta in cui un'intera nazione ha constatato le conseguenze di un algoritmo ingiusto, ma probabilmente non sarà l'ultima", ha commentato ancora Hannah Fry. Progettare algoritmi che evitino questo tipo di errori è molto complicato purtroppo. Ma in questo caso, vista anche il contesto di emergenza in cui si dovevano prendere le decisioni, sarebbero stato più saggio scegliere una soluzione più semplice e anche più facile da comunicare.
Ma la protesta degli studenti non è caduta inascoltata, forse anche grazie al sostegno di istituzioni importanti, come la Royal Statistical Society, Non più tardi di lunedì 17 agosto, a soli quattro giorni dalla pubblicazione dei risultati, il segretario di stato per l'istruzione Gavin Williamson ha annunciato che sarebbero stati assegnati i voti suggeriti dai professori e cancellata la valutazione dell'algoritmo.
Software che sorvegliano gli studenti
La pandemia ha rappresentato un'incredibile occasione di profitto per le compagnie che commercializzano software di e-proctoring, sistemi automatici di controllo degli studenti durante gli esami tramite webcam e monitoraggio delle attività sul loro computer. Solo negli Stati Uniti università pubbliche e private hanno speso milioni di dollari in questo settore. Questi stessi sistemi sono stati utilizzati ampiamente anche in Europa.
Una parte di essi si basa su algoritmi di riconoscimento facciale in grado di verificare l'identità degli studenti confrontando la loro immagine con la foto sul documento di identità, ma anche di segnalare delle allerte nel caso di movimenti troppo frequenti della testa e degli occhi lontano dallo schermo. A settembre una classe della North Carolina Agricultural and Technical State University ha ricevuto un'email infuriata da parte della professoressa del corso di marketing subito dopo aver sostenuto la prova di esame. La mail conteneva la seguente frase: "uno studente ha mosso la testa e gli occhi 776 volte in 6 minuti [...] se il comportamento rilevato da Pretorio [il software di e-proctoring] non migliora nella prossima prova, sarò costretta a segnalarvi ai decani dell'università".
Le proteste degli studenti sono state numerose e su diversi temi. In alcuni casi hanno denunciato inconvenienti tecnici, come il fatto che una connessione a internet non veloce e stabile in grado di trasmettere le immagini raccolte dalla webcam in alta risoluzione abbia causato l'interruzione dell'esame o la segnalazione di comportamenti sospetti ai professori. I timori che la richiesta di una connessione con queste caratteristiche potesse discriminare gli studenti provenienti da contesti più svantaggiati, ha spinto l'istituzione che si occupa dei SAT, i test standardizzati per l'ammissione all'università negli Stati Uniti, a rinunciare all'utilizzo dei sistemi di e-proctoring.
In altri casi la discriminazione non è stata evitata, come quando un software ha chiesto ad alcuni studenti neri di migliorare l'illuminazione della stanza per permettere l'identificazione. È ormai risaputo che i software di riconoscimento facciale funzionano peggio sui volti neri per via del fatto che sono allenati su database contenenti prevalentemente persone bianche.
Gli studenti hanno poi lamentato l'enorme pressione psicologica a cui questi sistemi si sorveglianza li hanno sottoposti, in un periodo già pieno di ansia e incertezze, oltre a denunciare episodi al limite della dignità. Cheyenne Keating, matricola alla University of Florida, durante un test di statistica ha avvisato il controllore (umano) che la stava sorvegliando da remoto che aveva una forte sensazione di nausea e aveva bisogno di vomitare. Visto che il sistema impedisce di alzarsi dalla sedia pena l'annullamento dell'esame, Keating è stata costretta a vomitare in un cestino seduta alla scrivania e proseguire il test subito dopo. Altri studenti sono stati costretti a urinare senza alzarsi.
Infine sono stati sollevati dubbi riguardanti la violazione della privacy, visto che questi sistemi hanno accesso ai computer degli studenti e di conseguenza a dati sensibili. Molti sistemi richiedono poi di inquadrare la stanza in cui lo studente sostiene l'esame per controllare che non ci sia nessun'altro e che non ci siano appunti appesi alla parete retrostante il computer. Con le restrizioni imposte dal diffondersi del contagio, molte società hanno chiesto ai controllori, arruolati per monitorare i video degli studenti, di farlo da casa, sollevando molti dubbi sul grado di protezione garantito alle immagini trasmesse via webcam.
Le proteste degli studenti hanno spinto diverse università, sia in Italia che altrove, a sospendere l'utilizzo di questi sistemi. L'Università di Berkeley per esempio ha deciso già ad aprile di non utilizzare sistemi del genere, neanche quelli che impiegano di controllori umani per la sorveglianza da remoto. perché violerebbe le regole etiche del campus riguardo il diritto alla privacy e l'accessibilità da parte di persone con disabilità. Per ora l'unico strumento autorizzato è un blocco del browser con cui viene effettuato l'esame.
Una scossa per la scuola - Giovanni Castagno
L’attenzione che lo svolgimento di una lezione all’interno di un parco romano ha destato nell’opinione pubblica non può che far piacere. Ho ricevuto in poche ore, una volta pubblicata la notizia decine di commenti per la maggior parte entusiasti, positivi in generale e anche in quei rari casi in cui emergevano perplessità o venivano sottolineate delle criticità (le immaginiamo, “e se piove”, “e se uno si fa male”, “e se un bambino si ammala”) comunque tutti erano concordi nel ritenerla una apprezzabile e buona pratica. Frutto certamente della passione del singolo, quindi anche inevitabilmente limitata alla buona volontà dell’insegnante, difficilmente riproducibile in modo esteso e sistematico, ma comunque apprezzabile.
Una breve riflessione si potrebbe aprire sulle logiche attraverso le quali una notizia diventa tale. Sui meccanismi che portano in modo così rapido e vertiginoso il protagonista di una proposta a diventare rapidamente oggetto di telefonate, messaggi, contatti, giornalisti di testate nazionali, di programmi televisivi che improvvisamente si avvicinano incuriositi, quando altre decine di volte, attività, progetti, interventi simili sono caduti nel vuoto. Ma tant’è.
Invece, forse, a pochi giorni dalla “lezione al parco”, credo, potrebbe essere interessante darci il tempo di riflettere su una serie di questioni che questa semplice, spontanea, immediata iniziativa ha spinto credo molti come me a fare. Sia che si abiti la scuola dal punto di vista professionale, come docenti, personale ausiliario, amministrativo, sia che la si viva dal di fuori, come genitori di bambini, bambine, ragazzi o ragazze che tutti i giorni la attraversano e la con-dividono con noi che ci insegniamo.
Al netto quindi della sorpresa, per una reazione così entusiasta, dal punto di vista sociale, dal lato “esterno” della scuola, sul fronte dei genitori e della società, che ha forse in parte sopravvalutato la complessità di una iniziativa la cui organizzazione invece non ha costituito il minimo problema per chi l’ha proposta, attribuendo a me meriti che non sento di dovermi prendere, dobbiamo però ragionare molto di più su quello che è successo invece “dentro” la scuola, sul fronte dei colleghi. Perché io credo sia necessario una volta per tutte affrontare alcuni nodi in modo collettivo, senza remore o ipocrisie.
Perché la reazione lì, tra amici colleghi, colleghi e colleghe e basta, conoscenti che insegnano, in altre scuole, in altri gradi, è stata prevalentemente speculare.
“Avevi chiesto il permesso alla dirigente?”.
“Lo sai che hai infranto il regolamento?”.
“Guarda che rischi grosso, attento”.
“Finirai per essere detestato da tutte le colleghe”.
Anche a fronte delle mie rassicurazioni, del tentativo di spiegare meglio cosa effettivamente era stato fatto i commenti non sono cambiati. Anche dopo aver spiegato che questa soluzione era stata condivisa con i genitori della classe le osservazioni non sono cambiate se non in minima parte.
Che si fa maestro ci colleghiamo?
“Domani la scuola chiude. Che si fa maestro ci colleghiamo?” Questo era successo. “Ma voi che ne direste se andassimo al parco invece di collegarci da casa?”. Dipingiamo sempre il mondo dei genitori come se fosse solo ed esclusivamente interessato a questioni marginali, ma quando poi invece esprime una solidale e seria comunanza di intenti, la rilevanza che viene data a questa alleanza mi sembra sempre insufficiente. Invece questa volta non per una levata di scudi antitecnologica, contro Dad o Ddi che dir si voglia (altro tema sul quale andrebbero sciolti alcuni equivoci perché frutto delle lunghe conseguenze che correnti di pensiero antimoderne hanno avuto e continuano ad avere nel nostro paese nel quale a un incondizionato entusiasmo per la tecnologia si accompagna invece un suo rifiuto pseudo-intellettualistico perverso) ma proprio perché a tutti più semplice, efficace, e realizzabile ci è sembrato, in modo quasi spontaneo fare così, siamo andati al parco.
In fondo non dovevamo passarci tutta la giornata, ma solo un paio d’ore. Il clima ancora mite (senza guardare sempre all’“erba del vicino”, che non è verde come sembra, osserviamo però ogni tanto quello che fanno in nord Europa e interroghiamoci sul fatto che quella metereologica continui a essere qui da noi un’argomentazione valida per dissuadere dall’uscire all’aperto, io non me ne posso più capacitare), senza particolari rischi. E soprattutto il timore che presto anche questi spazi ci vengano vietati. Allora perché non approfittarne prima che diventi comunque impossibile farlo?
“Chi non può maestro?”
“Chi non può si collega attraverso il computer, sfruttiamo la connessione di un telefono, ci mettiamo d’accordo, facciamo un po’ per uno, e gli facciamo seguire comunque la lezione da remoto. Non riuscirà a sentire sempre gli interventi dei compagni come se stessimo in classe, ma tanto in classe non ci possiamo stare… e anche online, non è che non si presentino problemi di ascolto, partecipazione, difficoltà”.
Un’organizzazione tutto sommato, semplice, veloce, frutto di una mediazione e di una riflessione che forse potremmo semplicemente definire scontata: a tutti piacerebbe stare in presenza in classe, a tutti piacerebbe che fossero stati fatti investimenti sufficienti a rendere possibile la diminuzione dei numeri di bambini per classe, ad aumentare il numero degli insegnanti nelle scuole, a fornire supporto logistico per cui se chiude un bagno, a sanificarlo non ci si mettono cinque giorni ma un pomeriggio, e se proprio non si riesce a sanificarlo in tempo, si allestiscono dei bagni alternativi di emergenza che permettano comunque a un plesso, se una classe, due, tre, vanno in quarantena, di reggere lo stesso.
Ma visto che così non è, perché non immaginare di trovare delle alternative. Che non devono essere valide per tutti e obbligatorie, ma semplicemente una possibilità per chi la vuole cogliere?
Ecco allora necessario ritornare alle motivazioni che hanno determinato questa visione negativa e genericamente ostile all’iniziativa perché ci aiuterebbe a prendere più direttamente contatto con quella che è la situazione della realtà scolastica, quello che succede al suo interno, come funziona, come reagisce al cambiamento e alle spinte che nei suoi confronti arrivano dalla società. Spinte che possono essere giuste o sbagliate. Perché le spinte, le tensioni, non sono tutte positive certo, ma neanche tutte negative, e forse dovremmo ricominciare ad abituarci a fare anche questo: distinguere.
Abbiamo fatto pochissimi passi avanti
Parole che ci siamo abituati a prendere e usare in modo neutro, non lo sono, e a seconda del contesto assumono un significato diverso, a seconda degli interessi di chi le utilizza sostengono e difendono visioni del mondo completamente diverse. La lezione di Laclau dovrebbe essere sufficientemente condivisa. Due esempi su tutti: “competenza”. Ci siamo abituati a considerarla sinonimo di neo-liberismo, ma è invece in una cornice “neo-liberale” che essa assume questa connotazione come ci fa giustamente notare il pedagogista Massimo Baldacci nel suo volume La scuola al bivio, per cui non è la parola in sé espressione diretta di un contesto ma il contrario. “Autonomia”. È in un contesto profondamente impregnato dell’ideologia neo-liberista che in questa fase dello sviluppo capitalistico la scuola si è trovata a vivere il processo che l’ha traghettata dal sistema centralizzato e burocratizzato a quello della concorrenza degli istituti scolastici vissuti come aziende che si devono accaparrare un mercato, quello degli alunni. Ma di per sé l’autonomia, il rapporto con il territorio, la declinazione in modalità localizzate di modulare gli insegnamenti sono invece processi fondamentali e progressisti.
Se queste tensioni tra scuola e società negli ultimi anni hanno quindi fatto arretrare la scuola, la funzione che esercita, reso sempre più equivoco il legame con il mandato costituzionale, come ha già più volte segnalato nei suoi scritti Alberto Alberti, sempre più disatteso, inevitabilmente, dobbiamo però anche constatare che appunto dalla società sono arrivate spinte anche di segno opposto.
Se ci fermiamo per esempio a osservare la domanda che arriva di un maggiore spazio all’educazione al movimento, di un maggiore spazio alle questioni ambientali, di una maggiore spazio al ristabilimento di un rapporto tra la scuola e il territorio che è andato smarrito, ci accorgiamo che pochissimi passi avanti sono stati fatti e che anzi, spesso sono stati fatti dei passi indietro.
Una domanda di cambiamento c’è e per la verità, se andiamo a rileggere quello che rimane uno dei testi più interessanti prodotti dal ministero negli ultimi anni, Le indicazioni nazionali del curricolo, ritroviamo raccolte queste stimoli e tradotti in un tentativo di “fare scuola” in un altro: basta scorrere le pagine per imbattersi in parole come “la presenza di comunità scolastiche, impegnate nel proprio compito, rappresenta un presidio per la vita democratica e civile perché fa di ogni scuola un luogo aperto, alle famiglie e ad ogni componente della società, che promuove riflessione sui contenuti e sui modi dell’apprendimento, sulla funzione adulta e le sfide educative del nostro tempo”. E ancora: “La scuola si apre alle famiglie e al territorio circostante, facendo perno sugli strumenti forniti dall’autonomia scolastica, che prima di essere un insieme di norme è un modo di concepire il rapporto delle scuole con le comunità di appartenenza, locali e nazionali […] È già avviato un processo sempre maggiore di responsabilizzazione condiviso dai docenti e dai dirigenti, che favorisce altresì la stretta connessione di ogni scuola con il suo territorio”. E per concludere “la scuola non ha più il monopolio delle informazioni e dei modi di apprendere. Le discipline e le vaste aree di cerniera tra le discipline sono tutte accessibili ed esplorate in mille forme attraverso risorse in continua evoluzione. […] Dunque il ‘fare scuola’ oggi significa mettere in relazione la complessità di modi radicalmente nuovi di apprendimento con un’opera quotidiana di guida”.
