mercoledì 31 maggio 2017

In Quiete - Consorzio Suonatori Indipendenti (live acustico 1994)

Perché è la “guerra al terrorismo” che provoca attentati - Fulvio Scaglione




Confusione, dilettantismo, indecisione politica. Indagini a carico dei servizi segreti, più segreti che capaci. E una generale sensazione di imbarazzo che fa a pugni con l'orgoglio mostrato solo qualche giorno fa, quando Londra scagliava aspre critiche sulla Casa Bianca, colpevole di non aver conservato con cura certe informazioni sull'attentato di Manchester. Theresa May e il suo Governo cercano in queste ore di far credere di avere tutto sotto controllo ma il loro sforzo è ormai quasi patetico. Salman Abedi, il ragazzo di 22 anni che ha fatto strage nella Manchester Arena, era ben noto per i suoi legami con gli ambienti dell'islam radicale. Di più: era il rampollo di una famiglia il cui patriarca, Ramadan Abedi, era un mlitante del Gruppo combattente islamico di Libia, una formazione anti-Gheddafi legata ad Al Qaeda. Ramadan era tornato in Libia nel 2011 per combattere contro il Rais e si era portato dietro il figlio, che anche in seguito era andato avanti e indietro dalla Libia.

Tutto in segreto? Non troppo, visto che le autorità sapevano dei suoi viaggi, sapevano della sua radicalizzazione e peraltro ben conoscevano gli umori della comunità libica di Fallowfield, a Sud di Manchester, dove tra gli altri aveva trovato rifugio anche Abd al-Baset Azzouz, esperto di ordigni esplosivi e capo di un gruppo di almeno 300 miliziani affiliato ad Al Qaeda e attivo in Libia.
La vicinanza con Azzouz potrebbe spiegare, tra l'altro, come mai un terrorista pivello come Salman andasse in giro con un ordigno con un duplice meccanismo d'innesco, studiato per rendere certa la deflagrazione dell'esplosivo. Peccato che nessuno abbia pensato di applicare agli Abedi il TEO (Temporary Exclusion Order), ovvero la legge che dal 2015 consente di impedire il rientro nel Regno Unito a coloro che sono sospettati di essere foreign fighter. Legge che in questi due anni è stata applicata una sola volta, come è stata costretta ad ammettere Amber Rudd, ministro degli Interni, subito travolta dalle polemiche e ormai a rischio di dimissioni forzate.

Salman Abedi, il ragazzo di 22 anni che ha fatto strage nella Manchester Arena, era ben noto per i suoi legami con gli ambienti dell'islam radicale
Tutto questo, però, rappresenta alla perfezione ciò che noi occidentali da quasi 17 anni (cioè da quando George Bush junior la proclamò, il 20 settembre 2001) chiamiamo“guerra al terrorismo”: un informe e ipocrita pasticcio che ci ha portati ad avere sempre più attentati (tra 2014 e 2015 un più 18% negli attacchi suicidi), sempre più morti (cresciuti di nove volte tra 2000 e 2016) e sempre meno sicurezza.
Dopo tutto questo tempo, seguitiamo a chiamare “terrorista” chiunque uccida civili.Sembra una cosa sensata ma non lo è: c'è un'enorme differenza, infatti, tra il mattocchio di Londra, che si lanciò con l'automobile sui passanti sul ponte di Westminster, e il kamikaze di Manchester, che portava sulle spalle un ordigno costruito da un professionista. La stessa differenza che passa tra uno che viene mandato a uccidere dai propri demoni interiori e uno che fa una strage su mandato e indicazione di menti ferine ma lucide.
Noi occidentali siamo ormai diventati incapaci di qualunque distinzione. Se avessimo conservato un minimo di lucidità, capiremmo che contro il “lupo solitario” dalla mente deragliata c'è poco che si possa fare, oltre a confidare nella professionalità delle forze di polizia e dei servizi sanitari. Mentre c'è molto che si può ancora fare contro le azioni dei professionisti del terrore, quelli capaci di trovare uno squilibrato, trasformarlo in un kamikaze e lanciarlo in mezzo alla folla con una bomba che nessuno può disinnescare.
È questo il terrorismo di cui dovremmo avere paura, è questo il terrorismo che si può combattere e neutralizzare, come proprio il “caso Manchester” e la storia di Salman Abedi dimostrano. E la prima cosa da fare sarebbe tagliare le sue linee di rifornimento. Viene però il sospetto che anche la confusione abbia un suo scopo. Trasformare il terrorismo in una notte in cui tutti i gatti sono bigi può egregiamente servire a non spiegare perché, dopo tanti lutti e tanti lamenti, seguitiamo a coccolare i Paesi che sono in prima fila nel finanziamento e nel sostegno ai terroristi.
La guerra al terrorismo”: un informe e ipocrita pasticcio che ci ha portati ad avere sempre più attentati
Qualche esempio. Che senso ha che il G7 concluda che serve un maggiore scambio di informazioni tra i Paesi membri per combattere gli attentatori se Donald Trump, appena prima di firmare quell'impegno, ha rovesciato sull'Arabia Saudita, che con il Qatar è uno dei grandi sponsor della violenza islamista, un fiume di armi che andranno ad alimentare, appunto, anche il terrorismo? Che senso ha che Theresa May si impegni a garantire la sicurezza del proprio Paese se l'industria degli armamenti del Regno Unito ha come primo cliente proprio quell'Arabia Saudita di cui abbiamo appena detto? Se ci sono più di 120 joint venture anglo-saudite che fatturano centinaia di miliardi di sterline l'anno? A che servono tutte le dichiarazioni se poi le azioni politiche concrete vanno in senso contrario?
Ecco, forse tutta quella confusione in merito a terroristi e terrorismo serve proprio a questo. A non far capire ai cittadini spaventati che se si è il migliore amico del migliore amico dei terroristi, la guerra al terrorismo te la puoi scordare.

