Lo storico Kamel stronca il sì dell’Onu al piano Usa su Gaza: “È un brutto
giorno per l’autodeterminazione palestinese” – Gisella Ruccia
“È un
grande giorno per Netanyahu, Hamas e Trump, presidente-pregiudicato che
presiederà il ‘Consiglio di pace’. È un brutto giorno per
la sicurezza a lungo termine dello Stato di Israele, per l’autodeterminazione
palestinese e più in generale anche per le tante persone perbene
che ci sono nel nostro mondo”. Con questa frase icastica, Lorenzo
Kamel, professore di Storia Internazionale all’Università di Torino,
adjunct professor alla Luiss School of Government e finalista del premio
nazionale per la divulgazione scientifica con il suo ultimo saggio Israele-Palestina
in 36 risposte (Einaudi), commenta la risoluzione 2803 su Gaza,
approvata il 17 novembre dal Consiglio di Sicurezza dell’Onu con 13 voti
favorevoli e l’astensione di Russia e Cina. Un voto che rimescola gli
equilibri della regione e affida a Donald Trump il controllo
della Striscia per due anni attraverso un organismo dai contorni indefiniti, il
“Consiglio di Pace”, i cui membri saranno scelti direttamente dal presidente
statunitense.
Ospite
di Effetto Giorno, su Radio24, Kamel mette in evidenza la
natura “talmente vaga e talmente arbitraria” del testo, privo di riferimenti
alle risoluzioni precedenti e agli accordi che negli ultimi decenni hanno
definito il quadro negoziale israelo-palestinese. Nessun cenno agli Accordi
di Oslo, che stabiliscono l’unità territoriale di Gaza e Cisgiordania;
nessun richiamo alla risoluzione 476 del 1980, con cui il Consiglio
di Sicurezza aveva ribadito che l’acquisizione di territori con la forza è
inammissibile. La nuova risoluzione, osserva lo storico, “va sostanzialmente in
una direzione opposta”, cristallizzando la separazione tra i due territori
palestinesi e impedendo all’Autorità nazionale palestinese di avere un ruolo
nella Striscia.
L’orizzonte politico che ne risulta appare così indeterminato da offrire
a Trump e Netanyahu la possibilità di dichiarare insufficiente
“qualsiasi sforzo della controparte palestinese”, anche in una
situazione ipotetica in cui i palestinesi “divenissero la Norvegia del Medio
Oriente”.
Kamel
ricorda che i paesi arabi che hanno sostenuto la risoluzione
sono guidati da “leader corrotti e ricattabili”, a cominciare
da Egitto, Emirati Arabi Uniti e Arabia Saudita. Leader che,
osserva, sanno che la loro sopravvivenza politica ed economica “passa dal
piegarsi a ciò che gli viene richiesto”, e che si attendono concessioni
sostanziali da parte di Trump.
Le astensioni di Mosca e Pechino aprono un altro capitolo: “vedremo a
breve cosa riceverà, ad esempio, la Russia in cambio del suo mancato veto”, afferma
Kamel, lasciando intendere che un ritorno politico non mancherà.
Alla domanda
del conduttore Alessio Maurizi su come interpretare il via
libera dell’ANP e il rifiuto di Hamas, la spiegazione affonda nel quadro che ha
dato origine all’Autorità nazionale palestinese. L’ANP nasce dagli Accordi di
Oslo del 1993-1995: ne derivano i suoi poteri, la sua legittimità, il suo
finanziamento e la sua sopravvivenza amministrativa. Senza Oslo, semplicemente,
non esisterebbe.
Lo storico conferma questo punto: “L’Autorità nazionale palestinese è
totalmente dipendente dal processo di Oslo e il suo capo, Abu
Mazen, è un leader totalmente screditato e corrotto che non ha nessuna
aderenza con la società palestinese, dunque non ha alternativa se non quella appunto
di piegarsi totalmente a quello che gli viene richiesto”.
Scaturisce così la sintesi politica del professore: il voto rappresenta “un
grande giorno per Netanyahu”, che ottiene un margine di manovra e una via
d’uscita anche in caso di ripresa della guerra; “un giorno importante anche per
Hamas”, che vede consolidarsi il proprio potere nella parte di Gaza rimasta
sotto controllo palestinese; “un grande giorno per Trump”, destinato a
presiedere il Consiglio di pace nonostante la condanna inflitta dalla giustizia
americana.
Al contrario, è “un brutto giorno per ciò che resta di Gaza”, divisa
e privata della sua terra coltivabile, “un brutto giorno per la sicurezza a
lungo termine dello Stato di Israele”, “un brutto giorno per
l’autodeterminazione palestinese” e “un brutto giorno” per chi ha a cuore la
causa palestinese.
Sul futuro,
Kamel intravede uno scenario che richiama quello della Cisgiordania
dopo il 1967: un’occupazione “temporanea, fra virgolette”, destinata a
protrarsi nel tempo. “Oltre il 50%, il 53% della Striscia di Gaza è
occupato dalle autorità israeliane”, spiega, e si tratta della parte più
fertile e agricola. La zona sabbiosa e meno produttiva rimane ai palestinesi.
Il professore lega questo quadro alle dinamiche in Cisgiordania, definite dagli
Accordi di Oslo II del 1995. Le aree A e B, frammentate in 165 isole
amministrative, rappresentano poco più del 40% del territorio e resterebbero
sotto controllo palestinese; l’area C, il restante 60%, è la porzione
strategica: risorse idriche, terra fertile, spazio per gli insediamenti.
Se figure come Bezalel Smotrich continueranno a guidare la
linea del governo israeliano, avverte Kamel, si tenterà di “smuovere il
più possibile e di espellere la popolazione palestinese dall’area C”. Il
risultato sarebbe una mappa in cui i palestinesi mantengono soltanto le aree A
e B della Cisgiordania e la parte sabbiosa costiera di Gaza, mentre la porzione
vitale dal punto di vista agricolo, idrico e strategico rimane sotto controllo
israeliano.
L’Onu e la
seconda Nakba dei palestinesi - Alberto Negri
La risoluzione Onu voluta dagli Stati uniti sancisce la seconda Nakba
(catastrofe) dei palestinesi. Cancella di fatto la formula “due popoli, due Stati” lasciando un assai
vago “percorso verso l’autodeterminazione dei palestinesi” che non significa
nulla. Ma conferma, dopo il
massacro di Hamas del 7 ottobre, il genocidio di un popolo, affidato
militarmente a Israele, con il timbro politico di Trump e il nostro assenso.
A meno di non voler credere che davvero un contingente multinazionale e il
disarmo di Hamas siano così fondamentali: questi sono dettagli per gettare
polvere negli occhi a una comunità internazionale che non vede l’ora di essere
accecata e voltare la testa dall’altra parte.
Vediamo la prima catastrofe perché apre la strada alla seconda, a quella in corso. La risoluzione
dell’Onu del 1947 divideva la Palestina in due Stati ma quello ebraico occupava
il 56% della terra pur essendo gli arabi palestinesi il doppio della
popolazione ebraica. Nessuno poteva accettare una soluzione dove metà del
territorio veniva ceduto a un movimento esterno alla regione. La narrativa comune dice che gli arabi
rifiutarono allora questa risoluzione. In realtà nessuno chiese mai ai
palestinesi, sotto mandato britannico, il loro parere: anche allora il
principio di autodeterminazione dei popoli fu gettato nel cestino della carta
straccia, oggi viene riesumato in questa ultima risoluzione sapendo
perfettamente che non verrà mai esercitato. Israele e il suo premier Netanyahu
sono stati chiari: non ci sarà mai uno Stato palestinese. La pax trumpiana, imposta
dopo l’attacco israeliano a Doha del 9 settembre scorso, salva Netanyahu e non deve salvaguardare le
vite dei palestinesi ma gli interessi americani, come dimostra la visita
alla Casa Bianca del principe saudita Mohammed Bin Salman – quello che fece
fare a pezzi il giornalista Jamal Kashoggi nel consolato saudita di Istanbul –
intenzionato ad acquistare gli F-35 Usa.