Una scuola che non sa dialogare?
Perché? Di chi la responsabilità che nella quotidianità scolastica restino pressoché lettera morta? Nonostante, o forse proprio nella misura in cui i documenti ufficiali quelli che emana il ministero, provano a cogliere e intercettare queste esigenze, la scuola sembra invece impantanata, incapace dal di dentro di dare risposte, mostrando una scarsa propensione al dialogo, allo scambio, al confronto come se qualsiasi tentativo di stabilirlo si traduca in una indebita ingerenza della società sul suo operato.
Possibile poi che in un quadro del genere si reclami una diversa posizione nelle gerarchie dell’agenda politica, si rivendichi un ruolo diverso rispetto a quello in cui verrebbe relegata pedagogia ed educazione, si chiede di invertire l’ordine delle priorità, senza essere disposti a rinegoziare il proprio ruolo?
Il dibattito che negli anni Cinquanta e Sessanta condussero i pedagogisti laici e quelli marxisti proprio sul problema del rapporto tra scuola e società ci offre spunti utili. In un contesto profondamente diverso conservano una loro pregnante attualità le parole che Dina Bertoni Jovine (forse la più importante pedagogista comunista della storia del nostro paese) rivolge a Lamberto Borghi, pedagogista di area laica: l’autonomia della scuola dalla società e dalla politica che in buona fede gli attivisti perseguivano era inevitabilmente equivoca perché partiva dall’assunto che l’ambito educativo potesse essere separato da quello sociale e che la pedagogia potesse lavorare separatamente dalla politica e dalla pressione che la politica esercitava su di essa. “La societá non può essere né accettata in blocco, né respinta, in essa agiscono i fermenti progressivi contro forme isterilite e oppressive. La scuola viva deve ispirarsi ai primi facendo proprie nel proprio ambito, le esigenze di rinnovamento culturale e assecondando gli ideali democratici giunti alla loro più chiara espressione; deve rifiutarsi all’influenza delle seconde concludendo contro di esse un’azione critica approfondita e continua”.
Secondo la Jovine “non bastano i metodi scolastici democratici, non basta imparare a discutere, a rispettare le opinioni degli altri, ad assumere come norma la tolleranza. Occorre saper fare una scelta, conquistare un obiettivo, identificare i punti concreti in cui inserire la propria azione, costruirsi un ideale, un programma. Nella realtà non si può dire di possedere un metodo democratico se non applicato concretamente in una battaglia contro qualche cosa o per qualche cosa, a un contenuto cioè storicamente determinato”.
Oggi, immaginare che la scuola debba essere separata, autonoma, che non sia sano e positivo che essa entri in un rapporto dialettico con la società, dove esistono divaricazioni certo, posizioni diverse, opinioni progressiste e reazionarie, è altrettanto equivoco. Non lo è già di fatto separata dalla società. Perché educazione è politica e politico il gesto educativo. Sempre. Il tema credo invece sia quello di cercare di capire di quale ideologia si faccia portatrice la scuola, di quale visione del mondo, di quale egemonia sia espressione e recuperare una visione dialettica che sembra essere scomparsa dall’orizzonte.
Abbiamo un problema
Se una lezione al parco ha registrato tanti commenti negativi da parte dei colleghi insegnanti a fronte dell’entusiasmo che ha raccolto fuori dalla scuola vuol dire che si è prodotta una polarità che non possiamo far finta di non vedere che c’è un problema, di alleanze, di convergenze e divergenze che dobbiamo certo cercare di interpretare, di comprendere, ma non possiamo far finta di non vedere.
Ci siamo troppo a lungo preoccupati dei banchi monoposto. Ora, a fronte del fatto che l’alternativa sarebbe stare a casa, perché non organizzarsi per fare lezione nel parco?
Quella che un insegnante, un gruppo di genitori e i loro figli è sembrata tutto sommato la soluzione più rapida, semplice, per risolvere un problema, perché non potrebbe diventare una soluzione replicabile?
Ragioniamo. Lasciamo per un momento da parte gli elementi strettamente pedagogici, e il significato che pedagogicamente possiamo dare a questa iniziativa, il valore che assume l’osservazione diretta, l’apprendimento attraverso l’esperienza piuttosto che attraverso lo strumento tecnologico (anche il libro, perché è una tecnologia anche quella, anche se spesso tendiamo a dimenticarlo) e ragioniamo allargando o sguardo, come più volte ci ha suggerito di fare Paolo Vittoria, che ha segnalato in molti sui contributi come sia necessario e urgente riprendere in mano il problema della formazione degli insegnanti.
Ma non ci illudiamo. Solo se saremo in grado di ricostruire legami sociali, spinte di carattere progressista, di mettere l’accento sui fenomeni educativi dandogli un segno politico avremo qualche speranza che la scuola possa cambiare. Finché invece continueremo a sostenere e riprodurre una equivoca e perversa idea di “autonomia”, o a combatterla addirittura per rispolverare vecchie e superate forme centralizzate del potere scolastico, qualsiasi progetto di trasformazione che riguardi il mondo dell’istruzione e dell’educazione sarà destinato a fallire.
Scuola: quando l'Irc rischia di «allargarsi» - Marco Rostan
È possibile che una classe, con il suo insegnante di religione cattolica, organizzi la visita al museo africano per conoscere la vita dei missionari in Kenya e Tanzania, escludendo gli alunni che non si avvalgono dell’insegnamento cattolico durante l’anno? È incredibilmente successo in una 1a media di Peschiera Borromeo, dove l’insegnante in questione ha spiegato che la visita faceva parte integrante del programma di Irc. Inevitabile la protesta dei genitori coinvolti.
D’altro lato gli insegnanti Irc, con il sindacato Snadir, chiedono a gran voce che ci sia un concorso per le assunzioni: l’ultimo fu nel 2004, riservato però ai soli docenti che avessero almeno quattro anni di servizio. Una protesta anche contro «la progressiva emarginazione» dell’insegnamento di religione, che non verrebbe più incluso nel Piano di offerta formativa delle singole scuole.
Continua con alterne vicende la questione della presenza del crocifisso nelle aule. Essa è in netta ripresa dopo che negli anni scorsi molti crocifissi erano stati rimossi. C’è anche la laicità «per aggiunta» di altri simboli religiosi da affiancare al crocifisso: in alcuni casi gli alunni sono stati invitati a portare a scuola i simboli della loro religione e a illustrarne il significato.
Altra gita insolita per circa 80 alunni di una scuola elementare di Molinella nel Bolognese, in una moschea dove gli alunni si sono tolti le scarpe e hanno ascoltato l’iman. La comunità islamica ha sostenuto le spese di viaggio. L’insegnante di Irc spiega che questo progetto è iniziato tre anni fa, per promuovere l’intercultura e fare conoscere tutte le religioni (facciamo notare che questo allargamento dell’Irc, ancorché positivo sul piano della conoscenza, costituisce una aggiunta non prevista negli accordi fra Stato italiano e Conferenza episcopale, che prevedono il solo insegnamento cattolico. Se l’orizzonte si estende alle altre religioni, allora dovrebbe essere l’intero consiglio di classe o di istituto che lo programma e decide con quali insegnanti svolgerlo).
Per la Lega si tratta di integrazione al contrario: l’italiano che studia l’arabo e non l’arabo che impara l’italiano; anche il sindaco Pd ha chiesto di non perdere di vista i valori occidentali e in riposta al corso di arabo ha promosso un corso di dialetto bolognese. Più contrastata la questione dei riti a scuola: a Coriano, in provincia di Rimini, un referendum tra i genitori aveva ottenuto una larga maggioranza di favorevoli. Nello scorso febbraio una sentenza del Tar ha stabilito che «non può la scuola esser coinvolta nelle celebrazioni di riti religiosi che sono attinenti unicamente alla sfera individuale di ciascuno». Ma contro la sentenza è stato presentato un ricorso al Consiglio di Stato, sostenuto da una maggioranza di genitori di oltre il 90%, che si dichiarano favorevoli alle benedizioni nelle aule scolastiche. Sempre a Coriano, nel 2009, i riti religiosi erano stati vietati dopo la protesta di un gruppo di genitori, evidentemente su posizioni opposte.
Come si vede l’idea di uno studio dei fatti religiosi, plurale e laico, svolto da insegnanti assunti con modalità uguali a quelle dei loro colleghi e preparati nelle Università (posizione più volte ribadita anche nelle assemblee protestanti) resta per il momento un’illusione e la laicità un miraggio. Tar e Consiglio di Stato giocano a rimpiattino, i sacerdoti circolano nelle aule anche durante l’orario obbligatorio, i laici protestano, i crocifissi tornano a sovrastare le cattedre: una chiesa come quella che vorrebbe papa Francesco non potrebbe pagare gli stipendi degli insegnanti della sua religione (magari con lo Ior?).
Dato che la politica si guarda bene dal toccare l’argomento (che faranno i 5 stelle?), gli italiani si ricordino che finora gli insegnanti di religione cattolica sono assunti se hanno il placet del vescovo. Ma li paghiamo noi, compresi valdesi, ebrei, musulmani e atei… e tutti quelli che si illudono di non dare soldi alla Chiesa cattolica se non firmano nell’apposita casella dell’otto per mille.
Maestre e professoresse - Graziella Priulla
Mai come in questo periodo convulso e straniato si è parlato tanto di scuola. Mai se n’è sentita tanto la necessità, mai il suo ruolo si è dimostrato così importante. Si è capito finalmente che la scuola non solo costruisce competenze ma è la prima palestra di democrazia. Sono venute alla ribalta nella stampa notizie di esperienze didattiche coraggiose, di docenze eccezionali, di innovazioni significative che in altri tempi non avrebbero meritato nemmeno una riga.
Dunque “i maestri” insegnano all’aria aperta; “i professori” inventano nuove formule per la didattica a distanza, i presidi vengono intervistati … La ministra viene chiamata “ministro” e ci si ricorda che è una donna quasi sempre per insultarla con grevi termini sessisti.
Oltre 700.000 persone costituiscono un esercito che forma le menti e le coscienze di intere generazioni. Ma è un esercito femminile (senz’altre armi che la parola) di maestre, di professoresse, di dirigenti scolastiche: è donna più dell’81 per cento della classe docente italiana, la seconda quota più alta dei Paesi europei dopo l’Ungheria.
Lavorare sul linguaggio significa lavorare sul pensiero. La lingua non ha solo la funzione di rispecchiare i valori ma anche quella di concorrere a determinarli, organizzando le nostre menti. Nel corso della socializzazione avviene l’adattamento spontaneo del soggetto alle pratiche linguistiche in uso nella propria comunità linguistica.
Dietro le parole quotidiane ci sono i pregiudizi, gli stereotipi, i luoghi comuni, gli schemi cognitivi, i condizionamenti che frenano il cambiamento. Poggiano su discriminazioni, denigrazioni, sottovalutazioni, cancellazioni. Esaltano le differenze ma praticano le disuguaglianze.
Il maschile grammaticale, quando assume la funzione di forma neutra, presenta l’uomo come la norma e la donna come un’eccezione: contro la statistica, contro la logica, contro la realtà.
È però la scuola italiana stessa che ancora troppo spesso parla al maschile: la storia che vi si insegna è scritta al maschile, la grammatica è declinata al maschile, accetta tacitamente le cancellazioni. La critica profonda e corrosiva portata dal femminismo alla cultura patriarcale non ha trovato ancora una sponda forte.
La scolarizzazione di massa è stata probabilmente il fenomeno che con maggior forza ha segnato il mutamento femminile della percezione del sé, introducendo percorsi uguali e condivisi, ponendo tutti e tutte di fronte agli stessi obiettivi. La scuola però non ha accompagnato questa sua straordinaria funzione con una riflessione adeguata, ma si è limitata a far convivere in modo frammentario la pratica del nuovo con l’andazzo tradizionale.
Non dobbiamo permettere che ancora una volta la stima sociale nei confronti delle donne che esercitano professioni autorevoli e indispensabili scenda a livelli che non rendano sufficiente giustizia al nostro impegno e all’importanza del nostro lavoro.
Marginale, inferiore, svalutata, dipendente, discriminata, o esclusa, assente, invisibile è stata per millenni la metà dell’umanità. Così ce l’hanno restituita la storia, le leggi, le religioni, le tradizioni, i costumi; così si esprimono ancora i luoghi comuni e gli stereotipi nati in epoche lontane, che i figli e le figlie del nuovo millennio assorbono per osmosi.
Volete aiutarli a ragionare o li volete allevati per inerzia, come polli in batteria?
LA SCUOLA NON HA MAI CHIUSO - Igino Domanin
La scuola non ha mai chiuso, non si tratta di “riaprirla”: vorrei che fosse il punto di partenza chiaro di un ragionamento problematico, non esente da dilemmi, diretto a una congiuntura e non a stabilire principi universali.
Il 14 settembre ho rimesso piede nell’edificio del Liceo scientifico dove insegno: non lo facevo da 7 mesi. Sono arrivato molto presto, perché dovevo vigilare sugli ingressi che avvenivano scaglionati per evitare gli assembramenti. Alle 7,45 dovevo trovarmi già al piano, fare la spola tra due aule, controllare l’arrivo del 50% degli alunni previsti per ciascuna classe: l’operazione si concludeva entro le 8,15. In tutto 30 minuti, in una atmosfera raggelata, tipica delle situazioni catastrofiche attuali, che sembrano tutte svolgersi a una velocità rallentata. Hai tutto il tempo per renderti conto che sta avvenendo qualcosa di brutale e traumatico, ma appunto resti lì ipnotizzato come uno spettatore che rivede un’azione di football o uno sprint di atletica leggera, quasi che il trascorrere del quadro sia la condizione del comporsi progressivo e ineluttabile del suo oggetto tragico.
