undici racconti, alcuni belli, altri bellissimi.
Sélim Nassib sa farsi leggere, ogni volta siamo in un paese del Vicino oriente e il racconto è racconto di presone, testarde, rassegnate, coraggiose, forti, esseri umani con un nome e una storia, non sono numeri anonimi.
un gran bel libro, se mi posso permettere.
di Sélim Nassib ho letto anche questo libro bellissimo.
buona lettura, non ve ne pentirete.
In
questa serie di racconti che prende il nome da uno di essi, Selim Nassib riesce
ad accostare la dimensione emotiva attraverso cui vive da lontano il Libano –
il suo Paese – e quella razional-esplicativa della sua vita da emigrato in
Francia, dove esercita la professione di giornalista, che lo costringe, in un
certo senso, a render esegetico il sentire dell’autoctono che guarda da lontano
la sua terra.
È
nella dimensione che l’autore chiama sensuale, in cui “sentiva quel che la
gente sentiva”, che Nassib riesce, attraverso il discorso diretto libero, il
ritmo narrativo incalzante e l’uso frenetico dell’asindeto, a mettere su carta
la realtà libanese come non ancora compresa e analizzata, quasi non ancora
pensata, e di cui si propone demiurgo solo nelle sue vesti di giornalista
emigrato.
È
cosi che la narrazione pompa energicamente nelle vene di una Beirut narrata
della sua anomala quotidianità, in cui il lavare i piatti, la scelta di un
disco da ascoltare, le cuciture di un completo che si strappano e l’incedere
dei miliziani che irrompono in casa si mescolano con tragica normalità…
…Una sera qualsiasi a Beirut, di Sélim Nassib, è un altro libro prezioso, quindici
racconti che aprono finestre nel nostro muro. Nassib è libanese, ma vive a
Parigi e scrive in francese. Nonostante il titolo, il libro non si occupa solo
del caos di Beirut, ma spazia dal conflitto tra il popolo saharawi e l’
esercito marocchino alla prima guerra del Golfo, da un diluvio che distrugge
case di fango in Egitto all’ eterna crisi palestinese. E ha molto da raccontare
sull’ onda crescente dell’ integralismo islamico e sulla sua dura
intransigenza.
“Primo amore”, il racconto più bello, è la storia di un
vedovo settantenne che si è fatto un’ amante giovane e non si vergogna di
appendere le sue mutandine rosse al filo del bucato. Lo scandalo è grande, i
figli del vecchio sono atterriti, sanno che quelle mutande oggi sventolano come
una impossibile bandiera di libertà in un mondo sempre più intollerante. Lo
stile è svelto, non perde tempo in giravolte inutili, in poche pagine disegna
un paesaggio e un problema spesso tragico.
Abbiamo bisogno di molti libri così, che senza paura ci
facciano sentire la bellezza e l’ angoscia di una cultura che non possiamo più
permetterci di ignorare.
Sono undici racconti brevi, folgoranti, che si insinuano tra le pieghe del velo che nasconde le donne, mettendo a nudo un lato poco conosciuto dell’Oriente, vicino e incompreso, per noi spesso incomprensibile.
“Stai attenta, da noi tutto è possibile solo se rimane sotto il velo, solo se accade senza farsi vedere, senza increspare la superficie dell’acqua...”
Amori, tradimenti, la vita segreta delle donne abituate a dissimulare, a non tradire sentimenti ed emozioni, donne sottomesse che trovano comunque un modo per essere sé stesse:
“C’è la legge interna del quartiere, quello che si fa e non si dice, siamo libere quanto te, forse anche di più, ma non si vede”.
Amori vissuti nell’intimità della coppia, sconosciuti perfino ai figli:
“I mondi rimanevano paralleli in quella casa, una linea invisibile, un velo d’acqua gelata, trasparente, lo spazio di lei, lo spazio di lui”.
Sono passioni profonde che ritroviamo nella nostalgia per la casa abbandonata di corsa, fuggendo di notte con le poche cose che si è riusciti a mettere in salvo. Una vita nuova, con gli occhi sempre rivolti al passato,
“La strada era aperta, così, semplicemente aperta, nessun ostacolo, niente scuse, bisognava andare. La casa distava solo venti chilometri, da diciannove anni”.
Per scoprire poi, che quel passato è stato spazzato via, il villaggio dei ricordi sostituito da una cittadina, la casa del cuore abitata da altri.
La diaspora palestinese, Gerusalemme dilaniata da una guerra infinita, i cui carnefici si atteggiano a vittime, lo sono stati in passato, ma non esitano a uccidere, distruggere, occupare terre non loro.
“La loro paura è il mio incubo, la riconosco, è un abisso impossibile da colmare, la sensazione di essere minacciati per noi è vecchia come il mondo, che ci potete fare”.
Le vittime si difendono, subiscono, contrattaccano, in un processo interminabile in cui tutti sono nemici.