Quanto successe dopo il 1947 ricorda quello che sta accadendo adesso, sia
a Gaza che in Cisgiordania. Nel 1948 le milizie sioniste attuarono la pulizia etnica della Palestina
distruggendo città e villaggi con l’espulsione subito di oltre 250mila
palestinesi. Oggi Israele occupa
oltre il 50% della Striscia e in Cisgiordania le milizie sioniste radicali con
il sostegno dell’esercito stanno devastando i territori occupati preparando il
colpo finale: la divisione in due della West Bank e impedire ogni
continuità territoriale ai palestinesi. L’annessione è solo questione di tempo.
Secondo i
documenti dell’epoca portati alla luce da storici israeliani come Ilan
Pappé l’operazione della prima
catastrofe venne minuziosamente organizzata: alla fine del mandato
britannico, il 15 maggio 1948, giorno della prima Nakba e celebrato da Israele
come quello dell’indipendenza, centinaia di migliaia di palestinesi avevano
dovuto abbandonare le loro case e la loro terra senza poterci tornare mai più
(la Giordania occupava allora la Cisgiordania e Gerusalemme Est, l’Egitto
Gaza). Tutti sapevano cosa stava
accadendo ma, come oggi, nessuno fece nulla: Israele prese il 78% del
territorio del mandato britannico e 800 mila palestinesi furono vittime della
pulizia etnica.
Quanto
valgono per Israele le risoluzioni delle Nazioni Unite ce lo dicono i
precedenti. L’Onu stabilì che i
profughi dovevano tornare alle loro case e che Gerusalemme doveva essere posta
sotto il controllo internazionale. Niente di tutto questo è mai avvenuto e
niente oggi lascia supporre che Israele possa ammettere un ritorno dei
palestinesi. Come scrive il manifesto l’idea è totalmente
diversa, ovvero procedere, in ogni modo possibile, alla loro deportazione
(articoli di Michele
Giorgio domenica e ieri di Wahid Tamimi).
È
interessante notare un altro
parallelo tra il passato e quanto avviene oggi sul ruolo degli Stati uniti.
Lo sottolinea con efficacia proprio lo storico Ilan Pappé nel suo recente
libro La fine di Israele (Fazi editore). La guerra dei Sei
giorni del 1967, con cui Tel Aviv occupò Cisgiordania, Gaza e la alture siriane
del Golan, cambiò in maniera drastica il processo di pace. Questo processo
diventò un monopolio americano. Gli
Usa, sotto la spinta di un Congresso filo-israeliano – scrive Pappé – hanno
tenuto fuori chiunque altro della regione e del mondo volesse fare da mediatore
nel conflitto. Per questo i processi di pace, anche quelli che portarono
al accordi di Oslo del 1993, si sono trasformati in una tragica farsa. Si
illudevano i palestinesi e si prendeva un po’ in giro la comunità
internazionale mentre Israele aveva l’unico obiettivo di prendere tempo,
normalizzare l’occupazione e rapinare altri territori con gli
insediamenti. La risoluzione Onu
votata ieri ripete lo stesso schema solo con qualche variante più appetibile
alla comunità internazionale e agli europei.
Per questo
credere agli Usa e a Trump oggi è come credere al pifferaio magico dei fratelli
Grimm. La risoluzione infatti piace a Israele (che si sente come al
solito legibus solutus) e anche all’Anp perché promette di
assestare un colpo al rivale Hamas. È un copione già visto, riscritto alla
buona per un film già visto. La fine è nota.
Genocidio senza sanzione? - Domenico Gallo
Pubblichiamo alcuni stralci della introduzione di Domenico Gallo al libro
dell’editore Edimedia dal titolo: “Genocidio, la verità dell’ONU su Gaza”
(con la Convenzione e i rapporti dell’ONU sul genocidio):
1. Genocidio: la parola che non c’era
Le parole non sono solo dei segni che ci aiutano a orientarci nella mappa
concettuale dei significati. La parola determina gli orizzonti del pensabile.
Non a caso l’impoverimento del linguaggio, spesso sotto forma di
semplificazione, rappresenta uno dei più efficaci dispositivi di
depotenziamento dell’azione collettiva.
Costituita dal prefisso greco genos (tribù, popolo)
e dal suffisso latino caedo (l’atto di uccidere), la
parola genocidio illustra la metodica e glaciale intenzionalità di cancellare
un intero gruppo nazionale assieme alle condizioni basilari per la sua
esistenza: cultura, religione, istituzioni, costumi, salute, dignità.
E’ stata proprio la parola “genocidio”, coniata mentre i campi di sterminio
lavoravano a pieno regime, a consentirci di guardare dentro l’orrore per
distinguere la specificità di questa tecnologia del massacro, che dispiega
nella Storia umana la geometrica potenza delle energie distruttrici.
[…] il 6 agosto 1945, il tragico fungo atomico di Hiroshima annunziava che
la notte di orrore dell’umanità non era passata e che la belva aveva ripreso a
ruggire.
4. Da Auschwitz a Hiroshima, dal Tribunale di Norimberga alla Convenzione
internazionale per la prevenzione e repressione del delitto di genocidio.
Ha scritto il premio Nobel per la pace Elie Wiesel: “E’ Auschwitz che
genererà Hiroshima, e se il genere umano scomparirà a causa della bomba
atomica, questo sarà il castigo di Auschwitz, dove, nella cenere, si spensero
le promesse dell’uomo.”[1]
La Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio
è il capostipite dei Trattati internazionali sui diritti umani che saranno
sviluppati in seguito nell’ambito dell’ONU. Infatti la Convenzione, in quanto
primo strumento giuridicamente impegnativo, idoneo a limitare la potestà
d’imperio degli Stati sui propri cittadini, ha aperto la strada
all’elaborazione di tutta la successiva normativa pattizia sui diritti umani.
Essa fu approvata con voto unanime dall’Assemblea generale il 9 dicembre
1948, in stretto rapporto con la Dichiarazione universale sui diritti dell’uomo
di cui costituisce un’appendice ideale. Entrambi questi documenti concorrono a
delineare il quadro con cui la Comunità internazionale, appena uscita della
Seconda guerra mondiale, promise alle generazioni future che quella barbarie
che aveva sconvolto il mondo non sarebbe ritornata mai più.
6. La Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di
genocidio.
La Convenzione consta di un preambolo e XIX articoli. Nel preambolo le Alte
Parti Contraenti prendono atto che “l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite,
nella Risoluzione 96/1. dell’11 dicembre 1946 ha dichiarato che il genocidio è
un crimine di diritto internazionale, contrario allo spirito e ai fini delle
Nazioni Unite e condannato dal mondo civile”. Pertanto: “riconoscendo che il
genocidio in tutte le epoche storiche ha inflitto gravi perdite all’umanità”,
si dichiarano convinte “che la cooperazione internazionale è necessaria per
liberare l’umanità da un flagello così odioso”.