Entrando a scuola osservo il vicepreside controllare quel che avviene all’ingresso generale, poi proseguo lungo un percorso tracciato, mi fermo a igienizzare le mani, salgo le scale, trovo i colleghi che appaiono distanti, sfocati, qualcuno sfida il senso del ridicolo agitando la manina, qualcuno vorrebbe sorriderti con gli occhi, ma mi trovo sempre precauzionalmente a due metri e mezzo da loro, pure insonnolito, quando me ne accorgo. Insomma sono a scuola, ma la situazione è da Unheimlickeit freudiana, quella per cui ti sconcerti di più, quella in cui apparentemente ti trovi in un luogo familiare e invece scopri che non è, ma soprattutto non sai perché.
Stare isolati, distanziati, nascosti dalla mascherina, con una presenza dimidiata, mentre il resto della classe ti segue con enorme difficoltà da casa attraverso un microfono e una telecamera, con la sala professori vuota, il bar chiuso, il divieto di intervalli, la mancanza di una socialità possibile, prima durante e dopo la scuola. Vorrei che non si mitizzasse la riapertura della scuola e si sapesse brutalmente dire di che cosa si è trattato in molti casi. Siamo andati avanti per poco, senza alcuna sicurezza, con l’ansia di fare il più possibile, prima che quella possibilità svanisse, con la consapevolezza di dover tornare a usare solo ed esclusivamente le piattaforme digitali per proseguire l’anno scolastico. Le classi cominciarono a essere messe in quarantena, il metodo del tracciamento provocava una estensione vasta e sistematica del rilevamento della positività; nei pressi della scuola, negli ultimi tempi, c’erano file di macchine con parecchi docenti alla guida che andavano verso l’ospedale per sottoporsi all’esame. Dopo poco, l’ennesimo crack annunciato: la scuola ha chiuso, tutto sbaraccato, con un preavviso di due giorni al massimo. Tutto da rifare, si deve tornare alla DAD, bisogna riorganizzare, riprogettare, protocollare. Perché questo, se non bastasse, è stato il secondo tempo della riapertura. Naturalmente in alcune scuole, subito dopo la chiusura, sono arrivati i banchi con le rotelle, ovvero il grande tema didattico ed educativo che il dibattito pubblico aveva affrontato dopo l’estate.
Da allora mi sveglio più tardi, la lombalgia si è fatta più acuta, i vestiti d’ordinanza sono meno curati e vari. Faccio tutto molto in fretta, la colazione, l’abluzione, la vestizione. Ho il pc nella mia camera da letto, cioè dopo aver compiuto i riti scialbi del risveglio, mi tocca di tornare dove ho già passato tutta la notte. Dietro di me c’è una parete bianca, neutra, nell’inquadratura che offro ai miei studenti c’è solo quel candore impallidito, la sporgenza della libreria con qualche dorso appena colorato di vecchi libri acquistati in gioventù, una luce accanita che splende da una lampadina montata con un braccio e un gancio a un ripiano della libreria. Questa luce deve curiosamente irradiare il mio volto circonfondendolo talvolta, se non ben calibrata, di una paradossale e risibile aura. Così appaio ogni mattina, ma soprattutto, così appaio a me stesso. Perché per la prima volta mi vedo mentre spiego, grazie allo schermo sono anch’io uno dei tanti volti che compongono la classe: anch’io dentro una finestra ben isolata e ben iperconnessa, tessera di questo incongruo mosaico.
Sicuramente mi distrae, mentre parlo di Platone osservo la smorfia o il ghigno che mi scoppiano involontariamente sul viso, i miei occhi fessurati o il diastema sempre più ampio nei denti superiori. Mi ricorda quella scena sartriana de La nausea in cui Roquentin a forza di fissarsi nello specchio non percepisce più il suo volto, ma un grumo di carne caotica e disorganizzata.
La DAD non è salutare, mi anchilosa, m’innervosisce, mi coarta. Sono costretto a inventarmi forme di discorso e di interazione che ostentatamente rifiuto come essere umano un po’ preistorico che si aggira casualmente nel secolo corrente. Fin qui sono io e la mia carne, ma poi c’è il fatto che parlo di fronte a una platea che ogni mattina fatica perfino ad avere la linea, forse a svegliarsi, che guarda in direzione dello schermo e della webcam, ma magari sta con la testa su Instagram o Whatsapp. Si fanno ore asincrone, si registrano le lezioni abbassando ogni attenzione per la privacy, si condivide lo schermo e devi pure stare attento a non far comparire per sbaglio la pagina aperta della tua mail.
Sono rapido e vado solo per cenni, soltanto per dire che certamente siamo in uno sfacelo lento e inesorabile, traumatico, che causa danni profondi. La scuola però esiste, è andata avanti, ci siamo stati tutti noi che ci lavoriamo o abbiamo figli: anche in questa forma. Non lo nego, anzi confesso che ho una paura fottuta di quel che succede, e che mi sveglio col timore che, per esempio, mia figlia che è al primo anno di liceo scientifico e ha frequentato sì e no 3 settimane e non conosce praticamente nessun compagno di scuola, molli tutto e mi dica (come è già successo), Guarda papà che non ce la faccio più, da domani non mi connetto.
E aggiungo quindi che dopotutto ho finito per rimpiangere quell’apertura traballante di settembre, quel brandello di scolarità fisica e in presenza che pure c’era allora, anche con tutte le gravi lacune, difficoltà, contraddizioni che comportava. Non sono un apologeta della DAD, non credo che possa sostituire la didattica in presenza, ma dico anche che senza la tecnologia non ce l’avremmo fatta e che è grazie alla tecnologia che abbiamo tenuto aperta, in qualche maledettissimo modo, la scuola.
Perché, allora, non bisogna “riaprire” il 7 gennaio? Perché non concederci daccapo quel brandello di didattica in presenza che ci è stato consentito dalle circostanze? Soprattutto dal momento che perlomeno gli edifici scolastici sembrano più organizzati e più sicuri di un centro commerciale o del supermercato dove fai la spesa tutti i giorni. Penso che dobbiamo aspettare proprio perché la scuola non ha mai chiuso finora e cerca di tenersi in piedi con uno sforzo, in primis psicologico, immane.
Quello che pavento è molto semplice, senza essere un tecnico o un esperto di alcunché: mi pare ci siano dei rischi evidenti, molto maggiori di settembre, quando abbiamo assistito a una rapida e rovinosa chiusura. La situazione è assai peggiore e vicina a soglie di rischio importanti, i vaccini sono lontanissimi dall’essere una soluzione, ci sono mutazioni in giro del virus che pare lo rendano molto più contagioso. Quale sarebbe allora la soluzione? Quella di anteporre il principio che le scuole “devono” essere “aperte”, a dispetto del fatto che non sappiamo realmente come l’ovvio aumento della massa delle persone in circolazione può agire su una situazione fuori controllo, con la quasi certezza che dopo pochi giorni avremo di nuovo classi in quarantena, che i ragazzi arriveranno e soprattutto rincaseranno in orari assurdi per lo svolgimento dei compiti o di altre attività? Il punto è molto netto e dovrebbe valere soprattutto per il governo, in una situazione catastrofica come questa: vale la prudenza contro il rischio. Non si può scommettere, non si può aprire e chiudere la scuola, non si può essere flessibili con le zone a semaforo, perlomeno su una tema come la scuola. È una congiuntura, non è un pronunciamento sul valore della scuola, sui massimi principi metodologici, su cosa è meglio o peggio in assoluto, ma semplicemente su cosa sia prudente scegliere ora. Aprire, correndo il serio rischio di chiudere tra 15 giorni, è una scommessa e come tale credo vada rifiutata. Non si gioca d’azzardo con l’ignoto: con ciò che ancora non si sa e non è dato sapere bisogna brandire la pazienza come arma razionale e scientifica, complicata e dubbiosa. Forse scomoda e lenta, ma solo dalla prospettiva dei pasionari per un giorno.
La scuola in cortocircuito - Enrico Manera
In questi giorni, mentre si ipotizza che la riapertura delle scuole non avverrà prima del 2021 e si susseguono le dichiarazioni politiche sulla sua priorità, il lungo silenzio sui problemi della ripresa scolastica in presenza è stato rotto dalle notizie e dai commenti sulle proteste studentesche contro la Didattica a distanza che si stanno svolgendo un po' ovunque.
A Torino, un caso di cui si è parlato molto, nell'isolato pedonale dell'Università di Palazzo Nuovo, studenti e studentesse del liceo classico e linguistico “V. Gioberti” manifestano chiedendo di poter tornare alla didattica in presenza e sottolineando tutti i limiti della Didattica a distanza (Dad) nell'intero paese. Limiti che vanno dalla fruibilità dei contenuti per tutti alla diseguaglianza di opportunità legata agli strumenti digitali. È infatti cosa ben diversa potersi collegare, leggere documenti e comporre testi utilizzando un computer di ultima generazione con la fibra digitale oppure dover fare le stesse cose con un telefono cellulare e le offerte “sui giga”.
Le manifestazioni testimoniano il bisogno di luoghi di socialità e di stare insieme come condizione per un apprendimento efficace, una condizione in cui la condivisione tra pari e la fisicità del docente è sentita come necessaria. La visibilità della protesta passa anche attraverso la richiesta di non perdere lezioni, collegandosi on line, nello spazio antistante la scuola. O comunque di condizioni migliori di quelle che ci sono in casa, siano esse tecniche, ambientali o psicologiche, anche con l'approvazione delle famiglie stesse.
Si tratta di una manifestazione organizzata e autorizzata dalle forze dell'ordine, e simbolica, con non molte persone, con ragazzi seduti dietro piccoli banchi o per terra, che si è scontrata con alcune regole previste dall'Istituto, che recepiscono quelle generali, le applicano nel contesto e prevedono che i collegamenti debbano avvenire da luoghi idonei alla fruizione delle lezioni.
All'interno di un più ampio piano della didattica, tesa a definire le caratteristiche della Dad e alleggerire il carico per garantire il diritto alla disconnessione, i regolamenti sono sorti nel tentativo di disciplinare atteggiamenti che potessero risultare impropri, nel rispetto delle norme della privacy familiare e in considerazione del fatto che la comunicazione online prevede un'etichetta e un codice comunicativo non immediati, soprattutto per gli studenti più piccoli. C'è poi la questione delle leggi nazionali e regionali sulla circolazione fisica delle persone e quella della tutela dei minori che la scuola deve garantire, rispondendo in primis ai genitori.
In sintesi, da un lato un amministratore pubblico, un dirigente scolastico o gli organi collegiali non possono andare contro ordinamenti più generali. Dall'altro ci sono le ragioni delle condizioni professionali dell'insegnamento e del diritto all'istruzione (anche dei molti che vogliono rimanere a casa), le richieste dell'adolescenza a manifestare il dissenso che – va ricordato – è rivolto alle istituzioni regionali e nazionali con la richiesta, peraltro mite, di poter tornare a scuola in sicurezza il primo possibile.
Sul piano teorico studenti o studentesse dovrebbero poter usufruire della Dad ovunque siano, e le scuole dovrebbero accogliere e vagliare ragioni e bisogni in modo che non siano pregiudicati l'ascolto, la concentrazione o l'operatività. I docenti dovrebbero poter valutare se le condizioni siano compatibili con gli standard di svolgimento della lezione. Normare tutto questo risulta molto complesso e difficilmente praticabile.
Gli studenti che manifestano spesso supportati dalle famiglie hanno dato una bella immagine pubblica, manifestando apprezzamento per la scuola e quanto questa manchi loro, mossi in definitiva dal desiderio di poter rientrarci. Obiettivi condivisi anche dai molti che la protesta non la fanno.
Nell'analisi di questo caso, che è paradigmatico, emergono tutti questi elementi che molti commenti non colgono, concentrandosi su luoghi comuni sociologici, sul costume, sul colore locale, sul rinvio alla fortuna mediatica dei Fridays for Future.
Del resto, la crisi dovuta all'emergenza sanitaria scompagina le logiche con cui affrontiamo le cose e rende difficile prendere posizione, evitare sconfinamenti, infrazioni e risolvere la situazione con una sintesi che accontenti tutti.
L'impressione è che il dibattito pubblico, frastornato dall'emergenza sanitaria e desideroso di normalità, si stia avvitando attorno a una visione della scuola stretta e idealistica. Il problema riguarda il sistema educativo in genere: in scala sistemica e su tutto il territorio nazionale, poter definire a priori come debbano essere le stanze e i luoghi di collegamento è una visione che non tiene adeguatamente conto dei dati di realtà, della convivenza prolungata delle famiglie, delle povertà abitative, del parco tecnologico, della scarsa connettività e della difficile infrastrutturazione generale.
La Dad è inoltre una soluzione temporanea, che se fortunatamente risolve alcune questioni immediate di ordine didattico, comporta complicazione e snaturamento del lavoro di insegnamento e lascia scoperta l'educazione che passa nella comunicazione viva e attraverso il bisogno di socialità dei soggetti in età evolutiva. Come è gia stato rilevato, la Dad, di cui tutti farebbero a meno, aumenta la dispersione scolastica.
La questione principale è il sostanziale fallimento del progetto ministeriale di messa in sicurezza della scuola, laddove la strada – per quanto difficile – da prendere fin dall'inizio sarebbe dovuta passare per altri luoghi: diminuire il numero di allievi per classe; assumere e formare nuovi docenti; trovare tempi e spazi differenti, più ampi e arieggiati, con rotazioni e orari differenziati; dotare di maggiori infrastrutture tecnologiche tutte le scuole (tra cui cablare e insonorizzare le aule); favorire gli screening di massa del personale; alleggerire il carico didattico sui progetti che è diventato complicatissimo fare per l'emergenza generale (come l'ex Alternanza scuola lavoro, Pcto); puntare sulle scuole aperte come presìdi di sicurezza e accoglienza.
Certamente la scuola ha subìto anche effetti dovuti ad altri elementi, di cui sono responsabili altre istituzioni, come ha mostrato il braccio di ferro tra governo e regioni, o e i singoli, come si è visto con le ricorrenti polemiche sulla socialità nel tempo libero.