Adonis. Il pugile fantasma - Raúl Zecca Castel



da qui

2 giugno A Foras Fest - Die contra a s'ocupatzione militare - Corteo + Concerto

A Foras Fest - Die contra a s'ocupatzione militare. Corteo + Concerto. Ore 10.30 partenza corteo da parcheggi Marina Piccola fino a Piazza dei Centomila. Ore 15.00 inizio concerto al Cole San Michele. Tante ore di musica, arte e informazione. 
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A Foras è un’assemblea nata il 2 giugno del 2016 a Bauladu, composta da comitati, collettivi, associazioni, realtà politiche e individui che si oppongono all’occupazione militare della Sardegna. È una realtà antifascista, anticolonialista, antirazzista, antiomofoba e antisessista. A Foras è un’assemblea orizzontale, aperta e inclusiva che lotta per il blocco delle esercitazioni, la completa dismissione dei poligoni sardi, il risarcimento delle popolazioni da parte di chi ha inquinato e la bonifica dei territori compromessi. Tutti questi obiettivi si possono raggiungere solo attraverso la creazione di un movimento unitario, popolare e di massa, radicato in tutta la Sardegna, e con la solidarietà attiva di tutti gli altri movimenti e comitati locali di lotta, sardi e non, che si battono per l’autodeterminazione dei popoli.
Nell’arco del suo primo anno, l’Assemblea di A Foras ha promosso diverse iniziative, dalle manifestazioni presso i poligoni di Capo Frasca (23 novembre 2016) e Quirra (28 aprile scorso), alle presentazioni del dossier sul Poligono di Quirra, fino alle assemblee informative nelle piazze, nei paesi, nelle città, nelle università e soprattutto nelle scuole.
Per portare avanti questi diversi percorsi, A Foras si è strutturata in sei gruppi di lavoro, nati durante il primo A Foras Camp, svolto a Lanusei nel settembre 2016. Oltre al gruppo di lavoro sulla comunicazione, è stato creato un gruppo che studia gli effetti delle basi sull’economia dei diversi territori, un altro dedicato alla storia del movimento sardo contro l’occupazione militare e al contesto geopolitico internazionale. Altri due gruppi portano avanti il lavoro rispettivamente nelle scuole e nelle università. Infine è attivo un gruppo tematico sulla RWM Italia, la fabbrica di bombe di Domusnovas.
L’ultima manifestazione promossa da A Foras per il 28 aprile, Sa Die de sa Sardigna contra a s’ocupatzione militare, che prevedeva un corteo nei pressi del Poligono di Quirra, è stata ostacolata con qualsiasi mezzo possibile dalla Questura di Cagliari (forte anche del recente Decreto Minniti), con minacce, intimidazioni e infine col divieto di manifestare e il blocco di tutti i presenti entro due cordoni di celerini.
Crediamo sia necessario rispondere con la solidarietà a questo e a tutti gli attacchi repressivi che negli ultimi anni ha subito il movimento contro l’occupazione militare della Sardegna, rilanciando e sostenendo tutte le iniziative utili al raggiungimento degli obiettivi.
In questo momento è più che mai necessaria una risposta unitaria e popolare, che rilanci il tema cruciale della dismissione delle basi militari con una grande mobilitazione di massa. Per questo A Foras si rivolge a tutte e tutti i sardi, oltre che ai solidali al di fuori della nostra isola, a singoli e organizzazioni, movimenti, comitati e associazioni che condividono l’obiettivo della liberazione della Sardegna dall’occupazione militare e in generale dalla filiera bellica.
Venerdì 2 giugno, a un anno esatto dalla nascita di A Foras, si vuole capovolgere la festa della repubblica italiana e farne una giornata nella quale il popolo sardo lancia un grido contro quello stesso Stato che ha imposto unilateralmente il 66% di servitù militari dell’intero territorio italiano sulla Sardegna. Un grido contro lo Stato italiano, la NATO, gli altri eserciti stranieri e le multinazionali che operano ogni giorno nella nostra terra per trarre profitto dall’industria bellica.
La giornata del 2 giugno si svolgerà all’indomani dell’ennesima mega esercitazione imposta dall’alto e che questa volta riguarda le acque del sud Sardegna: “Mare aperto 2017”. Il pericolosissimo precedente creato da questa esercitazione sta nell’appropriarsi di ulteriori specchi d’acqua, non soggetti a servitù durante l’anno. Non solo ogni anno la Sardegna subisce lo scippo di oltre 35 mila ettari di terra di proprietà del demanio militare, ma con l’operazione “Mare aperto”, nell’assoluto silenzio del governo regionale, si è verificata un’ulteriore usurpazione della nostra isola, che è a disposizione per i giochi di guerra di eserciti di tutto il mondo.
Per rispondere in maniera decisa e unitaria a questa e a tutte le altre esercitazioni, per continuare il percorso che porterà il popolo sardo a liberarsi da basi militari e fabbriche di bombe, a riappropriarsi della terra, del mare e dell’aria e ad autodeterminarsi, per rilanciare un’economia etica e sostenibile, alternativa alla filiera bellica, per pretendere le bonifiche dei territori danneggiati e il risarcimento di tutti i danni subiti, diamo appuntamento a tutte e tutti il 2 giugno a Cagliari per A FORAS FEST – DIE CONTRA A S’OCUPATZIONE MILITARE.
Per questa giornata simbolica, A Foras sceglie Cagliari, dove intende tenere annualmente questo appuntamento come giornata di tutti coloro che si riconoscono in questi obiettivi. Sarà una giornata di informazione e di festa, articolata in due momenti fondamentali, il corteo e il concerto.

Il CORTEO sfilerà colorato da centinaia di bandiere sarde per le principali strade di Cagliari, partendo alle 10:30 da Marina Piccola, per arrivare fino in Piazza dei Centomila. 
Dal pomeriggio, a partire dalle 15:00, l’appuntamento è al Colle di S. Michele, per un grande CONCERTO di autofinanziamento, dove si alterneranno oltre 10 gruppi musicali, con l’intervento di diversi altri artisti che sostengono A FORAS e che hanno condiviso l’appello. Anche attraverso la musica si vuole rappresentare la varietà e molteplicità delle componenti di A Foras: saranno presenti diversi generi musicali (progressive, jazz, rap, hip hop, folk e canzone d’autore) e diverse generazioni di artisti, non solo sardi. Tra i nomi che si alterneranno sul palco: Patrizio Fariselli, Enzo Favata, i Menhir, Futta, Claudia Crabuzza, Nicola di Banari, il coro Tenore Luisu Ozzanu, Slim Fit, Dr. Drer & Crc Posse.
Durante il concerto saranno proiettati diversi contributi video e si ascolteranno testimonianze e contributi dai diversi territori e realtà che compongono A Foras. Sarà inoltre allestita una mostra dell’artigianato e delle autoproduzioni locali, che rappresentano un piccolo esempio di economie etiche e sostenibili a partire dalle quali crediamo si debba ripartire dopo la dismissione di tutti i poligoni.
Come per le precedenti occasioni, si invitano tutte le realtà locali ad organizzare trasporti in comune e a darne comunicazione all’organizzazione di A Foras che rilancerà attraverso tutti i suoi canali di comunicazione.
Email: aforasinfo@gmail.com
Facebook: www.facebook.com/aforas2016
Twitter: @aforasnews

martedì 30 maggio 2017

La cortesia dei non vedenti - Wislawa Szymborska




La cortesia dei non vedenti - Wislawa Szymborska

Il poeta legge le poesie ai non vedenti.
Non pensava fosse così difficile.
Gli trema la voce. 
Gli tremano le mani.

Sente che ogni frase
è qui messa alla prova dell'oscurità.
Dovrà cavarsela da sola,
senza luci e colori.

Un'avventura rischiosa
per le stelle dei suoi versi,
e l'aurora, l'arcobaleno, le nuvole, i neon, la luna,
per il pesce finora così argenteo sotto il pelo dell'acqua,
e per lo sparviero, così alto e silenzioso nel cielo.

Legge - perché ormai è troppo tardi per non farlo-
del ragazzo con la giubba gialla in un prato verde,
dei tetti rossi, che puoi contare, nella valle,
dei numeri mobili sulle maglie dei giocatori
e della sconosciuta nuda sulla porta schiusa.

Vorrebbe tacere - benché sia impossibile-
di tutti quei santi sulla volta della cattedrale,
di quel gesto d'addio al finestrino del treno,
di quella lente del microscopio e del guizzo di luce dell'anello
e degli schermi e degli specchi e dell'album dei ritratti.