“Ho conosciuto Gaza, ci sono andato, non ci tornerò mai più, non ne parlerò. Continueremo così, ognuno nella propria prigione, a girare in tondo nelle nostre ferite, fino alla fine”.
E ancora, la sofferenza del popolo sharawi, privata dello spazio vitale, di quel deserto di cui conoscono il respiro:
“Lui solo ha capito che la nostra tragedia non era soltanto uno sradicamento, un’oppressione, ma qualcosa di immateriale, lo stravolgimento dei segni, lo stupro del nostro universo circolare ad opera della linea retta del Muro”.
L’Oriente è in fiamme, rivolte, conquiste, dittature, assassini di stato, pulizie etniche:
“La disgrazia si è abbattuta indifferente sulla sua città, ogni luogo della sua infanzia è diventato il nome di una battaglia”.
A separarci da quelle terre ferite, il Mare Nostrum, un tempo via commerciale, ogni approdo un luogo di scambi, un incontrarsi di culture diverse. Adesso questo stesso mare sembra contagiato dalla follia dell’uomo, arabo, cristiano, ebreo, tutti figli di quell’universo salato diventato un cimitero.
C’è un’ora in cui, se lo osserviamo, sembra tornare alla pace di una volta. È il momento di passaggio da luce a buio, quando il sole ormai basso sta per tramontare. È un istante magico che unisce le due rive. Ma è solo un istante, appunto.
“Questo mare non si sottomette a nessuna spiegazione, sfugge, straripa, scappa, il suo segreto è più grande di lui”.
“Stai attenta, da noi tutto è possibile solo se rimane sotto il velo, solo se accade senza farsi vedere, senza increspare la superficie dell’acqua...”
Amori, tradimenti, la vita segreta delle donne abituate a dissimulare, a non tradire sentimenti ed emozioni, donne sottomesse che trovano comunque un modo per essere sé stesse:
“C’è la legge interna del quartiere, quello che si fa e non si dice, siamo libere quanto te, forse anche di più, ma non si vede”.
Amori vissuti nell’intimità della coppia, sconosciuti perfino ai figli:
“I mondi rimanevano paralleli in quella casa, una linea invisibile, un velo d’acqua gelata, trasparente, lo spazio di lei, lo spazio di lui”.
Sono passioni profonde che ritroviamo nella nostalgia per la casa abbandonata di corsa, fuggendo di notte con le poche cose che si è riusciti a mettere in salvo. Una vita nuova, con gli occhi sempre rivolti al passato,
“La strada era aperta, così, semplicemente aperta, nessun ostacolo, niente scuse, bisognava andare. La casa distava solo venti chilometri, da diciannove anni”.
Per scoprire poi, che quel passato è stato spazzato via, il villaggio dei ricordi sostituito da una cittadina, la casa del cuore abitata da altri.
La diaspora palestinese, Gerusalemme dilaniata da una guerra infinita, i cui carnefici si atteggiano a vittime, lo sono stati in passato, ma non esitano a uccidere, distruggere, occupare terre non loro.
“La loro paura è il mio incubo, la riconosco, è un abisso impossibile da colmare, la sensazione di essere minacciati per noi è vecchia come il mondo, che ci potete fare”.
Le vittime si difendono, subiscono, contrattaccano, in un processo interminabile in cui tutti sono nemici.
“Ho conosciuto Gaza, ci sono andato, non ci tornerò mai più, non ne parlerò. Continueremo così, ognuno nella propria prigione, a girare in tondo nelle nostre ferite, fino alla fine”.
E ancora, la sofferenza del popolo sharawi, privata dello spazio vitale, di quel deserto di cui conoscono il respiro:
“Lui solo ha capito che la nostra tragedia non era soltanto uno sradicamento, un’oppressione, ma qualcosa di immateriale, lo stravolgimento dei segni, lo stupro del nostro universo circolare ad opera della linea retta del Muro”.
L’Oriente è in fiamme, rivolte, conquiste, dittature, assassini di stato, pulizie etniche:
“La disgrazia si è abbattuta indifferente sulla sua città, ogni luogo della sua infanzia è diventato il nome di una battaglia”.
A separarci da quelle terre ferite, il Mare Nostrum, un tempo via commerciale, ogni approdo un luogo di scambi, un incontrarsi di culture diverse. Adesso questo stesso mare sembra contagiato dalla follia dell’uomo, arabo, cristiano, ebreo, tutti figli di quell’universo salato diventato un cimitero.
C’è un’ora in cui, se lo osserviamo, sembra tornare alla pace di una volta. È il momento di passaggio da luce a buio, quando il sole ormai basso sta per tramontare. È un istante magico che unisce le due rive. Ma è solo un istante, appunto.
“Questo mare non si sottomette a nessuna spiegazione, sfugge, straripa, scappa, il suo segreto è più grande di lui”.
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