Si trattava in ogni caso di operare in chiave di territorio e sugli spostamenti degli studenti in relazione ai trasporti.
Quello che è stato fatto non è bastato: i criteri per il distanziamento, a partire da quelli più concreti come le misurazioni degli spazi, non erano convincenti fin da settembre; le procedure per le assegnazioni dei docenti alle cattedre sono ancora in corso. Molto è stato annunciato, ma evidentemente dovevano essere messi in campo più finanziamenti e altre competenze, se davvero la scuola è un bene comune da salvaguardare con particolare attenzione.
Grandi sforzi sono stati fatti dal personale scolastico e da tanti colleghi e colleghe, è ingiusto non riconoscere il lavoro svolto da molti; dai decisori ultimi sarebbero dovute arrivare soluzione diverse, discusse e negoziate.
Si dirà che ci sono altre priorità, e oggi c'è l'emergenza. Eppure bisogna scegliere, la seconda ondata del virus era prevista e bisognava predisporre misure adeguate per tempo, cosa che non è avvenuta in diversi settori. La sensazione è che si punti sulla capacità di resilienza e di sopportazione della scuola e delle famiglie, facendo dell'educazione un problema minore a fronte di altri scenari critici.
Quello che viviamo in questi strani giorni dunque è uno scacco continuo, una crisi silenziosa dell'educazione e della ricerca, in cui addetti e lavoratori sotto pressione si ritrovano a discutere tra loro per risolvere problemi che c'erano già prima del Covid e che vengono da lontano, ora aggravati e difficilmente recuperabili nell'emergenza. Non raccontiamoci che non li vedevamo prima.
Come docente e formatore penso che sulle zattere che teniamo a galla ogni giorno la vita continui, con risultati più che dignitosi, con grande attenzione reciproca e con la volontà di trovare soluzioni. Ma mi sento anche di appartenere a una classe amareggiata, macerata a lungo nella disillusione, in cui ci sono solo soluzioni biografiche, anche eccellenti, mentre dal punto di vista generale e politico il senso di sconfitta e di schiacciamento è pesante.
Le aule scolastiche sono vuote, accessibili solo per gli allievi con esigenze specifiche di apprendimento e senza la classe, con laboratori che alcune scuole possono garantire per un numero ridotto di allievi e di ore. I costi sociali e psicologici della mancanza di scuola sono un prezzo altissimo e una ipoteca sul futuro.
Il silenzio delle aule è anche quello di un corpo docente dilaniato tra la preoccupazione della propria salute e il compito professionale ed educativo di continuare a insegnare. Dietro ognuno ci sono le legittime fragilità messe in luce o esasperate dalla pandemia, le esigenze di chi deve prendersi cura dei cari, dei figli e degli anziani e i disagi dei docenti e dei precari lontani da casa.
Si dirà che è così per tutti. Eppure bisogna decidere se la scuola ha un significato prioritario per il futuro delle comunità. Ed è un appello fatto anche dal Comitato tecnico scientifico su indicazione delle istituzioni internazionali che si occupano di educazione.
La generazione privata dall'emergenza Covid di una scuola in presenza ci sta chiedendo qualcosa. Cercare soluzioni, possibilmente insieme, è quello che dobbiamo fare.
Un vecchio prof. Disilluso - Alessandro Banda
Ho letto il bell'articolo di Enrico Manera. Concordo pressoché su tutto. Potrei sottoscriverlo. Queste che aggiungo sono solo considerazioni personali che ne prendono in qualche modo spunto.
Vorrei partire in particolare da quel passo dove Manera dice di noi insegnanti che siamo una “classe amareggiata, macerata a lungo nella disillusione, in cui ci sono soluzioni biografiche, anche eccellenti, mentre dal punto di vista generale e politico il senso di sconfitta è schiacciante e pesante”.
Perfetto. È proprio così.
E questi sono i pensieri attuali di un vecchio professore, amareggiato e disilluso (e anche un po' depresso).
Innanzitutto l'emergenza.
Ha cambiato qualcosa l'emergenza, nella scuola? No. Ha solo messo in evidenza ciò che già c'era, ed era anche ben percepito (da chi nella scuola lavora), ma platealmente ignorato da quelli che Manera chiama i “decisori” (non so se con ironia; forse sì, visto che i decisori decidono ben poco, mi pare).
Non serve citare gli immancabili Carl Schmitt o Walter Benjamin per capire il valore delle emergenze, dei casi estremi. Essi sono rivelatori. Ma ciò è chiaro anche al buon senso: quando si giudica della verità di un'amicizia? Nei casi estremi. Lì si può distinguere il vero amico dal falso.
Quando si giudica dell'efficienza di un'istituzione? Nei casi estremi.
Cosa rivela, della scuola, questo caso estremo?
Primo: che essa è essenzialmente percepita come “parcheggio” o “area di sosta”.
Intendiamoci, gli studenti fanno benissimo a protestare contro i limiti e le palesi insufficienze della DAD. Le sperimento tutti i giorni anch'io. Le sperimentiamo tutti.
Ma molti genitori, per fare un esempio a caso, hanno scoperto l'irrinunciabile valore della scuola, proprio nel momento in cui essa ha chiuso i battenti. Probabilmente erano gli stessi che si scagliavano contro gli insegnanti, che li aggredivano anche, fisicamente, perché rei di non valutare adeguatamente i loro figli. Ma quando i portoni sono rimasti serrati, ecco che il valore della scuola è apparso irrinunciabile.
Questo tipo di genitore (abbastanza diffuso) ama sicuramente i figli, ma di un amore, per così dire, provenzale.
Esattamente come Jaufré Rudel che amava la sua donna, ma “da lontano”. E' il celebre “amor de lohn”. Tali genitori amano i figli, ma soprattutto quando li hanno a debita distanza. (Certo: devono lavorare, non possono dedicarsi a loro, eccetera). Ed ecco che in questo momento la scuola, nella sua irrinunciabile attività di babysitting, ritrova la sua autentica giustificazione.
Possibile, poi, che si scoprano solo adesso tutti i problemi gestionali legati alla grandezza dei nostri istituti scolastici? Possibile. Possibile.
Strano allora che nessuno, mi pare, ricordi la legge sul dimensionamento scolastico del 2011.
È da allora che, per meri motivi economici, si sono accorpate due, tre, più scuole – per creare istituti “monstre”.
Faccio un esempio. Nella mia piccola cittadina, Merano, che allora aveva poco più di trentamila abitanti, quando ero studente, c'erano ben cinque istituti superiori. E ognuno con il suo bravo preside (o brava preside). Adesso (e nel frattempo gli abitanti sono saliti a più di quarantamila) c'è un unico dirigente per le cinque scuole accorpate. E' ovvio che affrontare un'emergenza con una scuola di modeste dimensioni è una cosa, tutt'altra affrontarla con una scuola gigantesca. Però c'è stato un bel risparmio: invece di pagare cinque presidi (dirigenti) se ne paga uno solo.
“Oh Marx – tutto è oro” scriveva Pasolini (Progetto di opere future in Poesia in forma di rosa). E così è. Sono decenni che l'Italia spende poco per la scuola. Non investe in istruzione.
La media OCSE è del cinque per cento del Pil. L'Italia investe il tre e mezzo per cento circa, del Pil.
Se invece si considerano i dati Eurostat che esaminano quanto della spesa pubblica complessiva venga destinato alla scuola, allora lì l'Italia è addirittura ultima.
Nel novembre del 2008 un ragazzo della provincia di Torino, che si chiamava Vito Scafidi, e aveva diciassette anni, morì perché gli crollò addosso il soffitto della sua classe, in un liceo scientifico.
L'allora capo della protezione civile, Bertolaso, dichiarò in quella triste occasione che almeno il cinquanta per cento delle scuole italiane non era a norma. Vuoi per quello che riguarda gli incendi, vuoi per quel che riguarda i terremoti. Alcune scuole, disse Bertolaso, non avrebbero avuto nemmeno l'agibilità. Solo che, grazie al cosiddetto “decreto mille-proroghe”, tutto veniva, di anno in anno, “sanato”.
L'attuale ministra è oggetto di critiche feroci. Ma quello che più conta è che essa è lì, perché il suo predecessore, quasi un anno fa, si è dimesso. E perché? Perché non gli venivano concessi, in manovra, i fondi richiesti.
Un vecchio “cumenda” amava dire, per concludere irreparabilmente certe lunghe discussioni in sede progettuale, “ma i danè chi li caccia?”. E questa è ormai anche la mia conclusione, di vecchio professore o, se si preferisce il politicamente corretto, di anziano didatta. I “danè”, chi li caccia?
CONTRO IL VIRUS DELLA RETORICA. SCUOLA IN PRESENZA E SCUOLA A DISTANZA - Luca Barbieri
Mi pare che, assieme al Covid, in queste settimane stia circolando diffusamente anche il virus della retorica, soprattutto nei discorsi sulla scuola. Vorrei fare un po’ di ordine. Premetto che le considerazioni che svolgo vengono dalla mia attività di insegnante di liceo, e ad esse fanno riferimento: gli studenti di cui parlo sono dunque i liceali, con cui da otto anni lavoro.
Che la scuola c’entri nella ripresa dell’epidemia, è palese: grafico dei contagi alla mano, si nota che la curva comincia a salire in maniera significativa dall’inizio di ottobre, e l’unica novità rilevante nei comportamenti collettivi mi sembra sia stata la ripresa delle lezioni, avvenuta circa quindici giorni prima.
Chiaramente va subito precisato che la scuola c’entra, sì, ma in maniera indiretta: non erano le aule a essere pericolose, quanto gli autobus scolastici e i treni regionali, scandalosamente pieni. Per il resto, i ragazzi hanno imparato a tenere indossata la mascherina, meno a stare distanti – ma è anche comprensibile, umanamente e fisicamente: nemmeno noi adulti ci riusciamo sempre; e d’altronde la scuola ha riaperto a settembre accettando una scommessa che è anche una sfida alla logica: riaprire con i distanziamenti un luogo che è invece per sua natura di assembramento e di contatto.
Di conseguenza, dire che la chiusura delle scuole riduce il contagio è semplicemente una verità. Non di molto (si stima intorno al 15%), ma è pur sempre una percentuale significativa in un momento in cui il sistema sanitario rischia il tracollo per la saturazione dei posti di terapia intensiva.
Certamente questa chiusura era tutt’altro che inevitabile, ma bisognava agire nei mesi scorsi, e farlo con interventi strutturali: il principale, a mio modo di vedere, avrebbe dovuto essere lo scaglionamento degli ingressi di circa mezz’ora; per ipotesi – e ricordo che parlo di scuole superiori –, le classi prime avrebbero potuto entrare alle otto, le seconde alle otto e mezza e così via fino alle quinte con ingresso alle dieci. Con una misura come questa si sarebbe quantomeno diminuito il sovraffollamento dei trasporti, con beneficio peraltro anche degli altri lavoratori. Si dirà: ma così le lezioni sarebbero durate fino a metà pomeriggio, per gli studenti e per gli insegnanti, senza considerare il problema della ristorazione! Vero, ma questo è un anno emergenziale: vanno messi da parte i corporativismi e le comodità, se si crede fermamente, come leggo da ogni parte, nell’assoluta necessità che la scuola sia in presenza. O meglio: che la scuola in presenza sia quella vera, mentre la d.a.d. un suo indegno surrogato malfunzionante.
Il che un po’ è vero, e ogni docente, me compreso, potrebbe a questo punto fare la lista delle stranezze e dei limiti di questo palliativo didattico spacciato per innovazione: dai gatti che passano davanti allo schermo, agli studenti che, interrogati, scompaiono nel cyberspazio o si alzano per andare ad aprire al corriere. Ma intanto bisognerebbe dividere, nei giudizi, la questione della valutazione online da quella dell’insegnamento disciplinare. La prima pone problemi oggettivi di sorveglianza, perlopiù irrisolvibili, la seconda di riorganizzazione mentale, perlopiù del docente; entrambe, ma soprattutto la prima, espongono l’insegnante a un’innegabile mortificazione del suo operato, di cui davvero non si sentiva il bisogno.
Tuttavia, a me non piacciono le demonizzazioni: non stravedo per le lezioni online, anche per concrete ripercussioni sul mio fisico (dolori muscolari, soprattutto cervicali), ma devo ammettere che, per le mie discipline, Lingua e Letteratura italiana e latina, tutto sommato funzionano. Altri contenuti, invece, sicuramente si adattano peggio a essere veicolati on-line, o forse proprio non si adattano: è il caso delle lingue, che richiedono presenza, interazione e prontezza, tutte abilità pressoché non esercitabili con la d.a.d.; mentre le materie scientifiche mi pare si situino in un limbo, essendo discipline per così dire molto empiriche nel loro svolgersi sostanzialmente tramite esercizi alla lavagna o esperimenti.
Ciò non vuol dire, però, che allora non si possa fare nulla di valido, in quelle materie, o che sia tutto tempo perso: in una d.a.d. di qualche settimana, si potrebbe ad esempio riscoprire la storia di una determinata lingua oppure anche quella della fisica, o della scienza e delle tecnica. Adattamenti, dunque, vale a dire guardare (e imparare a far guardare) la propria disciplina da un’altra prospettiva. Il discorso cambierebbe sul lungo periodo, indubbiamente, ma non sarebbe uno scoglio insormontabile.
Bisogna però ammettere che nessuno, alle superiori, insegna implantologia o chirurgia: si possono dunque spiegare le equazioni, il Decamerone e le leggi di Mendel anche on-line, previo un minimo di dimestichezza informatica – e mi domando allora se, piuttosto, non sia un po’ di sana alfabetizzazione tecnologica che manca, ai docenti italiani. Si possono persino fare le prove, previo saperle costruire per intercettare non solo le conoscenze, per le quali basta aprire una scheda di Chrome o proprio il libro che si ha davanti, ma le tanto famigerate competenze e abilità. Aggiungo pure che, con la possibilità di registrare le lezioni (in presenza o in modalità asincrona), si offre agli studenti con Bisogni Educativi Speciali o Disturbi Specifici dell’Apprendimento, la possibilità di stoppare la spiegazione per prendere appunti e addirittura di rivedersi l’intera lezione. E questo è un indubbio vantaggio, e un passo avanti nella didattica inclusiva.