La Convenzione conferma che il genocidio, sia che venga commesso in tempo
di pace sia che venga commesso in tempo di guerra, è un crimine di diritto
internazionale, che le parti contraenti si impegnano a prevenire ed a punire,
definisce la nozione di genocidio e identifica le condotte punibili che
contribuiscono a realizzarlo o ad agevolarlo negli articoli II e III, che
conviene riportare per intero.
Articolo II.
Nella presente Convenzione, per genocidio si intende ciascuno degli atti
seguenti, commessi con l’intenzione di distruggere, in tutto o in parte, un
gruppo nazionale, etnico, razziale o religiose, come tale:
a) uccisione di membri del gruppo;
b) lesioni gravi all’integrità fisica o mentale di membri del gruppo;
c) il fatto di sottoporre deliberatamente il gruppo a condizioni di vita
intese a provocare la sua distruzione fisica, totale o parziale;
d) misure miranti a impedire nascite all’interno del gruppo;
e) trasferimento forzato di fanciulli da un gruppo ad un altro.
Articolo III.
Saranno puniti i seguenti atti:
a) il genocidio;
b) l’intesa mirante a commettere genocidio;
c) l’incitamento diretto e pubblico a commettere genocidio;
d) il tentativo di genocidio;
e) la complicità nel genocidio.
Nell’articolo IV sono previste le categorie degli autori dei reati che gli
stati si impegnano a punire; non solo gli individui privati ma anche i
governanti ed i pubblici funzionari.
Le norme successive riguardano le disposizioni relative alla repressione
del genocidio: obbligo degli Stati contraenti di emanare delle norme interne
necessarie a dare attuazione alla Convenzione (art.V); competenza a giudicare
dei tribunali interni e del Tribunale penale internazionale (art. VI);
esclusione del carattere politico del delitto di genocidio ai fini
dell’estradizione (art. VII); garanzie internazionali della Convenzione (art.
VIII e IX). Seguono poi le norme procedurali e finali.
La Convenzione è stata ratificata dall’Italia con la legge n. 153 dell’11
marzo 1952 ma la sua effettiva esecuzione in Italia è rimasta sospesa per 15
anni… Con la legge 9 ottobre 1967 n. 962 è stata data piena attuazione della
Convenzione nel nostro ordinamento.
Il problema più arduo che la Convenzione ha dovuto superare è stato quello
della punibilità del genocidio in concreto. Prevedere l’obbligo degli Stati
parte di emanare una legislazione che assicurasse la punizione dei responsabili
di atti di genocidio è un passaggio obbligato ma si tratta sostanzialmente di
un’arma spuntata. Il genocidio può provenire soltanto da un’organizzazione
statale ed implica necessariamente delle responsabilità governative; sarebbe
ingenuo prevedere la responsabilità dei governanti e dei funzionari pubblici
rimettendo esclusivamente agli organi nazionali la repressione dei relativi
atti delittuosi.[2]
Con un atto di creatività giuridica e di lungimiranza la Convenzione ha
previsto che il delitto di genocidio, in alternativa ai Tribunali nazionali,
potesse essere giudicato da un Tribunale penale internazionale, che all’epoca
non esisteva.
9. Il contrasto di USA e Israele alla Corte penale internazionale.
Il Congresso degli Stati Uniti ha adottato un provvedimento legislativo,
firmato il 2 agosto 2002 dal Presidente George W. Bush, denominato: American
Service members’ Protection Act (ASPA), che contiene disposizioni volte a
impedire che militari statunitensi (e certe altre persone legate al governo
USA) possano essere consegnati o giudicati dalla Corte Penale Internazionale.
Il provvedimento autorizza il Presidente degli Stati Uniti ad usare “tutti
i mezzi necessari e appropriati” per liberare membri dell’esercito USA (o
persone alleate) detenute per conto della Corte Pe nale Internazionale.
Per questo motivo è talvolta chiamato “Hague Invasion Act”.
Quando la Corte penale internazionale ha cominciato ad interessarsi dei
crimini di guerra commessi da tutte le parti in Afganistan, immediata è
scattata la rappresaglia americana.
Nell’era del primo mandato di Trump sono partite le minacce e le sanzioni
personali nei confronti degli organi della Corte per impedire che svolgessero
il loro lavoro di accertamento e di repressione dei crimini internazionali. Il
2 settembre 2020 il Segretario di Stato dell’epoca Mike Pompeo ha annunciato
che gli USA avrebbero applicato delle sanzioni contro la Corte penale
internazionale definita come “un’istituzione totalmente perduta e
corrotta”. Tutto questo sulla base dell’Ordine Esecutivo 13928, firmato
da Donald Trump l’11 giugno 2020, intitolato “Blocking Property of Certain
Persons Associated With the International Criminal Court”. L’ordine
dichiara che la CPI — con l’autorizzazione di indagini contro personale
statunitense o personale di Paesi alleati senza consenso del governo USA — rappresenta
una “minaccia insolita e straordinaria alla sicurezza nazionale e alla politica
estera degli Stati Uniti”. Le sanzioni erano dirette contro la Procuratrice
dell’epoca, Fatou Bensouda, e il capo della giurisdizione del tribunale Phakiso
Mochochoko, che furono entrambi inseriti nell’elenco “Specially Designated
Nationals” del Dipartimento del Tesoro americano. Le agenzie ci informarono che
l’ordine esecutivo emesso da Trump era stato concordato con il Primo Ministro
israeliano Benjamin Netanyahu. Questi si congratulò con l’amico americano per
la decisione di imporre sanzioni alla “corrotta e faziosa Corte penale
internazionale”, da lui definita: “una Corte politicizzata ossessionata dal
condurre caccia alle streghe contro Israele, gli Stati Uniti e altre democrazie
che rispettano i diritti umani “. Netanyahu accusò la Corte di aver inventato
“accuse stravaganti”, come quella secondo cui “gli ebrei che vivono nella loro
patria storica costituiscono un crimine di guerra”. Questa viscerale critica di
Netanyahu ora come allora si fondava evidentemente sulla concezione che il
territorio dell’ex Mandato britannico sulla Palestina fosse stato assegnato
direttamente da Dio allo Stato di Israele, mentre la Corte, che non ha
competenza in materia di diritto biblico, trae la sua legittimazione dalle
fonti del diritto internazionale, fra cui la terza Convenzione di Ginevra
del 1949, che vieta ad una Potenza occupante di trasferire la sua popolazione
nei territori occupati.
Netanyahu aveva ben motivo di dolersi dell’ingerenza della CPI nelle
vicende del Medio-Oriente perché l’Autorità nazionale palestinese il 2 gennaio
2015 ha aderito allo Statuto della Corte penale internazionale. Il 5 febbraio
2021 la Pre-Trial Chamber, accogliendo le richieste formulate dalla Procuratrice
Fatou Bensouda, ha statuito che la Corte penale internazionale ha competenza a
giudicare i crimini di guerra e contro l’umanità commessi da chiunque in
Palestina, vale a dire nei territori occupati da Israele dal 1967, Gaza e la
Cisgiordania, inclusa Gerusalemme est.
Con la loro decisione i giudici hanno respinto la tesi di Israele
dell’inammissibilità dell’intervento della Corte poiché la Palestina non è uno
Stato. «La Palestina – affermano – ha accettato di sottomettersi ai termini
dello Statuto di Roma della Corte penale internazionale e ha il diritto di
essere trattata come qualsiasi Stato per le questioni relative all’attuazione
dello Statuto».
