martedì 31 luglio 2018

Il sogno degli eroi – Adolfo Bioy Casares

Emilio Gauna, il protagonista del romanzo, sembra uscito, come tutti i suoi amici, da I vitelloni.
la storia si trascina pigramente donne, gioco e bevute.
stranamente Gauna vince per due volte, a distanza di tre anni, e ogni volta vuole che lui e suoi amici spendano tutti i soldi in tre giorni pazzi.
come ne L'invenzione di Morel anche qui la ripetizione è protagonista della storia, ma la storia è un po' lunga e ripetitiva, e la fine è improvvisa.
non è il suo miglior libro, Morel e le storie con Borges sono di un altro livello.





Con Il sogno degli eroi (1954), il suo altro grande romanzo, la natura degli enigmi subisce un ribaltamento, posizionando l’esperienza dello straniamento nel cuore del quotidianità. Secondo Aira, «inaugura la sua modalità definitiva, una combinazione di genere fantastico e costumbrismo plebeo dominata dall’ironia paternalista e dallo sdegno». Ci sono ragioni precise alla base di questo ribaltamento. «I miei romanzi sono praticamente privi di digressioni, ed è attraverso le digressioni che la vita entra nei racconti», rifletteva Bioy, diagnosticando ciò che considerava un difetto dei suoi primi libri. La necessità di far entrare la vita nella narrazione motiva il cambio di scenari e di situazioni. Non ci sono più isole, macchine prodigiose né invenzioni pseudoscientifiche. Da questo momento in poi, la classe medio-bassa è protagonista di accadimenti straordinari avvenuti nei quartieri di Buenos Aires…

…Ma quali capolavori! E soprattutto quale letteratura fantastica! ma che sta addì?… come si esprimerebbe il mio caro amico arciprete cardinalizio monsignore di là dal Tevere col quale ce la spassiamo a scopone scientifico e vinello allegro… ma che sta addì Bompiani? Questo Il sogno degli eroi è letteratura fantastica come 2000battute è un barone siciliano disalaparuta notarbartolato o giù di là.
No, no, no… non diciamo corbezzolerie o capezzolerie, se posso osare un linguaggio porteño in onore all’autore; questo libro non ha né capo né coda, come i lombrichi, che infatti se con un morso li si spezza a metà, provate, provate… io lo faccio sempre per diletto puerile e spirito speculativo… le due metà se ne vanno lombricando ognuna per proprio conto, senza capo né coda, come volevasi dimostrare.
È una storia… come posso dire?… dove trovare i termini, le parole, la prosopopea adatta a definirla?… guardo la nuvolaglia di polvere negli angoli della camera, osservo le frasche stantie, le crepe nell’intonaco, i cadaveri di coleotteri sopra l’armadio, le ditate di unto sul vetro, le scaccolate nell’asciugamano, odoro dentro al cesto della biancheria sporca alla ricerca della luce opaca dell’ispirazione necessaria per declamare l’inconsistenza di questo libro…
Bioy adorato, perché hai scritto questo libercolo, perché? Dopo quelle meraviglie dei racconti di Un leone nel parco di Palermo e le sublimi burle architettate con Borges in Sei problemi per don Isidro Parodi e Cronache di Bustos Domecq
La caduta di un maestro, sì, un inciampo, anche i maestri inciampano talvolta, non ne facciamo una tragedia, vero che non la facciamo una tragedia? ma ora… ora? I miei libri dispersi? Cosa dico di questo [Libro disperso], come lo giustifico, come… no! no! e no!… non lo giustifico, è disperso, ben gli sta, come finiranno dispersi tanti altri nuovi e meno nuovi e ben gli starà anche a loro… però Bioy, mio adorato… Tu quoque?