Ma grande è la cortesia dei non vedenti, 
grande la comprensione e la generosità.
Ascoltano, sorridono e applaudono.

Uno di loro persino si avvicina
con il libro aperto alla rovescia,
chiedendo un autografo che non vedrà.

Musica per la libertà - Luigi Perelli

La dittatura ‘democratica’ dei potenti - Raúl Zibechi


Ci mancano le idee. La mente non pensa con l’informazione bensì con le idee, come precisa Fritjof Capra in La rete della vita. Nella tremenda transizione/tormenta in cui viviamo, abbiamo bisogno di lucidità e di organizzazione per capire quello che succede e per costruire le vie d’uscita.Quando la realtà si fa più complessa e la percezione si intorbidisce, una caratteristica delle tormente sistemiche, rendere nitido lo sguardo è un passo ineludibile e vitale.
Per questo ci riempiono di informazione spazzatura, perché contribuisce a potenziare la confusione. È in questo senso che i media giocano un ruolo sistemico che consiste nel deviare l’attenzione, far sì che le cose importanti e decisive abbiano un rilievo identico a quelle più superficiali(un incidente stradale ha maggior copertura che il caos climatico) e trattano i temi seri come se fossero una partita di calcio.
Como sappiamo, ci sono quelli che pensano che non sono in corso maggiori cambiamenti, che la tormenta sistemica è una crisi passeggera, dopo la quale tutto riprenderà il suo corso normale. Però noi, los e abajo, dobbiamo acuire i sensi,  rilevare i suoni e i movimenti impercettibili, perché le nostre vite sono a rischio e qualsiasi distrazione può avere conseguenze disastrose. Noi non abbiamo assicurazioni sulla vita né guardie private come los de arriba.
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Lo storico francese Emmanuel Todd riflette sulle elezioni nel suo paese, con analisi davvero interessanti. La prima, è che da diversi decenni esistono settori di forze sociali stabili, che permettono di garantire che la società sia divisa in due metà e che questa divisione permanga quasi inalterata.
In secondo luogo, si chiede perché nello scorso quarto di secolo, il rifiuto verso il modello neoliberale non è cresciuto (in Europa), malgrado l’aumento della disoccupazione e il fallimento dell’euro. Todd fa un’analisi della popolazione, un dato strutturale che gli analisti tendono a minimizzare. In Francia, dal 1992, la popolazione è invecchiata fino a sei anni e, di fatto, gli anziani “hanno perso il diritto di voto”, perché un’uscita dall’euro abbatterebbe le loro pensioni.
La seconda questione che Todd considera è la stratificazione educativa. Ne conclude che “le persone con studi superiori hanno prodotto una oligarchia di massa” e che questa élite è passata dal 12 per cento della popolazione nel 1992 al 25 per cento di oggi, cioè in soli 25 anni. La conclusione fa sussultare: una popolazione invecchiata aggiunta a una maggior “massa oligarchica” sfocia in un crescente conformismo della metà della popolazione, mentre l’altra metà, quella de abajo, si è considerevolmente deteriorata dal trattato di Maastricht del 1992.
Quando Marx scrive il Manifesto comunista, il rapporto tra los de abajo e los de arriba era di nove a uno. Non c’erano pensioni per gli anziani e l’università era riservata alle élite. Era un sistema instabile, che il 90 per cento della gente aveva interesse ad abbattere.
I due cambiamenti menzionati da Todd (demografia ed educazione superiore) rappresentano mutamenti profondi per noi che aspiriamo a trasformare il mondo. Tuttavia nel 1960 abbondavano gli universitari come il Che, disposti a usare le proprie conoscenze assieme agli oppressi. Il sistema ha saputo capire che tra i giovani universitari c’era un punto debole e ha preso provvedimenti.
Adesso i docenti di quel livello guadagnano fortune: in diversi paesi fino a 30 volte il salario minimo (nazionale, ndr). Gli studenti beneficiano di borse di studio che consentono loro di allungare gli studi di post-laurea fino a sfiorare i 40 anni e poi aspirano a fare il loro ingresso nella élite universitaria. Nell’immaginario collettivo, la scalata sociale passa dagli studi superiori ai quali si dedica buona parte della vita.
Tre decenni fa (in Marx e il sottosviluppo), Immanuel Wallerstein sosteneva che sotto il capitalismo la classe alta era passata dall’1 al 20 per cento della popolazione mondiale. Per l’”oligarchia di massa”, che presume Todd, la cifra può adesso avvicinarsi al 25 per cento. In América Latina le cifre vanno attenuate, però stiamo andando in quella direzione.
Può essere che stiamo rasentando la “dominazione perfetta”: società divise in parti quasi uguali, tra quelli che hanno bisogno di far saltare il banco e quelli che temono qualsiasi cambiamento. Una metà conformista e l’altra metà sopraffatta dalla Quarta guerra mondiale (secondo la definizione della tormenta cara agli zapatisti, ndr). Al di sopra di entrambe, sta l’1 per cento che controlla il potere statale, quello materiale e le democrazie elettorali.
“Man mano che si espandono le dimensioni del gruppo che sta in cima, via via che rendiamo sempre più uguali tra loro nei loro diritti politici i membri del gruppo che sta in cima, diventa possibile estrarre sempre di più da los de abajo”, scrive Wallerstein in Dopo il liberalismo. E aggiunge che “un paese per metà libero e per metà schiavo, può sì durare molto tempo”.
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Le conseguenze di questi cambiamenti dovrebbero portarci a trarre alcune conclusioni “strategiche”.
Uno, la democrazia si consolida in quel settore che non vuole destabilizzare il sistema, mentre l’altra metà non si sente rappresentata. La democrazia elettorale ha senso per la metà de arriba, ma è una prigione per los de abajo.
Dueper la metà diseredata della popolazione, l’attuale disegno del capitalismo è una realtà oppressiva, poiché le politiche sociali mirate tendono a neutralizzare e a dividere quelli che avrebbero bisogno di sollevarsi contro il sistema.
I partiti di centro-sinistra raccolgono le aspirazioni, e le paure, di quella metà della popolazione che vuole solamente cambiamenti cosmetici e il cui esclusivo esercizio politico è votare ogni cinque o sei anni e assistere ai meeting per applaudire i suoi caudillos.
La metà de abajo non può aver fiducia in un sistema politico che funziona come una “dittatura democratica”. Wallerstein continua così: “Un struttura politica con libertà totale per la metà de arriba può essere la forma più oppressiva che si possa immaginare per la metà de abajo”.
Quelli che vivono nella zona del non-esserenelle parole di Fanonsono quelli che resistono e costruiscono altri mondi, per mera necessità di sopravvivere. Ma sono bombardati dalla fantasia secondo la quale possono cambiare il proprio destino senza rompere il sistema.
(Articolo pubblicato su La Jornada con il titolo La dictadura “democrática” de los poderosos
Traduzione per Comune: Daniela Cavallo)