Immediata è stata la reazione del premier israeliano Netanyahu che ha
bollato come «puro antisemitismo» il passo mosso dai giudici internazionali.
«La Corte – ha commentato – ignora i crimini di guerra veri e al suo
posto perseguita lo Stato di Israele dotato di un forte regime democratico e
che rispetta lo Stato di diritto (.) – aggiungendo che la decisione – va contro
il diritto dei paesi democratici di difendersi dal terrorismo». Poi ha
avvertito che «in qualità di primo ministro di Israele, posso assicurarvi
questo: combatteremo questa perversione della giustizia con tutte le nostre
forze».
10. Il mandato di cattura a Netanyahu e Gallant e le sanzioni USA.
Il 21 novembre 2024, la Camera preliminare I della Corte penale
internazionale ha emesso mandati di arresto per Benjamin Netanyahu e Yoav
Gallant per crimini contro l’umanità e crimini di guerra commessi dall’8
ottobre 2023 fino ad almeno il 20 maggio 2024. La Corte ha ritenuto che vi
siano fondati motivi per ritenere che entrambi gli imputati siano responsabili
penalmente del crimine del ricorso alla fame come metodo di guerra; e dei
crimini contro l’umanità di omicidio, persecuzione e altri atti disumani. Più
specificamente la Corte ha ritenuto che Netanyahu e Gallant: “abbiano
intenzionalmente e consapevolmente privato la popolazione civile di Gaza di
beni indispensabili alla loro sopravvivenza, tra cui cibo, acqua, medicinali e
forniture mediche, nonché carburante ed elettricità, almeno dall’8 ottobre 2023
al 20 maggio 2024. Tale conclusione si basa sul ruolo svolto da Netanyahu e
Gallant nell’impedire gli aiuti umanitari in violazione del diritto internazionale
umanitario e sulla loro incapacità di agevolare i soccorsi con tutti i mezzi a
loro disposizione. La Corte ha rilevato che la loro condotta ha compromesso la
capacità delle organizzazioni umanitarie di fornire cibo e altri beni
essenziali alla popolazione bisognosa di Gaza. Le suddette restrizioni,
unitamente all’interruzione dell’elettricità e alla riduzione della fornitura
di carburante, hanno avuto un impatto significativo anche sulla disponibilità
di acqua a Gaza e sulla capacità degli ospedali di fornire assistenza medica.”
Le reazioni di Netanyahu sono state immediate. In un video diffuso sui
social, Netanyahu ha detto: “Oggi è un giorno oscuro nella storia
dell’umanità(..) la Corte internazionale dell’Aia, che è stata inventata per
proteggere l’umanità, è oggi divenuta il nemico dell’umanità.” Ha aggiunto che
il mandato è un “passo antisemita” la cui funzione è intimidire Israele e
impedirgli di difendersi.
Ciò ha provocato la reazione indispettita di Trump che ha accusato la Corte
di lesa maestà per aver osato incriminare il suo alleato. La preoccupazione
principale degli Stati Uniti è stata quella di spegnere la voce della
giurisdizione internazionale per consentire ad Israele di portare avanti
indisturbato il suo programma di massacri e pulizia etnica della popolazione
palestinese. Con l’Ordine Esecutivo n. 14203 emesso il 6 febbraio 2025, Donald
Trump. si duole dei procedimenti intrapresi dalla CPI nei confronti di Stati
Uniti e Israele affermando che la Corte ha abusato del proprio potere emettendo
mandati di arresto infondati contro Netanyahu e Gallant. Secondo Trump la Corte
penale internazionale non ha alcun motivo per indagare su USA e Israele perché
«entrambi sono democrazie fiorenti con forze armate che rispettano
rigorosamente le leggi di guerra». Proseguendo, Trump annuncia: «qualsiasi
tentativo da parte della CPI di indagare, arrestare, detenere o perseguire
persone protette (in sostanza i governanti e i militari israeliani) costituisce
una minaccia insolita e straordinaria alla sicurezza nazionale e alla politica
estera degli Stati Uniti, e con la presente dichiaro uno stato di emergenza
nazionale per affrontare tale minaccia. […] Gli Stati Uniti imporranno sanzioni
concrete e significative a coloro che sono responsabili delle violazioni della
CPI, che potranno includere il blocco di beni e proprietà, nonché la
sospensione dell’ingresso negli Stati Uniti per funzionari, dipendenti e agenti
della CPI, insieme ai loro familiari stretti». L’ordine esecutivo ha sanzionato
direttamente il Procuratore capo della CPI, Karim Khan, ma Trump non si ferma
qui e ha delegato il Segretario di Stato, Marco Rubio, a designare gli
ulteriori soggetti da sanzionare fra tutti coloro che partecipano o
contribuiscono all’attività della CPI. Dopo il Capo della Procura, sono stati
sanzionati a cascata altri otto magistrati: il 5 giugno 2025 quattro giudici
della CPI: Solomy Balungi Bossa (Uganda), Luz del Carmen Ibáñez Carranza
(Perù), Reine Adelaide Sophie Alapini-Gansou (Benin), Beti Hohler (Slovenia); e
il successivo 20 agosto due ulteriori giudici – Nicolas Guillou (Francia) e
Kimberly Prost (Canada) – e due vice-procuratori – Nazhat Shameem Khan (Figi) e
Mame Mandiaye Niang (Senegal).
Seguendo questo filone a Francesca Albanese sono state applicate, con un decreto
di Marco Rubio del 9 luglio 2025, le medesime sanzioni previste per la CPI
perché, nella sua qualità di Relatrice speciale del Consiglio (ONU) dei
Diritti umani sulle violazioni dei diritti umani nei territori occupati da
Israele nel 1967: «ha manifestato uno sfacciato antisemitismo, ha espresso
sostegno al terrorismo e aperto disprezzo per gli Stati Uniti, Israele e
l’Occidente. Tale pregiudizio è stato evidente nel corso della sua carriera,
inclusa la raccomandazione alla CPI, senza una base legittima, di emettere
mandati di cattura contro il Primo Ministro israeliano Benjamin Netanyahu e
l’ex Ministro della Difesa Yoav Gallant». Nel suo decreto Rubio lamenta,
inoltre, che Albanese «di recente ha intensificato questa azione scrivendo
lettere minatorie a decine di entità in tutto il mondo, tra cui importanti
aziende americane nei settori della finanza, della tecnologia, della difesa,
dell’energia e dell’ospitalità, formulando accuse estreme e infondate e
raccomandando alla CPI di avviare indagini e procedimenti penali contro queste
aziende e i loro dirigenti». Quindi Rubio conclude: «Non tollereremo queste
campagne di guerra politica ed economica, che minacciano i nostri interessi e
la nostra sovranità nazionale. Gli Stati Uniti continueranno a intraprendere
tutte le azioni che riterranno necessarie […] per controllare e prevenire gli
abusi di potere e gli abusi illegittimi della CPI e per proteggere la nostra
sovranità e quella dei nostri alleati». Cosa significano queste sanzioni lo ha
spiegato Francesca Albanese in una conferenza stampa il 4 settembre 2025.