In questo articolo mi interessa riflettere soprattutto sulla percezione che i ragazzi hanno della d.a.d., perché molta della retorica che ho sentito in queste settimane nasceva da un fraintendimento di essa. Ho appena corretto un pacco di temi d’italiano di una seconda, di cui una delle tracce era inerente la pandemia di Covid-19 e le sue ripercussioni sulla vita quotidiana. Tutti gli studenti che hanno svolto il tema hanno ammesso che la didattica in presenza è diversa e preferibile, ma nessuno ha demonizzato la d.a.d.: semplicemente, i miei alunni ne hanno riconosciuto e accettato l’uso emergenziale, e senza usare toni da pasionarie. E certo, non farebbe cambio con la lezione in presenza, come nemmeno io, ma, insomma, si sono adattati senza traumi di sorta.
Ho scritto sopra che non mi piacciono le demonizzazioni e ora aggiungo che non soffro neanche le idealizzazioni. Vengo dunque al nocciolo della questione: davvero gli studenti sentono una mancanza così forte della scuola in presenza?
Occorre fare attenzione. Credo che noi adulti ci siamo dimenticati cos’è stata la scuola, per noi: veramente era la cosa più bella del mondo? Davvero non andarci, d’estate, ci mancava? Se rispondiamo di sì, probabilmente è per due motivi: (1) perché il tempo che passa porta con sé una certa edulcorazione degli eventi, depurandoli dei loro lati negativi e cristallizzandoli invece in immagini perlopiù positive; e se questo si combina poi con la malinconia del tempo che passa e l’avanzare inesorabile degli anni, è facile che si idealizzi il periodo della propria gioventù, in cui la scuola gioca un ruolo fondamentale; (2) perché forse quello che ci mancava era il lato socializzante della scuola, in un’epoca in cui Internet non esisteva e non si era dunque sempre connessi; non ci mancava certo il lato educativo, di cui, all’età delle superiori la maggior parte dei discenti non percepisce appieno il valore.
Ma si potrebbe semplificare ulteriormente la questione. La scuola non ci mancava semplicemente perché studiare NON è bello. Bisogna avere il coraggio di dirlo. Non lo è mai stato e non lo sarà mai. Casomai è bello l’oggetto dello studio, ma non certo l’azione dello studiare. E tanto meno è bello alzarsi all’alba per nove mesi all’anno, nell’età della vita in cui a letto non andresti mai e in cui dormiresti fino a mezzogiorno. A chi è piaciuto, a chi piace mettersi curvi su un libro e leggere, rileggere, sottolineare, sforzarsi di capire, riassumere e mandare a memoria? E poi essere interrogati e valutati, subendo gli inevitabili confronti con i compagni… a chi manca tutto questo? A nessuno che non sia un masochista. Certamente, al di là di questo muro sta la gratificazione dell’avere imparato, dell’essere diventati più colti e del sentirsi un po’ meno ignoranti, e non è cosa da poco. Ma non scambiamo il fine con il mezzo: studiare NON è bello. Richiede fatica, impegno, costanza, lotta contro la pigrizia, abnegazione di sé… e non c’è una sola azione invitante in quelle che ho appena menzionato. E non dipende dal fatto di essere adolescenti, e quindi ancora immaturi: ho preparato, trentacinquenne, il concorso straordinario per insegnanti e posso assicurare che non mi sono divertito. Mi sono acculturato, sì, ma certamente non divertito.
Mi chiedo allora: davvero gli studenti dei collettivi che stanno facendo sit-in fuori dalle scuole in questi giorni rappresentano il sentire dello studente medio? Solo io non ho praticamente mai percepito nei miei studenti tutta questa voglia matta di studiare e acculturarsi? E preciso che i miei alunni sono dei bravi ragazzi e delle brave ragazze, non degli scarti di riformatorio. Persone perbene, normali, che hanno diversi gradi di intelligenza e abilità, e a cui auguro tutto il bene possibile, ma che, appunto, nel loro essere normali, capiscono che una lezione su Marco Polo o sulla discesa di Carlo VIII è fruibile anche sotto forma di videolezione. E forse anche quella inerente la risoluzione delle disequazioni, a condizione però che il docente sappia usare i mezzi informatici (… ma appunto, questa non è una pecca dei ragazzi).
A me la scuola è sempre parsa il luogo dove si entra meno volentieri e da cui si corre fuori il prima possibile. Mi pare si facciano feste, l’ultimo giorno di scuola, non funerali. E che bigiare la scuola sia una delle azioni che ingolosiscono maggiormente gli alunni. E mi sembra anche che molti di loro vadano richiamati in classe per l’uso improprio dei cellulari mentre si spiega… e allora mi domando dov’è sempre stato tutto questo interesse smodato per l’apprendimento che oggi, all’improvviso gli studenti sembrano manifestare?
Più ragionevolmente, le cose stanno così: non c’è nessuno studente delle superiori che in questo momento sia a casa piangente perché non può andare a scuola. Credere il contrario vuol dire aver perso il senso della realtà, nonché avere una visione miope e idealizzata dell’essere studenti.
Allo studente medio, infatti, la scuola come ambiente di apprendimento non manca (e forse nemmeno come ambiente di socializzazione, visto che ormai oggi esso coincide bene o male col web), almeno per tre ragioni: (1) la prima è che è sospesa la didattica in presenza, non la didattica tout-court; con tutte le riserve che si possono avere sulla d.a.d., bisogna ammettere che, per una parte delle discipline del curriculum, essa può replicare abbastanza bene la lezione frontale; si dirà che la lezione frontale è superata e inefficace; direi che, adattata nei tempi e corretta con una sana interattività, per un mese o quanto durerà la quarantena, si può tranquillamente riesumare, visto che con essa sono cresciute generazioni di persone e non mi pare siano venute su male; si dirà che i ragazzi si distraggono, si disconnettono per sottrarsi alle interrogazioni e via dicendo… ma bisogna ricordare che è pur sempre il docente ad avere le redini della classe, anche online, e che forse lì, più che nel contesto in presenza, sorvegliabile, è messa veramente alla prova la sua capacità di coinvolgimento dei ragazzi, perché deve essa deve combattere contro il potere distraente del computer; probabilmente è una battaglia persa, bisogna ammetterlo; del resto, che i ragazzi siano inclini alla distrazione se non sorvegliati e non siano tendenzialmente in grado di autodisciplinarsi, lo si sa; ma la maturità è a diciott’anni, appunto, e gli adulti (cioè i maturi) sono gli insegnanti, nella partita educativa; (2) il secondo motivo sta nella comodità dello studiare a casa, i cui vantaggi sono inutili da riassumere perché intuibili da tutti; è pur vero che si tratta di comodità diverse per ognuno: non tutti hanno case grandi e confortevoli, non tutti hanno una stanza tutta per sé dove potersi concentrare, e in questo senso, sì, è grave la chiusura delle scuole: perché essa favorisce l’uguaglianza degli alunni a livello di strutture, tempi e mezzi di apprendimento; (3) l’ultimo motivo – e che però è anche il più interessante e significativo secondo me – è che gli studenti, diversamente da ministri, insegnanti e opinionisti vari, non idealizzano né l’istituzione-scuola, né chi ci lavora.
La scuola è un’istituzione, appunto: non è un mondo fatato che deve salvare l’umanità dal suo sfacelo. Tantomeno è il paradiso dei bambini o degli adolescenti (e bisognerebbe parlare con chi ha subìto, a diversi gradi e stadi del percorso scolastico, il bullismo, per sapere se è poi così bello stare a scuola; e mi pare che questo fenomeno sia ormai una piaga endemica). La scuola, dicevo, è un’istituzione, e cioè un ente più o meno funzionante, più o meno delegittimato e sgangherato a seconda dei contesti, in cui alcune persone, pagate per farlo, trasmettono un sapere e aiutano i ragazzi a costruire, usare e implementare la loro intelligenza, affinandola in modi e con materie anche molto diverse tra loro: per questo è giusto passare i pomeriggi tanto a leggere il Decamerone quanto a cercare di capire la meccanica dei fluidi. Certo, non è poco, anzi, è molto, moltissimo. Ora tutto questo mi pare si possa fare anche on-line, per quanto non in maniera ottimale come lo si farebbe in presenza. D’altronde il contesto è emergenziale, e la risposta non può che essere della stessa natura: si deve tamponare in qualche modo, è ingenuo pensare di poter riprodurre sulla rete il contesto-scuola ordinario.
Ritengo però esagerato parlare, come ho sentito più volte nel dibattito, di “danni irreparabili” sui ragazzi per alcune settimane di d.a.d., foss’anche per un semestre: questa è retorica bell’e buona. Come tanti colleghi, ho visto per l’ultima volta in presenza i miei studenti liceali in febbraio (un centinaio di persone), ritrovandoli poi nel settembre scorso: erano intellettivamente identici, nel bene e nel male; emotivamente, pure.
Dicevo che gli studenti non idealizzano nemmeno chi ci lavora, nella scuola, e cioè gli insegnanti. Semmai sono gli insegnanti stessi che, complici anche certe fiction e certi libri scritti proprio da ex professori, finiscono per idealizzare se stessi. Libri e miniserie sciagurati che presentano il lavoro del docente come una Missione di Vita, spingendo l’opinione pubblica a voler credere che sia così. La cosa inquietante è che adesso anche molti professori sembrano indulgere in questa idealizzazione, trovandoci magari quella gratificazione che la società non dà loro più: e si compiacciono dunque di sentirsi parroci del loro gregge di alunni, disponibili 24h su 24 e sette giorni su sette, nel timore che, se staccano per un momento, ne consegue la perdizione umana, sociale e intellettuale dei loro studenti. Per i quali, invece, i professori restano, certo, delle persone fondamentali, ma tutt’altro che insostituibili. Del resto, con la supplentite acuta che affligge la scuola italiana, è già un miracolo se riescono ad avere lo stesso insegnante per la stessa materia per più di uno o due anni.
Insomma, la pluricitata “alchimia profonda” tra docente e studente, fatta di fiducia incondizionata, sguardi e intesa emotiva, di solito esiste solo nella testa del primo, o andrebbe comunque ridimensionata, riconoscendole una prevalente unidirezionalità: è in buona sostanza un efficace palliativo che serve all’insegnante per autogratificarsi e dare senso al proprio lavoro. All’indomani del DPCM che annunciava il ritorno in d.a.d. per le superiori, ho visto al telegiornale una docente di inglese infervorata fino alle lacrime che esclamava: “Eh no, non li lasceremo soli, i nostri studenti, a costo di metterci a leggere tutti assieme Shakespeare nei parchi”. Mi sono dunque domandato: ma te l’hanno chiesto loro o sei tu che speri/vuoi/vorresti che te lo chiedessero? Perché c’è una bella differenza. Hanno una vita, gli studenti: vedono, dal vivo o su Internet, altre persone; e hanno interessi che sono lontani mediamente anni luce da quelli dei loro prof. È ingenuo pensare che l’insegnante sia il perno delle loro esistenze: quello è L’attimo fuggente, non la realtà. E se lo è, lo è per il tempo che dura la lezione, o poco più.
Ma quindi chi sono gli insegnanti? Sono uomini e donne che cercano di tamponare, fungendo un po’ da psicologi e un po’ da genitori, le falle di una società che ci vuole sempre più atomizzati e ignoranti per essere meglio eterodiretti. E sono persone che, fuori dalle pareti scolastiche, hanno una vita evenemenziale e affettiva che dà loro tutto il diritto di staccare e di non farsi coinvolgere troppo da quello che accade sul posto di lavoro. Il diritto di non sentirsi responsabili per ciò che loro non possono controllare nella vita emotiva dei loro alunni, di cui loro occupano una minima parte. E anche il diritto di mantenere una certa sana distanza da quello che fanno, che è un lavoro, non una vocazione monastica o una scommessa di vita.
In definitiva, dunque, a chi manca la scuola in presenza? Sicuramente a noi docenti, sicuramente a buona parte degli adulti che ne sfruttano il lato accuditivo, ma assai meno agli studenti che, in situazioni emergenziali, sembrano essere più pragmatici di noi adulti e anche in grado di adattarsi ai cambiamenti senza ricorrere ogni volta alla stampella della retorica.
La nuova medicina INVALSI per la scuola in difficoltà: i test a uso locale - Rossella Latempa
In pieno spirito natalizio, tenendo fede alla parola data durante la primavera scorsa, l’INVALSI lancia il suo ultimo progetto, Percorsi e Strumenti INVALSI, per “aiutare concretamente le scuole”, ad “individuare al più presto carenze o perdite di apprendimento (learning loss) dovute anche alla pandemia”. La “valutazione non è un lusso dei tempi agiati”, ci insegna l’Istituto INVALSI, e se la scuola rischia di “perdere l’anima” in emergenza, schiacciata da problemi logistici e sopraffatta da paure contingenti, l’INVALSI ha già pronta la sua cura. Test formativi “ad uso locale”, aggiuntivi e su base volontaria, in Italiano, Matematica e Inglese; oltre ad un catalogo di risorse informative e buone pratiche, curate dagli esperti INVALSI per tutti gli insegnanti. Un progetto utile per capire “come si parte” e non solo “dove si arriva”. Nell’universo scolastico visto dalla lente INVALSI, il dove si arriva, è stabilito dal test standardizzato primaverile. I nuovi test formativi, ora, assumendo come dato di partenza gli esiti delle prove obbligatorie, condurranno gli insegnanti lungo la direzione guidata dagli indicatori e dalle misure INVALSI. E’ l’istituto di valutazione, oramai, a definire il modo giusto di misurare i traguardi -molto ampi – delle Indicazioni Nazionali, intestandosene l’interpretazione autentica, stabilendo i livelli di adeguatezza delle competenze degli studenti e formulando gli items che consentono di misurarle. Adesso, sempre l’INVALSI suggerirà le piste preferenziali per giungere a quei traguardi, grazie ai nuovi test formativi e al materiale di formazione per gli insegnanti. Una sorta di teaching to the test ufficiale e ben confezionato, spacciato per aiuto e supporto alle scuole, incapaci di fare da sole.