lunedì 29 maggio 2017

La storia dei tre eroi di Portland

Venerdì 26 maggio due uomini sono stati accoltellati e uccisi su un treno a Portland, in Oregon, mentre cercavano di intervenire contro un altro passeggero che gridava insulti anti-islamici verso due giovani donne. Un terzo uomo coinvolto nella difesa delle due adolescenti è stato gravemente ferito ed è attualmente ricoverato in ospedale. L’aggressore si chiama Jeremy Joseph Christian, ha 35 anni, e comparirà per la prima udienza in tribunale domani, martedì 30 maggio. Nel frattempo, più di 600 mila dollari sono stati raccolti e messi a disposizione delle famiglie dei tre difensori che, sui giornali sono definiti degli “eroi”. Il sindaco di Portland, il governatore dell’Oregon ma anche altre importanti figure politiche come Hillary Clinton hanno commentato questa storia, mentre non lo ha fatto il presidente degli Stati Uniti Donald Trump.
Nel pomeriggio di venerdì due ragazze di 16 e 17 anni, una delle quali indossava un hijab, hanno preso un treno a Portland. Appena salite sul loro vagone l’uomo successivamente identificato come Jeremy Joseph Christian ha iniziato a pronunciare delle frasi razziste contro di loro dicendo ad esempio, secondo i testimoni, che tutti i musulmani sono dei «criminali». Ha detto loro di «scendere dal treno» e di andarsene dal paese, «perché qui non pagate le tasse». A quel punto alcuni passeggeri sono intervenuti in difesa delle ragazze e sono stati aggrediti con un coltello. Taliesin Myrddin Namkai-Meche, un ragazzo di 23 anni da poco laureato in economia, e Ricky John Best, 53 anni, padre di quattro figli ed ex soldato sono morti: il primo mentre veniva trasportato in ospedale, il secondo sul colpo, dopo essere stato ferito da Christian. Un terzo uomo di 21 anni, Micah David-Cole Fletcher, è stato invece colpito al collo ed è attualmente ricoverato in ospedale, ma non è in pericolo di vita. Apparentemente inconsapevoli di quanto gravemente feriti fossero gli uomini che le avevano difese, le due ragazze sono scappate terrorizzate dal treno e hanno telefonato alla madre di una di loro. Anche Jeremy Joseph Christian ha cercato di fuggire, ma è stato arrestato poco dopo essere sceso dal treno.
Il sergente Pete Simpson, portavoce della polizia di Portland, ha detto che non si sa ancora se l’aggressore «abbia problemi di salute mentale o se fosse sotto l’effetto di droghe o alcol». Su di lui non ci sono molti dettagli: si sa che ha 35 anni, che è di Portland, e una sua fotografia è stata diffusa dalla polizia dopo l’arresto.

Giornali e tv locali hanno scritto che la pagina Facebook di Christian aveva dei contenuti razzisti e estremisti, altri hanno detto che era un «noto suprematista bianco», altri ancora che aveva recentemente partecipato a una marcia di estrema destra. La polizia si è però finora rifiutata di condividere i dettagli della sua storia. Il sindaco di Portland Ted Wheeler ha detto che le «azioni coraggiose e disinteressate» dei tre uomini «dovrebbero servire da esempio e ispirazione per tutti noi». Ha anche aggiunto che «l’attuale clima politico offre molto spazio a coloro che diffondono fanatismo». La madre di uno degli uomini uccisi lo ha definito «un eroe», così come la madre di una delle ragazze aggredite, che ha anche parlato pubblicamente ringraziando le tre persone che le hanno salvato la vita.
Nello scorso fine settimana, in onore dei tre difensori c’è stata una veglia a cui hanno partecipato circa mille persone e a loro sono stati dedicati molti tributi online. Il tweet del giornalista di un giornale locale, in cui chiedeva a Donald Trump di fare qualche commento sull’attacco, è stato condiviso più di 4.000 volte. E il giornalista veterano di guerra Dan Rather ha scritto una lettera aperta al presidente degli Stati Uniti condivisa più di 100.000 volte su Facebook in cui gli chiede di parlare della morte dei due uomini: «Due americani sono morti lasciando famiglia e amici. Sono compianti da milioni di persone che sono anche profondamente preoccupate di ciò che potrebbe avvenire nel futuro

da qui o da qui


Allargare lo sguardo oltre l’orizzonte - Guido Viale


Per noi europei la principale conseguenza dello sfruttamento delle risorse, della devastazione ambientale e soprattutto dei cambiamenti climatici in corso non sono fenomeni di ordine ambientale o metereologico, che pure non mancano, ma è il flusso di profughi e migranti che cercano rifugio in Europa dopo aver abbandonato territori che non offrono loro più alcuna possibilità di sopravvivenza o di futuro. Fatichiamo a rendercene conto perché continuiamo a ignorare la gravità del degrado ambientale che ha investito i paesi di origine di quei flussi, ma anche perché il rapporto tra degrado ambientale ed emigrazione non è quasi mai diretto. Quando l’habitat di una comunità non è più in grado di sostenerne tutti i membri è facile che scoppino conflitti armati per il controllo di risorse sempre più scarse e contese, che possono esplodere in stragi di massa. Per questo distinguere tra profughi di guerra, profughi ambientali e “migranti economici” è praticamente impossibile.
Inoltre, prima di prendere la strada per l’Europa le comunità colpite da un forte degrado ambientale o da un conseguente conflitto si spostano innanzitutto verso territori vicini, nella speranza di poter fare ritorno al loro paese il più presto possibile. Di questi profughi e sfollati l’Africa e il Medio Oriente ne contano ormai milioni: ben più di quelli che i Governi dell’Unione Europea considerano alla stregua di un’invasione. Ma accanto a questi processi di massa, le modalità di espatrio di coloro che imboccano il cammino verso l’Europa sono in genere selettive: lo affrontano per lo più solo i membri più giovani e più intraprendenti di una comunità; spesso sono anche i più istruiti e a volte i meno poveri, quelli che possono permettersi il costo altissimo di un viaggio condotto tra rischi mortali e feroci violenze. Il loro scopo è soprattutto guadagnare per contribuire al sostentamento della famiglia di origine. Ma all’origine di quel viaggio c’è sempre un degrado ambientale che precede o segue un conflitto.
L’Italia si trova per questo al centro di una regione euro-afro-mediterranea che va dal Portogallo all’Ucraina e alla Siria e dalla Svezia alla Nigeria e alla Somalia. A unificare tutti questi paesi sono, da un lato, le politiche economiche e militari adottate o condivise dall’Unione Europea; o il riflesso di queste politiche sui paesi che le subiscono direttamente o indirettamente. Dall’altro lato, sono la presenza irreversibile, nel cuore del continente, di cittadini e residenti di origine straniera che provengono dai territori periferici di questa regione e il flusso dei profughi, di guerra, economici, e soprattutto ambientali che lo sta investendo. Che è, ben più delle politiche economiche, il principale elemento intorno a cui si stanno ridisegnando gli schieramenti politici nel cuore dell’Europa, e anche al di fuori di essa: accogliere o respingere? E come? E a che prezzo?