Le sanzioni USA alla CPI hanno suscitato un’immediata ondata di
indignazione a livello globale. In particolare, 79 Stati parti dello Statuto di
Roma, il 7 febbraio 2025, hanno rilasciato una dichiarazione congiunta
affermando il loro «continuo e incrollabile sostegno all’indipendenza,
all’imparzialità e all’integrità della CPI» perché «la Corte rappresenta un
pilastro fondamentale del sistema giudiziario internazionale, garantendo
l’accertamento delle responsabilità per i crimini internazionali più gravi e la
giustizia per le vittime». La Dichiarazione è stata firmata da tutti i paesi
dell’Unione Europea, tranne l’Italia, la Repubblica ceca e l’Ungheria (che ha
avviato la procedura per ritirarsi dalla CPI). Evidentemente l’insofferenza del
Governo Meloni per la giurisdizione non si arresta alle frontiere nazionali e
non esita a rovesciare le tradizioni costituzionali del nostro paese che è
stato capofila dell’iniziativa diplomatica sfociata nella sottoscrizione a
Roma, il 17 luglio 1998, dello Statuto della CPI.
La pretesa di bloccare l’operatività della Corte penale internazionale,
proprio nel momento in cui sarebbe massimo il bisogno di reagire con misure di
giustizia a un genocidio in corso sotto i nostri occhi, è uno scandalo, un
golpe contro il diritto internazionale e le regole che faticosamente la
Comunità degli Stati si è data per cercare di rafforzare la debole trama del
diritto internazionale dei diritti umani.
11. Israele accusata di genocidio: il processo dinanzi alla Corte
Internazionale di Giustizia
Il 28 dicembre 2023 il Sud Africa ha presentato alla Corte Internazionale
di Giustizia la richiesta di istituire un procedimento contro Israele.
Naturalmente, anche di fronte a questo atto Netanyahu ha reagito con rabbia
definendo il processo innanzi alla CIG “una vergogna di cui ci si ricorderà per
generazioni”, ma non ha potuto sottrarsi al procedimento perché la
giurisdizione della Corte è obbligatoria per tutti gli Stati che abbiano sottoscritto
la Convenzione
13. I segnali d’allarme provenienti dalla società israeliana.
E significativo registrare come anche in Israele si sono levate voci dalla
società civile che hanno con coraggio denunciato i crimini commessi dal proprio
paese e non hanno esitato a ricorrere al concetto di genocidio.
L’organizzazione israeliana Physicians for Human Rights–Israel (PHRI), Medici
per i diritti umani-Israele, ha pubblicato il 2 luglio 2025 un documento
intitolato “A Health Analysis of the Gaza Genocide” (una analisi sanitario del
genocidio di Gaza). Questo documento esamina le azioni israeliane a Gaza negli
ultimi 22 mesi, sostenendo che la distruzione sistematica delle infrastrutture
sanitarie e le condizioni di vita imposte alla popolazione costituiscono atti
di genocidio secondo la Convenzione delle Nazioni Unite del 1948. Il
rapporto documenta l’attacco a 33 dei 36 ospedali e cliniche di Gaza,
l’evacuazione forzata di 22 ospedali nel nord e a Gaza City, e l’uccisione o
detenzione di oltre 1.800 operatori sanitari. Il rapporto evidenzia, inoltre,
le restrizioni imposte da Israele sull’ingresso di forniture mediche
essenziali, come analgesici, disinfettanti, strumenti chirurgici e latte in
polvere, che hanno contribuito a sofferenze e decessi evitabili. Sottolinea la
creazione deliberata di condizioni di vita destinate a distruggere la
popolazione palestinese, inclusi l’accesso limitato a cibo, acqua e assistenza
sanitaria, e l’erosione dei determinanti sociali della salute. Secondo PHRI le
azioni israeliane soddisfano almeno tre dei criteri stabiliti dall’Articolo II
della Convenzione sul genocidio: a) uccisione di membri del gruppo; b) causare
gravi danni fisici o mentali ai membri del gruppo c) imporre deliberatamente
condizioni di vita destinate a distruggere il gruppo. In conclusione,
l’organizzazione invita la comunità internazionale a intraprendere le opportune
azioni per fermare il genocidio e garantire la protezione dei diritti umani a
Gaza.
Ancora più perentoria risulta la conclusione del rapporto “il nostro
genocidio” pubblicato Il 28 luglio 2025, da B’Tselem, il Centro d’Informazione
Israeliano per i Diritti Umani nei Territori Occupati. Con questo rapporto,
B’Tselem documenta ciò che tutti i governi occidentali, a partire da quello
italiano, fingono di non vedere: ovvero che da quasi due anni Israele sta
portando avanti un genocidio a Gaza. Un genocidio deliberato e sistematico con
uccisioni di massa, creando enormi danni fisici e mentali alla popolazione,
usando la fame come arma di guerra e creando condizioni generali che
impediscono ai palestinesi di continuare a vivere a Gaza. Israele sta
pianificando e organizzando la pulizia etnica dei palestinesi. Per B’Tselem, il
genocidio è stato sviluppato “cogliendo l’opportunità del 7 ottobre 2023” e, dopo
oltre 21 mesi, continua a Gaza e, in forme specifiche, anche in Cisgiordania e
all’interno di Israele. Ma non solo, fa parte della storia dello Stato
israeliano, del patrimonio politico sionista. La politica dominante, di centro
destra e di centro sinistra, in Europa, nel mondo occidentale, ma non solo
(vedi i cosiddetti “Paesi fratelli” del mondo arabo e musulmano),non fa nulla
di “reale” per fermare questo genocidio. Discute oziosamente di “eccessi”, di
sanzioni contro Israele, parla di riconoscimento dello Stato di Israele quando
per oltre 30 anni, dagli Accordi di Oslo, ha finto di non vedere che questi
servivano ad aumentare l’oppressione e l’espropriazione territoriale dei
palestinesi, rendendo impraticabile qualsiasi possibilità di “due popoli, due
stati”. Intanto accordi militari, economici, politici, armi, materie prime e
merci “dual use”, continuano a essere sottoscritti e a fluire verso Israele. Un
genocidio dei palestinesi che avviene con l’attiva complicità dei paesi
occidentali, ma anche con l’inesistente opposizione dei capitalismi russo e
cinese, loro rivali nella spartizione del mondo.
15. L’accordo firmato in Egitto ferma il genocidio ma le sue conseguenze
restano.
Il 10 ottobre finalmente si è giunti ad un cessate il fuoco, a seguito dell’accettazione
da parte di Israele e di Hamas del piano di pace in 20 punti proposto da Donald
Trump, il 29 settembre, con il supporto di Egitto, Qatar e Turchia. Il 13
ottobre, avvenuta la liberazione dei 25 ostaggi israeliani e di circa 2.000
detenuti palestinesi ostaggio di Israele, Trump è stato accolto trionfalmente
alla Knesset dove ha celebrato il suo piano di pace come “l’Alba di un nuovo
Medio Oriente”, annunciando che “Israele vivrà in pace per l’eternità”.
Ma il genocidio rimane.
Ha scritto da Gaza la scrittrice Lina Ghassan Abu Zayed: “Quando le bombe
smettono di cadere, il mondo presume che la guerra sia finita e la chiama pace.
Ma a Gaza il silenzio che segue il bombardamento non è pace; è l’inizio di un
confronto con il vero dolore”.
Domenico Gallo
[1] Elie Wiesel, l’ebreo errante, Firenze, 1986
[2] Roberto Barsotti, voce Genocidio in Codice degli atti internazionali
sui diritti dell’uomo, Giuffrè, 1981
PALESTINA OLTRE
LA MISTIFICAZIONE DELLA PACE - Pasquale Liguori
Qui sta la potenzialità rivoluzionaria
della Palestina: non nel fornire un modello già pronto, ma nell’aprire una
breccia nella percezione del possibile
Ieri sera, per caso, mi sono imbattuto in una puntata di Piazza
Pulita dedicata alla Palestina. Un piccolo compendio del nostro tempo:
una moderazione ossessionata dall’equilibrio, contenuti annacquati per non
disturbare nessuno, una brodaglia di opinioni che attenua le responsabilità
invece di illuminarle.