I test Invalsi servono a migliorare la scuola? - Christian Raimo



Il 5 luglio al ministero dell’istruzione è stato presentato il rapporto nazionale sulle prove Invalsi. Si tratta dell’indagine più rappresentativa mai condotta sugli studenti italiani, sulle scuole e sugli insegnanti.
Le proteste dei docenti e i boicottaggi dei test hanno accompagnato le prove fin dal suo primo anno di vita, il 2008. Nel frattempo l’istituto Invalsi (Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione) si è ingrandito, ha raddoppiato i finanziamenti che riceve ogni anno (attualmente circa cinque milioni di euro), ha cercato di ripensarsi rispetto alle critiche e, soprattutto, ha aumentato il suo peso nel dibattito pubblico sulla scuola, con ripercussioni più o meno evidenti anche sulla didattica.
Le prove Invalsi sono somministrate a tutti gli studenti italiani che frequentano la seconda e la quinta elementare, la terza media e la seconda superiore per misurare le competenze in italiano, matematica e inglese. Da quest’anno sono state introdotte alcune importanti novità: innanzitutto si è passati alla versione computer based delle prove (gli studenti, solo quelli delle scuole secondarie, hanno usato un pc della scuola); e in quinta elementare e in terza media è stata introdotta la prova di inglese. Le prove inoltre sono state svincolate dal voto per l’esame finale delle medie: l’accoppiamento era stato sempre molto criticato, soprattutto per la scarsa corrispondenza tra valutazione dei docenti e risultati Invalsi. Bisognava comunque aver svolto la prova per essere ammessi all’esame di terza media e dall’anno prossimo sarà lo stesso per l’esame di maturità: gli studenti del quinto superiore saranno tutti testati a marzo.
La più comune perplessità rispetto alle prove Invalsi è che trasformino la scuola in un grande testificio (nonostante dall’Invalsi insistano perché non si usino i termini test o quiz ma sempre prove), in cui la valutazione sostituisce del tutto la ricerca pedagogica: due critici di rilievo, per esempio, sono stati negli anni il pedagogista Benedetto Vertecchi e il matematico Giorgio Israel, che hanno entrambi lavorato al ministero cercando di ridimensionarne il ruolo e addirittura di cancellarli. Per avere un’idea di questa prospettiva critica, basta sfogliare un paio di testi recenti come La tirannia della valutazione di Angelique del Rey e Valutatemi! di Bénédicte Vidaillet, in cui si sottolinea come l’eccessivo peso attribuito a questo tipo di test generi negli studenti ansia da prestazione e da competizione.
Il rischio che viene paventato è che lo studente sia ridotto a un codice a barre, esaminato, classificato e selezionato: pronto per il mercato dell’istruzione e poi del lavoro. Il valore originario che invece viene rivendicato da chi le elabora è che le prove servono per migliorare la scuola.
L’attuale presidente dell’istituto, Annamaria Ajello (dal 2017) , è la prima a non provenire da una formazione economica (i primi a occuparsi di Invalsi sono stati funzionari dalla Banca d’Italia): è infatti ordinaria di psicologia alla Sapienza. Nella sede dell’Invalsi in via Ippolito Nievo a Roma, ci tiene a sottolineare l’aspetto al tempo stesso scientifico e costituzionale del suo lavoro: “In Italia la problematicità di nozione di apprendimento non è affrontata da un punto di vista scientifico. Innanzitutto occorre capire che tipo di apprendimento si valuta attraverso le prove: non tutte le materie vengono esaminate con l’Invalsi. Certo, ci si può chiedere a cosa serve una prova rispetto alla comprensione di un testo, alla matematica, o all’inglese. Ma la cosa fondamentale è riconoscere che dobbiamo garantire che almeno in terza media le persone sappiano leggere e comprendere un testo. Questo è un diritto che viene negato a metà della popolazione degli studenti”.
Il criterio fondamentale per Ajello è quindi: valutare non tutte le conoscenze, ma solo alcune competenze basilari (posizione che sembra in palese contraddizione con la recente apertura del ministro Marco Bussetti, che ha detto di voler allargare le prove alla geografia).
Ma se sull’idea di valutare lo stato della scuola per capire come rinnovarla sono tutti d’accordo, la differenza più profonda tra chi difende a spada tratta i test Invalsi e chi invece ne critica l’impianto, si concentra spesso tra una valutazione di tipo censuario e una di tipo campionario. Ovvero, per avere a disposizione dei dati per migliorare la scuola, ha senso esaminare tutti o basterebbe lavorare con un campione statistico ben scelto?
Ajello è convinta che le prove Invalsi siano necessarie per “dare conto” in modo sistematico di quello che fa e quello che non fa la scuola italiana: “Le prove sono in linea con le Indicazioni nazionali, ed è necessario che siano obbligatorie, per controllare il funzionamento del sistema. Quello che manca è invece una pianificazione del miglioramento a partire da quello che ci mostrano i dati”, che non è una cosa da poco.
Lei lo dice pacatamente, ma il paesaggio fotografato dal rapporto 2018 non soltanto è drammatico, ma è – si potrebbe dire – esponenzialmente tragico: dove negli ultimi anni le cose sono andate male, peggiorano. I progressi sono evidenti invece dove la scuola funziona meglio. Le disuguaglianze tra nord e sud, isole comprese, aumentano; quelle tra aree metropolitane e aree interne anche; pesano molto le differenze di genere; lo status socioculturale delle famiglie continua a incidere parecchio sui risultati scolastici e sulla scelta della scuola superiore. “Per chi va a scuola in Veneto è come se, per competenze acquisite, di fatto facesse un anno in più di chi va a scuola in Calabria”, dice Roberto Ricci, responsabile dell’area prove durante la presentazione del rapporto annuale.
Certo Ajello sottolinea come negli ultimi anni l’Invalsi si sia impegnato anche a riconoscere il valore aggiunto della singola scuola rispetto ai risultati degli studenti – e nel 2018 quella più virtuosa è a Catania, ossia nel sud che il resto delle prove ci mostra depresso – ma questo non significa che gli esiti siano incoraggianti, perché il contesto sociale e familiare è così rilevante da denunciare solo come “la scuola da sola non ce la fa”, il che è non poco sconfortante.
Se le intenzioni dell’Invalsi sono palesi, gli aspetti ancora opachi sono diversi. Il primo riguarda l’uso dei dati. In una società che ha sempre più bisogno di valutazioni su larga scala, una così vasta rilevazione è un boccone prelibato per chi – dalle università alle aziende – immagina di fare selezione servendosene. L’Invalsi diventa di fatto uno strumento dell’istruzione a numero chiuso. Questo rischio l’istituto lo riconosce, ed evitarlo negli anni futuri sarà sempre più difficile.
In generale la critica più profonda che tocca le prove è che l’esame che compie l’Invalsi volga lo sguardo al passato per distribuire meriti o colpe, mentre la valutazione dovrebbe analizzare i processi per indirizzare le attività future.
E un forte imbarazzo emerge quando ci si accorge come a scuola una parte sempre più ampia del tempo sia dedicato alla preparazione ai test. Addirittura in libreria il reparto pedagogia è sempre più stretto, a scapito delle pubblicazioni ad hoc, tipo gli Alpha test: un’editoria di allenamento all’Invalsi simile a quella fiorita per i quiz per il numero chiuso universitario.
Il nodo più critico riguarda il rapporto tra la didattica e le prove. Perché, nonostante si faccia tutto per evitarlo, il pericolo di dare così tanto rilievo ai test porta non solo molti professori a impostare la didattica proprio per il teaching to test, ma anche molti libri e manuali scolastici ad ampliare sempre di più lo spazio dato all’allenamento all’Invalsi, in termini di pagine e di ore spese in classe. L’anno prossimo, in cui per le ultime classi delle superiori i test Invalsi si aggiungeranno alle ore destinate all’alternanza scuola-lavoro (requisito obbligatorio anche questa per sostenere la maturità), quanto tempo e quanta libertà didattica verrà sottratta agli insegnanti e agli studenti?
Se questi sono rischi meno visibili, la mancanza più chiara e grave nella lettura dei dati 2018 è quella politica. Il ministro Marco Bussetti il 5 luglio ha introdotto la presentazione del rapporto con due considerazioni generiche e poi ha lasciato la sala. La fotografia nitidissima di un’Italia divisa dalle povertà educative ha lasciato tutti indignati e preoccupati, ma è molto più allarmante che non si reagisca a questa fotografia dichiarando con semplicità quali iniziative si vogliono prendere.

Questo articolo è stato scritto con la collaborazione di Giulia Addazi.

lunedì 30 luglio 2018

Ministro Salvini, ecco la tua Guardia Costiera libica, il tuo porto “sicuro” - Giulio Cavalli




Se volete guardare negli occhi la Libia, il suo essere porto sicuro come da qualche giorno vorrebbe convincerci il Ministro dell'Inferno Matteo Salvini, se volete sforzarvi di capire perché la Libia non può essere considerata un alleato nella risoluzione dei flussi migratori e ancora meno nella battaglia per il rispetto dei diritti umani e contro la povertà allora potete osservare con attenzione le immagini che arrivano dal ONG Open Arms e fissare gli occhi spenti della donna e di quel bambino (presumibilmente suo figlio) che sono stati fatti morire di freddo sui resti di un barcone distrutto. Cadaveri che qualcuno si ostina a chiamare affogati ma che in realtà, ancora una volta, sono stati ammazzati. 

Assassinati perché proprio quel barcone è stato oggetto di quello che i libi si ostinano a chiamare salvataggio pensando che basti disinfettare un po' il linguaggio per risultare affidabili e credibili. Ci dovrebbe spiegare la Guardia Costiera libica perché nel loro presunto soccorso sono avanzate due donne e un bambino, due cadaveri e una donna del Camerun salvata in find di vita. Ci dovrebbero spiegare in quale canone di umanità e di convenzioni internazionali per i diritti dell'uomo rientri la pratica di sfasciare un barcone lasciandoci centro tre disperati di resto.

