I morti: per favore, per una volta invece
dei vivi, dei migranti vivi, quelli che ci ingombrano, che non sappiamo
ripartire come armenti, dei flussi, degli utili e degli inutili, degli aventi
diritto e dei clandestini, si abbia il pudore di non parlare. Contiamo gli
altri, i morti, i migranti morti. Guardiamo il mare, un chioccolio di acque
calme, l’acqua viva, qua e là, di chiazze iridescenti di petrolio. Uomini
portano a riva piccoli cadaveri con vestiti colorati. Diciamo la verità: non
sapremmo enumerarli tutti questi morti. Sono tanti, sono dappertutto, in ogni
lembo del Mediterraneo, ieri davanti alla Libia e a Lampedusa e nelle acque
delle isole greche. Se ci provassimo a contarli, i morti, quelli che rientrano
nelle statistiche, ebbene ne dimenticheremmo sempre la metà. Forse di più,
quelli che non sappiamo, i naufragi senza nome, di cui non abbiamo trovato i
segni. Sì. Parliamo dei morti. Se ne abbiamo il coraggio.
Attenti. Ne avete chiacchierato amabilmente,
mentre loro affogavano davanti alle tavole, imbandite dei vostri vertici. Così:
numeri, piccole battaglie diplomatiche, la limatura geniale e grottesca di un
aggettivo, volontario… non volontario, destini umani. Attenti perché i morti sono
implacabili. Con i vivi si può essere avari: ma con i morti no.
Dove sono le vie di uscita per aggirarli,
per far finta che non esistano? Dove li possiamo nascondere, in preda al comodo
oblio, le storie di ciò che sono stati? Non basteranno gli occulti mattatoi
degli anni, i ghirigori delle competenze, la carta bollata del tocca a te, la
geografia dello scaricabarile diplomatico. I morti sono lì, implacabili,
irrimediabili. Ci guardano. La solitudine c’è, forse, solo per i vivi. Rispetto
ai morti non c’è solitudine, i morti sono sempre qui.
Quelli di ieri, e gli altri prima di loro,
si insinueranno in ogni nostra singola ora. È il loro destino, la loro
vendetta. Ci chiederanno conto: chi siete voi? La vita anche la mia, la nostra
non è sacra per voi? Uccideranno, loro, le nostre bugie. Fino a quando ci
scopriremo anche noi morti. Raccontano che i naufraghi sono rimasti a lungo in
acqua aspettando i soccorsi, prima di affogare. Nascondiamo, per favore, almeno
per oggi i vuoti documenti di Bruxelles, le millanterie, il falso vigore della
chiacchiera. Parliamo soltanto di quel tempo che hanno passato in mare: quelle
che sono le ore che contano tra la vita e la morte. Proviamo a immaginare qual
era l’oggetto più prezioso che si erano portati dietro su quella barca dannata,
l’ultimo frammento, si illudevano del loro viaggio infinito: un paio di scarpe,
un telefonino, una foto del villaggio, di una madre? I naufragi dei migranti,
la loro immondizia santificata dalla morte.
Non neghiamo nulla, non saltelliamo via. Salveremo
ciò che siamo solo se sapremo guardare questi morti, immutabili, ormai lacerati
dalla sofferenza, ma non sfigurati, caparbi, immortali.
da qui
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