L’Italia è al centro di questa regione euro-afro-mediterranea sia perché è uno dei paesi europei che risente di più le conseguenze negative delle politiche economiche adottate dall’Unione Europea, sia perché è ormai il principale punto di approdo dei flussi di profughi alla cui origine concorrono molto anche queste politiche. Sono flussi i cui oneri la maggioranza dei paesi dell’Unione Europea è ben intenzionata a scaricare sul nostro paese, che rischia così tra non molto di assolvere, per conto dell’Unione Europea, allo stesso ruolo che oggi il Governo italiano e l’Unione stanno cercando di assegnare alla Libia: quello di carceriere dei profughi che sbarcano sulle nostre coste.
I governi italiani hanno cercato di eludere per anni la centralità dei problemi che nascono da questa collocazione geografica e da questi due processi, economico e migratorio, intrecciati tra loro ben più di quanto finora evidenziato. E hanno soprattutto cercato di eludere il compito di mettere i cittadini italiani e i propri partner europei di fronte agli scenari che possono derivare dall’attuale inerzia, adottando palliativi estemporanei e contraddittori, divisi tra pulsioni securitarie, ricalcate su quelle delle destre xenofobe, ancorché avvolte in un ipocrita linguaggio umanitario e interventi di salvataggio, accoglienza e custodia mal progettati, mal gestiti e mal tollerati.
Di fronte a parole, decisioni e pretese sempre più ciniche e feroci, non si può continuare ad affrontare giorno per giorno, da posizioni difensive, il conflitto tra accogliere e respingere. Non è un confronto ad armi pari: gli uni possono riversare ogni giorno il loro veleno da tutti i teleschermi del paese; gli altri, per far sapere che esistono, che stanno lavorando e continueranno a farlo, hanno dovuto riunirsi in centinaia di migliaia per le strade di Barcellona e di Milano. Ma occorre ora affrontare la dimensione globale del problema, di cui questa contrapposizione è solo la manifestazione più eclatante. E bisogna affrontarla guardando agli scenari che si prospettano di qui a qualche anno o decennio.
L’unico riferimento fatto da Renzi ai problemi che le politiche di austerità e la chiusura delle frontiere tra il resto dell’Unione Europea e l’Italia pone al nostro paese è stato usare il tema dei profughi per strappare alla Commissione Europea qualche decimo di punto di deficit in più e promettere ai suoi elettori di “picchiare i pugni sul tavolo” a Bruxelles (ma questo era già un refrain, anche cantato, dei 5stelle); poi minacciare di non pagare più il contributo italiano al bilancio dell’Unione se non vengono attuate le previste ricollocazioni dei profughi. Che non sono certo una soluzione di ampio respiro e che dovrebbero comunque venir rinegoziate ogni anno, mano a mano che arrivano nuovi profughi, mentre sono ancora ferme al punto di partenza. La soluzione non sta in quelle quote, bensì nella revisione radicale della convenzione di Dublino, nell’abolizione del permesso di soggiorno, come richiesto dalla Carta di Palermo, o nell’introduzione di un permesso, anche a termine, valido per tutti i paesi dell’Unione, per consentire sia i ricongiungimenti familiari che la ricomposizione di legami comunitari che le quote ostacolano.
Quanto al contenimento dei flussi, il governo Renzi ha proposto un piano – il Migration Compact – nel quale il finanziamento di politiche di sviluppo confuse e generiche per eliminare – secondo lui – i fattori all’origine delle migrazioni si mischiano a politiche securitarie, per indurre i paesi di origine o di transito di quei flussi ad arrestarli o a rimpatriare chi è già approdato in Europa. Modello del Migration Compact è l’accordo tra Unione Europea e Turchia che Renzi aveva prima denunciato come disumano e che poi ha proposto di estendere a tutti i paesi africani di origine o transito dei profughi. Ma poche centinaia di milioni o qualche miliardo, soprattutto se affidati, come proposto dal Migration Compact, a società europee come ENI o EDF, che sono le responsabili dirette di disastri ambientali come i pozzi petroliferi in Nigeria o le miniere di uranio in Niger, non solleveranno certo dalla miseria mezzo miliardo di africani, ma anzi l’aggraveranno. E anche dal punto di vista securitario, in Africa il modello dell’accordo con la Turchia non può funzionare. La Turchia è uno stato solido – anche troppo – nel pieno controllo del suo territorio, nonostante il conflitto interno con i curdi; è un’economia emergente e il passaggio obbligato tra Medioriente ed Europa. E nonostante ciò quell’accordo è una spada di Damocle che pende sull’Europa dei respingimenti. La governance dell’Africa centro-mediterranea è invece spezzettata, debole e inefficace in tutti i campi.
L’Unione Europea ha comunque recepito quel documento senza prendere iniziative sostanziali nella direzione da esso indicata. Così i governi italiani, ma anche quelli di altri paesi membri, hanno cominciato a procedere da soli, con accordi amministrativi, cioè di polizia, non sottoposti al vaglio del Parlamento, con governi di paesi quali Sudan, Niger, Libia, Nigeria o Egitto, che non offrono alcuna garanzia di rispetto dei diritti umani né degli accordi stipulati. Sono dittature, governi fantoccio, o addirittura, come in Libia, capitribù direttamente implicati nello sfruttamento della tratta. Ma come era prevedibile, l’approccio securitario è poi approdato alla prospettiva di una vera e propria guerra ai migranti, con dislocazioni di truppe ai confini, per ora, di Ciad e Niger, per far arretrare le linee di sbarramento in Stati che si suppone più facili da controllare – e perché mai? – della Libia.
Alla base di tutte queste misure c’è l’idea è che il fenomeno sia temporaneo e non permanente, congiunturale e non strutturale, che lo si possa arrestare e invertire con accordi internazionali e barriere fisiche e militari. Ma ciò che intanto si persegue e si pratica è abbandonare i profughi a un destino di violenza e di morte per dissuaderne altri dall’imbarcarsi nello stesso viaggio. A questo serve, tra l’altro, la criminalizzazione delle Ong impegnate nei salvataggi in mare, da cui i Governi dell’UE si sono deliberatamente ritirati.
Quei flussi sono invece destinati a crescere quali che siano le misure adottate per fermarli. Ma se non rappresenterebbero un problema per un’Unione europea che si attrezzasse per accoglierli, l’Italia lasciata sola finirà comunque per rimanerne sopraffatta. Per impedire che una mala gestione, estemporanea e sempre affrontata come emergenza comprometta, come già sta facendo, la stessa convivenza vanno quindi apprestati piani di lungo periodo; a partire dal paese di approdo, che per molti anni è e resterà quasi solo il nostro.