Se si avesse voglia di approfondire, o se si avesse il coraggio di abbandonare la propaganda utile a spremere la bile, si potrebbe rileggere i casi di questi ultimi anni che descrivono perfettamente la Guardia Costiera libica come un'accolita di criminali (spesso anche fiancheggiatori degli schiavisti e degli scafisti) che utilizzano i rubinetti dell'emigrazione come arma di ricatto nei confronti dell'Europa. Caro Salvini, sono loro i vicescafisti di cui vai blaterando da mesi. E la reazione alle immagini rese pubbliche da Open Arms ci dice anche altro: sperare che rimanga sguarnita quella zona del Mediterraneo significa anche non dovere fare i conti con i testimoni oculari che sbriciolano l'ipocrisia internazionale. Per questi due cadaveri recuperati oggi ce ne sono altri, centinaia, che sfuggono all'attenzione dei media e della politica e che non rovinano i piani di chi davvero crede che un'ordinanza possa servire a fermare chi scappa dalla fame e dal piombo.

Caro Salvini, tu che da settimane ci ammorbi con le tue dichiarazioni accompagnate dall'espressione "lo dico da padre" dicci "da padre" se affideresti i tuoi figli a questa Libia, spiega ai tuoi figli che nello scorso giugno sono morti in mare il 20% delle persone che hanno tentato la traversata rispetto al 2,4% dello scorso anno. Se viene troppo difficile con i numeri racconta ai tuoi figli, "da padre" che a giugno sono morte (accertate, di quelli di cui ci siamo accorti) 564 persone rispetto alle 8 del mese precedente. Spiegaci il "buon senso" di tutto questo. Siamo curiosi.


Rafael Correa intervista Noam Chomsky

domenica 29 luglio 2018

Un racconto lieto: la pacchia degli immigrati - Raimondo Bolletta


Non è affatto facile riprendere a scrivere dopo alcuni giorni di silenzio a lutto per le morti in mare di tanti disperati che vorrebbero rifugiarsi nella mitica Europa. Ho rotto il silenzio sul mio blog con la bella citazione di Hannah Arendt che 40 anni fa descriveva ciò che ci sta accadendo: lo spaesamento dettato dalla paura di pericoli inesistenti creati ad arte da chi manipola l’informazione che crea l’attruppamento del popolo dietro a figure e sistemi totalitari che si basano sull’ignoranza e la menzogna.
Così ho deciso di raccontarvi questo caldo sabato pomeriggio romano trascorso in compagnia di una autentica madre coraggio che conclude un periodo di almeno dieci anni di lavoro in Italia a badare ai nostri vecchi. Torna in Romania dai suoi quattro figli che ha fatto laureare, che lavorano  in patria in ruoli di tutto riguardo. Va ad accudire un nipotino di qualche mese più grande del nostro Pietrino. Così i nostri racconti di neo nonni si legano alla visione delle foto e dei video nei nostri telefonini.
Maria, così si chiama, è una donna felice ma l’abbiamo conosciuta in momenti duri e difficili.  Il relativo benessere attuale se lo è costruito ora per ora rinunciando ai riposi contrattuali, segregandosi con anziani la cui vicinanza avrebbe fatto impazzire chiunque. In Romania faceva la maestra ma dopo la caduta del regime comunista ciò che si poteva guadagnare in occidente, in Italia era un miraggio che rendeva fattibile il sogno di far studiare i figli fino alla laurea.
Fu una immigrata clandestina e lavorava in nero presso un ospizio per anziani ma in una ispezione che ne determinò la chiusura  fu raggiunta da un foglio di via. Si dette alla macchia continuando a servire in nero nelle case di privati come badante uscendo poco di casa, lo stretto necessario per non essere individuata dalla polizia. L’essere in regola con le contribuzioni sociali fu una condizione per lavorare per la nostra famiglia. Per fortuna la Romania entrò 11 anni fa nella EU e così Maria potè circolare liberamente e il suo sfruttamento nel lavoro nero potè finire. Il marito ubriacone, forse violento, ma non sappiamo molto, non ha contribuito al successo della famiglia, lei da donna forte e coraggiosa è stata l’organizzatrice di tante altre badanti rumene che popolano questa Roma invecchiata e decadente. Così quando nostri amici cercavano urgentemente una badante o una donna di servizio si telefonava a Maria che aveva il suo giro e organizzava le colleghe quasi fosse un ufficio di collocamento. Ma organizzava anche feste, pic nic nei parchi pubblici, gite al mare perché la solitudine di queste immigrate nel pieno della pacchia italica non sempre era facile. Scoprì che nel parco di Villa  Chigi c’erano numerosi alberi di  olive e nei giorni liberi si era specializzata nella raccolta delle olive che accumulava nella cantina di nostra zia e poi distribuiva ad amici e parenti in quantità sorprendenti. Anche oggi è venuta con dei vasi di olive sotto sale, gliel’ho portate per il suo pane! mi ha detto salutandomi.
E’ venuta a verificare se il trattamento avuto dall’ultimo datore di lavoro fosse regolare o no. Lucilla ed io abbiamo cercato di capire il dettaglio dei fogli paga ed abbiamo così scoperto un altro aspetto della ‘pacchia’ italica: l’anziana che accudiva sinora Maria era l’unica sopravvissuta di una famiglia interamente scomparsa prematuramente a causa di tumori, nessun parente neppure cugini di terzo o quarto grado. Il suo patrimonio e la sua vita sono gestiti da un avvocato designato come tutore dall’autorità giudiziaria.
Contrariamente a quanto è a volte raccontato nei romanzi ottocenteschi, questo avvocato ha applicato a Maria tutte le norme a lei più favorevoli, ha cercato di facilitare questo passaggio, di soddisfare il desiderio di lasciare il lavoro di dare continuità all’assistenza dell’anziana di cui l’avvocato si occupa. Sfogliando quelle carte, e ascoltando i racconti di Maria ho provato una certa  fierezza per le nostre regole che proteggono i più sfortunati e i deboli.
Sono contento per Maria, è stata una risorsa umana preziosa di cui la nostra società si è servita e che ci ha arricchito. Senza l’Europa la sua storia non sarebbe stata questa, con una legislazione italiana più accogliente forse queste energie positive sarebbero un nostro patrimonio … sono un patrimonio europeo ma ci sono degli imbecilli che vorrebbero rompere quel poco di integrazione che negli anni si è costruita. Auguri Maria buon ritorno in Romania, ma rimaniamo in contatto.
da qui