Ne usciva l’ennesima rappresentazione anestetizzata del genocidio: si
parlava di cessate il fuoco, di dialogo, di pace, come se fossimo alla fine di
una guerra sfortunata, non dentro la prosecuzione di un progetto coloniale.
È anche da questo disagio che nasce la necessità di mettere in fila alcuni
punti, senza pretese di esaustività ma con il desiderio di offrire, almeno, una
piccola bussola. Non per aggiungere un’altra voce al rumore di fondo, ma per
provare a restituire la struttura di ciò che sta accadendo, oltre le narrazioni
tranquillizzanti dei talk show.
In Palestina non c’è nessun dopoguerra, perché la guerra non è mai finita.
Quella enfaticamente annunciata da Trump non somiglia né a una tregua, né a un
cessate il fuoco: è solo una pausa cosmetica che ha leggermente abbassato il
volume della violenza. L’assedio a Gaza resta intatto, il 90 percento delle
infrastrutture è stato distrutto, più della metà della Striscia è sotto
controllo militare diretto, il cibo e i farmaci entrano a gocce, i prezzi sono
schizzati alle stelle. La fame continua a essere un’arma di guerra e i massacri
non sono cessati, si sono “normalizzati”. Parlare di pace è, semplicemente, una
mistificazione.
Questo non è un incidente passeggero, ma l’ultima fase di oltre un secolo
di guerra contro il popolo palestinese e la sua terra: colonie che si
espandono, popolazione indigena compressa, recintata o espulsa. Per la maggior
parte dei palestinesi, tra Gaza e Cisgiordania, il futuro resta cupo: aleggia l’incertezza,
domina il lutto, la paura che la prossima ondata possa essere perfino peggiore.
In questo contesto, la vecchia formula della “soluzione a due Stati” appare
per quello che è sempre stata: un metodo diplomatico pensato per guadagnare
tempo e coprire il consolidamento del progetto coloniale. Da decenni Israele
moltiplica le colonie in Cisgiordania, ritaglia blocchi territoriali che
rendono impraticabile la contiguità di qualunque Stato palestinese reale,
mantiene un assedio duraturo su Gaza, trasforma ogni ipotesi di sovranità in
una finzione amministrativa. Il problema non è la geometria dei confini, ma la
logica del regime. Ciò che andrebbe messo al centro non è la scelta tra uno o
due Stati, ma la necessità di porre fine alla supremazia etno-nazionale che ha
strutturato Israele: un sistema che dà gerarchia razziale alla cittadinanza,
legifera la discriminazione, organizza la propria riproduzione politica attorno
all’annientamento – fisico, sociale, simbolico – dei palestinesi.
De-sionizzare Israele significa questo: smantellare il regime di apartheid,
sciogliere l’idea di stato “ebraico” suprematista tra il fiume e il mare,
riconfigurare i rapporti tra coloro che vivono su quella terra a partire da
certezze politiche, dal diritto al ritorno, dall’autodeterminazione, dalla fine
della guerra permanente contro la popolazione indigena.
Finché Israele continuerà a muoversi dentro un regime di impunità totale –
militare, politica, giudiziaria – nessuna ipotesi istituzionale potrà reggere.
La domanda cruciale non è come adornare la scena con nuovi riconoscimenti, ma
come disinnescare il sistema che garantisce a Israele l’esenzione perpetua da
ogni responsabilità.
Dentro questo regime, la resistenza palestinese non è un eccesso
irrazionale ma una necessità storica. I media occidentali la registrano quasi
esclusivamente come terrorismo, vendetta, pulsione suicida. Lo sguardo è sempre
lo stesso: patologizzare la ribellione, naturalizzare la violenza coloniale. Ma
la prospettiva si capovolge se si parte dalle condizioni materiali: villaggi in
Cisgiordania strangolati da colonie e strade militari, uliveti incendiati,
lavoratori picchiati o uccisi sui tragitti, assedio totale su Gaza, fame
programmata, bombardamenti quotidiani, uso sistematico della carcerazione e
della tortura come strumenti di governo. In questa architettura della morte,
resistere significa semplicemente rifiutare di accettare il proprio
annientamento come destino. La resistenza – armata, popolare, culturale –
diventa l’unico modo per tentare di deformare il regime, alterarne i rapporti
di forza, costringere il mondo a fare i conti con la questione palestinese non
come “dossier” ma come crisi strutturale dell’ordine globale.
Le discussioni interne – strategiche e tattiche – sulla scelta di intraprendere
una manovra offensiva come quella del 7 ottobre non annullano questi
presupposti. Si può discutere se quella decisione abbia colto il momento
giusto, se abbia sottovalutato la risposta genocida dello Stato coloniale, se
abbia aperto più spazi o più vulnerabilità. Ma un fatto è innegabile: il
genocidio non è cominciato il 7 ottobre, è esploso alla luce del sole. Israele
ha mostrato il proprio volto senza più infingimenti, e nel farlo ha eroso la
propria legittimità internazionale, soprattutto nella percezione delle nuove
generazioni.
In questo senso, la resistenza palestinese non è solo difesa: è anche un
principio di speranza. Non nel senso consolatorio del termine, ma come apertura
di possibilità politiche: costruire alleanze reali, spingere i movimenti nel
mondo a misurarsi con la Palestina, produrre spostamenti materiali nei rapporti
di forza. È qui che la lotta palestinese eccede i propri confini: “Palestina”
diventa una parola chiave per interrogare la natura stessa dell’impero
statunitense, il rapporto tra colonia d’insediamento e metropoli, il
funzionamento di un capitalismo che integra il genocidio nel proprio
metabolismo.
Una delle strategie centrali del dominio israeliano è sempre stata la
frammentazione. Muri, checkpoint, zone militari, permessi di circolazione,
regimi diversi di cittadinanza e residenza: carta d’identità verde per i
palestinesi della Cisgiordania, blu per Gerusalemme, regole ancora differenti
per Gaza. Un solo sistema di controllo, declinato in forme diverse di inclusione
ed esclusione, privilegiate e subalterne. L’obiettivo: impedire la costruzione
di una soggettività politica unitaria, ridurre la moltitudine palestinese a una
somma di comparti stagni, con interessi e orizzonti apparentemente divergenti.
Il 7 ottobre ha messo a nudo potenzialità e limiti imposte da questa
architettura. Gaza, pur sotto assedio, ha sviluppato nel tempo capacità
proprie: strutture sotterranee, produzione autonoma di armamenti,
organizzazione politica relativamente coesa. Ma la Cisgiordania, Gerusalemme e
i palestinesi con cittadinanza israeliana, decimati da decenni di arresti
preventivi, cooptazioni, controllo capillare, non hanno potuto – o saputo –
produrre una risposta coordinata all’altezza di quel momento storico. Ne sono
nate fratture, senso di colpa, percezione di uno squilibrio nel sacrificio. E
tuttavia, proprio l’intensificazione della violenza coloniale ricorda a tutti,
con brutalità, che il progetto di lungo periodo della colonia è sbarazzarsi dei
palestinesi in quanto tali. Il messaggio è chiaro: non importa che documento
porti in tasca, quale sia la tua posizione nella gerarchia giuridica, quale
segmento di territorio abiti. Nel calcolo strategico del sionismo, sei un
ostacolo da rimuovere, gradualmente o in blocco. È questa minaccia condivisa
che, paradossalmente, rilancia l’idea dell’unicità, al di là della
frammentazione prodotta dall’occupazione.