Occorre innanzitutto metterlo al centro del dibattito sul futuro dell’Unione Europea, sviluppando una fortissima pressione sugli altri governi e sugli altri cittadini europei perché vengano apprestati canali regolari e non discriminatori di ingresso in tutti paesi, che è l’unico modo non ipocrita per combattere la tratta dei trafficanti, i loro giganteschi introiti, il finanziamento del terrorismo, il dissanguamento che essi provocano nelle economie da cui si originano i flussi. Poi vanno messi sotto accusa, con molta più forza di ora, i fautori del respingimento e del rimpatrio: sia in termini morali, mettendo in chiaro che respingere significa condannare centinaia di migliaia, se non milioni, di esseri umani alla morte, alla schiavitù o a ogni altro tipo di violenza; sia spiegando che respingere i profughi tra le braccia degli aguzzini da cui cercano di fuggire significa esporli al reclutamento nelle loro formazioni armate, estendere i fronti di guerra, rendere inabitabili non solo per loro, ma anche per noi, i loro paesi, come lo sono oggi la Libia e i territori in mano allo Stato islamico. Costituire l’Europa in fortezza può rendere difficile penetrarvi, ma rende anche impossibile uscirne, perché l’intero continente sarà sempre di più circondato, come in parte lo è già ora, da guerre e bande armate.
Ma le politiche di respingimento accrescono anche l’ostilità dei circa quaranta milioni di abitanti di origine straniera – di cui venti di religione musulmana – già insediati in Europa come cittadini europei o soggiornanti regolari. Ostilità entro cui cova, sempre più spesso, un terrorismo stragista, autoctono e non importato, che abbiam rivisto all’opera solo due giorni fa. Ma anche il rancore diffuso di intere comunità, già sfociato, e che può risfociare, in conflitti interni su basi sociali ammantate di riferimenti etnici o pseudoreligiosi. Respingere i nuovi arrivati, criminalizzare e perseguitare le comunità di origine straniera è il modo migliore per alimentare, in una spirale senza fine, questi processi.
Il cammino da imboccare deve essere comunque messo a punto dal basso e non solo dai governi, coinvolgendo sia le comunità europee autoctone che quelle migranti. Non può essere definita fin da ora, ma alcuni dei suoi capisaldi si possono già enunciare. Si tratta comunque inevitabilmente di un programma radicale, assimilabile a un vero e proprio regime change a livello europeo, per ora da sviluppare soprattutto come strumento di mobilitazione e di condizionamento dei Governi in carica, cercando i necessari collegamenti con tutti i movimenti attivi su questi temi. In sintesi:
PrimoPolitiche di austerità e incapacità di accogliere sono strettamente legate. “Non c’è posto” per i profughi perché non c’è più posto per tanti cittadini europei, dato che l’austerità continua a sottrarre lavoro, reddito, casa e servizi a tutta la parte inferiore della piramide sociale. Non si può gestire i flussi crescenti dei profughi senza affrontare anche la disoccupazione e la povertà tra un numero crescente di cittadini europei: con un vasto programma di spesa pubblica, non per grandi opere inutili e dannose, ma per mille e mille piccoli interventi nel tessuto della società.
Secondo: Sul lungo periodo il riequilibrio demografico della popolazione europea con nuovi apporti dall’esterno, per evitare che si riduca a una comunità di soli vecchi, è inevitabile. Si rischia così di dover richiamare, in un domani non lontano, una parte di quelle popolazioni che oggi ci adoperiamo per respingere e far annegare. Il milione e mezzo di profughi entrati in Europa nel 2015, quando ancora era aperta la rotta balcanica, eguaglia a malapena i migranti economici accolti ogni anno in Europa per tutto il secondo dopoguerra, fino al 2008, pur in presenza, allora, di una crescita demografica autoctona che oggi è venuta meno.
Terzo: Per questo occorrono sia corridoi regolari di ingresso, sia politiche del lavoro inclusive, costruite dal basso, fondate su progetti che promuovano la collaborazione tra cittadini europei, soprattutto giovani, e nuovi arrivati. I campi di questi interventi sono noti: assistenza alla persona, agricoltura innovativa di piccola taglia (al posto dell’attuale schiavizzazione di profughi e migranti non regolarizzati in forme criminali di agricoltura estensiva), ristrutturazioni edilizie, salvaguardia degli assetti idrogeologici, fonti energetiche rinnovabili, artigianato di riparazione, manutenzione dell’usato, cultura e altro ancora. Sono per lo più attività legate alla lotta contro il degrado ambientale e i cambiamenti climatici che, quando, e se, se ne presenteranno le condizioni, possono essere trasferite da migranti di ritorno e cooperanti europei anche nei paesi di origine ed essere il motore di un riequilibrio ambientale ed economico di quei territori.
Quarto: Una creazione così vasta di impresa e di lavoro non può essere affidata né al mercato, dove ognuno si cerca un lavoro da sé, né solo a programmi governativi. Soltanto l’economia sociale e solidale, poiché abbina accoglienza e lavoro, inclusione e produzione, è in grado di concepirli, promuoverli e gestirli; ovviamente con un massiccio sostegno dei poteri pubblici.
Quinto: Immigrati e profughi costituiscono un grande potenziale da valorizzare sia nella definizione di una prospettiva politica di pacificazione dei paesi da cui sono fuggiti e di cui conoscono bene conflitti e dinamiche; sia nella progettazione del risanamento ambientale e sociale dei loro territori di origine grazie ai contatti che mantengono con le comunità che hanno lasciato, ma anche grazie alle professionalità e soprattutto alle relazioni che hanno acquisito in Europa. Per questo le loro comunità possono e dovrebbero essere aiutate a organizzarsi per essere parti in causa nelle trattative che nelle campagne per bloccare sia le guerre in corso nei loro paesi di origine, sia le forme più devastanti della presenza economica dell’Europa in quegli stessi territori.
Sesto: Premessa obbligata di tutto ciò è una battaglia culturale per riavvicinare le persone tra loro; è nello scambio culturale e nella mescolanza dei rispettivi apporti, ma soprattutto nella vicinanza alle loro sofferenze, che si possono creare le basi per la riconquista di una dimensione umana alla politica. Il rigetto che molti cittadini e cittadine europee manifestano verso profughi e migranti non è dovuto solo alla paura di una loro propensione a delinquere o del terrorismo. Questa certo non manca, ma viene spesso usata a copertura del rifiuto di mescolarsi con persone e culture che mettono in forse abitudini e tradizioni a cui ci si sente legati. È questo timore del diverso che va affrontato, senza demonizzare o tacciare di razzismo (ben presente invece in chi lo promuove e lo sfrutta) chi ne è solo portatore o vittima. Farsi concittadini di chi era straniero: questo deve essere il nostro impegno.
Testo dell’intervento preparato per il convegno Accogliere emergenze Promuovere diritti (Milano, 24 maggio 2017)