sabato 28 luglio 2018

Un campanaro - Giovanni Gusai



Di tutte le cose che poteva mettersi a fare, il matto del paese aveva alla fine scelto di fare il campanaro. Si era pure convinto fosse una roba originale. Non lo sapeva, perché era matto, ma nei paesi uno come lui poteva fare solo il campanaro. O girare per le campagne a verniciare le vacche di verde, cercare di svuotare i fiumi con un paio di forbici, raccogliere tutti i fiori dalle lapidi del cimitero e farne mazzolini da lanciare dai balconi. Le cose che fanno i matti.
Un giorno aveva però avuto l’illuminazione, e da matto che era si era invece svegliato suonatore di campane.
C’era una chiesa sola, con un campanile molto poco alto. Però abbastanza da vedere i tetti anziché le facciate, e i cappelli di paglia dei contadini anziché le mani laboriose. Il matto non lo sapeva, perché era matto, ma quello sarebbe stato un bel cambio di prospettiva per chiunque. Chiunque tranne lui, che i punti di vista e le prospettive ce li aveva già un bel po’ falsati. Starsene lassù a sbatacchiare ad ogni ora le due campane di bronzo, più grosse della stanza piccola della casa in cui abitava con sua madre, era solo un bel mestiere. Non un cambio di prospettiva. Una specie di missione, questo sì, ma niente di più. I cambi di prospettiva sono per le persone complicate. Lui era una persona semplice, con un bel lavoro da fare. Se ne vantava e ne era felice. Perché dava il tempo al paese, al prete, al sindaco e alle campagne. Ai dodici suoi rintocchi del mezzogiorno, la gente nei campi si fermava e volgendosi verso il campanile si segnava con solenni segni di croce. Il matto pensava fosse merito suo. Si compiaceva di poter essere amplificazione della voce di Dio. Perché era matto.
Potete immaginare come cresceva, per quanto quella dei matti possa dirsi crescita. Dopo una decina d’anni di lavoro nel campanile lercio di guano non aveva altro che le mani callose sulla corda di canapa, con il nodo alla fine per non farla scivolare. E soprattutto, le sue campane. Lo avevano reso sordo, ma poco importava. Un matto ha poche cose che vuole davvero ascoltare. Quello che non sente se lo immagina. Quindi a lui bastava poterle suonare ancora, le due campane che aveva fatto sue. I matti hanno un sacco di fantasia, per questo ora le due sorelle di bronzo avevano un nome per ciascuna. Però il matto non l’ha mai detto ad alta voce a nessuno. Le chiamava urlando solo quando adunava la popolazione per la Messa grande delle dieci e trenta, sovrastato dal loro cantare metallico. Non sapeva cosa significasse sovrastare, perché era matto, ma sapeva che così sarebbe stato come fare l’amore con le sue campane, ma senza che nessuno li sentisse o li vedesse. Tanto le amava. Nessuno sa come si chiamino.
Non c’è matto che non provi un gran dolore. Ed ecco, una sera d’estate con il tramonto molto in ritardo, due operai vestiti di tela blu, su chiamata del prete, si arrampicarono sulla scala in legno che era del matto, e salirono a dare un’occhiata alle vecchie campane. Il matto qualcuno l’aveva distratto, altrimenti non li avrebbe mai fatti salire. Meglio morire, che far vedere le sue campane nude. Gli operai scoprirono che erano vecchie, ma questo lo sapevano tutti. Dissero anche che erano da aggiustare, perché suonassero meglio. Questo lo sapevano tutti. Tranne il matto. Per lui erano perfette così. Quello che solo gli operai vestiti di tela blu sapevano era dove portarle, le campane. Perché qualcuno le aggiustasse per bene. E conoscevano questo qualcuno. Così una coppia di carri, trainati ciascuno da una coppia di buoi, trasportarono chissà dove, lontano dal paese, la coppia di campane. Il matto la mattina seguente andò a lavorare, ben vestito e puntuale come aveva imparato a fare. Le campane non c’erano. C’era la corda, sul fondo del campanile, riposta in maniera ordinata, piegata su se stessa in cerchio. Il matto avrebbe voluto piangere.
Andò invece dal prete, che era molto invecchiato dal giorno in cui aveva nominato il matto campanaro, e cercò di chiedergli dove fossero. Quello cercò di spiegargli che sarebbero tornate ancora più belle di prima. Il matto dubitava che sarebbero mai potute essere belle come la prima volta in cui le aveva fatte ballare, e si sforzò moltissimo per spiegarlo al prete.
Però quello non capiva, perché non era matto.
Non ci sono altre parole per dire l’attesa, se non una precisa descrizione del matto, seduto sulla porta bassa del campanile, i gomiti sulle ginocchia e il mento sul palmo delle mani, finché le due sorelle di bronzo non tornarono, un mese dopo. Né ci sono immagini per dipingere la felicità, se non lo sguardo lucido del matto, quando vide il riflesso bianco del sole sul bronzo rinnovato delle campane, come corpi di donne nude al sole.
Le due donne sue.
Le sue sole donne.
La sua gioia immotivata e pura.
Il canto loro, d’amore.
Il paese sotto ad ascoltare.
Le braccia forti del matto a ritrovarle nuove, eppure sempre uguali, eppure sempre sue.

venerdì 27 luglio 2018

C’era una volta un movimento globale. Che partiva dal personale - Gianluca Ricciato