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L’approfondimento sul tema dei nuovi test formativi è suddiviso in due parti.
Nella prima si presenta e discute il progetto “Percorsi e striumenti INVALSI, sulla base dei materiali informativi elaborati e pubblicati sui siti istituzionali dell’Istituto di Valutazione.
Nella seconda si affronta il nodo centrale del progetto: l’ossimoro test formativo-standardizzato.
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Dal vocabolario Treccani:
aiutare [..] v. tr.– 1. Prestare ad altri la propria opera in momenti di difficoltà o per cose che non sarebbero capaci di fare da soli.
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In pieno spirito natalizio – nonostante i tempi che corrono – e tenendo fede alla parola data nella primavera scorsa, è in arrivo l’ultimo progetto dell’Istituto di Valutazione INVALSI. Obiettivo: “aiutare concretamente le scuole ”, ad “individuare al più presto carenze o perdite di apprendimento (learning loss) dovute anche agli effetti della pandemia”.
Si tratta del progetto “Percorsi e Strumenti INVALSI”: test aggiuntivi, da svolgersi su base volontaria da novembre a gennaio, con precise modalità di somministrazione e per determinati gradi scolastici. Le discipline sono sempre le stesse: Italiano, Matematica e Inglese. Le classi coinvolte: terza primaria, prima secondaria di primo grado, prima, terza e quinta secondaria di secondo grado. Gli studenti interessati sono dunque quelli frequentanti le classi immediatamente successive a quelle in cui gli studenti svolgono i test INVALSI censuari e obbligatori, che restano programmati per la prossima primavera.
Alle prove vere e proprie – cartacee per i bambini di 8 anni, computerizzate (Computer Based Testing) per i ragazzi di 11, 14, 16 e 18 anni – sarà affiancato “un catalogo di risorse curate dell’INVALSI”, indirizzato ai docenti e costituito da: “video formativi e informativi ed esempi di Buone pratiche”, “link e riferimenti per approfondire”, “materiali da consultare anche successivamente alla visione dei video”.
Tale catalogo di “occasioni formative” per gli insegnanti, spiega l’INVALSI,
“parte dai dati INVALSI per trattare uno o più ostacoli all’apprendimento, suggerisce spunti di riflessione e proposte didattiche per affrontare quei particolari nodi, fornendo esempi e materiali”.
Si tratta di far comprendere ai docenti, insomma,
“come esse [le prove INVALSI obbligatorie] sono costruite, come si legano alle Indicazioni nazionali e ai traguardi in esse previsti e, soprattutto, come possono essere di aiuto per monitorare il miglioramento degli studenti”.
I nuovi test, che l’Istituto chiama “formativi”, non sostituiscono le prove standardizzate in ordinamento, che dunque conservano anche il valore certificativo a fine ciclo, seppur in piena emergenza. Sono, piuttosto:
“nuove soluzioni che vanno ad affiancare, accompagnandole e non sostituendole, le Prove di fine periodo, pensate e disegnate per verificare il raggiungimento di alcuni traguardi (..) previsti”.
1. La retorica del test INVALSI come pharmacon
Il nuovo progetto di “test formativi” non rappresenta quindi un ripensamento dell’impianto di prove standardizzate sollecitato dall’assoluta eccezionalità storica del periodo attuale. Al contrario. La situazione emergenziale è sì un’opportunità, ma un’opportunità di guadagnare ulteriore terreno di consenso nel dibattito pubblico, politico, e scolastico.
L’ultimo editoriale dell’ex direttore generale INVALSI, Paolo Mazzoli, offre sostegno a tale interpretazione, mettendo bene in prospettiva l’impianto retorico dell’operazione, nel cui merito entreremo meglio nella seconda parte della riflessione…
È possibile pensare ancora la fine della scuola? - ewart
«Decenni di fede nella scolarizzazione hanno tramutato il sapere in una merce, un prodotto commerciabile di tipo speciale. Oggi lo si considera un bene di prima necessità e, contemporaneamente, la moneta più preziosa di una società. (La trasformazione del sapere in merce si rispecchia in una parallela trasformazione del linguaggio. Parole che un tempo avevano funzione di verbi stanno diventando sostantivi che indicano possesso. Sino a non molto tempo fa “abitare”, “imparare”, “guarire” designavano delle attività: oggi si riferiscono di solito a delle merci o a dei servizi da fornire. Parliamo di industria edilizia, di prestazione di assistenza medica; nessuno pensa più che la gente sia in grado di farsi una casa o di guarire per proprio conto. In una società cosiffatta si finisce per credere che i servizi professionali siano più preziosi della cura personale. Invece d'imparare ad assistere la nonna, l'adolescente impara a picchettare l'ospedale che non vuole accoglierla)»
Ivan Illich, Descolarizzare la società, 1972
In questi giorni segnati dalla pandemia non si è mai parlato così tanto di scuola. Da quando è entrata sulla scena la «didattica a distanza» poi la confusione è esplosa a livelli esponenziali. Docenti e genitori che protestano per la chiusura delle scuole, genitori e docenti che protestano per la riapertura delle scuole senza la dovuta sicurezza, ministri che polemizzano con presidenti di regione che chiudono le scuole, scienziati che affermano che la scuola sia il luogo dove il virus si diffonde più degli altri luoghi, genitori che affermano il contrario, e così via, in un crescendo di grida strozzate da talk-show televisivo. Mentre tutti sono contro tutti, però, su una cosa sono tutti d’accordo: la scuola è un luogo importante, importantissimo, forse è l’istituzione più importante di tutta la nostra società, della nostra democrazia. Il ministro dell’Istruzione, ovviamente, dirà che nel pur necessario lockdown le scuole devono essere le ultime a chiudere e quindi si inventerà un distanziamento tra banchi a rotelle. Il presidente di Confindustria sarà d’accordo e dirà che la scuola deve formare i lavoratori del futuro. E così di seguito tutti i partiti, di destra di centro e di sinistra, diranno che la scuola è un’istituzione centrale, sacra, intoccabile. Chi critica questo coro unanime lo farà soltanto per smascherare un’ipocrisia palese, ovvero che nel mentre tutti i governi hanno proclamato la scuola come centrale per il funzionamento della democrazia, l’hanno contemporaneamente svuotata di finanziamenti, precarizzando il corpo docente e lasciando gli istituti in un degrado crescente, con i soffitti che cadevano in testa agli studenti. Questa critica non fa che rafforzare il coro del governo: sì, il precedente esecutivo poteva fare di più, ma adesso ci siamo noi e dobbiamo puntare tutto sulla scuola. Non se ne esce, in tutto questo dibattito pubblico, in questi mesi di feroci accuse tra scienziati e politici sulla didattica in presenza e a distanza, non si è alzata nemmeno una voce che mettesse in discussione il cuore, il progetto, l’utilità e la funzione di questo baraccone osceno che chiamiamo scuola. Il motivo di questa assenza è semplice ma forse è illuminante rispetto a tanto di quella falsa opposizione che sinistra e movimenti fanno ad un sistema che vorrebbero combattere ma di cui in realtà condividono principi e fondamenti. Come altre istituzioni totali sviluppatesi nel Novecento, come il carcere, l’ospedale o il manicomio, anche la scuola è stata profondamente riadattata nella fase più recente del dominio capitalista. Come le altre istituzioni che un tempo facevano da ausilio ideologico alla grande fabbrica fordista, anche la scuola è diventata più flessibile, i suoi insegnamenti più adatti a formare la mentalità imprenditoriale dei suoi studenti. Così come la polizia e il controllo si sono diffusi e ramificati nella società e così come il lavoro si è reso pervasivo, totalizzante, con gli smartphone che ci attaccano al meccanismo produttivo h24, così la scuola è diventata smart, i suoi insegnanti sono precari che devono formare clienti e futuri lavoratori iper-sfruttati. Cambiato lo scenario, cambiati gli strumenti, resta l’obiettivo di fondo: a scuola si deve insegnare a obbedire. Oggi la ginnastica dell’obbedienza deve essere permanente, così come si suol dire che la formazione non deve finire mai, perché se perdi il lavoro a cinquant’anni ovviamente è per colpa tua che non ti sei adeguatamente aggiornato. Se però durante la fase fordista qualche eretico poteva immaginare la descolarizzazione, la fine della scuola, e si poteva pensare un’alternativa del sapere e dell’apprendere in comunità dislocate fuori dalle logiche del capitalismo, oggi sembra che questo scenario (parimenti con quello della fine del capitalismo) non sia nemmeno immaginabile. Gli unici movimenti che abbiamo visto in questi anni sono stati sempre sulla difensiva, con comitati di base di professori che lottavano contro la trasformazione della scuola da fabbrica fordista ad azienda con produzione just in time. E dunque anche nel dibattito avvenuto durante questa pandemia si è parlato della stabilizzazione dei docenti precari, delle aule pollaio, dei concorsi, della sicurezza e di tanto altro, certo non di «abolizione della cattedra» o altri concetti di quello che viene demonizzato come residuato ideologico degli anni 70. Sarebbe invece il caso di riscoprire quanto hanno detto questi teorici della descolarizzazione, per tracciare almeno qualche idea differente. Ivan Illich nel suo Descolarizzare la società inseriva la scuola tra le istituzioni manipolatorie e non conviviali, un’istituzione fondata sulla confusione tra l’erogazione dell’istruzione e l’assegnazione del ruolo sociale. L’attacco di Illich al sistema istituzionale d’istruzione si può capire soltanto insieme alla sua critica dell'architettura moderna, della famiglia e del sistema di merci: in questo senso Illich nel 1971 ha forse preconizzato la completa integrazione della scuola con gli strumenti tecnologici del dominio, questa oscena formazione (a distanza o meno) che lo Stato ti eroga attraverso i software di una multinazionale come Google. Per questo motivo pensare la fine della scuola sarà di nuovo possibile solo se riemergerà la voglia di distruggere questo mondo, reinventando così l’arte di costruirne uno nuovo.
Adolescenti e covid: come prevenire e curare l’ansia e la depressione - Marina Penasso, Dors
Il problema
È di pochi giorni fa la notizia, riportata dai principali quotidiani italiani, del boom di tentativi di suicidio da parte degli adolescenti (ma anche dei preadolescenti) in questo periodo di pandemia. Sono stati, in particolare, i neuropsichiatri infantili dell’Ospedale Regina Margherita di Torino a denunciare in una ricerca una crescita, mai registrata prima, di tentativi di suicidio e di suicidi portati a compimento tra i minori nella fascia di età “10-17 anni”.
Il fenomeno, che ha visto un aumento già negli ultimi dieci anni, è destinato a crescere in quanto adolescenti e preadolescenti in questo periodo di isolamento forzato e di pressione psicologica sono più preda di depressione, ansia e sono anche più esposti alla violenza domestica.
A Torino, per tentare di prevenire e arginare il fenomeno, è stato avviato il progetto “Un ponte tra ospedale e territorio”, con un programma integrato di cura e di accompagnamento che prevede l’espressione artistica e la socializzazione tra pari per facilitare il reinserimento sociale degli adolescenti con psicopatologia complessa. Ad oggi ne hanno beneficiato oltre 200 adolescenti. Il progetto è implementato da una partnership composta da da Neuropsichiatria infantile, ASL Città di Torino, Associazione CasaOz, Cooperativa Mirafiori onlus, Scuola in Ospedale (SIO) e Istruzione domiciliare (ID), Università degli Studi di Torino. Un recente Protocollo d’intesa ha inoltre rafforzato la collaborazione con le reti artistiche (in primis il Museo Nazionale del Cinema di Torino).
Allargando il nostro raggio di osservazione al contesto internazionale, da un’indagine sulla salute mentale condotta a giugno dai CDC (Centers for Disease Control and Prevention) di Atlanta (USA) è emerso che i sintomi di ansia e depressione sono notevolmente aumentati nell’ultimo anno a causa principalmente dell’isolamento dai coetanei e dell’interruzione della routine scolastica, che hanno contribuito a far crollare la sensazione di stabilità percepita solitamente. Nella fascia di età 10-24 anni i suicidi fra i giovani americani rappresentano ancora la seconda causa di morte, dopo gli incidenti, con un aumento del 56% tra il 2007 e il 2017.
Diventa molto importante, come ha sottolineato lo psichiatra Richard Friedman in un articolo sul New York Times, che professionisti della salute e genitori interagiscano con gli adolescenti per comprendere/accogliere il loro dolore, e promuoverne l’accettazione finalizzata all’adattamento. Sarebbe anche necessario promuovere nuovi servizi di salute mentale pensati specificamente per l’adolescenza. Non si può trascurare il fatto che gli adolescenti necessitino - per il loro sviluppo – di un contatto regolare con i coetanei, e anche di relazioni “strette” con gli adulti fuori casa, come insegnanti e allenatori. Diventa fondamentale, in questa fase pandemica, preparare i genitori a riconoscere nei loro figli sintomi depressivi e segni che possano far pensare a un’ideazione suicidaria in fase prodromica.
Una recentissima review (Loades ME, et al.) aveva obiettivo di stabilire ciò che si sa sull’impatto delle misure di contenimento sulla salute mentale di bambini e adolescenti selezionando studi fra il 1946 e il 2020. La revisione ha incluso 63 studi per un totale di 51.576 partecipanti. L'isolamento sociale e la solitudine aumentavano il rischio di depressione fino a 9 anni dopo. I risultati di questa revisione della letteratura sulla solitudine e l'isolamento sociale hanno potenziali implicazioni per l'attuale pandemia di COVID-19. Le conclusioni dei ricercatori hanno evidenziato come bambini e adolescenti abbiano maggiori probabilità di sperimentare tassi elevati di depressione e molto probabilmente ansia durante e dopo la fine dell'isolamento forzato. Questo può aumentare in corrispondenza alla continuazione dell’isolamento. Viene sottolineato come i servizi clinici dovrebbero offrire supporto preventivo e intervento precoce ed essere preparati per un aumento dei problemi di salute mentale.