Liceo in quattro anni. Come viene espropriato il sapere - Carla Fabiani


Per commentare tale sperimentazione annunciata già da tempo e solo adesso messa pienamente in atto dalla Ministra Fedeli – la quale si mostra particolarmente fedele di nome e di fatto all’impianto complessivo della riforma renziana della scuola – vorrei soffermarmi sul concetto di espropriazione.
Può sembrare fuori luogo, ma occorre mettere in chiaro innanzitutto la modalità con la quale da vent’anni lo Stato italiano si sta occupando e preoccupando di rivoluzionare il nostro sistema scolastico, con un’accelerazione mai vista negli ultimi tempi (la 107, cosiddetta “Buona scuola”). Una rivoluzione dall’alto che ha come effetto essenziale e irreversibile, ormai evidente, la sottrazione di intere ore di studio – in aula e a casa – agli studenti di ogni ordine e grado, con particolare riguardo alle scuole superiori di secondo grado e soprattutto ai Licei.
Una sottrazione di tempo-studio accentuata dall’introduzione obbligatoria della cosiddetta didattica per competenze1, che marginalizza il contenuto disciplinare (le conoscenze specifiche delle singole materie: quelle che vengono chiamate nozioni in senso dispregiativo, ma che al contrario vanno rivalutate come tesoro di conoscenza e di memoria) a vantaggio di tecniche di apprendimento/insegnamento che mettano al centro del percorso di formazione il “saper fare”.
Le conoscenze possono cioè essere ridotte letteralmente in pillole, schemi, mappe concettuali, pensiero per immagini: l’importante è che siano traducibili in termini di competenze utili e spendibili fuori del contesto scolastico, cioè nel mondo del lavoro.
L’obiettivo, si dice, non è più quello di imparare qualcosa di determinato ma “imparare ad imparare”. Il saper fare di contro al mero sapere . Con particolare riguardo alle competenze linguistiche e informatiche ben sintetizzate dalla campagna pubblicitaria berlusconiana delle tre i (inglese, impresa, informatica). Tutto questo, ovviamente, viene presentato come innovazione trainante lo sviluppo del Paese2.
Con l’introduzione del POF e ora del PTOF (piani di offerta formativa), la singola scuola si presenta, in competizione con le altre scuole del territorio, proponendosi al potenziale bacino d’utenza (studenti provenenti da scuola di grado inferiore), come luogo in cui non solo e non tanto si studia sui libri in classe (e possibilmente anche a casa), ma ci si organizza fuori dalla classe, sul territorio, progettando eventi, partecipando a manifestazioni di varia natura, ricreative o pseudo lavorative, sganciate in parte o totalmente dalla didattica curricolare, che abbiano come causa finale la preparazione al mondo del lavoro, l’orientamento in uscita, il conseguimento di certificazioni utili al curriculum professionale, ovvero una educazione al problem solving, non coincidente con il classico concetto di istruzione, che al contrario riceve la sua fondazione dai concreti e specifici contenuti disciplinari, inservibili fuori dalle aule scolastiche.
Tant’è che, anche in aula, si propongono metodologie di insegnamento alternative e decostruttive rispetto alla classica lezione frontale. Da qui la pervasività di concezioni didattiche legate al coding o pensiero computazionale; ovvero semplicemente di modalità di insegnamento cosiddetto laboratoriale e/o a classe capovolta. Secondo un rovesciamento di priorità attribuite al contenitore (metodologia) piuttosto che al contenuto (conoscenze), che poi non consente a sua volta di essere nuovamente rovesciato.
A tutto questo si aggiunge come esito scontato e naturale l’introduzione dell’obbligo (per il triennio finale delle superiori) dell’alternanza scuola-lavoro: almeno 400 ore per gli Istituti tecnico/professionali e 200 per i Licei. È bene precisare che tale attività di alternanza viene fatta passare e considerata dal MIUR come equivalente alla didattica e posta come condizione sine qua non per la licenza finale. In termini molto generali, potremmo senza dubbio parlare di un vero e proprio primato del fare sul sapere . Un primato che viene – tramite le prove INVALSI – dichiarato come l’unica forma di conoscenza valutabile con criteri quantitativi e oggettivi, cioè sottratti all’arbitrio dei singoli soggetti coinvolti nel processo di apprendimento/insegnamento3.
Premesso tutto questo, in estrema sintesi, non stupisce la proposta ormai avviata di riduzione di un anno del ciclo liceale. Senza peraltro proporre una riforma dei cicli, dei programmi. Ma riducendo solo il tempo scuola. Evidenziando con ciò l’irrazionalità di fondo della proposta e l’incapacità inemendabile di chi queste cose le pensa.
Certamente, le finalità estrinseche al processo formativo riguardano il risparmio in termini di organico che se ne ricaverebbe (visto tra l’altro che la 107 non è solo una riforma dell’istruzione, ma sostanzialmente una riforma del lavoro dell’insegnante in vista di una sua flessibilizzazione, unita a meccanismi competitivi fra docenti, governati da una gestione verticalizzata da parte del Dirigente, con restrizione dei poteri decisionali dei collegi).
Non voglio soffermarmi sulla ideologia neoliberale che sottende tale piano rivoluzionario del sistema formativo, introdotto in Italia senza soluzione di continuità da parte di una classe dirigente che abbraccia diversi schieramenti, tutti concordi nella linea inaugurata da Berlinguer, che ha come nocciolo duro il sistema dell’autonomia scolastica, ovvero la mercatizzazione della istruzione di base4.
Voglio al contrario sottolineare il processo di espropriazione a cui la scuola è stata sottoposta: ma che cosa ci hanno sottratto? Il tempo e lo spazio e i contenuti concreti del sapere. Le ore complessive dedicate allo studio in aula; il tempo complessivo dedicato allo studio a casa.
Sia i progetti sia l’alternanza vengono di fatto svolti nelle ore curriculari antimeridiane ovvero nelle ore pomeridiane, mantenendo invariato il monte ore complessivo della didattica curricolare: i ragazzi dunque in quelle ore non stanno in classe oppure non possono studiare il pomeriggio a casa, perché impegnati a fare altro. Tutto ciò provoca una contrazione della programmazione e una sua inevitabile semplificazione. Per compensare cioè tale sottrazione di tempo, si intensifica e si semplifica la didattica svolta in classe.
Questo è il punto. Il tutto viene radicalizzato dalla riduzione a quattro degli anni liceali: “si tratterebbe di operare una compressione dei contenuti di studio sulla base di un’accurata analisi delle competenze irrinunciabili riferite a ciascuna disciplina. Se ci limitiamo ai licei, abbiamo un esempio a portata di mano: i licei italiani all’estero che, già oggi, hanno una durata di quattro anni. Gli studenti di questi licei svolgono nel primo anno gli argomenti che normalmente si svolgono nei primi due e, successivamente, seguono un curricolo equivalente al nostro.”5
Non si vuole qui indugiare nella retorica di chi – a ragione – rimpiange la scuola gentiliana o di chi giustamente contrappone allo stato di cose presente un modello alternativo di sapere critico o di critica del sapere, per altro già presente nella cultura italiana almeno dal Trecento in poi e che oggi, a ben vedere, viene spazzato via.
Si vuole evidenziare il processo di espropriazione delle conoscenze a cui siamo stati sottoposti – docenti e alunni – e che si aggrava anche per le modalità non democratiche e dunque in sostanza violente con cui è stato attuato dalle diverse riforme scolastiche: tutte scaturite da una supremazia oggettiva del potere governativo sul legislativo e tutte improntate implicitamente o esplicitamente all’assunto tremontiano secondo cui “la cultura non si mangia”.
Si nutre di cultura solo chi, per dotazione familiare e di classe, può permetterselo. Tutti gli altri vengono destinati a un mercato del lavoro che, in Italia e soprattutto nel Sud, richiede per lo più solo camerieri6. È per questo che dall’Europa (o dall’estero in generale) importiamo il peggio, paradossalmente proprio nel momento in cui gli altri lo stanno mettendo in discussione7.
Detto questo non stupisce certo la sperimentazione a quattro anni dei Licei. Con evidente riduzione dell’obbligo scolastico in termini di anni complessivi.
Che cosa si prevede? “ Stessi obiettivi in quattro anni invece che cinque, con esami di Stato identici ai percorsi quinquennali. Questo il contenuto della sperimentazione alla quale le scuole potranno partecipare a seguito di una apposita progettazione da presentare al Ministero che dovrà comprendere, tra le altre cose: potenziamento lingua con percorso CLIL, attività laboratoriali e tecnologie digitali, rafforzamento alternanza scuola-lavoro e progetti su mobilità internazionale.” CVD.