Il movimento globale dentro di me iniziò in un preciso momento, anche se ci furono molti altri momenti preparatori. Questo preciso momento avvenne durante una festa di laurea in una casa studentesca bolognese. Una festa in cui tutti erano piuttosto alticci o proprio sfatti dai festeggiamenti. Ma io no, e non perché fossi particolarmente virtuoso, ma perché in quel momento avevo dentro un’inquietudine. Ero nervoso. Era la sera del 20 luglio 2001 e nel salone c’era la TV accesa sugli scontri per le strade di Genova, ed era da poco stata data la notizia di un morto. Forse uno spagnolo, sicuramente uno del blocco nero.
Mentre guardavo la TV apparve una foto di questo presunto spagnolo: di spalle, incollato ad una camionetta dei carabinieri bloccata contro un cassonetto riverso dei rifiuti, intento a scagliarle addosso un estintore rosso da distanza ravvicinatissima. La foto fu mandata in onda a lungo, mentre di sottofondo i commentatori blateravano. La guardai a lungo e iniziai a non credere che quello fosse possibile, che non fosse la realtà. Iniziai a non credere a quella foto perché mi sembrava una fiction. Iniziai a pensare che non era così, che quella ricostruzione che stavano dando non fosse vera. Che fosse falsa. Che fosse una fake news come si dice oggi, una bufala. O meglio, come si dovrebbe dire in questi casi, un depistaggio. E non so perché ebbi questa intuizione, visto che normalmente non è che mi occupi di omicidi o cose del genere. Ma quella intuizione era fondata: quella foto non rispecchiava la realtà, ma la deformava, la depistava. Perché, e questo da studente di filosofia estetica lo sapevo, il rapporto tra immagine e realtà è una cosa complessa e non lineare. Un’immagine può essere usata per imporre un’opinione, travisata, mal compresa o manipolata. 
In quel preciso momento, a quell’ora e in quella festa, iniziò dentro di me il movimento globale.
La mattina dopo più o meno all’alba e con pochissimo sonno prendemmo il treno da Bologna a Genova. Avevamo già saputo che il morto non era spagnolo ma era italiano, genovese, e il suo nome ormai se lo ricordano un po’ tutti in Italia, anche se la maggior parte continua a parlarne a vanvera e questo è il motivo per cui occorre continuare a ripeterlo. Il suo nome era Carlo Giuliani. Durante la giornata del 21 luglio, in cui partecipai alla manifestazione finale a Genova, Polizia, Carabinieri e Finanza, ordinati dai loro vertici e dai vertici dei vertici, continuarono a massacrare migliaia di persone per il solo fatto di essere presenti lì, crearono un agguato ad un incrocio che spezzò il corteo in due e chiusero la seconda parte in un reticolo di strade e mare, massacrando ferocemente e senza pietà tutti quelli che capitarono sotto tiro.
La mia seconda intuizione fu di non fermarmi all’angolo dove i militari avrebbero attaccato, per cui mi ritrovai nella prima parte di corteo che la scampò, sebbene quando arrivammo a Piazzale Marassi arrivarono anche da noi le ondate di gente che scappava dalle cariche e i gas insopportabili che i militari lanciarono senza tregua durante quei giorni. E soprattutto, arrivarono la paura, il terrore, l’assurdità di quello che stava succedendo.
Ma non è di questo che voglio parlare, di questo ho già parlato tanto, e tante e tanti lo hanno fatto meglio di me, ad esempio Heidi e Giuliano Giuliani. Io andai a Genova senza un particolare motivo, senza far parte di alcuna organizzazione, senza nemmeno considerarmi di una particolare parte politica, sebbene avessi una mia personale cultura che poteva essere associata alla sinistra, vagamente. Ma non me ne interessava. Mi interessava invece il fatto che avevo iniziato a smettere di credere: che i modi in cui vivevamo fossero gli unici e fossero quelli giusti, per esempio. Per vivere intendevo proprio tutto: mangiare, bere, curarsi, fare le amicizie, fare le relazioni, studiare, lavorare. Venivo da una specie di nichilismo che oscillava tra l’asfissia e il divertimento, e che si sviluppava principalmente nelle serate e nelle nottate bolognesi. Poi successe che fui vittima di un incidente automobilistico, e durante le cure per l’incidente ebbi una malattia causata da un medicinale, una malattia che porto ancora dentro di me. Questo accadde esattamente un anno prima del G8 di Genova, nel luglio 2000. E successe anche che tempo dopo trovai il rimedio alla mia malattia causata dalle cure convenzionali per l’incidente, un metodo di cura che non posso nemmeno nominare senza perdere credibilità agli occhi dei più, ma che seguo e che funziona da molti anni.
Ma successe molto altro, nell’anno precedente al luglio 2001. Successe che mentre iniziavo a preoccuparmi di qualunque cosa riguardasse il mio stile di vita, alcune persone intorno a me, principalmente donne, mi fecero capire che tutto quello che dicevo, facevo e consumavo aveva una ripercussione su di me, sugli altri e sul mondo esterno. Cosa che sembra ovvia a dirsi ma è esattamente il contrario dei pensieri e delle azioni che la società dei consumi e il capitalismo ci hanno abituato ad essere. Se mangiavo una banana, o se bevevo un caffè, o se consumavo prodotti imballati nella plastica, o se aprivo le finestre con i termosifoni sparati a 30 gradi in casa, quello che facevo aveva un legame con me, gli altri, il mondo intorno, la politica economica, le guerre, le migrazioni, la povertà, le malattie, la vita e la morte. E questi legami, ogni giorno, venivano negati da un apparato informativo potentissimo pronto a costruire depistaggi per fare in modo che le conseguenze delle nostre azioni non fossero visibili, in modo da poter continuare a vivere, mangiare, bere, consumare, relazionarci, studiare e lavorare nel modo in cui abbiamo sempre fatto. Noi, piccola parte di popolazione mondiale con accesso illimitato a molti più beni rispetto alla sussistenza.
In quel periodo, Dario Fo, Franca Rame e Jacopo Fo scrissero un testo che si intitolava: Voti ogni volta che fai la spesa.
Due anni prima del G8 di Genova, a Seattle, la città dov’era nata la musica grunge, un gruppo di ragazzi e ragazze vestite di nero aveva simulato un’impiccagione appendendosi ad un’insegna della Shell, per portare l’attenzione sul fatto che le multinazionali petrolifere Shell ed Eni avevano saccheggiato e inquinato il territorio del delta del Niger; massacrato la popolazione che ci viveva, gli Ogoni, grazie ad accordi con le oligarchie corrotte nigeriane; e non paghi avevano poi fatto giustiziare gli oppositori, tra cui il famoso poeta Ken Saro Wiwa che denunciò nei suoi testi quei fatti.
Qualche anno prima ancora, nello stato messicano del Chiapas, un inedito esercito di indigeni che si rifaceva ad un guerrigliero contadino morto quasi cento anni prima, Emiliano Zapata, e con a capo un eccentrico personaggio in passamontagna che si faceva chiamare Subcomandante Marcos, era riuscito ad attirare l’attenzione del mondo sul fatto che depredare territori, dissolvere comunità, imporre stili di vita univoci, blaterare di democrazia e di diritti quando si stanno compiendo genocidi, non era più una cosa che quella comunità e nessuna comunità che fosse tale poteva più accettare. Grazie alla sua lotta gli zapatisti del Chiapas riuscirono a continuare ad esistere e a crescere liberamente, ad essere comunità e non accozzaglia di individui massificati e in guerra tra loro, come sono ormai le nostre società “civili”.
Nella sua esistenza questa comunità ha continuato e continua a dire che la scelta delle armi, quando c’è stata, non è stata una cosa voluta dalla popolazione; che le gerarchie, a partire da quelle dei ricchi sui deboli, degli uomini sulle donne, dei bianchi sui neri, sono forme della società da superare, altrimenti è inutile parlare astrattamente di diritti e di democrazia. E soprattutto affermò, e continua ad affermare, che quella cosa che gli stati ricchi hanno accettato, perseguito e chiamato “globalizzazione”, cioè la svendita del mondo, delle risorse e delle persone al potere economico e finanziario, non è semplicemente una scelta politica di cui possono parlare solo gli esperti designati, ma è una forma transnazionale di oppressione, inedita, multiforme, mutevole e complessa. E per questo il contrasto alla globalizzazione necessita di cambiamenti personali profondi e strategie collettive inedite, per funzionare. Non di proclami e bandiere del passato.
Perché quell’oppressione, quello stile di vita, quel modo competitivo e dominatore di fare le relazioni tra di noi e con il mondo non umano, ce l’abbiamo dentro, lo agiamo e lo subiamo, e non cambia se non decidiamo di cambiare.