Intorno a Gaza sono fioriti i piani per il “day after”. Think tank
imperiali, miliardari dell’hi-tech, architetti della governance globale hanno
immaginato la Striscia come laboratorio: dalla “riviera immobiliare” sognata
nelle prime versioni trumpiane, in cui i palestinesi erano semplicemente
scomparsi, fino ai progetti più recenti che prevedono combinazioni di colonie
israeliane, zone speciali, corridoi economici, forme di amministrazione
“palestinese” rigidamente subordinate alla sicurezza israeliana.
Ciò che accomuna queste fantasie è l’esclusione pressoché totale della
volontà dei gazawi e del popolo palestinese. La priorità non è ricostruire una
vita degna, ma neutralizzare Gaza come centro della resistenza, trasformarla in
un territorio addomesticato, integrato nel circuito degli affari. Ricostruire
senza restituire sovranità, investire senza restituire diritti: è il modello
classico della controinsurrezione neoliberale, ora applicato su macerie ancora
fumanti.
Per i palestinesi, e per chiunque prenda sul serio la questione, il
problema non è “cosa costruire sulle rovine”, ma perché quelle rovine esistono.
Senza affrontare la radice politica – il regime di supremazia, l’apartheid,
l’occupazione, il diritto al ritorno negato – ogni piano di ricostruzione è
solo un’operazione estetica al servizio dell’ordine coloniale.
Se guardiamo alle metropoli occidentali, questi due anni hanno prodotto un
effetto evidente: le crepe nell’egemonia ideologica del sionismo si sono
allargate. Negli Stati Uniti, nel Regno Unito, in Europa, la Palestina è
diventata un banco di prova morale: gli studenti occupano i campus, i
lavoratori si attivano stimolando i propri sindacati, le comunità nere, arabe,
musulmane intrecciano le proprie lotte con quella palestinese, sempre più
persone vedono la coincidenza tra “interessi nazionali” proclamati dall’élite e
complicità con il genocidio.
Non è un caso che alcune figure politiche emergenti, anche in contesti
profondamente ostili, siano state trascinate in parte dal loro posizionamento
su Palestina: non perché incarnino una svolta radicale, ma perché il modo in
cui si rapportano a questa questione diventa misura di attendibilità etica
complessiva. La Palestina ha reso visibile, in modo quasi osceno, la distanza
tra retorica dei “diritti umani” e pratica effettiva dell’imperialismo
liberale.
E tuttavia, il sostegno strutturale a Israele non è crollato. Le classi
dirigenti continuano a fornire armi, intelligence, copertura diplomatica.
Alcuni governi europei hanno riconosciuto lo “Stato di Palestina”, ma senza
interrompere i contratti militari con Israele, senza sostenere sanzioni reali,
senza mettere in discussione la cooperazione industriale e tecnologica. È un
doppio movimento: lavaggio di coscienza da un lato, continuità materiale del
sostegno dall’altro. Per questo la parola chiave resta la stessa: impunità.
Finché Israele potrà bombardare, affamare, espellere, incarcerare di massa
senza pagare alcun prezzo in termini di sanzioni, isolamento, rottura di
relazioni strategiche, ogni riconoscimento simbolico rimarrà una foglia di
fico. La priorità non è dare un timbro di “statualità” alla Palestina, ma
togliere il salvacondotto politico-militare allo Stato aggressore.
Nella società israeliana, esiste un dissenso – refuseniks, piccole realtà
anti-sioniste, poche voci intellettuali – ma resta minoritario, tardivo,
centrato per lo più su questioni interne: la corruzione di Netanyahu, la
restituzione degli ostaggi, la crisi istituzionale. Le grandi manifestazioni
che hanno riempito le strade non hanno preso parola contro il genocidio a Gaza,
ma contro la gestione “inefficiente” della guerra, contro il rischio che il
patto tra Stato e società ebraica si incrinasse. Il sistema politico nel suo
complesso – dalla destra messianica alla cosiddetta “sinistra sionista” –
condivide gli stessi presupposti: la necessità di mantenere uno Stato ebraico
tra il fiume e il mare, la centralità della forza militare, l’inaccettabilità
del diritto al ritorno, l’idea che i palestinesi siano, nella migliore delle
ipotesi, una popolazione da amministrare. Netanyahu non è un’anomalia, ma
un’espressione particolarmente sfrontata di una struttura condivisa. Il
conflitto interno riguarda le forme del dominio, non la sua fine. Non
sorprende, allora, che le poche sacche di dissenso più lucido guardino
all’esterno: chiedono boicottaggio, disinvestimento, sanzioni, fine dei
programmi di cooperazione militare e accademica. Sanno che, senza pressione
esterna, la società israeliana non produrrà da sola la trasformazione
necessaria. Questo è un punto che i movimenti nel Nord globale dovrebbero
assumere con chiarezza: non c’è “pace” possibile appaltata alla coscienza del
carnefice.
La Palestina, però, non si limita a esigere solidarietà. Costringe a
guardare in faccia la corruzione delle istituzioni occidentali: media che
mentono spudoratamente mentre i video di Gaza circolano sui telefoni di tutti;
università che si presentano come spazi critici e reprimono gli studenti;
parlamenti che si indignano per l’invasione russa dell’Ucraina e finanziano il
genocidio in Palestina; Ong e apparati “umanitari” che depoliticizzano l’orrore
trasformandolo in questione di “aiuti”.
In questo senso, la Palestina è una condensazione di contraddizioni. Mostra
come la democrazia liberale sia perfettamente compatibile con l’apartheid e il
genocidio, purché avvengano abbastanza lontano, purché colpiscano i soggetti
giusti. Mostra come il capitalismo globale integri la distruzione di intere
società nel proprio funzionamento ordinario: commesse militari, accordi
energetici, sperimentazioni di tecnologie di sorveglianza che poi vengono esportate.
Mostra come il linguaggio dei diritti umani possa essere usato come arma,
selettiva e ipocrita. Ma proprio per questo, offre anche qualcosa: l’occasione
di rompere l’incantesimo. Chi ha seguito Gaza in questi due anni ha visto,
spesso per la prima volta, la nudità delle relazioni di potere che fino a ieri
erano coperte dal velo della “comunità internazionale”. La fiducia nelle
istituzioni si erode, non solo a destra ma anche in ampi settori popolari che
rifiutano l’idea che “non ci sia alternativa”.
Qui sta la potenzialità rivoluzionaria della Palestina: non nel fornire un
modello già pronto, ma nell’aprire una breccia nella percezione del possibile.
Da questa breccia non nasce automaticamente un’altra società. Serve
organizzazione. Non basta l’indignazione, non basta la solidarietà episodica,
non bastano le manifestazioni oceaniche che non lasciano strutture dietro di
sé. Quello che manca, tanto in Palestina quanto nelle metropoli, è un
ecosistema organizzativo all’altezza del tempo: reti stabili, media indipendenti,
gruppi capaci di passare dalla protesta simbolica a forme di lotta che
interrompano davvero i flussi logistici, economici, militari.