Studi in tutto il mondo stanno misurando gli effetti della pandemia su bambini e adolescenti. Una recente ricerca (Monko et al) ha determinato una serie complessa di fattori (incertezza, isolamento e angoscia dei genitori) che hanno un impatto sulla salute mentale di bambini e adolescenti. La prevedibilità è una forza stabilizzante per bambini e adolescenti, ma è stata interrotta dall'epidemia. I bambini e i ragazzi hanno molte preoccupazioni legate alle conseguenze del COVID-19, ad esempio se questo permetterà loro di vedere amici e parenti, se potranno o no andare a scuola o se si ammaleranno. Spesso è difficile per i genitori calmare le ansie dei loro figli a causa della stessa incertezza che permea la loro vita. Le sfide che i genitori devono affrontare possono interferire con la loro abituale capacità di affrontare i bisogni emotivi dei propri figli. Durante la diffusione del COVID-19 in Cina è stato somministrato un questionario online a 359 bambini e 3254 adolescenti di età compresa tra 7 e 18 anni. Il questionario includeva una scala della depressione, una scala dell'ansia e una scala delle strategie di coping. Ha mostrato che il 22,3% dei giovani aveva punteggi indicativi di sintomi depressivi clinici, che è superiore alla prevalenza stimata del 13,2% di depressione giovanile in Cina. Anche i livelli dei sintomi di ansia erano più alti dopo il COVID-19 rispetto a quanto riportato in precedenza. I giovani che avevano un familiare o un amico con COVID-19 avevano livelli di ansia più elevati rispetto a quelli che non lo avevano. Una strategia di coping focalizzata sui problemi era associata a livelli più bassi di sintomi depressivi clinici, mentre una strategia di coping focalizzata sulle emozioni era associata a livelli più alti di sintomi depressivi clinici. In un altro sondaggio online, 8079 studenti delle scuole medie e superiori in Cina hanno partecipato a una valutazione sui sintomi depressivi e ansiosi durante il periodo epidemico utilizzando il questionario sulla salute del paziente (PHQ-9) e il questionario sul disturbo d'ansia generalizzato (GAD -7). La prevalenza dei sintomi depressivi era del 43,7%, i sintomi d'ansia del 37,4% e sia depressione che ansia 31,3%. I sintomi depressivi e ansiosi erano più alti nelle ragazze e con l'aumento del livello scolastico da junior a senior. Gli studenti senza sintomi depressivi e ansiosi avevano una maggiore conoscenza delle misure preventive e di controllo, rispetto a quegli studenti con sintomi depressivi e ansiosi. L'impatto emotivo della quarantena COVID-19 è stato valutato fra bambini e adolescenti provenienti da Italia e Spagna. I partecipanti includevano 1143 genitori di bambini di età compresa tra 3 e 18 anni che hanno completato un sondaggio sugli effetti della quarantena sui loro figli, rispetto al primo periodo di reclusione domiciliare. Lo studio ha rilevato che l'85,7% dei genitori ha riferito di cambiamenti nelle emozioni e nei comportamenti dei propri figli durante la quarantena. I cambiamenti più frequentemente osservati sono stati difficoltà di concentrazione (76,6%), noia (52%), irritabilità (39%), irrequietezza (38,8%), nervosismo (38%), solitudine (31,3%), disagio (30,4%) e preoccupazioni (30,1%). Circa il 75% dei genitori ha riferito di sentirsi stressato per la situazione di quarantena. Lo stress dei genitori era associato a un aumento delle segnalazioni di sintomi emotivi e comportamentali nei loro figli.
I ricercatori, da più parti, suggeriscono che la solitudine sperimentata dai giovani durante le misure di contenimento della malattia per COVID-19 può influire sulla loro futura salute mentale: pertanto raccomandano un supporto preventivo e un intervento precoce per affrontare i bisogni di salute mentale di bambini e adolescenti durante la pandemia.
Cosa possono fare i medici per i loro pazienti?
I medici (pediatri, neuropsichiatri infantili) e gli psicologi dell’età evolutiva che trattano bambini e adolescenti devono parlare con loro dell'impatto del COVID-19 sulle loro vite e valutarne il potenziale rapporto con la loro attuale salute mentale. Per alcuni giovani, l'impatto psicosociale del COVID-19 può essere correlato all'insorgenza o all'esacerbazione dei loro attuali problemi di salute mentale. Per altri giovani, in particolare quelli con disturbi d'ansia sociale, restare a casa e frequentare la scuola online può alleviare temporaneamente la loro ansia, ma questa non è una soluzione a lungo termine e può provocare un'ansia opprimente quando è necessario tornare a scuola. Per i medici che curano i genitori di bambini e adolescenti, è importante informarsi sulla salute mentale dei loro figli durante questa pandemia. La salute mentale dei genitori può essere influenzata dalla salute mentale dei loro figli e viceversa. Bisogna incoraggiare i genitori a chiedere una valutazione per i loro figli nel caso nutrano dubbi sulla loro salute mentale. L'intervento precoce può prevenire le conseguenze sulla salute mentale a lungo termine.
L’Unicef ha predisposto una serie di strategie, rivolgendosi direttamente agli adolescenti, su come fare a proteggere la loro salute mentale e prendersi cura di se stessi.
- Riconosci che la tua ansia è del tutto normale. Se le chiusure delle scuole e i titoli allarmanti ti fanno sentire ansioso, non sei l'unico. In realtà, è così che dovresti sentirti. Gli psicologi hanno da tempo riconosciuto che l'ansia è una funzione normale e salutare che ci avverte di minacce e ci aiuta a prendere misure per proteggerci. La tua ansia ti aiuterà a prendere le decisioni che devi prendere in questo momento. Sebbene l'ansia per il COVID-19 sia completamente comprensibile, assicurati di utilizzare fonti affidabili per avere informazioni attendibili. Se sei preoccupato di avere sintomi, è importante parlarne con i tuoi genitori. Tieni presente che la malattia dovuta all'infezione da COVID-19 è generalmente lieve, soprattutto per i bambini e i giovani adulti. È anche importante ricordare che molti dei sintomi di COVID-19 possono essere trattati. Fai sapere ai tuoi genitori o a un adulto di cui ti fidi se non ti senti bene o se ti senti preoccupato per il virus, in modo che possano aiutarti.
- Creati delle distrazioni. Quello che sanno gli psicologi è che quando siamo in condizioni cronicamente difficili, è molto utile dividere il problema in due categorie: cose per cui posso fare qualcosa, e poi cose per cui non posso fare nulla. Ci sono molte cose che rientrano in quella seconda categoria in questo momento, ma una cosa che ci aiuta ad affrontare questo problema è creare distrazioni per noi stessi: guarda un film che ti piace, leggi un libro prima di dormire, ascolta musica, suona uno strumento, …
- Trova nuovi modi per connetterti con i tuoi amici. Se vuoi trascorrere del tempo con gli amici mentre pratichi le distanze sociali, i social media sono un ottimo modo per connetterti. Diventa creativo: partecipa a una sfida Tik-Tok o cose analoghe. Ma non sarà una buona idea avere accesso illimitato a schermi e / o social media: non è salutare, non è intelligente, potrebbe amplificare la tua ansia. Ti consigliamo di elaborare un programma per l’utilizzo dello schermo (pc, tablet, smartphone) con i tuoi genitori.
- Concentrati su di te. Volevi imparare a fare qualcosa di nuovo, iniziare un nuovo libro o passare del tempo a imparare uno strumento musicale? Adesso è il momento di farlo. Concentrarti su te stesso e trovare modi per utilizzare il tempo che hai ora a disposizione è un modo produttivo per prenderti cura della tua salute mentale. Stila un elenco di tutti i libri che vuoi leggere e delle cose che avevi intenzione di fare. Quando si prova una sensazione dolorosa, l'unica via d'uscita è “passare attraverso”.
- Ascolta i tuoi sentimenti. Perdere eventi con amici, hobby o partite sportive è incredibilmente deludente. Il modo migliore per affrontare questa delusione? Fatti sentire. Vai avanti e sii triste, e se puoi permetterti di essere triste, inizierai a sentirti meglio più velocemente. Elaborare i i sentimenti è diverso per ognuno di noi. Alcuni ragazzi faranno attività artistiche, altri vorranno parlare con i loro amici e usare la tristezza condivisa come un modo per sentirsi connessi in un momento in cui non possono stare insieme di persona, alcuni faranno volontariato portando ad esempio il cibo ai banchi alimentari. L'importante è che tu faccia ciò che ti sembra giusto.
- 6. Sii gentile con te stesso e con gli altri. Alcuni adolescenti subiscono bullismo e abusi a scuola a causa del coronavirus. Non ci si dovrebbe aspettare che i bambini e gli adolescenti presi di mira affrontino i bulli; piuttosto dovremmo incoraggiarli a rivolgersi ad amici o adulti per chiedere aiuto e sostegno. Se vedi un amico vittima di bullismo, contattalo e cerca di offrire supporto. Non fare nulla può far sentire alla persona che tutti sono contro di lui o che a nessuno importa. Le tue parole possono fare la differenza. E ricorda: ora più che mai abbiamo bisogno di riflettere su ciò che condividiamo o diciamo che potrebbe ferire gli altri.
In conclusione, è imperativo pianificare e migliorare l'accesso degli adolescenti ai servizi di supporto per la salute mentale, orientati a fornire misure per lo sviluppo di “sani” meccanismi di coping durante e dopo l'attuale crisi. È necessario creare una rete collaborativa, diretta e digitale, dei vari stakeholder (genitori, psichiatri, psicologi, pediatri, volontari della comunità e ONG). In tempi di grande stress e incertezza, un ambiente familiare sicuro è un forte fattore protettivo. Esistono prove che le pratiche genitoriali e le misure di coping influenzino la salute mentale dei bambini e adolescenti dopo un disastro. I genitori sono il miglior "modello di comportamento" per i bambini e gli adolescenti e la casa è praticamente il posto migliore per apprendere le "abilità di vita". Quindi, questo è il momento migliore per i genitori per “modellare” le abilità di vita più importanti, ad esempio la gestione dello stress e delle emozioni, e la soluzione dei problemi con i propri figli. Inoltre, per inculcare un senso di controllo negli adolescenti, quando possibile, i genitori possono includere gli adolescenti nel processo decisionale. Questa è un'opportunità per i bambini più grandi di apprendere responsabilità, coinvolgimento e collaborazione: assumendosi quotidianamente alcune responsabilità a casa, ad esempio imparare a cucinare, gestire le questioni finanziarie, imparare il primo soccorso, organizzare la loro stanza, contribuire alla gestione delle faccende domestiche come fare il bucato e pulire.
Un uso eccessivo di Internet, ad es. la navigazione alla ricerca di notizie relative a COVID-19, dovrebbe essere evitato in quanto provoca ansia. Allo stesso modo, l’adolescente dovrebbe essere messo in guardia contro l'uso eccessivo e irresponsabile dei social media o dei giochi su Internet. Si raccomandano “trattative” con gli adolescenti per limitare il tempo e le attività riguardanti Internet. In tali condizioni, intraprendere attività creative come arte, musica, danza e altro può aiutare a gestire la salute mentale e il benessere di tutte e tutti: ad esempio promuovere la lettura autogestita, facendogli selezionare libri di loro scelta e discuterne, favorisce lo sviluppo degli adolescenti. L'adolescenza rappresenta una fase di entusiasmo e di assunzione di rischi, quindi alcuni possono sentirsi invincibili e cercare di non seguire le linee guida relative alle distanze e all'igiene personale. Questo deve essere affrontato con gli adolescenti in modo assertivo. È fondamentale valorizzare il sistema di supporto tra pari degli adolescenti. I genitori dovrebbero incoraggiare gli adolescenti introversi a rimanere in contatto con i loro coetanei e condividere i propri sentimenti e i problemi comuni che affrontano. Questo può anche aprire una strada per un'adeguata risoluzione dei problemi. Si consiglia ai genitori di prendersi cura dei propri bisogni di salute mentale cercando di affrontare lo stress in modo adattivo.
Il punto focale del sistema sanitario e della definizione delle politiche dovrebbe essere la prevenzione e la promozione della salute per soddisfare le esigenze di salute mentale della popolazione in generale, e delle fasce vulnerabili come quella rappresentata dagli adolescenti in particolare.
Bibliografia e sitografia…
Il piacere dell’insegnamento come atto di resistenza - bell hooks
[…] Fin dall’infanzia, ero convinta che avrei insegnato e scritto. Scrivere sarebbe stato il lavoro importante, insegnare invece il lavoro “non-tanto-importante-ma-necessario-per-vivere”. Scrivere, questa era la mia convinzione di allora, aveva a che fare con il desiderio intimo e la gloria personale, mentre l’insegnamento riguardava il servizio, la restituzione alla propria comunità. Per i neri, l’insegnamento – l’educazione – era fondamentalmente un atto politico, perché radicato nella lotta antirazzista. In effetti, le scuole elementari per neri sono diventate il luogo in cui ho sperimentato l’apprendimento come rivoluzione.
Quasi tutte le nostre insegnanti alla Booker T. Washington erano donne nere, votate a nutrire il nostro intelletto per darci la possibilità di diventare studiosi, pensatrici e operatori culturali – persone nere capaci di usare la “testa”. Comprendemmo presto che la nostra devozione verso l’apprendimento e la vita della mente era un atto contro-egemonico, un gesto fondamentale di resistenza alle strategie di colonizzazione razzista bianca. Sebbene non definissero o spiegassero queste pratiche in termini teorici, le mie insegnanti mettevano in atto una pedagogia rivoluzionaria della resistenza, profondamente anticoloniale. […]
Per portare a termine questa missione, si assicuravano di “conoscerci”. Conoscevano i nostri genitori, il nostro status economico, quale chiesa frequentassimo, le nostre case e come venivamo trattati in famiglia. […] Frequentare la scuola era, quindi, gioia pura. Amavo studiare, adoravo imparare. La scuola era il luogo dell’estasi: piacevole e pericolosa. Sentirmi trasformata dalle idee era piacere puro, ma scoprire idee contrarie ai valori e alle credenze apprese nell’ambito domestico significava accettare il rischio, addentrarsi in una zona pericolosa. La casa era il luogo in cui ero costretta a conformarmi all’immagine di qualcun altro su chi e cosa avrei dovuto essere. La scuola era il luogo in cui potevo dimenticare quell’io e, attraverso le idee, reinventarmi.