Non ci fu solo questo naturalmente, nella preparazione generale di quel movimento che i piccoli scrivani italiani si divertirono a chiamare “no global”. Ci fu anche, ad esempio, una scienziata indiana, ecologista e femminista, che diceva, e continua a dire, che il problema principale dei cosiddetti Ogm, cioè della produzione e somministrazione globale e incontrollata di alimenti e prodotti transgenici, non era tanto quello a breve termine sulla salute o sull’ambiente del singolo prodotto, ma quello più grande legato alla decisione ratificata in inediti trattati sovranazionali, di poter brevettare l’esistente, cioè creare esseri viventi di proprietà di gruppi potentissimi di potere. Quei trattati, ça va sans dire, erano stati ideati, voluti e imposti dagli stessi potenti beneficiari, grazie a politici di destra o di sinistra, ormai valvassini e ininfluenti. Per la cronaca, si chiama Vandana Shiva quella scienziata, e potete trovare oggi, 2018, il suo nome, su beceri siti e riviste che la osteggiano come dispensatrice di fake news e di complotti, siti e riviste amati e letti dalla massa di individui della destra capitalista e da quella della sinistra geneticamente modificata, i cui stili di vita sono gli stessi e le loro finte opposizioni sono funzionali agli interessi della dittatura globale, oggi pienamente affermata, grazie anche al massacro di quei giorni del luglio 2001.
Il fatto è, appunto, che quel coagulo di persone e realtà che sfilarono a Genova aveva avuto un’intuizione sorprendente, di cui forse non se ne rendeva nemmeno conto: è inutile continuare a sventolare vessilli, bandiere, parole d’ordine, idee, schemi, convegni, assemblee, formazioni politiche legate ad un’epoca del capitalismo che non esiste più. E soprattutto è inutile staccare quello che diciamo e pensiamo da quello che facciamo e viviamo, primo perché sono già collegate, anzi uno dei problemi è proprio il fatto che siamo vittime del tentativo di scollegarle – l’alienazione, qualcuno ne aveva già parlato; sia perché è quello che facciamo e viviamo ad alimentare questo sistema, semplicemente. E da soli non ne usciamo, e non ne usciamo nemmeno dividendoci e facendoci la guerra tra poveri, rinchiudendoci in gruppuscoli nemici del mondo esterno. Ne usciamo ricreando comunità, riprendendoci l’umanità, riconnettendo noi al mondo, alla Terra, alla vita. Quello che ci hanno scippato nelle nostre vite alienate.
Quell’alienazione non finì, naturalmente. Il fatto di avere ragione, sull’entità di quel massacro genovese e sull’entità della violenza della dittatura globale, non servì a costruire l’altro mondo possibile. Eppure.
Eppure tutto è cambiato. Lo sappiamo tutti che tra l’inizio e la fine dell’estate 2001, cioè tra il 20 luglio e l’11 settembre, è cambiato tutto. L’asfissia sorridente di fine Novecento, la finta felicità neoliberista, la festa necrofila celebrata sui resti del mondo che avevamo saccheggiato, l’acquario in cui stavano annegando le nostre esistenze, diventato sempre più piccolo e malandato, fu mandato in mille pezzi in quei mesi tra il massacro di Genova, l’attacco alle Torri Gemelle e la guerra in Afghanistan. La verità, con tutta la sua difficile comprensione e accettabilità, insorse. Oggi, possiamo fare finta di credere alle verità assolute di una Repubblica, di un Mentana, di un Burioni, di un Piero Angela, di un D’Alema, di un Saviano, di un politico, scienziato, economista, giornalista, intellettuale quasi sempre ancora maschio, oppure femmina capace di arrampicarsi e sottomettersi alle logiche del dominio. Credere ad ognuno di questi automi del dogma progressista, interno agli interessi dell’economia capitalista globalizzata, che ci vaneggia di verità, di diritto, di scienza e di progresso. Foraggiato dalle multinazionali petrolifere, agrochimiche, farmaceutiche, alimentari, della comunicazione. E deridere pavlovianamente ogni giorno chi, come me, scrive questo. Possiamo fare finta, e ad alcuni viene molto bene.
Ma c’è una parte interiore ineludibile ormai che sa che tutto questo è una fiction, anche se l’ossessione, l’alienazione e gli psicofarmaci ci aiutano a crederci ancora. Possiamo prendercela con gli esiti nefasti di questo scoperchiamento di verità, esiti che erano anche prevedibili: il popolo che si sente tradito e diventa reazionario, i fascisti risorti dalle fogne che parlano ossessivamente di Piano Kalergi e Soros, oppure si appropriano di battaglie che dovrebbero essere le nostre, deformandole e depistandole. Ma sappiamo che fanno parte della fiction anche loro, come sappiamo che fa parte della fiction anche denunciare come bufala, su Twitter o su Facebook, qualsiasi versione non approvata dai media di regime, proprio noi che per anni abbiamo combattuto i depistaggi, sostenuto la controinformazione, urlato don’t hate the media, become the media.
Sappiamo che è una fiction anche questa cosa del fascismo come ritorno del passato, della partita tra centrodestra e centrosinistra, perché dal movimento altermondialista in poi, cioè dalla ri-connessione delle lotte sociali, indigene, ecologiste, sindacali, femministe, antiproibizioniste, antirazziste, lo scenario dell’azione politica è cambiato e non si può parlare un linguaggio decontestualizzato, vivere una vita decontestualizzata, fare finta di essere nel ‘900 continuando a propagandare modelli mentali dell’800.
Pena creare mostri, come sta succedendo, anzi diventare mostri noi stessi.
Come ci arrivammo alle soglie di quel luglio 2001 l’ha descritto in modo mirabile Massimo Palma in Happy Diaz, facendo un ritratto della crescita musicale ed esistenziale della nostra generazione (la mia, la sua, quella di Carlo Giuliani, delle nate e dei nati nella seconda metà degli Anni Settanta, ma non solo, direi anche intorno a quelle date). Un libro da avere.
Una notte che si compiva davvero solo la mattina del sabato, nei ritorni a casa ciondolanti nelle città ancora deserte. Mentre la notte brulicava di esseri viventi, con la sensazione di compiere un rito e la devozione di piegarsi a una routine di sigarette, di attesa fuori dai locali, di tensione da ravvivare con una parola fuori posto, un’ironia malferma, o un brano poco noto messo su nella macchina gremita di teste. Lo officiavano tutti questo rito, i cinici, i taciturni, i ridanciani, i fascinosi. Consapevolmente, ripetevano le formule magiche del bivacco all’appuntamento, della chiacchiera per guadagnare tempo, della birra distensiva, ogni venerdì, senza mai pensare ad alcuna santità del rito stesso, mai a un entusiasmo, a un’identificazione simbolica. Era partecipazione quotidiana, ritualità senza mitografia. Santità degli anti-simboli: le rosticcerie, le cornetterie, le sigarette scroccate. E l’elettricità chimica.
Un libro, che però, si ferma di fronte alle alternative possibili, dicendo che quella generazione è rimasta afasica. Chi lo sa. Io però di cose ne ho sentite tante, e di pratiche ne ho viste tante, e ci ho anche partecipato, pratiche che sono cresciute grazie anche alla difficile genesi movimentista genovese. Anzi, credo che quelle pratiche abbiano iniziato a modificare la società, e che il movimento globale sia solo all’inizio. Si è detto che quel movimento – il movimento dei movimenti lo chiamavano molti – sia stato per la prima volta un’entità politica che chiedeva qualcosa per gli altri e non per sé. Io ho un’idea diametralmente opposta. E’ secondo me invece una delle poche realtà politiche esistite nell’Occidente contemporaneo, insieme ad alcune pratiche ecologiste e femministe, che non attacca solo un potere esterno, ma affronta il problema del potere interno a sé. Il “Berlusconi dentro di me”, come diceva Gaber. Che non inneggia a un sol dell’avvenire, non teorizza uno schema di nuovo modello di società, ma connette la realtà e le pratiche esistenti, e soprattutto denuncia la complicità nostra, interiorizzata, la connivenza sia con il potere agito contro gli altri (popoli), sia auto-agito contro noi stessi. Che dice, semplicemente, che quando la nostra vita diventa una vita di merda facciamo male a noi e facciamo male al mondo, e che un altro mondo è possibile. Ma non un altro pianeta, ma questo mondo, questa vita, questa giornata, queste ore vissute diversamente, riempite del senso di cui sono state svuotate dalla società dei consumi.
Che fare allora? Rovescio all’indietro la domanda, parlando di me, che è l’unica cosa che posso fare. Ognuna e ognuno che si è sentita parte del movimento, potrebbe fare una storia diversa, ma in qualche modo interconnessa, magari in modo conflittuale, a quella che sto facendo io.
Che cos’era il movimento globale dentro di me?