Note
4 Per una storia critica delle riforme scolastiche in Italia e Europa si veda: A. ALLEGRA, La dimensione europea della formazione tra competizione globale e crisi, Contropiano, atti del convegno “Formazione, Ricerca e Controriforme”, Bologna 30 aprile 2016, Anno 25, n.2 2016. Ora anche su: http://dialetticaefilosofia.it/scheda-filosofia-saggi.asp?id=66. Ma anche: http://www.roars.it/online/unaltra-scuola-per-unaltra-europa/.
5 Intervista del 2014 a Paolo Mazzoli, dirigente scolastico di una grande scuola romana che ha partecipato concretamente alla sperimentazione, collaborando con l’allora sottosegretario Marco Rossi Doria:http://www.unipd.it/ilbo/content/liceo-quattro-anni-possibile-forse-ma. Per i confronti con il resto d’Europa si veda: http://www.unipd.it/ilbo/content/durata-delle-scuole-superiori-l%E2%80%99europa-va-ordine-sparso.


Venezuela, le destre danno fuoco a un giovane chavista - Geraldina Colotti


“Sei chavista?” gli urlano. “Sì, sono chavista”, risponde. E lo massacrano. Poi gli danno fuoco e quando tenta di rialzarsi, lo pugnalano. Lo inseguono per finirlo, finché i pompieri lo soccorrono, al contrario della polizia municipale che non si era fermata. Orlando Figueroa, venditore ambulante ventunenne ha ustioni sull’80% del corpo, ma è riuscito ad arrivare all’ospedale vivo, e la sorella ha raccontato ai giornalisti l’accaduto. Era finito in una manifestazione ad Altamira, nel municipio Chacao, uno dei quartieri bene della capitale, focolaio delle violenze contro il governo, che durano da otto settimane.
Pochi giorni fa era toccato a un commerciante, aggredito in un centro commerciale perché scambiato per un politico di governo. Le vittime sono già 52, in gran parte gente comune, militari disarmati o giovani di opposizione, uccisi dalle micidiali armi artigianali – mostrate dalla Reuters e da giornalisti indipendenti – di cui si servono i gruppi oltranzisti in piazza. Intanto, il ministero degli Esteri ha denunciato movimenti di truppe alla frontiera con la Colombia. Nello stato di Bolivar, l’estrema destra ha dato alle fiamme 51 autobus impedendo la mobilità di 170.000 persone che si spostano sui trasporti pubblici (gratuiti) per andare a scuola o al lavoro.
Della situazione in Venezuela abbiamo parlato con il deputato venezuelano Saul Ortega (Psuv), venuto in Italia per partecipare all’Assemblea parlamentare euro- latino americana (Eurolat), che si è svolta a Firenze in occasione dei 60 anni dalla firma dei trattati di Roma.
* * * *
Qual è la situazione in Venezuela?
E’ in corso un’offensiva dichiarata – politica, economica, psicologia, mediatica e diplomatica – delle destre, appoggiate e finanziate dall’imperialismo Usa e dai governi neoliberisti e corrotti come quello brasiliano di Michel Temer, che assumono la leadership del movimento sovversivo violento e portano l’attacco negli organismi regionali. Per fortuna, la maggioranza della popolazione ha scelto la pace. Le violenze si verificano solo nei quartieri ricchi, dove i guarimberos assassinano, mutilano e bruciano i trasporti pubblici, le scuole pubbliche, gli ambulatori gestiti dai medici cubani. Le destre non perdono occasione per presentare una realtà distorta del nostro paese. Lo abbiamo visto anche in questo Foro Eurolat. Definiscono dittatura il nostro governo quando in 18 anni si sono svolte 20 elezioni, due delle quali perse, e di cui abbiamo riconosciuto subito i risultati. Plaudono invece al governo di Temer, frutto di un golpe istituzionale e non di elezioni democratiche. Ad accusarci di false violazioni dei diritti umani sono paesi come la Colombia, dove in questo momento è in corso una feroce repressione contro le persone che protestano a Bonaventura. Oppure il Messico delle fosse comuni, dei giornalisti ammazzati e degli studenti scomparsi. In Argentina, in Cile e in Brasile, gli studenti protestano per l’educazione pubblica e gratuita, da noi succede il contrario. In Venezuela, le elite politiche e le oligarchie non possono tollerare che i settori popolari – gli indigeni, gli afrodiscendenti – usufruiscono dei diritti da sempre considerati un loro privilegio.

In 18 anni di governo, però, ci sono anche stati errori.
Abbiamo ereditato un modello rentista e petrolifero che ha fatto il suo tempo. Il modello capitalista in crisi strutturale ha fatto il suo tempo. Il presidente Maduro ha convocato un’Assemblea costituente, rivolta a tutti i settori della società, per passare da questa economia parassitaria a un sistema economico-produttivo che porti avanti le conquiste social. Il risultato di questa discussione, che le elite dirette da Washington hanno già rifiutato, verrà votato con referendum da tutte le persone maggiori di 18 anni. La nostra Costituzione, approvata nel 1999, è una delle più avanzate al mondo. Allora non è stato possibile approfondire alcuni punti, che rimangono da risolvere per cambiare lo stato e avviarci verso la transizione al socialismo. Alle minacce della destra, abbiamo risposto sempre approfondendo la rivoluzione. Il popolo ha la maturità per capire che, di fronte agli interessi di una minoranza prona agli interessi delle multinazionali e che ha usato il Parlamento ai margini della legge, occorre proteggere le nostre risorse e la nostra indipendenza. Dobbiamo costruire una nuova architettura costituzionale che approfondisca la democrazia economica, politica, sociale per superare lo Stato borghese verso il municipalismo e le comunas.

Dopo l’incontro fra Trump e Santos, c’è il rischio di un’aggressione armata proveniente dalla Colombia? Le frontiere con il Brasile e con la Colombia sono state chiuse.
In Colombia vi sono 7 basi militari, a Curazao ce ne sono altre. L’imperialismo attizza il conflitto con la Guyana dove la Exxon Mobil estrae petrolio nelle acque contese. Dal Brasile di Temer e dalla Colombia di Santos arrivano provocazioni alla frontiera. Negli organismi regionali, i governi servili hanno violentato tutte le regole per distruggere l’integrazione latinoamericana. Ma noi confidiamo nei popoli del continente.

L’opposizione ha rivolto diversi appelli alle Forze Armate per invitarle a sollevarsi contro il governo. Quali effetti hanno avuto?
L’unione civico-militare con le nostre Forze armate è solida. Però ci sono state piccolissime componenti che hanno risposto, e sono state arrestate. In questa fase, le destre spingono soprattutto sull’alleanza con le mafie politiche e la grande malavita. Siamo un popolo di pace e non cadiamo nelle provocazioni, ma sappiamo difenderci, confidiamo nella lealtà delle nostre Forze Armate. Ma la miglior difesa è la coscienza del popolo.