Con l’integrazione razziale, la scuola cambiò completamente. Lo zelo messianico, teso a trasformarci e a plasmare le nostre menti – che aveva caratterizzato le nostre insegnanti e le loro pratiche pedagogiche nelle scuole per neri – era finito. Improvvisamente, la conoscenza riguardava solo l’informazione. Non aveva alcuna relazione con il modo in cui una persona viveva e si comportava. Non era più collegata alla lotta antirazzista. Nelle scuole bianche imparammo presto che ciò che ci si aspettava da noi era l’obbedienza, e non la volontà zelante di imparare. La passione eccessiva per l’apprendimento veniva facilmente interpretata come una minaccia all’autorità bianca.
Il nostro ingresso nelle scuole razziste, desegregate e bianche ha segnato l’abbandono di un mondo in cui le insegnanti erano convinte che per educare i giovani neri nel modo più giusto fosse necessario l’impegno politico. Adesso invece avevamo per lo più insegnanti bianchi, le cui lezioni rafforzavano gli stereotipi razzisti. Per i giovani neri, l’educazione non riguardava più la pratica della libertà. Quando me ne resi conto, il mio amore per la scuola finì. L’aula non era più un luogo di piacere o estasi. La scuola restava in ogni caso un luogo politico, dal momento che dovevamo continuamente contrastare i pregiudizi razzisti dei bianchi che ci consideravano geneticamente inferiori, mai capaci come i nostri coetanei bianchi – persino incapaci di imparare. Tuttavia, la nostra politica non era più contro-egemonica. Non facevamo che reagire e contrastare la gente bianca.
Passare dalle amatissime scuole per neri alle scuole bianche – in cui gli studenti neri erano sempre considerati intrusi, mai membri a tutti gli effetti – mi ha insegnato la differenza tra l’educazione come pratica della libertà e l’educazione che si sforza semplicemente di rafforzare il dominio. […] Nonostante queste esperienze fortemente negative, mi sono diplomata con la ferma convinzione che l’istruzione sia in grado di valorizzare la nostra capacità di essere persone libere. Quando cominciai a studiare all’Università di Stanford, rimasi affascinata dalla possibilità di diventare un’intellettuale nera ribelle. Fu, allo stesso tempo, una sorpresa e uno choc sedere in classi in cui i professori non erano entusiasti dell’insegnamento e non sembravano avere la minima idea che l’educazione riguardasse la pratica della libertà. Negli anni universitari, l’unica lezione importante era sempre la stessa: dovevamo imparare l’obbedienza all’autorità.
Alla scuola di specializzazione l’aula era diventata un posto che odiavo, ma in cui lottavo per rivendicare e mantenere il diritto a essere una pensatrice indipendente. L’università e l’aula iniziarono a somigliare più a un carcere, a un luogo di punizione e di prigionia, piuttosto che a un luogo di promesse e possibilità. […] Nell’accettare la professione di insegnante come destino, ero tormentata dalla realtà delle lezioni che avevo seguito sia come studente universitaria che come specializzanda. Alla stragrande maggioranza dei nostri professori mancavano le competenze di base della comunicazione, non si sentivano realizzati e spesso usavano la classe per inscenare rituali di controllo che riguardavano il dominio e l’esercizio ingiusto del potere. In questi contesti ho imparato molto sul tipo di insegnante che non volevo diventare.
Alla scuola di specializzazione ero spesso annoiata in classe. L’educazione depositaria (basata sul presupposto che memorizzare informazioni e rigurgitarle rappresenti l’acquisizione di conoscenze, che sono dunque depositate, archiviate e utilizzate in un secondo momento) non mi interessava. Volevo diventare una pensatrice critica. Tuttavia quel desiderio era spesso considerato una sfida all’autorità. […]
La mia reazione allo stress, alla noia costante e all’apatia che pervadevano le lezioni era quella di immaginare i modi in cui l’insegnamento e l’esperienza di apprendimento avrebbero potuto essere diversi. Nel lavoro del pensatore brasiliano Paulo Freire, la mia prima introduzione alla pedagogia critica, ho trovato un mentore e una guida, qualcuno che comprendeva il potenziale liberatorio dell’apprendimento. Attraverso i suoi insegnamenti, e la mia crescente comprensione del potere derivante dall’educazione che avevo ricevuto nelle scuole del Sud per neri, ho iniziato a sviluppare il progetto della mia pratica pedagogica. Già profondamente coinvolta dal pensiero femminista, non ebbi difficoltà a sottoporre il lavoro di Freire a quella critica. Ero convinta che il mio mentore e guida (che non avevo mai conosciuto dal vivo), se davvero credeva nell’educazione come pratica della libertà, avrebbe incoraggiato e sostenuto la sfida che avevo lanciato alle sue idee. Allo stesso tempo, utilizzai i suoi paradigmi pedagogici per criticare i limiti delle lezioni femministe.
Nel corso dei miei anni di studi universitari e di specializzazione, solo le docenti bianche venivano coinvolte nello sviluppo di programmi di Women’s Studies. E anche se la mia prima lezione da studente laureata verteva sulle scrittrici nere da una prospettiva femminista, era nel contesto di un corso di Black Studies. A quel tempo, compresi che le docenti bianche non erano desiderose di coltivare l’interesse delle studenti nere per il pensiero femminista e le relative borse di studio, soprattutto se quell’interesse includeva una sfida critica. Tuttavia la loro mancanza di interesse non mi hai mai scoraggiato dall’abbracciare idee femministe o dal partecipare alle lezioni sul femminismo. Quelle aule erano l’unico spazio in cui venivano messe in discussione le pratiche pedagogiche, dove si supponeva che le conoscenze offerte alle studenti le avrebbero aiutate a diventare studiose migliori, a vivere più pienamente nel mondo oltre l’accademia. L’aula femminista era l’unico spazio in cui ogni studente poteva sollevare domande critiche sul processo pedagogico. […]
Quando misi piede nella mia prima aula universitaria per insegnare, decisi di seguire l’esempio delle appassionate insegnanti nere della mia scuola elementare, del lavoro di Freire e del pensiero femminista della pedagogia radicale. Desideravo ardentemente insegnare in maniera differente da come mi era stato inculcato fin dalle superiori. Il primo paradigma che ha plasmato la mia pedagogia è stata l’idea che l’aula dovesse essere un luogo eccitante, mai noioso. E se la noia avesse prevalso, allora erano necessarie strategie pedagogiche capaci di intervenire, alterare, addirittura distruggere l’atmosfera. Né il lavoro di Freire né la pedagogia femminista hanno analizzato la nozione del piacere in classe. L’idea che l’apprendimento debba essere eccitante, a volte persino “divertente”, è stato oggetto di discussioni critiche da parte degli educatori che si occupano di pratiche pedagogiche nelle scuole elementari e talvolta persino nelle scuole superiori, ma non sembrava esserci alcun interesse tra gli educatori tradizionali o radicali nel discutere il ruolo dell’eccitazione nell’istruzione superiore.
[…] Entrare nelle classi scolastiche e universitarie con la volontà di condividere il desiderio di incoraggiare l’eccitazione, significava trasgredire. Questo approccio non solo richiedeva di superare i confini fissati, ma l’eccitazione non si poteva generare senza il pieno riconoscimento del fatto che non poteva esistere un’agenda immutabile, capace di regolare le pratiche di insegnamento. I programmi dovevano essere flessibili, consentire cambi di direzione spontanei. Gli studenti dovevano essere considerati nelle loro peculiarità di individui (ispirandomi alle strategie con cui i miei insegnanti delle scuole elementari arrivavano a conoscerci profondamente) e l’interazione doveva necessariamente partire dalle loro esigenze (in questo caso, l’utilità del pensiero di Freire era palese). […]
Tuttavia, l’esaltazione intellettuale non è sufficiente a creare un processo di apprendimento coinvolgente. […] Prima di tutto chi insegna deve valorizzare realmente l’importanza della presenza di ognuno. Ci deve essere un riconoscimento continuo di come ogni persona influenzi la dinamica della classe, e contribuisca al processo di apprendimento. Questi contributi sono risorse. Utilizzati in modo costruttivo, aumentano la capacità di ogni classe di creare una comunità aperta di apprendimento. Spesso, prima che questo processo possa iniziare, deve aver luogo la decostruzione della nozione tradizionale secondo cui solo chi insegna è responsabile delle dinamiche della classe. […] È difficile che un docente, per quanto eloquente, riesca a generare attraverso le sue azioni uno stimolo abbastanza intenso tale da creare un ambiente scolastico entusiasmante. L’entusiasmo è generato dallo sforzo collettivo.
Considerare l’aula un luogo comunitario aumenta le possibilità di riuscita dello sforzo collettivo volto a creare e sostenere una comunità di apprendimento. In un’occasione ebbi una classe molto difficile, che fallì completamente in quanto comunità. Per l’intero semestre, fui convinta che il principale inconveniente che inibiva lo sviluppo di una comunità di apprendimento fosse che la lezione era programmata al mattino presto, prima delle nove. Quasi sempre, almeno un terzo, se non metà, della classe non era completamente sveglia. […] L’orario fu solo uno dei fattori che impedirono a questa classe di diventare una comunità di apprendimento. Per ragioni che non so spiegare, era anche piena di studenti “resistenti” che non volevano apprendere nuovi processi pedagogici, che non desideravano essere in una classe diversa dalla norma. Per questi studenti, trasgredire i confini era spaventoso. E sebbene non fossero la maggioranza, la loro strenua resistenza sembrava essere assai più potente di qualsiasi volontà di apertura intellettuale e piacere nell’apprendimento. Più di qualsiasi altra classe alla quale ho insegnato, questa mi ha costretto ad abbandonare l’idea che chi insegna possa, per pura forza di volontà e desiderio, rendere la classe una comunità stimolante e istruttiva.
Prima di questo corso, ero convinta che Insegnare a trasgredire sarebbe stato una raccolta di saggi principalmente rivolto agli insegnanti. Alla fine delle lezioni, ho iniziato a scrivere con la consapevolezza che mi stavo rivolgendo a entrambi, studenti e docenti. […] Le mie pratiche pedagogiche sono emerse dalle interazioni illuminanti di pedagogie anticoloniali, critiche e femministe. Questa combinazione complessa e unica di molteplici punti di vista ha rappresentato una prospettiva coinvolgente e potente con cui lavorare, che mi ha permesso di superare confini, di immaginare e mettere in atto pratiche pedagogiche utili a mettere in discussione, senza mezzi termini, i pregiudizi che rinforzano i sistemi di dominio (come il razzismo e il sessismo) nei programmi di studio, fornendo contemporaneamente nuovi modi di insegnare a gruppi di studenti differenti.
In questo libro condivido approfondimenti, strategie e riflessioni critiche sulla pratica pedagogica. Considero questi saggi alla stregua di un intervento capace di contrastare la svalutazione dell’insegnamento, anche se affrontano la necessità urgente di cambiarne le pratiche. Devono servire come commenti costruttivi, pieni di speranza ed esuberanti, e trasmettere il piacere e la gioia che provo a insegnare; questi saggi sono celebrativi! Sottolineano che il piacere dell’insegnamento è un atto di resistenza che contrasta la noia opprimente, il disinteresse e l’apatia che così spesso caratterizzano il modo in cui docenti e studenti considerano l’insegnamento, l’apprendimento e l’esperienza in classe.
Ogni saggio affronta temi comuni che emergono ciclicamente nelle discussioni sulla pedagogia, offrendo modi di ripensare le pratiche di insegnamento e strategie costruttive per migliorare l’apprendimento. […] Anche se condivido alcune strategie, questi saggi non offrono schemi utili a rendere la classe un luogo di apprendimento entusiasmante. Farlo minerebbe l’insistenza sul fatto che la pedagogia impegnata riconosce ogni classe come diversa, che le strategie devono essere costantemente modificate, inventate, riconcettualizzate per affrontare ogni nuova esperienza di insegnamento.
L’insegnamento è un atto performativo. Ed è l’aspetto del nostro lavoro che dà spazio al cambiamento, all’invenzione, ai mutamenti spontanei, e può fungere da catalizzatore per far emergere gli elementi unici di ogni classe. Per abbracciare l’aspetto performativo dell’insegnamento, siamo costretti a coinvolgere il “pubblico”, a considerare la questione della reciprocità. Chi insegna non è un “interprete” nel senso tradizionale della parola, in quanto il nostro lavoro non vuole essere uno spettacolo. Tuttavia, è destinato a fungere da catalizzatore, a invogliarci a essere sempre più coinvolti, a diventare partecipanti attivi dell’apprendimento.
Così come il modo in cui eseguiamo il nostro spettacolo cambia, anche la nostra idea di “voce” dovrebbe cambiare. Nella vita quotidiana parliamo in modi differenti a persone differenti, e comunichiamo meglio quando scegliamo un modo di parlare informato dalla particolarità e unicità di coloro con cui parliamo. In linea con questo spirito, questi saggi non suonano tutti uguali. Riflettono il mio sforzo di usare il linguaggio per parlare a contesti specifici, così come il mio desiderio di comunicare con un pubblico diversificato. Per poter insegnare nelle diverse comunità non devono cambiare solo i nostri paradigmi, ma anche il modo in cui pensiamo, scriviamo, parliamo. La voce impegnata non deve mai essere fissa e assoluta: deve cambiare costantemente, evolversi nel dialogo con un mondo al di là di sé.
Questi saggi riflettono la mia esperienza di discussioni critiche con docenti, studenti e individui che hanno assistito alle mie lezioni. Sono pensati per essere testimonianza dell’educazione come pratica della libertà. […] L’istruzione è gravemente in crisi. Gli studenti spesso non vogliono imparare e gli insegnanti non vogliono insegnare. […] Con questi saggi, la mia voce si unisce alla richiesta collettiva di rinnovamento e svecchiamento delle nostre pratiche di insegnamento, esortando tutte e tutti noi ad aprire le nostre menti e i nostri cuori, in modo da sviluppare una conoscenza che vada al di là dei confini di ciò che è considerato accettabile. Celebro l’insegnamento che rende possibili le trasgressioni – un movimento contro e oltre i confini – per poter pensare, ripensare e creare nuove visioni. È quel movimento che rende l’educazione la pratica della libertà.
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