– Era una ragazza che entra in una botteghina di Via Mascarella gestita da un cileno fuggito da Pinochet venticinque anni prima, esce con una barretta di cioccolata, me la fa assaggiare e io, drogato di cioccolato da quando sono nato, mi fermo e dico che non ho mai assaggiato una cioccolata simile. E da allora non compro più barrette di cioccolata che non provengano da lì, cioè quelle spacciate alle masse via etere, quelle che hanno solo il 30% di cacao, tra l’altro ricoperto di pesticidi, che per essere coltivato a costo quasi zero si serve di paramilitari mandati ad intimidire gli schiavi indigeni che coltivano quel cacao, i cui mandanti speculano in borsa con i profitti del loro mercato criminale. Per chiudere il cerchio.
– Era un opuscolo arancione, comprato in quella botteghina o in un’altra simile del Commercio Equo e Solidale, un opuscolo compendio di un libro più grande e intitolato Mini guida al consumo critico e al boicottaggio, lasciato sul davanzale della finestra nel cesso della mia casa bolognese, e così letto da decine di altre persone durante i loro bisogni fisiologici.
– Era Indymedia come home page, sempre e ovunque, e la condivisione di informazioni dentro un ambiente virtuale stimolante e auto-protetto da chi ci stava dentro, cioè da noi.
– Erano le vecchine del quartiere Bolognina che varcarono per la prima volta la soglia di un centro sociale, l’XM24, il giovedì pomeriggio verso le 17, perchè riconobbero sulle bancarelle lì piazzate qualcosa di diverso, introvabile, o forse perso nella loro memoria, cioè cibo vero.
– Ed ero io che non riuscivo ad arrivare mai prima delle 20 all’XM, quando cioè le vecchine avevano già saccheggiato tutto, e allora mi toccavano i resti che comunque erano tutto quello che mi serviva per la settimana, pane, verdure, vino, formaggi. Coltivati senza pesticidi e senza sfruttamenti. Restavo a mangiare e bere con le varie cricche fino a mezzanotte, a mangiare pizze con farine integrali e a bere vini biologici, anche se non certificati. Nacque lì così una rete di produttori e produttrici, consumatori e consumatrici che si chiama Genuino Clandestino, viva e vegeta. E vincente.
– Era svegliarmi il venerdì e andare a comprare Carta, una rivista senza padroni nata come costola del Manifesto, ma che era riuscita ad andare avanti rispetto alle rigidità del Manifesto, oggi come oggi ormai evidenti, purtroppo, e parte del problema di una sinistra in balia dei cambiamenti che non ha voluto fare. Solo che Carta, senza padroni e senza un popolo abbastanza grande che ci credesse, è durata solo pochi anni, gli anni in cui l’onda italiana del movimento globale è esistita davvero.
– Era fare giornalismo sociale a Piazza Grande, un giornale di strada in cui abbiamo parlato di Critical Mass biciclettare che occupavano le strade, di lotte transgender e femministe, di leggi proibizioniste oscene, di razzismo, in cui scrissi il reportage del Forum Sociale Europeo di Firenze, inviato a Fortezza da Basso, novembre 2002, scrissi di Don Luigi Ciotti che parlava di istituzioni totali, carceri che diventano società malate e società malate che diventano carceri.
– Era riconciliarsi con un mondo cattolico fatto di Don Luigi Ciotti, padre Alex Zanotelli e Don Andrea Gallo, compagno anarchico e prete dei Caruggi quest’ultimo. Andrea Gallo e Faber, Via del Campo, i tossici, le prostitute e la città da cui è nato tutto quello di cui sto scrivendo in questo articolo.
– Fu risvegliarsi il giorno dopo del Forum di Firenze con Radio Popolare come radio-sveglia, che parla di un pm, tale Fiordalisi – indagato in passato per rapporti con la malavita e più recentemente in Sardegna per manipolazione di documenti – che impugna un fascicolo rifiutato dalle procure di Napoli e Genova, un fascicolo esilarante, frutto probabilmente di qualche feconda mente dei servizi deviati, che si inventa un’associazione terroristica clandestina chiamata “Rete No Global” (c’era il sito della rete, visibilissimo, e i partecipanti facevano conferenze pubbliche all’Università per lo più). E fa mettere dentro, questo buontempone, decine di persone in tutta Italia con ipotesi di reato fantasiose che servono a colpire il più grande successo pacifico del movimento altermondialista in Italia, cioè l’altro mondo praticato in quei giorni a Fortezza da Basso, durante il Forum Sociale Europeo di Firenze. Accuse decadute, ovviamente, ma intanto il depistaggio era stato creato e le vittime massmediatiche riportate nell’alienazione del “nulla può cambiare nella tua vita di merda”. Tecnicamente, io lo chiamo tecnonazismo.
– Era entrare a lavorare in un’associazione che propaganda il risparmio energetico, le energie rinnovabili, va in giro per l’Italia a mostrare che si può fare, e che è inutile autoproclamarsi contro la guerra e contro il razzismo continuando a consumare energia in questo modo, che è il nodo del problema, e da questo nasce un nodo più grande, quello della crescita economica, o come direbbe Pasolini della modernità senza sviluppo: una dittatura globale che crea schiavi ignoranti di ultima generazione e cerca di diffondersi a macchia d’olio ovunque, con l’imperativo ottusamente progressista, pavlovianamente scientista e profondamente populista della “crescita infinita”. In un mondo finito.
– Era dire che la crescita deve essere interiore e collettiva, che va recuperato lo spirito empatico che ci hanno scippato, che bisogna andare oltre il limite mentale di una tecnologia distruttiva perché la tecnologia, la cultura, la scienza, il progresso possono e devono svilupparsi in armonia con l’esistente, se vengono tolti dalle mani dei vecchi gerarchi arroganti che le controllano e le curvano a loro vantaggio, e come tantissime culture indigene della storia umana ci hanno insegnato. La decrescita, invece, va applicata tutto quello che di nocivo sta producendo questa economia per i popoli e per il mondo. Ed è emergenza, non più urgenza.
In quegli anni iniziò a girare questa storiella.
Sul molo di un piccolo villaggio messicano, un turista si ferma e si avvicina ad una piccola imbarcazione di un pescatore del posto. Si complimenta con il pescatore per la qualità del pesce e gli chiede quanto tempo avesse impiegato per pescarlo.
Pescatore: ’Non ho impiegato molto tempo’
Turista: ’Ma allora, perché non è stato di più, per pescare di più?’
Il messicano gli spiega che quella esigua quantità era esattamente ciò di cui aveva bisogno per soddisfare le esigenze della sua famiglia.
Turista: ’Ma come impiega il resto del suo tempo?’
Pescatore: ’Dormo fino a tardi, pesco un po, gioco con i miei bimbi e faccio la siesta con mia moglie. La sera vado al villaggio, ritrovo gli amici, beviamo insieme qualcosa, suono la chitarra, canto qualche canzone, e via così, trascorro appieno la vita.’
Turista: ’La interrompo subito, sa sono laureato ad Harvard, e posso darle utili suggerimenti su come migliorare. Prima di tutto lei dovrebbe pescare più a lungo, ogni giorno di più. Così logicamente pescherebbe di più. Il pesce in più lo potrebbe vendere e comprarsi una barca più grossa. Barca più grossa significa più pesce, più pesce significa più soldi, più soldi più barche! Potrà permettersi un’intera flotta!!
Quindi invece di vendere il pesce all’uomo medio, potrà negoziare direttamente con le industrie della lavorazione del pesce, potrà a suo tempo aprirsene una sua. In seguito potrà lasciare il villaggio e trasferirsi a Mexico City o a Los Angeles o magari addirittura a New York!! Da lì potrà dirigere un’enorme impresa!…
Pescatore: ’ma per raggiungere questi obiettivi quanto tempo mi ci vorrebbe?’
Turista: ’25 anni forse’ Pescatore: ’….e dopo?’ Turista: ’Ah dopo, e qui viene il bello, quando i suoi affari avranno raggiunto volumi grandiosi, potrà vendere le azioni e guadagnare miliardi!!!!!!!
Pescatore:’…miliardi?…….e poi?’
Turista: ’Eppoi finalmente potrà ritirarsi dagli affari, e concedersi di vivere gli ultimi 5/10 anni in un piccolo villaggio vicino alla costa, dormire fino a tardi, giocare con i suoi bimbi, pescare un po’ di pesce, fare la siesta, passare le serate con gli amici bevendo e giocando in allegria!’ (Anonimo)
Il senso di questa storiella è chiaro ed è diventato evidente dall’estate 2001, ma ce lo neghiamo ogni giorno. Il movimento globale, altermondialista, il movimento dei movimenti, vive e lotta ogni giorno in svariate parti del mondo. Le pratiche di fuoriuscita dal modello distruttivo sono in corso anche in Italia, numerose. Quando finiremo di negare quello che sappiamo, si risveglierà anche in Italia il coagulo politico che permetterà a queste pratiche di essere un movimento popolare.