Le azioni dei tempi recenti – blocchi dei porti, campagne contro i
produttori d’armi, occupazioni universitarie, forme di sabotaggio simbolico e
materiale – indicano una direzione, ma restano sparse. La sfida è trasformarle
in una trama: territori in cui ci si conosce di persona, capacità di comunicare
anche se le piattaforme vengono censurate, saperi “low tech” che permettano di
resistere dentro scenari di controllo sempre più pervasivo, preparazione alla
lotta non come fantasia romantica, ma come eventualità concreta in un’Europa
che scivola verso forme sempre più dure di autoritarismo.
La discussione sui fascismi che avanzano, sulle società dello scoring
sociale, sulle doppie vite necessarie per sfuggire alla sorveglianza di massa
non riguarda un futuro remoto. È già qui, nei dispositivi che regolano
frontiere, welfare, lavoro. La Palestina non è un altrove esotico: è il
laboratorio in cui queste tecniche vengono testate con la massima violenza.
Ignorarlo significa prepararsi a subirne una versione “domestica” senza avere
né gli strumenti analitici né quelli organizzativi per opporvisi.
Il cessate il fuoco a Gaza non è la fine della guerra: è una pausa tattica
dentro un ciclo di annientamento che dura da oltre un secolo. In questo
intermezzo apparente, la domanda politica non è “quanto durerà la tregua”, ma
che cosa fare di questa sospensione relativa: lasciarla riempire da processi di
normalizzazione – i piani di ricostruzione business-friendly, i riconoscimenti
simbolici, il ritorno alla routine – o usarla per costruire organizzazione,
tessere reti, preparare il terreno perché la prossima offensiva non trovi un mondo
altrettanto complice e disarmato.
La Palestina non chiede pietà. Chiede che si guardi in faccia la verità
dell’ordine globale, che si scelga da che parte stare e che ci si organizzi di
conseguenza. In cambio offre qualcosa che, nel cuore della catastrofe, resta
prezioso: la possibilità concreta di pensare e costruire un’altra forma di vita
politica. Non al posto dei palestinesi, ma insieme a loro, sapendo che la loro
liberazione non è una causa esterna, ma una condizione della nostra stessa
emancipazione.
L’omesso e
il nascosto nella risoluzione Usa su Gaza all’Onu
«Il Consiglio di Sicurezza
ha detto sì, ma ciò che resta sul tavolo somiglia più a un involucro che a un
accordo di pace», introduce con efficacia il cattolico Avvenire. «La
risoluzione americana su Gaza, approvata con 13 voti favorevoli e le astensioni
di Mosca e Pechino, segna certo un passaggio diplomatico rilevante, ma non
offre alcun riferimento concreto all’unico sbocco riconosciuto dalla comunità
internazionale come credibile: la soluzione a due Stati».
Assenza decisiva, lo Stato di Palestina
Dal premier
Netanyahu l’opposizione alla nascita di uno Stato palestinese costretta dalla
diplomazia. Senza ritegno il suo governo di estremisti. «La missione della mia
vita è impedire la creazione di uno stato palestinese nel cuore della nostra
terra», dichiara il ministro delle finanze Bezalel Smotrich. Peggio Itamar Ben
Gvir, sottolinea il manifesto, che vorrebbe far fuori tutti i leader
dell’Autorità nazionale palestinese (Anp): «Se accelerano il riconoscimento
dello stato palestinese, e l’Onu lo riconosce, dovrebbero essere ordinati
omicidi mirati di alti funzionari dell’Anp». Per il 90enne Abu Mazen,
«C’è una cella di isolamento pronta per lui nella prigione di Ketziot», ha
minacciato il suprematista ebraico. Un altro personaggio su cui la Corte penale
dell’Aja continua ad essere distratta.
Ringhi
elettorale ma di Stato Palestinese non c’è traccia
Ma Israele
sa bene che nella risoluzione che gli Stati uniti hanno portato all’Onu non
esiste un progetto chiaro per la nascita di uno stato palestinese. Il riferimento
è stato inserito per volontà dei governi arabi, ma solo per non irritare
l’alleato, e l’arzigogolo Trump: «percorso verso l’autodeterminazione». Il non
dire per mai fare. Nella striscia intanto Israele continua a uccidere. Ad
al-Daraj,sganciato un ordigno su una scuola-rifugio, ferendo 13 persone, tra
cui diversi bambini. Almeno due palestinesi sono stati uccisi dai militari
vicino alla ‘linea gialla. Nella Cisgiordania occupata, i coloni israeliani
hanno dato fuoco a case e automobili palestinesi vicino a Betlemme, mentre a
Tzur Misgavi a centinaia hanno attaccato persino la polizia israeliana che
tentava di sgomberare un avamposto illegale, denuncia Eliana Riva.
L’invenzione Onu
«Una forza
internazionale sarà incaricata di stabilizzare la Striscia e disarmare Hamas.
Donald Trump esulta, definendo il voto ‘storico’ e annunciando la creazione di
un Board of Peace che guiderà personalmente». Oltre le sparate ormai
caricaturali del personaggio che s’indora, i fatti purtroppo dicono altro.
Rigoroso Giulio Isola su Avvenire
«Un entusiasmo che stride con il contenuto del documento, nel quale la
prospettiva della statualità palestinese viene solo evocata in forma
condizionale e rinviata a un futuro indeterminato, subordinata a riforme
dell’Autorità Palestinese e a un avanzamento della ricostruzione. Una formula
di circostanza che non definisce tempi, garanzie né competenze».
Più diplomazia che contenuti
Russia e
Cina, inizialmente pronte a mettere il veto, hanno scelto l’astensione, pur
criticando l’opacità del processo. Mosca aveva depositato nei giorni scorsi una
bozza alternativa: niente smilitarizzazione obbligatoria, nessun Board of Peace
presieduto dallo stesso Trump, e una forza internazionale affidata alla
supervisione del segretario generale dell’Onu, non a Washington. Posizioni
condivise da Pechino e dall’Algeria, rimaste però isolate di fronte alla
compatta pressione dei principali Paesi arabo-musulmani — Qatar, Egitto,
Emirati, Arabia Saudita, Giordania, Indonesia, Pakistan e Turchia — determinati
a non rallentare la fase due del piano, dopo il cessate il fuoco, la
liberazione dei prigionieri e il ritiro parziale dell’Idf dalla Striscia.
L’Autorità Palestinese ha salutato con ‘soddisfazione’ il voto e chiesto una
«attuazione immediata».
L’assenza di impegni chiari nel
testo
La reazione
dei diretti interessati denuncia la fragilità del tutto. Hamas ha respinto la
risoluzione definendola un passo verso una tutela straniera su Gaza degli
interessi israeliani, rifiutando ogni riferimento al disarmo. Netanyahu,
stretto tra pressioni interne e la prospettiva di una governance internazionale
della Striscia, ha ribadito che Israele «resta contrario allo Stato
palestinese» e che la smilitarizzazione di Gaza sarà perseguita «con le buone o
con le cattive». Sul terreno la tensione resta alta: gli scontri con i coloni
nell’avamposto di Tzur Misgavi e le violenze a Jaba’a, vicino Betlemme,
confermano che la Cisgiordania continua a essere un banco di prova instabile e
infiammabile.
Russia e Cina astenuti ma arrabbiati
Da Mosca e Pechino, pur scegliendo l’astensione, molte critiche. Il
rappresentante russo ha denunciato l’affrettatezza del processo e l’assenza di
un impegno reale verso due Stati. L’ambasciatore cinese Fu Cong ha parlato di
un documento che «non riflette una visione adeguata per una soluzione politica
complessiva» e che consegna agli Usa un ruolo dominante attraverso il Board of
Peace e l’International Stabilization Force, di cui «non si conoscono né
mandato né limiti».
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