* uscito precedentemente sul blog Fiabe Atroci di Gianluca Ricciato


verso la fine si parla di una storiella anonima, in realtà è un racconto formidabile  di Heinrich Böll (http://www.labottegadelbarbieri.org/prima-lezione-di-economia)

Camping River: celebrato il trionfo dell’illegalità



Ciò che è avvenuto oggi al Camping River, con l’espulsione dal campo delle famiglie Rom e delle loro povere masserizie buttate sulla pubblica via, è il trionfo della illegalità. A violare la Legge non sono stati i Rom bensì le Istituzioni della nostra Repubblica. Ancora una volta, come è già avvenuto mesi or sono in piazza Indipendenza,è stata inferta una grave lesione allo Stato di Diritto.
Cittadinanza e Minoranze denuncia con sdegno l’oltraggio inferto alla Costituzione, al nostro ordinamento giuridico, alla Carta dei Diritti dell’uomo, riservandosi ogni azione in tutte le sedi competenti perché la Legalità sia ripristinata e le offese a cittadini/e inermi risarcite.
Non si trinceri l’amministrazione Comunale dietro la menzogna di aver così agito per la gravità delle condizioni in cui versava il Campo. Le deprecabili condizioni igieniche sono la conseguenza dello stacco dei servizi operato da tempo senza che gli abitanti del Campo ne avessero responsabilità alcuna e dalla distruzione operata giorni or sono dal personale del Comune di Roma dei container di proprietà comunale, al cospetto di coloro che sino ad un minuto prima li abitavano, bambini compresi.
Le lamentate, deprecabili condizioni igieniche ha concorso lo stesso Comune in maniera decisiva a determinarle!
Né accampi l’Amministrazione di avere offerto delle alternative accettabili allo sgombero forzato. Ha offerto:
§  il “rimpatrio assistito”- in paesi dove le possibilità di sopravvivenza sono ben più misere che da noi – a persone o nate a Roma o che vi si erano rifugiate vari decenni or sono per sfuggire alle guerre etniche scoppiate con la dissoluzione della Iugoslavia;
§  oppure la “locazione assistita” in appartamenti che nemmeno con l’aiuto di agenzie immobiliari si sono trovati perché non si affittano case agli “zingari”, come cinquant’anni fa non le si affittavano ai meridionali;
§  o ancora la divisione dei nuclei familiari: donne e bambini da una parte e i maschi senza che si sapesse dove.
La finalità del Comune è più che evidente: d’intesa con il Ministro per gli Interni mira all’esodo forzato di tutti gli “zingari” tranne quelli “che purtroppo ce li dobbiamo tenere”. Il loro obiettivo non è dunque l’attuazione della Strategia Nazionale di Inclusione dei Rom, Sinti e Caminanti, approvata su impulso della Unione Europea dal Governo Monti, ma la loro espulsione dal nostro paese. Siamo cioè di fronte agli atti di una strategia di discriminazione razziale, rispetto alla quale ci ribelliamo fortemente ed invitiamo quanti hanno a cuore le sorti della Libertà e della Democrazia nel nostro paese ad elevare una ferma protesta.
Stamane al Camping River è stato impedito l’accesso dei giornalisti adducendo “motivi di ordine pubblico”, come se giornalisti e fotografi potessero fomentare disordini! In realtà si è cercato di nascondere ciò che accadeva perché non emergesse l’indecenza di un’operazione compiuta illegalmente, contravvenendo ad una Ordinanza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo che l’ aveva sospesa.
Siamo solidali con coloro che sono stati scacciati dalle loro pur precarie abitazioni e con tutti coloro che non hanno un ricovero qualunque essi/e siano e da ovunque provengano. Non lasceremo nulla di intentato per impedire questa forma di epurazione etnica chiamando, se del caso, anche alla disobbedienza civile.
Cittadinanza e Minoranze, Roma 26 Luglio 2018